Resoconto dell’incontro di studi del 25 novembre 2020
prof.ssa Michela Passalacqua
professoressa ordinaria di Diritto dell’Economia presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa
L’incontro di studi tenutosi il 25 novembre 2020, in modalità telematica, nell’ambito del Corso di dottorato in diritto pubblico comparato e internazionale dell’Università di Roma “La Sapienza”, ha accolto l’intervento della professoressa Michela Passalacqua dell’Università di Pisa sul tema inerente «Regole e diritti per la rigenerazione dei
brownfields». L’intervento trae origine da un volume curato dalla professoressa, che le ha consentito di coordinare uno specifico gruppo di ricerca interdisciplinare
[1].
La relatrice ha sottolineato l’utilità metodologica di seguire un approccio transdisciplinare aperto al dialogo, non sempre facile, tra diritto amministrativo, diritto dell’economia, diritto civile, diritto comparato, diritto penale e diritto tributario. La sintesi degli approcci ha messo in evidenza alcuni elementi comuni tra cui l’esigenza di garantire il miglioramento delle politiche di incentivo/investimento sulla proprietà privata.
Superata la premessa, è indispensabile passare alle definizioni in modo da avere circoscritto l’oggetto di studio. La nozione di
brownfield[2] è da ricondursi ai beni immobili (aree, fabbricati, manufatti in genere in ambito urbano) che hanno perso/concluso la loro utilità/funzione produttiva, il che consente di avanzare una tesi originale:
Se il bene immobile non è inquinato ma è solo dismesso, tale bene non può considerarsi “rifiuto” che, invece, necessita di una condizione reale di abbandono, costituita anche dalla volontà del titolare di disfarsene. A tal proposito, trattandosi di bene immobile, la sola inerzia del titolare del diritto di proprietà non è elemento sufficiente o idoneo a sciogliere il legame giuridico esistente tra i due; l’inerzia difatti può anche essere dovuta a fattori diversi dalla volontà quale, per esempio, l’impossibilità di cederlo, l’impossibilità di convertirlo o di bonificarlo.
Altra definizione da indentificare è quella della rigenerazione che deve adattarsi alle caratteristiche sopra dette. Essa consiste necessariamente di un intervento di trasformazione integrata, urbanistica e finanziaria, che impatti anche sulla dimensione sociale ed economica: rigenerare un’area significa non solo ricondurla all’uso, ma scegliere un riuso capace di non innescare di nuovo, nell’immediato futuro, le pregresse dinamiche di degrado economico.
La ricerca sul tema porta a individuare quali possano essere le ragioni per rigenerare le aree urbane dismesse; esse sono essenzialmente tre: inclusione, memoria e sforzi della collettività/comunità.
La rigenerazione deve saper coinvolgere le comunità locali nella nuova progettazione funzionale del bene memoria, in modo da acquisire un nuovo senso di appartenenza ai luoghi e partecipare a crearne una nuova memoria.
Accanto alla definizione di base, ormai convergente in molte iniziative legislative nazionali e in diverse leggi regionali, dove si considera l’insieme coordinato di interventi edilizi e urbanistici aventi effetti sulla qualità urbana – intesa come vivibilità dei luoghi –, sul sistema economico e sul contesto sociale, tra le caratteristiche essenziali della rigenerazione sta emergendo quella di evitare o, per quanto possibile, minimizzare un nuovo “consumo di suolo” – anche attraverso la riduzione della superficie di suolo impermeabilizzata a favore della superficie permeabile – e di perseguire lo scopo del riuso, del rialzamento delle prestazioni ambientali ed ecologiche dell’area, della riduzione del consumo di acqua e di energia in un’ottica di sostenibilità.
Su quali siano le modalità per la rigenerazione il dibattito è aperto. Si è guardato primariamente alla disciplina civilistica della responsabilità civile che tuttavia ha, in questo ambito, dimostrato vari limiti. La ricerca ha sviluppato analisi di diritto comparato, con particolare riferimento alla disciplina americana che si è sviluppata dal 1980 in poi, la quale, pur essendo citata come esemplare per l’ingente mole di aiuti federali a favore delle bonifiche, palesa notevoli criticità. Lo strumento del contratto, in cui sono presenti anche finalità transattive, è risultato insoddisfacente, generando una mole infinita di contenziosi. Nell’ordinamento nazionale il proprietario incolpevole è posto nella seguente alternativa: o provvede alla messa in sicurezza – cui non è obbligato –
[6] o, in caso d’intervento dell’autorità, è obbligato al rimborso dei costi sostenuti dalla P.A., onde evitare un ingiustificato arricchimento, garantito da onere reale e privilegio speciale immobiliare, solo per l’arricchimento ingiustificato, non per gli altri costi. Lo schema della responsabilità solidale proprietario-utilizzatore è insufficiente. Inoltre, i privati tendono a considerare molto rischiosi gli investimenti nei
brownfields perché se, successivamente alla stipula del contratto di acquisto dell’immobile, sorge notizia della contaminazione, gli oneri a carico del neo proprietario possono essere sproporzionati. Il piano penale comporta poi problemi di ben altro ordine di rilevanza. I pubblicisti propongono lo strumento dell’accordo, di cui agli artt. 11 e 15 della L. n. 241/1990 e s.m.i., ma anche questo, avente marcata matrice civilistica, non soddisfa appieno.
Gli strumenti premiali sono, come detto sopra, al momento gli unici a poter generare percorsi virtuosi. Senza gli investimenti pubblici e privati non si riescono a rigenerare i siti dismessi. Sugli investimenti pubblici, si tratta di fare scelte politiche e di politica industriale e il c.d.
Recovery fund potrebbe rappresentare un’occasione importante per creare sinergie tra ambiente e sviluppo, finanziando le bonifiche
[7]. La mancata adozione della “direttiva suoli” del 2014 non espone a una infrazione la P.A. che non bonifica
[8]; in assenza della legislazione dell’U.E. sul suolo, la sua protezione è sparsa in molti strumenti che non hanno la protezione del suolo come obiettivo primario, rendendo quindi l’azione europea non efficace. A tal proposito, uno degli esempi migliori disponibili può considerarsi il modello americano del
Brownfield Act e dello
Small Business Relief and Brownfields Revitalization Act, del 2002, che prevedono finanziamenti pubblici in favore di Stati e comunità finalizzati alla realizzazione di studi sull’uso (o riuso) e per strumenti di intervento.
In questo settore le risorse pubbliche sono indispensabili ma sono necessari anche gli investimenti privati. La responsabilizzazione/partecipazione dei soggetti privati deve esserci e dovrebbe andare oltre la sola internalizzazione dei costi ambientali anche perché, secondo la relatrice, essa è ancora incompleta. La politica normativa europea, che ha puntato sulla internalizzazione di tali costi per compensare i “fallimenti di mercato”, ha certamente dettato regole comuni tra gli Stati ma non ha tuttavia raggiunto l’obiettivo mediato di proteggere l’ambiente (cfr. Raccomandazione del Consiglio del 3 marzo 1975 n.
75/436). A questo fallimento della politica ambientale europea si cerca ora di porre rimedio con una disciplina di promozione degli investimenti sostenibili; recentissima è l’approvazione del Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18/06/2020, n.
2020/852/UE relativo all'istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili mediante degli intermediari finanziari (e recante modifica del regolamento
2019/2088/UE, relativo all'informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari). Questo nuovo quadro normativo ha l’obiettivo di orientare i flussi di capitali verso attività economiche sostenibili.
Gli obiettivi ambientali sono:
a) la mitigazione dei cambiamenti climatici;
b) l’adattamento ai cambiamenti climatici;
c) l’uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine;
d) la transizione verso un'economia circolare; anche se qui la definizione è, ad avviso della professoressa, molto insoddisfacente
e) la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, cercando di raggiungere indirettamente ciò che non si è ottenuto con la forza politica di raggiungere direttamente con l’internalizzazione dei costi ambientali
f) la protezione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
Secondo alcuni autori, l’obiettivo della sostenibilità ambientale potrebbe forse essere raggiunto introducendo deroghe alla normativa
antitrust, ad esempio in materia di concentrazioni. Gli elevati costi correlati alla sostenibilità ambientale infatti sarebbero meglio sopportabili da imprese di grande dimensione.
L’attrazione degli investimenti non è infine agevolata dalla legislazione sui contratti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016 e s.m.i.) che è prevalentemente impostata sullo schema dei contratti passivi della P.A. (legge e regolamento inerente la contabilità di Stato e degli enti pubblici del 1923 e del 1924). Per i contratti attivi l’applicazione del Codice dei contratti pubblici è limitata ai soli “principi”, ai sensi dell’art. 4.
Il partenariato pubblico-privato
[9] (art. 180 del Codice dei contratti pubblici) sarebbe uno strumento appropriato in questo settore, ma, come tutta la normativa al riguardo, ha quale elemento prevalente quello del controllo della spesa pubblica, mediante una procedimentalizzazione strutturata che ha la funzione di contenimento dei costi per la P.A.