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Nell’ambito degli incontri organizzati dal dottorato di diritto pubblico, comparato ed internazionale dell’Università “Sapienza” di Roma (Dipartimento di Scienze Politiche), il 14 aprile la Professoressa Valaguzza ha tenuto una lezione sul tema “Le liti strategiche in materia ambientale”.
Come premessa della sua relazione, la Professoressa ha sottolineato che nell’affrontare tale tematica, con particolare riferimento al contenzioso climatico e alle battaglie legate alla tutela del pianeta, sia di particolare importanza individuare un approccio metodologico che consenta allo studioso di prescindere dall’emotività e dal forte connotato ideologico che inevitabilmente caratterizza la peculiare vicenda oggetto di studio.
Anche da un punto di vista terminologico, infatti, “lite strategica in materia climatica ed ambientale” evoca un concetto estremamente positivo avendo come obiettivo quello di configurare una strategia e prefigurare un risultato per il progresso della tutela del bene ambiente a protezione della biodiversità.
Rispetto alle questioni collegate all’innalzamento delle temperature in generale e alle politiche climatiche è invece necessario partire da un punto di vista diverso, al fine di verificare se ci sia una relazione e quale sia la relazione tra queste e gli istituti giuridici fondativi del nostro ordinamento giuridico, con particolare riferimento al potere legislativo, amministrativo e giudiziario.
Nello specifico in primo luogo ci si chiede – e tali interrogativi faranno da sfondo a tutto l’intervento -, quale tipo di rapporto sussista tra il contenzioso climatico e le strutture giuridiche tradizionali del nostro ordinamento e tra l’esercizio del potere giurisdizionale e gli altri poteri pubblici coinvolti nelle politiche climatiche, dal momento che non è chiaro se ed in che termini il giudice abbia il potere di forgiare policies in tale ambito.
L’intervento ha avuto ad oggetto principalmente il contenzioso climatico, ossia quel tipo di contenzioso relativo ad un argomento direttamente o indirettamente legato alle politiche climatiche: queste sono di diversi tipi e sono volte in termini di mitigazione o adattamento a ridurre o individuare strategie di adattamento, di resilienza e di sviluppo che tengano conto del fattore dell’innalzamento della temperatura globale le cui conseguenze negative sono oggetto di diversi esami scientifici. Il contenzioso climatico ha, inoltre, una forte connotazione pubblicistica avendo ad oggetto l’inadempimento od il cattivo adempimento del potere pubblico che non ha offerto una risposta convincente ed efficace nella lotta all’innalzamento della temperatura a tutela dell’ambiente e dell’uomo.
Tale tipo di contenzioso, che può avere ad oggetto sia gli atti generali adottati dai soggetti pubblici, sia le fonti normative che gli atti applicativi si caratterizza, inoltre, per il fatto che le politiche di mitigazione ed adattamento, sebbene condivisibili in termini concettuali ed astratti, non sono state in concreto in grado di raggiungere quei risultati in termini di sviluppo sostenibile che avrebbero dovuto ottenere. Diverso può essere anche il tipo di giurisdizione adito, potendo questo tipo di contenzioni essere trattati anche in sede di giurisdizione civile, soprattutto in merito a profili di risarcimento del danno, nonché in ambito di giurisdizione penale allorquando si riscontrino profili capaci di genere reati.
Come anticipato, il contenzioso climatico appartiene ad un filone di contenziosi che è quello delle liti strategiche, e a tal proposito è importante comprende cosa si intenda per strategicità e quale sia la peculiarità di questo tipo di liti rispetto agli altri contenziosi che giungono davanti agli organi giudiziari.
A tal proposito si deve riflettere sul fatto che in astratto ogni lite è strategica in quanto ogni lite è un’azione che ha uno scopo e che viene gestita mediante strumenti legali che vengono calibrati a tal fine, ma la strategicità delle liti in esame si caratterizza perché comporta la necessità di una dialogo tra l’ordinamento – struttura formale – e la comunità amministrata – struttura sociale -, e per il fatto che la lite strategica non inizia e finisce nell’ambito della vicenda oggetto del giudizio ma ha l’ambizione di fare evolvere l’ordinamento oltre il caso specifico che viene esaminato dal giudice, ragione per cui le liti strategiche sono generalmente proprie dei sistemi di common law.
Le liti strategiche possono essere comunque concepite anche nei sistemi di civil law come il nostro ma in questo caso si chiede al giudice qualcosa di più rispetto alla mera applicazione della legge come normalmente avviene in questo tipo di sistemi, dal momento che gli si chiede di ricomporre la frattura esistente tra l’ordinamento giuridico e l’elemento sociale, e dunque tra la forma del diritto e la società che rappresenta il vivere civile. Nell’ambito delle liti strategiche, pertanto, il giudice non deve solo essere soggetto alla legge ma ha il compito di percepire la sensibilità sociale e di ricomporre la frattura che inevitabilmente si crea tra diritto e vivere civile.
Lo scenario delle liti strategiche, conseguentemente, è molto diverso da quello a cui siamo generalmente abituati – che presuppone una percezione specifica del principio di separazione dei poteri – e questa peculiarità si coglie soprattutto con riferimento al giudice di merito che tradizionalmente è soggetto solo alla legge e al giudice amministrativo chiamato a prendere una decisione sui vizi di legittimità senza entrare nel merito dell’interesse pubblico mentre è più sfumata nel caso della Corte Costituzionale che nell’interpretare la legge generalmente si conforma al “diritto vivente”.
In quest’ottica, con riferimento al cambiamento climatico, è evidente che nel momento in cui anche nei nostri sistemi giuridici si palesa la necessità di segnalare l’incoerenza o una mancata effettività delle politiche climatiche si altera il tradizionale equilibrio formale nei rapporti tra potere giurisdizionale e altre istituzioni formali del sistema giuridico.
La “strategicità” delle liti a cui appartiene il contenzioso climatico si caratterizza, inoltre, per il bisogno del cambiamento a cui si associa l'”urgenza” del cambiamento, ossia l’urgenza di intervenire contro l’inefficacia delle politiche in materia di cambiamento. Sul punto basti considerare i numeri crescenti di questo tipo di contenzioso che ormai raggiungono le quasi 400 cause[1], un numero molto elevato per questo specifico settore se si considera che le azioni di contrasto alle politiche climatiche sono molto dispendiose anche in termini organizzazione della causa perché la raccolta dei dati scientifici è molto impegnativa, sono in continua evoluzione e dunque “time consuming” e perché spesso sono proposte da associazioni che devono preliminarmente raccogliere una sensibilizzazione popolare.
La circostanza che queste cause rappresentino una realtà sempre più significativa deve farci riflettere sul fatto che esista un fenomeno giuridico nuovo che si presta ad una modellazione giuridica perché è ispirato ovunque alle medesime logiche. A tal proposito gli elementi riconducibili ad una logica comune possono essere ritenuti l’urgenza delle situazioni che spingono in maniera sempre più pressante ad un cambiamento nelle politiche di sviluppo globali, la diffusione di movimenti che si occupano di questioni legate alla tutela del’ambiente e l’evidenza scientifica dell’esistenza di una correlazione tra danno e rischio per la salute ed inquinamento, come da ultimo dimostrato dalla pandemia.
Tornando al tema centrale oggetto dell’intervento, la Professoressa Valaguzza ha precisato che è fondamentale chiedersi, per capire se e cosa è cambiato nei rapporti tra le istituzioni fondamentali dell’ordinamento, se il pericolo e la gravità possano giustificare una modifica dell’equilibrio nel rapporto tra giurisdizione e poteri pubblici o più precisamente se ci siano delle soglie di gravità, di pericolo e di rischio per l’essere umano e per l’ambiente che implichino una modifica in merito al tipo di sindacato che il giudice può esercitare qualora sia chiamato a decidere in relazione al contenzioso climatico.
L’unica risposta in questo momento certa è che il diritto al clima, così declinato anche da una fetta sempre più consistente di dottrina[2], è un diritto nuovo che non può essere riconducibile esclusivamente al diritto al clima sano dato che in questo caso non si tratterebbe di nulla di nuovo rispetto al diritto alla salute, ma viene definito da qualcuno come “interstiziale” proprio perché si trova nell’interstizio tra diritto alla salute e diritto all’ambiente.
Non c’è dubbio, dunque, che nonostante sia indiscutibile un favor diffuso nei confronti della protezione dell’ambiente, non è facile inquadrare il contenzioso climatico nell’ambito degli schemi tradizionali del diritto.
Tale circostanza è dimostrata dal fatto che, come meglio descritto in seguito, una delle caratteristiche del diritto al clima è data dalla sua dimensione “ultrasoggettiva” dal momento che chi agisce in questo tipo di contenzioso non agisce solo in nome e per conto proprio ma agisce per sé e per le generazioni future e quindi anche per conto di altri, in contrasto ai normali canoni che regolano la legittimazione e l’interesse ad agire nel contenzioso.
Alla base del contenzioso climatico, come anticipato, si colloca l’inadeguatezza e l’incapacità delle politiche di raggiungere in concreto lo scopo di ridurre l’innalzamento della temperatura globale in funzione di politiche di sviluppo sostenibile e ciò non solo da parte degli Stati ma anche a livello internazionale e locale. Ed invero tale problematica non viene risolta anche per la scarsa incisività dei protocolli internazionali mentre sarebbe fondamentale in questo campo una “regia globale”, avendo tale problematica a cascata delle ripercussioni territoriali che non sono circoscrivibili esclusivamente a un ambito locale: in quest’ottica è fondamentale in termini di struttura un governo differenziato dell’ambiente attraverso ambiti e dimensioni politiche diverse.
Le cause aventi ad oggetto il contenzioso climatico possono riguardare sia politiche di mitigazione – e sono state la quasi totalità delle cause trattate – che politiche di adattamento.
C’è una differenza radicale tra le due: le politiche di mitigazione sono volte a ridurre la produzione di CO2 nel senso che vanno a mitigare riducendole il numero delle attività che producono delle sostanze che possono comportare effetti negativi sul riscaldamento globale e sono politiche che permettono di fissare delle soglie, dei numeri e che, dunque, non comportando valutazioni specifiche, non sono riconducibili a politiche complesse.
Al riguardo, quando vengono contestate le politiche di mitigazione, gli Stati vengono condannati perché un determinato target è stato considerato più o meno coerente con gli impegni assunti in sede di cooperazione internazionale e viene censurato il mancato raggiungimento di un dato oggettivo derivante da una normativa specifica.
Le politiche di adattamento, che sono al centro delle politiche attuali di protezione dell’ambiente soprattutto nel sistema giuridico europeo, sono invece quelle politiche che vanno a definire un nuovo modello di sviluppo sociale economico e per l’effetto ambientale. La politica di sviluppo sostenibile è una politica che, a differenza delle politiche di mitigazione, richiede il contemperamento tra valori, funzioni, interessi e prospettive con inevitabili diverse ripercussioni anche con riferimento al contenzioso. La circostanza che nelle politiche di adattamento si censura il non corretto contemperamento di interessi operato dall’amministrazione altera ancora di più l’equilibrio già di per sé precario in generale nei contenziosi climatici tra l’esercizio del potere giurisdizionale e gli altri poteri.
Premesso ciò, sia con riferimento alle politiche di mitigazione e ancor più rispetto a quelle di adattamento, è difficile trovare nella giurisdizione una risposta efficace in relazione al contenzioso climatico in considerazione del fatto che il dibattito politico alla base di queste decisioni in tale sede verrebbe totalmente svilito. La politica pubblica, infatti, non è facilmente misurabile in termini di risultati dal momento che sono molti i fattori di carattere economico, industriale e sociale che vengono affrontati durante il dibattito democratico che rendono difficile giudicare se lo Stato ha performato più o meno correttamente.
Anticipando quanto precisato dalla Professoressa al termine del suo intervento, essendo appunto le politiche il luogo più adatto per soppesare queste tematiche, anche in ragione del fatto che lo sviluppo sostenibile non è un bene che può essere definito ed accertato facilmente in sede giudiziaria, è necessario a questo punto chiedersi cosa si intenda per policy.
Le politiche sono in una fase preliminare una serie di ipotesi che devono essere sottoposte ad un meccanismo di prove ed errori mentre nella fase finale sono delle negoziazioni e proprio per tale ragione è evidente che non può essere il giudice a negoziare una politica di adattamento in quanto la titolarità ad esprimere un interesse pubblico non compete a tale organo ma, appunto, alla politica.
Uno dei limiti del contenzioso climatico è, pertanto, quello di ritenere che l’efficienza o l’inefficienza della politica ambientale possa essere misurata semplicemente in termini di raggiungimento del target, dal momento che la politica di sostenibilità è una vicenda molto più complessa e piena di sfaccettature che non può prescindere, oltre che dai calcoli scientifici certi sul riscaldamento globale, anche dall’analisi delle conseguenze socio- economico legate all’adozione di una determinata politica climatica piuttosto che di un’altra. Il problema non è solo quello di ridurre le emissioni ma lo scenario della sostenibilità non può prescindere dall’introduzione di una crescita equa ed inclusiva.
Altro limite di tale tipo di contenzioso in termini formali, come anticipato, è quello del loro rapporto con le condizioni processuali dell’azione che sono rigorosamente imposte dai codici di procedura ossia l’interesse ad agire che deriva dall’interesse sostanziale ad avere un certo risultato dal processo e la legittimazione ad agire che si acquisisce quando il diritto agito è un diritto proprio.
Nel nostro ordinamento, infatti, l’azione non può spettare se non a colui che l’invoca per sé con riferimento ad un rapporto giuridico dal quale sia possibile pretendere una ragione di tutela a proprio favore; la possibilità che una persona agisca in nome e per conto di un’altra non è del tutto esclusa ma la sostituzione processuale è configurabile solo in applicazione di determinati istituti espressamente disciplinati dalla legge come la rappresentanza volontaria e la rappresentanza legale. Dal momento che nell’ambito del contenzioso climatico non si agisce solo per sé in nome proprio ma anche in nome di altri che non sono neanche sono nati, è inevitabile porsi un problema giuridico in merito alla esistenza di una legittimazione per un diritto intergenerazionale o intragenerazionale, quantomeno in termini di libertà, dal momento che chi agisce non può sapere con certezza oggi cosa vorranno le generazioni future.
Sul punto bisogna comunque considerare che rispetto a questo rigore delle condizioni processuali dell’azione proprio in materia ambientale si ravvisa una maggiore flessibilità anche per quanto riguarda la legittimazione processuale. Come è noto, infatti, in materia ambientale sussistono casi di legittimazioni speciali, ampliamenti della possibilità di agire, e si discute della possibilità da parte degli enti territoriali di agire in nome e per conto della comunità che abita in un determinato territorio per rivendicare il diritto di quella determinata comunità ad un ambiente sano e non compromesso. Sul punto, nonostante la giurisprudenza probabilmente spinta da ragioni di urgenza e di pericolo riconosca questo tipo di azioni, la dottrina è molto critica in quanto si tratta di interessi diffusi che possono essere protetti ad esempio dai cittadini aggregati mentre un ente territoriale dovrebbe sempre comunque perseguire gli interessi pubblici.
Un altro dei quesiti esaminati nelle premesse dell’incontro attiene al principio di separazione dei poteri e più precisamente alla possibilità che il contenzioso climatico possa in qualche modo interferire – come in effetti accade – nelle questioni istituzionali tra i poteri dello Stato.
A tal proposito tutte le decisioni giudiziarie che sono state pronunciate in materia di contenzioso climatico hanno affrontato in maniera diretta la questione della “trias politica” anche perché in linea generale la difesa degli Stati aditi in giudizio è proprio quella sostenere che il giudice non possa adottare una decisione sottaendola al confronto politico a maggior ragione quando si contestano delle linee politiche e non degli atti amministrativi.
Deve, inoltre, far molto riflettere il fatto che il principio della separazione dei poteri non crei ostacoli solo nei nostri sistemi di civil law ma anche in quelli di common law come dimostra il fatto che anche negli Stati Uniti non sia stata emessa la tanto attesa decisione nel giudizio “Juliana case[3]” con cui alcuni giovani avevano adito il tribunale dell’Oregon per chiedere che ci fossero delle politiche efficaci in termini di riduzione delle emissioni e di protezione dell’ambiente, proprio perché l’impossibilità di giungere ad una decisione sarebbe stata determinata dalla sussistenza del principio di separazione dei poteri e dal fatto che tali decisioni spettino al dibattito politico.
Paradossalmente, invece, proprio nei sistemi di civil law ci sono stati alcuni casi in cui il principio di separazione dei poteri è stato reinterpretato in chiave meno rigida, potendo essere il sindacato del giudice più o meno ampio a seconda di quanto sia urgente e grave la problematica posta all’esame del giudice. Nel caso Urgenda[4], ad esempio, la Suprema Corte olandese ha ritenuto che nonostante la sussistenza della trias politica il sindacato giurisdizionale può essere più incisivo maggiore è la gravità del problema oggetto di sindacato. Ed infatti, nonostante il target raggiunto fosse conforme a quello definito in sede Europea, la Suprema Corte ha comunque ritenuto di cassare la politica adottata dallo Stato olandese proprio a fronte della gravità del fenomeno accertata dai dati scientifici e della conseguente urgenza di intervenire.
Alla luce di ciò deve sicuramente far riflettere il fatto che proprio in un sistema dove la giurisprudenza non è fonte del diritto sia stata adottata un’azione meno protettiva nei confronti del principio di separazione dei poteri.
La Professoressa Valaguzza nella sua relazione ha messo, inoltre, in luce la differenza fondamentale esistente tra il contenzioso climatico e gli altri contenziosi strategici.
A tal proposito occorre rilevare che le tematiche tradizionali dei contenziosi strategici, come ad esempio quelle più classiche in tema di diritti umani, dipendono spesso da concezioni politiche divisive legate a questioni etiche dove ognuno ha una sua idea e, conseguentemente in questo tipo di contenzioso, il giudice – dal momento che a sua volta può avere una sua idea in merito ad una determinata questione – tendenzialmente rispetta la discrezionalità politica.
Diversamente, nel caso del contenzioso climatico, bisogna considerare il diverso rapporto esistente tra scienza e politiche in quanto a fronte di dati oggettivi certi e non discutibili non può essere esercitata una vera e propria discrezionalità politica ma la decisione politica è vincolata. In realtà, però, proprio in materia di dati ambientali legati al cambiamento il rapporto tra scienza e politiche non è di diretta consequenzialità come sembra poiché la scienza è un elemento tra i tanti che possono essere considerati per le valutazioni che spettano alla politica.
Sul punto è significativo che nella dichiarazione di esordio dei rapporti dell’IPCC[5] si affermi la loro neutralità in quanto tali rapporti possono essere ritenuti rilevanti per la politica ma non prescrittivi, non essendoci una necessaria consequenzialità tra valutazione di scienza e valutazione di policy.
In conclusione la Professoressa si sofferma sul diritto per il quale si agisce e che muove il contenzioso climatico ossia, in una impostazione antropocentrica tipicamente europea, il diritto alla natura.
Il diritto alla natura che si rinviene ad esempio nella Chart environment francese, laddove si afferma che ciascuno ha diritto a vivere in un ambiente di equilibrio rispettoso della sanità e si parla dunque di diritto alla natura “sana”, ha dei riferimenti nelle costituzioni liberali che affermano il diritto alla salute. Questo significa che in sede europea il diritto alla natura costituisce una sorta di duplicato del diritto alla salute che può essere compromesso dall’innalzamento della temperatura e quindi da una politica inefficace rispetto a quell’episodio. Spesso a tal fine si menzionano gli artt. 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è addirittura una volta è stato invocato l’art. 3 in merito al divieto di tortura dal momento che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto che le persone costrette a vivere in una zona inquinata subissero dallo Stato un trattamento parallelo alla tortura[6].
A differenza della concezione come visto antropocentrica che si sviluppa in sede europea incentrata sulla necessità di proteggere l’essere umano, in chiave extraeuropea si sviluppa il diritto della natura in sé che deve essere protetta a prescindere e che è sempre e comunque un diritto riflesso in una logica molto lontana dalla nostra. Nel 1993, ad esempio, la Corte Suprema delle Filippine[7] ha ritenuto immanente alla Costituzione il diritto ad agire per sé e per le generazioni future nonostante nel testo di allora non fosse scritto perché tale diritto veniva considerato implicitamente legato all’esigenza dell’umanità di preservarsi.
Questo tipo di evoluzione è difficilmente immaginabile in una logica formalistica come la nostra anche se non sono mancati tentativi in tal senso. Nella dottrina italiana, ad esempio, Fabrizio Fracchia ha cercato di congiungere il diritto alla natura con il diritto della natura nella teoria dei doveri, secondo cui la natura non è un diritto ma un dovere e per effetto di questo dovere non solo le istituzioni ma tutti, in virtù del principio di solidarietà di cui all’art. 2 della nostra Costituzione, hanno obblighi morali e giuridici di tipo intergenerazionale. In quest’ottica il diritto intergenerazionale è un diritto che viene protetto attraverso la costituzione di una serie di obblighi morali e giuridici attraverso la politica.
Nel ripercorrere gli interrogativi posti nelle premesse dell’incontro e alla luce degli argomenti trattati, la Professoressa Valaguzza ha concluso ritenendo che il contenzioso climatico, sebbene spinga l’ordinamento ad occuparsi in maniera maggiormente efficace di tematiche cruciali dei nostri giorni, non risolva affatto il problema che si propone di affrontare e presenti problematiche non trascurabili se confrontato con i presupposti di base del sistema processuale, che devono essere risolti preliminarmente, per evitare di nascondere un elefante dietro un filo d’erba.
[1] Ci sono ormai diversi database che raccolgono i contenziosi climatici in tutto il mondo: quello più completo probabilmente è redatto dalla Columbia University ed è indicato come Climate change chart.
[2] La dottrina ha parlato molto di questo tema soprattutto la dottrina francese e quella statunitense. Si parla generalmente di ambientalismo in contrapposizione ad una errata politica climatica ma in Italia per definire questo tipo di cause si è parlato anche di “annientalismo” dal momento che nelle cause contro gli Stati si finisce per annientare la politica che si sta pur sempre occupando di sostenibilità.
[3] Juliana, et al. v. Stati Uniti d’America, et al. è una causa relativa al clima intentata nel 2015 da 21 giovani querelanti contro gli Stati Uniti e diversi funzionari del ramo esecutivo.
[4] Il caso Olanda c. Urgenda Foundation trae origine da un ricorso, presentato nel 2013, dall’associazione ambientalista Urgenda dinanzi alla Corte territoriale del L’Aja, con il quale si chiedeva ai giudici di obbligare le autorità statali ad una seria riduzione delle emissioni, in particolare nella misura del 40% entro il 2030 o, almeno, del 25% entro il 2020. La corte nazionale ha sostenuto le ragioni dell’associazione e con la storica sentenza del 20 dicembre 2019 ha invitato il governo olandese a ridurre di almeno il 25% le emissioni di CO2 nell’atmosfera entro la fine del 2020.
[5] L’IPCC – Intergovernmental Panel On Climate Change – è l’organizzazione di Stati che elabora i dati scientifici ed i rapporti in materia climatica.
[6] È il caso della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che ha accolto in via prioritaria la richiesta avanzata da sei bambini e ragazzi portoghesi, che, supportati dalla Ong “Global Legal Action Network”, hanno fatto ricorso contro 33 Stati membri del Consiglio d’Europa – tra cui l’Italia -, accusandoli di violare i loro diritti, non rispettando gli impegni assunti con la firma dell’accordo di Parigi del 2015, la Cop21.
[7] Si tratta della sentenza del 30 luglio 1993 della Corte Suprema delle Filippine nel caso “Minors Oposa”: “Si trattava del caso di un gruppo di minorenni filippini i quali agirono in giudizio contro delle concessioni per lo sfruttamento del legno e perché fosse vietato il rilascio o il rinnovo di licenze per tale attività, in tal senso invocando il loro diritto ad impedire che le foreste fluviali delle Filippine fossero danneggiate. L’elemento d’innovazione, quasi “rivoluzionario”, di questa sentenza, consiste nel fatto che la Suprema Corte filippina, oltre ad aver sancito che il diritto ad un’ecologia equilibrata e sana costituisce un preminente valore costituzionale in quanto connaturato ad esigenze fondamentali di conservazione e riproduzione del genere umano, è arrivata a riconoscere il diritto d’azione popolare ai minorenni in quanto rappresentanti nello stesso tempo la propria e la generazione non ancora nata” (cfr. V. Pepe, “Lo sviluppo sostenibile tra diritto internazionale e diritto interno“, in Riv. giur. Ambiente, fasc. 2, 2002, pag. 209).