1. Con il parere in commento[1], il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla legittimità comunitaria della gara bandita dalla AGEA per la scelta del socio privato di minoranza della SIN s.r.l., società mista incaricata della gestione e dello sviluppo del SIAN (Servizio Informativo Agricolo nazionale), in attuazione dell’art. 14, comma 10-bis del d.lvo 99/2004, aggiunto dal d.l. 182/05 conv. in l. 231/05.
Il parere fa seguito, integrandolo, ad un primo pronunciamento della medesima Sezione consultiva (parere n. 3162/06, reso nell’adunanza del 13 dicembre 2006), anch’esso provocato da un quesito del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, con il quale era stata ravvisata l’incompatibilità dell’affidamento diretto del servizio ai principi di derivazione comunitaria in tema di in house providing. Le diverse conclusioni alle quali giunge il Consiglio di Stato, nuovamente investito della questione dal MiPAF, scaturiscono dal mutato angolo visuale con il quale viene esaminata la vicenda giuridica complessiva, frutto anche di un più corretto inquadramento della fattispecie operato dall’Amministrazione nella formulazione del secondo quesito.
Il risultato di questa rinnovata analisi è davvero apprezzabile. Attraverso un iter argomentativo estremamente rigoroso e supportato dall’opportuno richiamo alle indicazioni de iure condito e de iure condendo, la Sezione consultiva fornisce infatti una condivisibile chiave di lettura della giurisprudenza comunitaria e nazionale in tema di in house providing, separando nettamente tale modello organizzativo da quello, ontologicamente diverso, della società mista: il primo, riconducibile ai meccanismi dell’autoproduzione; il secondo, strumento di cooperazione tra il pubblico ed il privato nella realizzazione di un opera o di un servizio. Vengono così fissati, in termini generali e ferma restando l’esigenza di una verifica caso per caso, i presupposti legittimanti il ricorso alla società mista quale forma di partenariato pubblico-privato.
2. Il ragionamento è tanto semplice quanto convincente: non è possibile interpretare l’orientamento della Corte di Giustizia CE in tema di affidamenti in house in modo da farne scaturire conseguenze contrarie allo stesso obiettivo perseguito nelle citate pronunce, ossia la tutela della concorrenza[2]. Quella tutela della concorrenza come valore assoluto e prioritario che ha indotto alcuni autorevoli studiosi a sostenere una difficile compatibilità della configurazione delle libertà economiche in ambito comunitario con il nostro sistema costituzionale e, in particolare, con il modello economico delineato dall’art. 41 Cost.[3]
La verifica della legittimità comunitaria del modello della società mista, o meglio delle condizioni che rendono ammissibile la scelta di tale modello, deve essere quindi condotta alla luce dei principi di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione, i quali non possono non prevalere sull’interesse dell’amministrazione all’adozione dello strumento giuridico per essa più conveniente, anche se “… stigmatizzato, …, con una apposita lex specialis…” (pag. 13 del parere).
Muovendo da tali parametri di analisi, diviene agevole osservare come la Corte di Giustizia non abbia mai assunto una posizione definita sui presupposti legittimanti la scelta della società mista quale modello organizzativo del servizio, essendosi occupata di casi in cui l’individuazione dell’affidatario del servizio era avvenuta senza l’esperimento di alcuna procedura ad evidenza pubblica.[4]
In realtà il giudice comunitario si era già pronunciato (sentenza 10 novembre 2005 in C-29/04, Commissione c. Austria, rapidamente richiamata nel parere) su una fattispecie apparentemente più vicina a quella oggetto del quesito, nella quale un Comune aveva inizialmente affidato senza gara ad una società interamente partecipata il trattamento e smaltimento dei rifiuti, per poi, pochi mesi dopo, trasferire ad una terza società il 49% delle quote; aveva osservato in quel frangente la Corte che “…attraverso una costruzione artificiale comprendente più fasi distinte, e cioè la creazione della società Abfall, la conclusione con essa del contratto di smaltimento dei rifiuti e la cessione del 49% delle quote di tale società alla società Saubermacher, un appalto pubblico di servizi è stato attribuito ad un’impresa di economia mista in cui il 49% delle quote sono detenute da un’impresa privata” (par. 40). Da un esame più attento della decisione, tuttavia, si evince come la cessione delle quote era avvenuta senza il previo espletamento di una procedura selettiva degna di tale nome e senza la predeterminazione della durata dell’incarico, non essendo nemmeno chiaro il ruolo che il partner privato avrebbe assunto in seno alla società mista.[5]
In disparte la condivisibilità o meno delle conclusioni raggiunte in tema di in house providing[6], peraltro pedissequamente recepite dai giudici nostrani[7], le fattispecie deferite alla Corte di Giustizia appaiono quindi al Consiglio di Stato decisamente diverse da quella portata al suo esame, per il semplice fatto che, in quest’ultima, l’avvenuto espletamento di una procedura selettiva non è in discussione. Il punto cruciale, colto in pieno dalla Sezione consultiva, è allora capire in che misura il procedimento finalizzato alla scelta del socio privato possa ritenersi idoneo a garantire l’effettività dei principi perseguiti dalla normativa comunitaria (e nazionale di recepimento) in tema di appalti e concessioni.
3. Il quesito è risolto nel parere ritenendosi che la compatibilità con l’ordinamento comunitario possa essere affermata “... quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, di cui si dirà infra, al punto 8.3 – non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo” (par. 8, pag. 17 del parere). In questi casi, infatti, “… l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con procedura ad evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione di compiti operativi e quella della qualità di socio” (pag. 18).
Da tali premesse discende, come logico corollario, l’obbligo per l’Amministrazione di prevedere il rinnovo della procedura di scelta del socio alla scadenza del periodo di affidamento (cfr. par. 8.3 del parere) e la puntuale determinazione dei compiti che il socio privato sarà chiamato a svolgere (cfr. par. 9.2).
4. Si tratta, a ben guardare, di una ricostruzione del fenomeno analoga a quella operata dalla Commissione europea nel Libro Verde relativo ai partenariati pubblici-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, pubblicato il 30 aprile 2004, richiamato infatti nel medesimo parere. I partenariati di tipo istituzionalizzato, descritti nel par. 3 del Libro Verde (punti 53 e ss), “… implicano la creazione di un’entità detenuta congiuntamente dal partner pubblico e dal partner privato…”, alla quale è assegnata “… la missione di assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio a favore del pubblico” (punto 53); “la cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria …”, continua il punto 54, “… permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni, che può adattare nel tempo in funzione delle circostanze, attraverso la propria presenza nella partecipazione azionaria e in seno agli organi decisionali dell’impresa comune”.
Anche tali forme di cooperazione debbono essere assoggettate al rispetto delle norme e dei principi in materia (punto 57), non potendo “… la scelta del partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un’impresa mista .. essere dunque basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma … [dovendo] tenere conto delle caratteristiche della sua offerta – che economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire” (punto 58).
Nell’ottica della Commissione, in estrema sintesi, il modello può ritenersi compatibile con il diritto comunitario quando: (i) nella scelta del socio privato, venga rispettato il diritto dei contratti e delle concessioni (punto 63 del Libro Verde); (ii) gli incarichi affidati alla newco e, tramite essa, al socio industriale siano chiaramente definiti dalla disciplina di gara, anche in termini di durata (punto 61); (iii) la società mista non benefici di “… privilegi esorbitanti non basati su un’ applicazione normale del diritto societario” (punto 62)
Le medesime conclusioni sono state fatte proprie dal Parlamento europeo nella recentissima Risoluzione sui partenariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni del 26 ottobre 2006 (2006 /2043(INI)).
Ferma restando l’ovvia contrarietà a “… qualsiasi elusione della normativa in materia di appalti pubblici e di concessioni” (punto 5 delle Osservazioni generali), il Parlamento europeo ha ritenuto necessario “...che la legislazione sugli appalti pubblici si applichi alla creazione di un PPPI e in caso di attribuzione ad un partner privato nel quadro di un PPPI, qualora queste operazioni presentino un rapporto reale e temporale con l’attribuzione di un appalto pubblico” (punto 37); ha altresì affermato che “… se il primo bando di gara per la costituzione di un’ impresa mista è risultato preciso e completo, non è necessario un ulteriore bando di gara” (punto 40).
Le motivazioni della Risoluzione sono espresse in maniera articolata nella Proposta di Risoluzione del 18 agosto 2006, laddove, con riguardo ai partenariati di tipo istituzionalizzato, il Libro Verde della Commissione viene così interpretato: “… Secondo il parere della Commissione, il partner privato di questa impresa deve essere scelto tenendo conto dei relativi compiti e secondo modalità trasparenti, non discriminatorie e dipendenti dalla forma concreta dell’appalto ai sensi delle direttive in materia oppure del Trattato CE. Dal parere della Commissione consegue che soltanto una scelta del partner privato compiuta sulla base di criteri oggettivi può garantire una concorrenza leale. Una volta che il partner privato della società a capitale misto è stato scelto, ulteriori bandi di gara per l’appalto diventano soltanto un’inutile spesa burocratica. Quindi sarebbe da evitare la pubblicazione di un doppio bando di gara” (pag. 12/14).
Sempre nella Proposta di Risoluzione, il Parlamento europeo esamina anche la problematica più generale dell’affidamento diretto a società miste, richiamando i principi relativi all’in house providing. Questa fattispecie viene chiaramente distinta da quella, poco prima trattata, relativa alle modalità di scelta del partner industriale, come dimostra l’affermazione, a sostegno dell’illegittimità di affidamenti diretti impropri sub specie di in house, secondo la quale: “… l’aggiudicazione di un appalto pubblico a una società a capitale misto senza pubblicazione della gara d’appalto danneggerebbe i principi della concorrenza leale e della parità di trattamento dei soggetti interessati. Una tale procedura procurerebbe un vantaggio nei confronti dei suoi concorrenti al soggetto privato che detiene una partecipazione nella società a capitale misto”.
5. Anche la giurisprudenza nazionale ha avuto modo di pronunciarsi sulla medesima problematica, nel tentativo di inquadrare correttamente il fenomeno della società mista. Così, il Consiglio di Stato (sez V, 1 luglio 2005, n. 3672, citata nel parere), ha rilevato che “… tale tipo di PPP altro non è che una “concessione” esercitata sotto forma di società, attribuita in esito ad una selezione competitiva che si svolge a monte della costituzione del soggetto interposto (soltanto incidentalmente si osserva che la fattispecie in esame nulla ha a che spartire con il diverso fenomeno dell’in house providing, regolato dai differenti principi affermati dalla giurisprudenza “Teckal” e “Stadt Halle”, tra i quali qui viene soprattutto in rilievo l’esigenza che sull’organismo in house l’ente pubblico eserciti un controllo - analogo a quello che esercita sui propri servizi - presupponente una partecipazione pubblica totalitaria)”.
Sempre in tema di servizi pubblici locali, si è precisato che “… considerato che la società a capitale misto con capitale pubblico maggioritario è costituita attraverso procedura ad evidenza pubblica e allo specifico scopo di affidarle i servizi pubblici dell’Ente locale che la ha costituita, è immediatamente conseguenziale che il relativo affidamento debba avvenire in modo diretto. Altrimenti opinando, la costituzione di tali società miste non avrebbe alcuna pratica utilità, mentre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei singoli servizi costituirebbe un’inutile duplicazione di un procedimento già esperito” (Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272; conf. Sez. V, 30 aprile 2002, n. 2297).
E ancora, il Tar Sardegna (7 agosto 2006, n. 1600) ha osservato, in una fattispecie del tutto analoga, “…che i richiami giurisprudenziali in senso contrario operati dalla ricorrente non sono decisivi in quanto attengono essenzialmente alla diversa fattispecie dell’affidamento in house (art. 113, comma 5°, lett. c) del D.Lgvo n. 267/2000), nel quale l’affidamento diretto è condizionato alla sussistenza di peculiari presupposti sul contenuto dei quali la Corte di Giustizia è stata più volte chiamata a pronunciarsi al fine di meglio delinearne i contenuti applicativi (ed in questo filone si inserisce anche l’ ordinanza del TAR Puglia, Bari, Sez. III dell’8 settembre 2004 ricordata dalla ricorrente)”.
Nel suddetto panorama giurisprudenziale stona quindi la decisione del CGA Sicilia (sent. n. 589/2006), il quale pur dando atto dell’esistenza di “… un quadro giurisprudenziale in generale incline ad escludere la necessità della seconda gara..”, ha ritenuto doversi discostare dall’ orientamento prevalente, senza che tuttavia che la sua tesi, considerata “estrema”, trovasse accoglimento nel parere de quo[8].
6. Le condizioni legittimanti l’affidamento del servizio alla società mista (rectius, al socio industriale), come osserva la Sezione consultiva, risultano pienamente integrate nella procedura esaminata, considerati l’applicazione della normativa di cui al d.lvo n. 157/95 (par. 3 del parere), il peso preponderante attribuito dalla lex specialis di gara alla parte tecnica dell’offerta (par. 9.2), la durata temporalmente limitata del partenariato (par. 9.3), la sufficiente delimitazione dell’oggetto dell’affidamento (par. 9.4)[9].
Si aggiunga che, secondo quanto previsto dalla disciplina di gara, i soci privati di SIN non sono “… considerati terzi rispetto alla medesima ai fini dell’assegnazione delle attività da eseguire” (art. 9 del contratto di servizio quadro tra Agea e SIN), e la gestione operativa della Newco è affidata al socio privato con assunzione da parte di quest’ultimo dell’obbligo di ripianare le eventuali perdite non preventivate nel piano industriale allegato all’offerta tecnica (artt. 4 e 11 dei patti parasociali, parte integrante della documentazione di gara).
Il modello di società mista, nel caso di specie imposto dal legislatore, diviene lo strumento elettivo per conciliare gli obiettivi di efficienza del servizio - mediante il coinvolgimento delle risorse di operatori privati individuati nel rispetto delle regole dell’evidenza pubblica -, con la necessità di un penetrante controllo sullo svolgimento di delicate attività di interesse generale, il quale viene azionato “dall’interno”, attraverso la presenza nel capitale e negli organi di amministrazione, e non solo “dall’esterno”, come accade nel caso delle forme di pura esternalizzazione del servizio.
Il privato non si limita, quindi, a conferire capitali, assumendo invece un ruolo operativo e, con esso, i rischi connessi alla gestione tecnico-finanziaria. Il socio pubblico svolge invece una funzione di controllo del rispetto degli obiettivi prefissati dalla legge. La società mista non è titolare dei poteri amministrativi relativi al coordinamento e all’indirizzo delle attività agricole, che rimangono in capo ad AGEA e agli altri enti pubblici di settore, ma certamente partecipa indirettamente al loro esercizio, fornendo i servizi informatici strumentali alla raccolta dei dati necessari e allo svolgimento dell’attività di monitoraggio.[10]
E’ evidente che l’accertamento della legittimità del ricorso al modello associativo postula la verifica in concreto delle caratteristiche della procedura di individuazione del socio privato e del contenuto dei rapporti giuridici tra quest’ultimo ed il socio pubblico.
7. Si tratta allora di capire - e sul punto potrebbe aprirsi un serio dibattito, che però esula dai limitati scopi di questo breve commento – se, ancora più a monte, lo strumento della società mista, nell’ottica dell’ordinamento comunitario e nazionale, possa davvero considerarsi eccezionale, come rilevato dal Consiglio di Stato in più punti, ossia attuabile soltanto in presenza di una espressa disposizione di legge autorizzatoria e previa adeguata motivazione in ordine alla mancata integrale esternalizzazione del servizio (con la stipula di un contratto di appalto o di concessione)[11].
Ad avviso della Sezione consultiva, infatti, dall’esame delle disposizioni rilevanti in tema di società miste (in particolare, art. 113, comma 5, lett. b), d.lvo 267/00[12] e art. 1, comma 2, d.lvo 163/06) e del progetto di legge sul riordino dei servizi pubblici locali, si ricaverebbe che il legislatore nazionale “…non intende affermare la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi consentite nei soli casi già previsti da una disciplina speciale, nel rispetto del principio di legalità…”, ma soltanto codificare “…il principio secondo il quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire “con procedure ad evidenza pubblica” (non necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice)” (cfr. par. 7). Poiché il “…suddetto modello non è ordinario nel nostro sistema … - salvi i non frequenti casi (come quello di specie) in cui il legislatore lo impone senza alternative – l’amministrazione deve comunque motivare in modo adeguato perché si avvale di una società mista invece di rivolgersi integralmente al mercato” (par. 8.3).
La problematica, apparentemente confinata al settore delle società miste, investe invece quella più generale relativa all’atteggiarsi del principio di legalità con riguardo alla capacità di diritto privato delle pubbliche amministrazioni. Se infatti, anche alla luce delle recenti modifiche alla disciplina sul procedimento amministrativo, si ammettesse la piena fungibilità dello strumento privatistico rispetto a quello autoritativo, nel perseguimento del fine pubblico, il contenuto del principio di legalità, applicato all’attività contrattuale della p.a., potrebbe evolversi verso quella che è stata definita “legalità di indirizzo”[13]. In altri termini, la norma di legge si limiterebbe ad individuare il soggetto pubblico competente e l’obiettivo finale, lasciando libera l’amministrazione di scegliere lo strumento più idoneo alla efficace realizzazione di quest’ultimo, fatto sempre salvo il rispetto delle regole dell’evidenza pubblica nella scelta del contraente/socio.
Da una simile impostazione deriverebbe l’inapplicabilità del principio di tipicità amministrativa all’attività di diritto privato della p.a., essendo quest’ultima libera di scegliere lo strumento di organizzazione del servizio ritenuto più opportuno[14], almeno nei casi in cui non sia la stessa legge ad imporre un determinato strumento contrattuale o, al contrario, a prevedere specifici presupposti per il suo utilizzo. Di qui, la piena fungibilità tra i modelli del contratto di appalto e della concessione, da un lato, e quello della gestione del servizio attraverso una società mista, dall’altro.
Per quanto la realizzazione di una proficua collaborazione tra pubblico e privato richiederebbe l’attribuzione alla p.a. della più ampia libertà negoziale nella definizione del modello di partenariato, non può non riconoscersi come il dato emergente dall’esame del diritto nazionale e in una prospettiva de iure condendo parrebbe supportare l’opinione espressa dal Consiglio di Stato in merito all’eccezionalità dello strumento associativo[15].
La tendenza dell’ordinamento nazionale verso una limitazione del ricorso alla società mista non sembra necessariamente porsi in contrasto con l’ordinamento comunitario. In disparte le previsioni del Libro Verde sui PPP, comunque prive di carattere precettivo e non risolutive sul punto, non sembrano rinvenirsi norme o principi di diritto comunitario in grado di vincolare gli Stati membri nella definizione delle modalità di collaborazione tra autorità amministrativa e privato. La preoccupazione delle istituzioni sovranazionali, come più volte osservato, è che vengano garantiti i principi fondamentali del Trattato; una volta assicurata l’apertura al mercato dei servizi pubblici, non è impensabile che il legislatore nazionale possa esprimere una chiara preferenza per l’una o l’altra forma di cooperazione pubblico-privato.
Sotto tale ultimo profilo, è interessante osservare come, in un’ottica forse ancora più restrittiva, si sia posto il Tar Puglia (Bari, ordinanza 8 settembre 2004, n. 885), il quale ha nuovamente rimesso alla Corte di Giustizia la questione relativa alla legittimità comunitaria dell’art. 113 co. 5 del d.lvo 267/00, ma questa volta non in relazione alla esatta ricostruzione della nozione di “controllo analogo”, bensì rilevando che “…il vero profilo nevralgico della materia – sul quale non risulta che la Corte di Giustizia sia stata finora chiamata a pronunciarsi – è costituito non già dal modo con cui nella norma de qua è costruita la figura dell’affidamento in house, ma nel fatto che in essa l’istituto viene di fatto generalizzato, lasciando apparentemente alle Amministrazioni locali piena discrezionalità in ordine alla scelta tra esso e l’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica (o, ancora, attraverso il sistema “misto” dell’affidamento diretto a società pubblico-privata in cui il socio privato sia scelto con procedura di evidenza pubblica)” (punto 7). Sarà quindi interessante valutare le indicazioni che la Corte di Giustizia fornirà sul punto.
Aderendo alla ricostruzione operata dal Consiglio di Stato, è bene dirlo, risulta però non agevole comprendere quali siano i parametri idonei a valutare l’adeguatezza della motivazione addotta dall’ente pubblico per giustificare il ricorso alla società mista, piuttosto che a forme di partenariato di tipo contrattuale. Siamo certi, però, che la giurisprudenza amministrativa avrà occasione di chiarire meglio anche tale aspetto. |
[1] Adunanza della Sezione Seconda del 18 aprile 2007 n. 456/2007, pubblicata in questa Rivista n. 5/07.
[2] Se infatti si desumesse dalla non riconducibilità all’in house delle società miste la loro inutilizzabilità per lo svolgimento di un servizio, “… gli indirizzi della Corte di Lussemburgo..” potrebbero valere “… come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato” (pag. 21 del parere).
[3] F. Merusi, democrazia ed autorità indipendenti, Bologna, 2000. A. Moscarini, Sussidiarità e libertà economiche, in Dir. e pol., 1999.
[4] Il Consiglio di Stato richiama, a tal proposito, le ben note sentenze Stadt Halle (causa C-26/03), Parking Brixen (causa C-458/03) e Cabotermo (causa C-340/04). Nei casi decisi con le ultime due pronunce la stazione appaltante aveva addirittura revocato il precedente affidamento o sospeso la procedura concorsuale per affidare senza gara il servizio ad una società mista, in conclamata violazione del diritto degli appalti.
[5] Più nel dettaglio, nella sentenza si osserva che a seguito della delibera di affidamento del servizio, “… avevano avuto luogo vari colloqui con i rappresentanti delle società interessate ad una partecipazione nell’ambito di attività della società Abfall…” (par. 9); se ne trae l’assenza, nel caso in esame, di qualsiasi procedura formale di scelta del socio.
[6] Per una critica all’orientamento del giudice comunitario in tema di in house, cfr. A. Clarizia, La Corte suona il de profundis per l’in house, e G. Marchegiani, Gli affidamenti “in-house” e la sindrome del cavallo a dondolo. Sentenze a confronto, entrambi pubblicati in questa Rivista. Senza volerci soffermare sull’evoluzione della giurisprudenza comunitaria sul tema, certamente ben nota al lettore, deve però darsi atto che la Corte, restringendo sempre più la nozione di “controllo analogo”, è giunta nella sostanza ad annullare la portata applicativa dell’istituto, ritenendo addirittura insufficiente la partecipazione totalitaria dell’ente pubblico e ancorando la verifica del predetto presupposto a parametri nient’affatto univoci.
[7] Tra le più recenti, cfr. Consiglio di Stato n. 4440 del 13 luglio 2006, annotata da G. Leccisi, Ancora dubbi sul concetto di “controllo analogo” in materia di in house. Nota a sentenza del C.d.S., del 13 luglio 2006, n. 4440, in questa Rivista.
[8] Tra le varie obiezioni mosse dal CGA nella sentenza de qua vi è quella per cui l’obbligo dell’imprenditore di conseguire un servizio solo entrando in una società configurerebbe “… una restrizione del mercato e della concorrenza”. Ad essa si può replicare osservando che la scelta del modello di gestione dell’appalto o della concessione, una volta autorizzato dalla legge il ricorso alla società mista, rientra nella discrezionalità della p.a.. L’affermazione pone però in evidenza la problematica legata alla possibilità di considerare la società mista, pur se attuata nel rispetto del diritto degli appalti, come un ordinario modus procedendi delle pubbliche amministrazioni (vedi infra).
[9] La delimitazione dell’ambito operativo della SIN s.r.l. rende l’operazione complessiva condotta da AGEA coerente anche con l’art. 13 del decreto Bersani (d.l. 223/06 conv. in l. 248/06), anche qualora fosse ritenuto applicabile alle società miste partecipate da un ente statale, come quella di specie.
[10] L’art. 15 del d.lvo 173/98 definisce il SIAN “…quale strumento per l’esercizio delle funzioni di cui al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143”, obbligando gli enti pubblici di settore ad avvalersi dei servizi messi a disposizione dal SIAN “…intesi quali servizi di interesse pubblico” (comma 1), tra i quali anche quelli “… necessari alla gestione, da parte degli organismi pagatori e delle regioni e degli enti locali, degli adempimenti derivanti dalla politica agricola comune…” (comma 2).
[11] Sul punto, cfr. S. Rostagno, Società miste: la via del Consiglio di Stato fra modello in house e partenariato pubblico-privato, in questa Rivista, anch’essa a commento del parere n. 456/2007.
[12] E’ interessante osservare che tale norma - che il CGA Sicilia ha ritenuto di disapplicare per contrasto con il diritto comunitario, nella sentenza n. 589/06 sopra richiamata - è stata considerata dalla Corte Costituzionale, seppure incidentalmente, immune dai vizi dedotti in sede di impugnazione, garantendo, “… in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali” (sentenza 27 luglio 2004, n. 272).
[13] Per una complessiva ricostruzione della tematica, proprio con riguardo alle forme (anche atipiche) di partenariato pubblico-privato, si veda R. Dipace, Partenariato pubblico privato e contratti atipici, Milano, 2006. La ricostruzione fa leva sul nuovo art. 1, comma 1-bis, l. 241/90, introdotto dalla legge n. 15/05, secondo il quale “la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”. Ulteriore elemento a sostegno della tesi è la generalizzazione, sempre ad opera della legge n. 15/05, del ricorso agli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 l. 241/90, ora possibile a prescindere dall’espressa previsione di legge.
[14] Cfr. R. Dipace, op. cit., 219 e ss., secondo il quale “trovandosi di fronte a strumenti consensuali, l’esigenza di garantire il privato, …, non viene in rilievo … L’unico momento dove riemerge l’esigenza di garanzia è quello della scelta del contraente, fase dominata dal diritto pubblico proprio per l’esigenza di impedire eventuali arbitri della amministrazione, la quale, quindi, è chiamata ad agire secondo parametri prestabiliti e procedimenti tipici e nominati” (pag. 221).
[15] Deve rilevarsi come sia frequente l’utilizzo da parte delle regioni dello strumento legislativo al fine di autorizzare la costituzione di società miste incaricate dello svolgimento di specifiche attività, soprattutto informatiche (si veda, ad es., la l. reg. Liguria n. 17/85 ai sensi della quale è stata istituita Datasiel s.p.a. incaricata della erogazione alla Regione dei servizi informatici; lo stesso vale per Laziomatica s.p.a., ora LAit s.p.a., istituita dalla regione Lazio in attuazione della l. reg. n. 20/2001). Anche a livello regionale, dunque, parrebbe esservi consapevolezza della necessità di una norma di rango legislativo che autorizzi la costituzione della società mista. |