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NOTA A SENTENZA – CONS. ST., SEZ. IV, ORD. n. 1949/2022

A cura di Alfonso Celotto.

 

Abstract

Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza collegiale 17.03.2022, n. 1949, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis del D.P.R. 380/01 (t.u. edilizia), nella parte in cui consente alle Regioni di derogare gli standard urbanistici di cui al D.M. 1444/68.

La materia dell’urbanistica e dell’edilizia soffre di un problema “endemico”: l’incerta ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni, a monte, ha creato ambiguità e discrasie, costringendo in più occasioni la Corte costituzionale a pronunciarsi per dirimere questioni di legittimità costituzionale, ora sollevate in via principale dallo Stato o dalle Regioni, ora sollevate in via incidentale dal giudice amministrativo.

Tuttavia, questo modus procedendi che vede una sovraesposizione del giudice costituzionale e che si trascina ormai da anni, in attesa di una compiuta riforma del settore, non può che ulteriormente alimentare un clima di incertezza all’interno di un settore strategico per lo sviluppo sostenibile del Paese, a tutto detrimento dell’interesse degli enti locali, degli operatori privati e, più in generale, dell’interesse collettivo[1].

Il caso.

Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza collegiale 17.03.2022, n. 1949, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis del D.P.R. 380/01 (t.u. edilizia)[2], nella parte in cui consente alle Regioni e alle province autonome di derogare gli standard urbanistici di cui al D.M. 1444/68[3] emanato ai sensi dell’art. 41-quinquies della Legge 17 agosto 1942, n. 1150[4].

In particolare, in Lombardia, tale norma statale è stata recepita dalla L.R. 12/2005 (“Legge per il governo del territorio”), la quale, all’art. 103, co. 1-bis, prevede la disapplicazione degli standard urbanistici fissati dal D.M. 144/1968.

Questa particolare architettura normativa ha dunque permesso che alcuni comuni lombardi, in sede di adeguamento della pianificazione generale ai principi e ai contenuti stabiliti dalla L.R. 12/2005, sfruttando la deroga agli standard urbanistici statali disposta dalla disposizione regionale, potessero imporre agli operatori privati standard in misura anche sensibilmente maggiore rispetto a quanto previsto dalle previsioni statali.

Il contenzioso da cui è scaturita l’ordinanza di rimessione in esame riguarda proprio l’impugnazione di una delibera del comune lombardo di Villasanta (MB) che aveva imposto di incrementare la dotazione di aree per servizi pubblici o di interesse pubblico in misura superiore agli standard urbanistici statali.

La vicenda è infine giunta all’esame dei giudici di Palazzo Spada. Ritenuta non manifestamente infondata e rilevante, il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale[5] dell’art. 2-bis del D.P.R. 380/01, sulla base dei parametri offerti:

  1. dall’art. 3 della Costituzione, in quanto l’applicazione della norma impugnata consentirebbe anche evidenti discrasie tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali. Dal che deriverebbe un trattamento ingiustificatamente discriminatorio del regime proprietario del suolo, in quanto, in ipotesi, interventi aventi la medesima destinazione urbanistica e rientranti nella medesima tipologia edilizia potrebbero essere assoggettati a regole diverse semplicemente a seconda del territorio regionale in cui vengono effettuati;
  2. dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto l’effetto collaterale appena descritto produrrebbe altresì, come risultato, la sostanziale abdicazione della legislazione statale ex 41-quinquies della Legge n. 1150/1942 dal suo ruolo di definire la normativa-quadro, pur versandosi in una materia di competenza legislativa concorrente quale il governo del territorio;
  3. dall’art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), della Costituzione, in quanto gli standard urbanistici incidono sulla qualità della vita e dunque sulla materia dell’ambiente, nonché sul livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che lo Stato deve assicurare, di competenza esclusiva statale, sotto il profilo della necessità di assicurare una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull’intero territorio nazionale.

In via consequenziale, il giudice a quo ha evidenziato che, qualora fosse accertata dal giudice delle leggi l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-bis del D.P.R. 380/01, non potrebbe che derivarne l’incostituzionalità, altresì, di tutte quelle disposizioni regionali – fra cui l’art. 103, comma 1-bis della L.R. Lombardia 12/2005 – che consentano di disapplicare gli standard urbanistici inderogabili posti dalla legislazione statale, in quanto ne verrebbe meno, con efficacia ex tunc, il relativo presupposto legittimante.

L’ennesima spia di un sistema che non regge. Quali possibili soluzioni?

In relazione alla vicenda descritta, vi sono talune perplessità ed osservazioni da esprimere. Le perplessità maggiori riguardano, in primo luogo, la circostanza che l’impugnativa sia stata direzionata dal giudice a quo avverso la norma statale, l’art. 2-bis del D.P.R. 380/01, anziché – se non in via indiretta – avverso la norma regionale che ha recepito tale disciplina statale in modo asseritamente illegittimo, cioè l’art. 103, co. 1-bis, della L.R. Lombardia 12/2005.

Oltretutto, la questione sollevata dal Consiglio di Stato appare sottostimare il tema della compatibilità tra una disciplina statale che effettivamente fissasse rigorosi confini al potere derogatorio delle Regioni in materia di standard urbanistici, e l’avvenuta riforma del Titolo V della Costituzione, con riferimento al principio di sussidiarietà verticale ex art. 118 Cost., specie rispetto ad una materia – quella del governo del territorio – che rientra nella competenza concorrente di Stato e Regioni.

Non è la prima volta che il giudice costituzionale è sollecitato a pronunciarsi in materia di edilizia e urbanistica, la cui trasversalità espone il fianco ad un problema di tipo strutturale: l’incerta ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni, a monte, ha creato ambiguità e discrasie, costringendo in più occasioni la Corte costituzionale ad intervenire per dirimere questioni di legittimità costituzionale, ora sollevate in via principale dallo Stato o dalle Regioni, ora sollevate in via incidentale dal giudice amministrativo.

In un sistema dai confini non meglio definiti, la Corte costituzionale ha finito con l’assumere il ruolo di arbitro, chiamato a decidere se questa o quella legge regionale fosse o meno conforme ai principi stabiliti in materia di governo del territorio dalla legge statale. Il fenomeno si è amplificato in tempi recenti, con il proliferare di sentenze che hanno dichiarato l’incostituzionalità di disposizioni regionali in materia di edilizia ed urbanistica: senza pretesa di esaustività, soltanto nell’ultimo trimestre del 2021 si potrebbero citare la sentenza 29 dicembre 2021, n. 261, che ha coinvolto la Regione Campania; la sentenza 24 novembre 2011, n. 219 relativamente alla Regione Calabria; la sentenza 28 ottobre 2021, n. 202 per quanto riguarda la Regione Lombardia.

La vicenda all’esame non è altro che l’ennesima spia di un fenomeno non già meramente congiunturale, ma “endemico”, in cui l’intervento della Corte costituzionale in materia si fa sempre più frequente, per sopperire alla mancanza di un quadro legislativo chiaro che fissi principi univoci e definisca in modo certo la ripartizione di competenze fra Stato e Regioni.

Tuttavia, questo modus procedendi che vede una sovraesposizione del giudice costituzionale e che si trascina ormai da anni, in attesa di una compiuta riforma del settore, non può che ulteriormente alimentare un clima di incertezza all’interno di un settore strategico per lo sviluppo sostenibile del Paese e, in generale, per l’attuazione del PNRR.

Una riforma settoriale appare ormai improcrastinabile, non solo per rinfrescare e rinnovare una disciplina statale a tratti vetusta, ma anche per conferire finalmente certezza ad un settore che costituisce un asset per il Paese e che, invece, rischia di rimanere perennemente sub judice, a tutto detrimento dell’interesse degli enti locali, degli operatori privati e, più in generale, dell’interesse collettivo.

Tale pur indifferibile esigenza si scontra con la realtà. Negli ultimissimi anni, abbiamo visto fallire un tavolo tecnico costituito presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, composto dai Ministeri competenti (all’epoca in cui presero avvio i lavori: Infrastrutture, Beni Culturali, Ambiente, Funzione Pubblica e Giustizia), insieme alla Conferenza Unificata delle Regioni e province Autonome di Bolzano e Trento, all’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), all’Associazione Nazionale Costruttori Edili (ANCE), incaricato di elaborare una nuova disciplina delle costruzioni, che avrebbe dovuto nelle intenzioni sostituire il Testo unico dell’edilizia (D.P.R. 380/01).

Un disegno di legge di delega al Governo per il riordino della disciplina in materia di costruzioni e di interventi di trasformazione e conservazione edilizia (A.S. 1860), presentato nel 2020, non ha ancora cominciato l’iter parlamentare ed è dunque tuttora fermo in Senato.

La speranza più recente è legata alla commissione istituita, giusto decreto n. 441/2021, presso il Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile e incaricata di scrivere una riforma organica dei principi della normativa in materia di pianificazione del territorio e standard urbanistici, del Testo unico dell’edilizia, nonché di provvedere al riordino complessivo del settore.

In assenza di un quadro ordinamentale di regole chiare e certe, infatti, non potrà che continuare a procedersi “per sentenze della Corte costituzionale”, accettando il rischio che la caducazione retroattiva degli effetti della norma dichiarata di volta in volta incostituzionale vada a vanificare l’attività di pianificazione generale e di predisposizione dei piani attuativi svolta dai Comuni.

[1] Un prezioso contributo alla materia è stato offerto da Di Leo A., Incostituzionale l’art. 2-bis D.P.R. 380/01 sugli standard urbanistici? I dubbi del Consiglio di stato sulla “delega in bianco” alle Regioni, in legal-team.it, 17 marzo 2022.

[2] Si riporta di seguito il testo integrale dell’art. 2-bis, introdotto dal d.l. n.69/2013 (c.d. Decreto del fare): «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».

[3] Recante “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”,

[4] L’art. 41-quinquies è stato aggiunto, nel corpus della L. 1150/1942, dall’art. 17, della L. 6 agosto 1967, n. 765.

[5] Si deve far presente che lo stesso giudice remittente ha individuato i confini della rilevanza della questione di costituzionalità, «dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte è più volte intervenuta. La fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione regionale, al D.M. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli a quelli riservati alle attività collettive ai parcheggi” e dunque agli standards, “nell’ambito delle definizione revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario di specifiche aree territoriali” – non vi è alcuna analogia della questione in esame rispetto a quelle esaminate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare sent. n. 13 del 7 febbraio 2020) relative alle norme del medesimo d.m. n. 1444/1968 in materia di distanze (articoli 9 e 10)» (v. §9 dell’ord. Cons. St., Sez. IV, n. 1949/2022). Mentre, infatti, i profili sottolineati attengo alla materia del “governo del territorio”, di potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni, viceversa, il profilo delle distanze fra fabbricati esula dalla questione sollevata, nel caso di specie, dal giudice a quo, perché riconducibile alla materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva statale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost. e, come tale, inderogabile da parte della legislazione regionale.

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