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n. 10-2005 - © copyright |
ANGELO CLARIZIA
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La Corte suona il de profundis
per l’in house
1. Continua l’involuzione della Corte
di Giustizia in tema di in house, al fine
di ricondurre nell’alveo dei principi comunitari
un modulo organizzatorio, sostanzialmente ideato
dalla stessa Corte, ma poi “sfuggito di mano” con
effetti senz’altro pregiudizievoli per il mercato.
Come già sottolineato in precedenti scritti[1],
le affermazioni dell’organo di giustizia comunitario,
che lasciavano grandi spazi operativi in ragione
della ampiezza dei presupposti applicativi introdotti,
hanno spinto molte amministrazioni, soprattutto
locali, ad affidare direttamente (in particolare)
servizi e/o lavori a soggetti a partecipazione pubblica,
eludendo elementari regole di concorrenza.La Corte,
una volta resasi conto di tale situazione e delle
conseguenze correlate, ha interpretato in maniera
sempre più restrittiva i presupposti essenziali
dell’istituto, così limitandone al massimo l’operatività;
anzi con la sentenza
13 ottobre 2005 C-458/03 (concernente l’affidamento
diretto da parte di un Comune ad una società a totale
partecipazione pubblica della gestione di parcheggi
pubblici a pagamento), definitivamente vanificandone
la portata.In tal modo, come sempre accade in simili
evenienze, la Corte scopre il fianco ad evidenti
contraddizioni e suscita perplessità proprio in
relazione alla ricostruzione logico-giuridica dell’istituto,
che nel contempo potrebbero aprire la strada ad
ulteriori elusioni.
2. Il percorso logico della sentenza è comunque
interessante, perché si articola in affermazioni
su punti fondamentali.
Innanzitutto la differenza tra appalti pubblici
di servizi e concessioni di servizi e la disciplina
applicabile a queste ultime. Ormai per consolidato
orientamento tali contratti aventi lo stesso oggetto
(la prestazione di servizi) si distinguono solo
per la remunerazione del prestatore: per i primi
vi provvede il committente, per i secondi, in tutto
o in parte, i soggetti terzi.Come già sottolineato
anche dalla Commissione nella sua comunicazione
29 febbraio 1999 (sull’interpretazione delle concessioni
nel diritto comunitario) il discrimen è da
tempo fissato nel rischio che sopporta il concessionario,
remunerato non dalla stazione appaltante attraverso
un prezzo, ma da terzi attraverso i proventi della
gestione del servizio agli stessi prestato.Nel contempo
è altresì da tempo pacifica, da un lato, la esclusione
della concessione dall’ambito di operatività delle
direttive servizi, forniture e settori esclusi,
in quanto dalle stesse non prevista, dall’altro,
la soggezione delle stesse ai principi comunitari
di pubblicità, parità di trattamento e divieto di
non discriminazione in base alla nazionalità.La
Corte dalla combinazione del secondo e terzo principio
ricava un obbligo di trasparenza, per la cui attuazione
necessita l’espletamento di una procedura (quindi
non necessariamente di una gara comunitaria), che
garantisca parità di chances per tutti gli
offerenti, a prescindere dalla nazionalità Nella
delineata prospettiva per escludere l’applicazione
di detti principi non può invocarsi la circostanza
che trattasi di una situazione interna ad uno stato
membro, poiché comunque si può configurare una discriminazione
per lo meno potenziale a danno delle imprese degli
altri stati.Se è vero che tale accertamento sull’adeguatezza
delle modalità è rimesso alla autorità concedente
sotto il controllo del giudice competente, è altrettanto
pacifico che “la totale mancanza di una gara”
viola gli artt. 43 e 49 CE e i predetti principi:
di conseguenza gli stati membri non possono comunque
mantenere in vigore norme in contrasto con detti
principi.Secondo la Corte non può quindi consentirsi
che una norma nazionale legittimi l’attribuzione
di concessione di pubblici servizi senza gara, poiché
questa sarebbe in violazione degli artt. 43 e 49
e dei principi di parità di trattamento, di non
discriminazione e di trasparenza.
In tale prospettiva si sottolinea la criticità di
tutte le norme nazionali che consentono affidamenti
diretti.
Tale problematica trova ulteriore conferma nella
nuova direttiva 2004/18/CE (relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici
di lavori, forniture e servizi in corso di attuazione
in Italia), che espressamente disciplina anche la
concessione di servizi, affermando espressamente
la sola operatività dei principi del Trattato.Le
osservazioni svolte hanno per tale motivo ancor
più ampio rilievo, anche perché tale istituto continua
a non esser previsto dalla nuova direttiva 2004/17/CE
sui settori speciali, nell’ambito dei quali significativamente
lo stesso trova ampia attuazione.Ma l’aspetto più
importante riguarda la necessità di puntualizzare
la terminologia utilizzata al fine di evitare tentativi
di strumentale interpretazione elusiva.Per inquadrare
gli istituti e/o le fattispecie rilievo peculiare
assume la trasposizione di un termine nell’ambito
di un ordinamento nazionale: si pensi, ad esempio,
a tutto il dibattito ed ai “voli pindarici” in Italia
sulla concessione di lavori pubblici in relazione
al rilievo peculiare dell’istituto concessorio nella
tradizione amministrativistica nazionale.Così, anche
per quanto riguarda l’uso di termini, come “appalti
pubblici di servizi”, “appalti di servizi pubblici”,
“concessione di servizi”, “concessione di servizi
pubblici” (a maggior ragione oggi in sede di attuazione
della nuova direttiva), deve essere ben chiaro che
alla luce dei principi comunitari, quando l’attività
oggetto della concessione ha rilievo economico,
non vi è distinzione tra servizi e servizi pubblici,
sicchè non può pretendersi – in correlazione alla
tradizione pubblicistica – di escludere anche la
operatività dei principi comunitari; in tale senso
quanto mai chiara è la già citata comunicazione
del 1999 della Commissione sulle concessioni.
3. L’altro profilo rilevante riguarda la configurazione
dei rapporti in house.
Nella specie il Comune aveva affidato il servizio,
secondo i principi affermati dalla sentenza Teckal,
ad una società dallo stesso partecipata in via totalitaria,
ritenendo così soddisfatti i due canoni fondamentali
posti dalla Corte di Giustizia in materia: controllo
analogo a quello esercitato sui propri servizi e
realizzazione della maggior parte dell’attività
della società in favore dell’ente di appartenenza.In
proposito la Corte premette un’ovvia considerazione:
poiché l’in house rappresenta un’eccezione
alle regole del diritto comunitario, i presupposti
innanzi indicati devono essere interpretati in modo
restrittivo e l’onere della prova incombe su chi
intende avvalersene.Sulla scorta di tale premessa
la Corte individua la nozione di “controllo analogo”nell’influenza
determinante non solo degli obiettivi, ma anche
delle decisioni importanti della società in house:
evenienza che non può riscontrarsi, se gli organi
sociali, e in particolare il consiglio di amministrazione,
possono assumere tutte le decisioni di gestione
della società in piena autonomia nei confronti degli
azionisti – amministrazioni aggiudicatrici.Né può
assumere rilievo la facoltà di designare la maggioranza
o addirittura la totalità dei membri del consiglio
di amministrazione, poiché anche in tal caso non
si configura un rapporto di dipendenza azionisti-amministratori,
dipendenza, che, invece, si ritiene sussistere nel
collegamento funzionale tra comune e azienda speciale.Nel
contempo la Corte elenca (soltanto, senza alcuna
argomentazione specifica) altri indici sintomatici
ostativi alla configurazione del controllo analogo;
l’ampliamento dell’oggetto sociale, l’espansione
territoriale dell’attività a tutto lo stato e all’estero
e l’apertura obbligatoria della società al capitale
privato (nella specie ai sensi degli artt. 115 D.Lgs
267/00 e 88 n. 6 lett. B) T.U. EE.LL.).4. Alla luce
di tali affermazioni la pronuncia suona il de
profundis dell’in house, dopo
che con le sentenze Stadt Halle (11
gennaio 2005, C-26/03)e Co.Na.Me (21
luglio 2005 C-231/03) si erano posti alcuni
importanti limiti, con particolare riguardo alla
partecipazione anche minoritaria di un socio privato,
in ragione della considerazione dovuta all’interesse
di questi a detrimento di quello dell’amministrazione
aggiudicatrice.Proprio partendo da tali pronunce
la Corte ha ritenuto di non poter individuare il
presupposto del c.d. controllo analogo, qualora,
pure in relazione alle società (nell’attualità)
a partecipazione totalmente pubblica, sia previsto
l’obbligo di cedere una quota anche minoritaria
in futuro.Anche se sotto tale profilo la precarietà
del controllo del Comune non è stato oggetto di
un’adeguata motivazione, non possono non esprimersi
perplessità in ordine ad una valutazione ex ante,
senz’altro estranea a qualsiasi profilo di certezza
(come sottolineato dall’Avvocato Generale[2]),
soprattutto se rapportata all’ampiezza delle precedenti
affermazioni.Né può tralasciarsi che, se mancano
le previsioni legislative e/o statutarie di un obbligo
di apertura al capitale privato, resta pur sempre
ferma la potenziale capacità di circolazione dei
soci, tipica dello strumento societario, che potrebbe
comunque determinare l’eventuale successiva partecipazione
di privati con evidenti conseguenze elusive. Infatti,
salvo a prevedere nella convenzione una clausola
di decadenza (o di risoluzione) della concessione
in caso di ingresso di soci privati, il rapporto
amministrazione – società non può essere risolto
a discapito dell’effettività della norma comunitaria.Ma
l’aspetto che merita maggiore approfondimento è
senz’altro quello dell’autonomia degli organi societari,
trattato in modo troppo semplicistico e contraddittorio
rispetto a precedenti pronunce, soprattutto se lo
si pone a confronto con le conclusioni dell’Avvocato
Generale Juliane Kokott e se si pone ancora una
volta attenzione alla estrema stringatezza delle
motivazioni lussemburghesi, che aumentano sempre
i problemi interpretativi.È ovvio che in una società
il consiglio di amministrazione decide in piena
autonomia e che non può pretendersi di configurare
una dipendenza identica a quella esercitata tra
organi e uffici all’interno di una organizzazione
pubblica: altrimenti sono in discussione la stessa
prospettiva e la filosofia della personalità giuridica
e della distinzione soggettiva. Se si pone l’accento
sulle motivazioni dovrebbero ritenersi di per sé
inconferenti le affermazioni della Corte che per
giustificare l’in house aveva ritenuto “se
un’amministrazione aggiudicatrice esercita su un
soggetto distinto dalla stessa un controllo “analogo
a quello da essa esercitato sui propri servizi”,
questo non può considerarsi “terzo” nei confronti
del committente, sicchè manca l’indefettibile presupposto
per configurare un vero e proprio appalto e quindi
per ritenere applicabile la normativa comunitaria”.Quindi
– per restare nell’ambito della precedente ricostruzione
della Corte, dalla stessa oggi non rinnegata ed
incentrata sulla sostanziale carenza di terzietà
– bisogna focalizzare l’esercizio del controllo
sui propri servizi in termini di analogia, caso
per caso, e non attraverso affermazioni generiche,
che diventano addirittura fuorvianti, quando la
Corte assume come riferimento il modello dell’azienda
speciale, i cui organi si ritengono invece assoggettati
ad un “controllo analogo a quello effettuato sui
propri servizi”.
E’ evidente l’equivoco.
Anche gli organi dell’azienda deliberano in piena
autonomia: in passato poteva sussistere un controllo
sugli atti, ma era del tutto esterno, eccezionale
e limitato. L’essenza delle origini e del ruolo
dell’azienda era invece incentrato proprio sull’autonomia
imprenditoriale e sulla piena potestà decisoria
dei suoi organi.D’altronde anche nei confronti dei
propri servizi gli enti, anzi gli organi degli enti,
esercitano un controllo, che pur sempre rispetta
l’autonomia agli stessi attribuita.Se la Corte intende
detto controllo in termini di rapporto gerarchico,
caratterizzato dalla fungibilità tra sovraordinato
e sott’ordinato, è pacifico che non può ipotizzarsi
in astratto la riconducibilità a nessun modello
di persona giuridica o di soggetto comunque terzo.
Forse solo il modulo consortile potrebbe ricondurre
l’attuale configurazione della Corte, ma sempre
– restando nella delineata prospettazione della
sentenza –, se vi è identità soggettiva tra consorziati
e membri dell’organo decisionale.In sostanza se
la Corte manterrà ferma la delineata interpretazione
“le forme giuridiche di diritto privato non potrebbero
più essere utilizzate ai fini di una mera organizzazione
interna” e quindi di configurare un rapporto in
house, come aveva correttamente sottolineato
l’Avvocato Generale[3], il quale propendeva
per una configurazione funzionale delle norme incentrate
sulla capacità dell’amministrazione di incidere
in modo da parametrare in qualsiasi momento la realizzazione
degli obiettivi fissati all’interesse pubblico,
ricollegandosi alla ratio della sentenza
Stadt Halle. Tale pronuncia – solo
pochi mesi fa, come quelle precedenti – legittimava
l’in house per i soggetti a totale partecipazione
pubblica, poiché in tali casi il perseguimento degli
interessi dell’Amministrazione si riteneva assicurato
dai rappresentanti nominati dall’ente negli organi
societari, che in ragione del mandato conferito
devono rispettare le direttive impartite dall’ente,
assicurando così il “controllo analogo”.Proprio
la peculiarità delle motivazioni delineate manifesta
le preoccupazioni non tanto sul renvirement
della Corte senz’altro scontato in ragione della
necessaria riconduzione della fattispecie al rispetto
dei principi comunitari, quanto sulla valenza delle
argomentazioni svolte nelle precedenti pronunce
(anche in relazione a società a partecipazione pubblica)
e in quelle delineate oggi per superarle.Resta l’apertura
consentita nei settori speciali, per i quali oggi
–proprio a seguito della previsione nelle altre
direttive delle concessioni di servizi – assume
maggior rilievo l’affidamento diretto a controllata
(quindi anche a partecipazione privata), con tutti
i problemi connessi all’individuazione dei presupposti
applicativi, anche per quanto riguarda la prevalenza
delle attività prestate in favore dell’amministrazione
di appartenenza (sui quali vedi gli spunti interessanti
nelle conclusioni dell’Avvocato Generale) e la natura
privata dei soggetti committenti in detto settore.
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[1] Vd., in Giustamm.it, A.CLARIZIA,
Il
privato inquina: gli affidamenti in house
solo a società a totale partecipazione pubblica;
IDEM, Appalti
in house : il Consiglio di Stato tenta di forzare
la Corte di Giustizia; IDEM, Tendenze
e prospettive in tema di esternalizzazione
[2] Vd. in Giustamm
Conclusioni dell’Avv. Generale Kokott del 1 marzo
2005, con commento di A. Colavecchio, Affidamento
in house: nuovi criteri dalla Corte di giustizia?
[3] L’Avvocato Generale nelle sue conclusioni sembra
comunque mosso da preoccupazioni di carattere politico
“Tuttavia un interveto così incisivo sulla supremazia
organizzativa degli Stati membri e segnatamente
sull’autogoverno di tanti Comuni non sarebbe affatto
necessario neppure alla luce della funzione di apertura
dei mercati svolta dalla disciplina sugli appalti.
Difatti, lo scopo della normativa sugli appalti
è di garantire una scelta trasparente ed imparziale
dei contraenti ogniqualvolta la pubblica amministrazione
decida di svolgere i propri compiti con la collaborazione
di terzi. Non rientra invece nella ratio della disciplina
sugli appalti la realizzazione di una privatizzazione
«di straforo» anche di quei servizi pubblici che
la pubblica amministrazione voglia continuare a
fornire con mezzi propri; a questo scopo sarebbe
necessario che il legislatore compisse passi più
concreti verso la liberalizzazione”.
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