Seminario sul Libro di N. LONGOBARDI “Il declino italiano” Passigli Editore 2021. Relazione di Vera Fanti

Dottrina: Seminario sul Libro di N. LONGOBARDI “Il declino italiano” Passigli Editore 2021. Relazione


Sommario: 1. Presentazione dei profili analizzati. – 2. Il rapporto politica-amministrazione. – 3. La certezza del diritto: un valore in discussione. – 4. Conclusioni.

1. Presentazione dei profili analizzati.
Il libro del prof. Longobardi è una vera miniera di riflessioni su tutto il diritto amministrativo e, dunque, la maggiore difficoltà per preparare il mio intervento è stata quella di scegliere un argomento, un profilo su cui soffermarmi con maggiore attenzione.
E così, ne ho scelti due (a mio avviso intimamente collegati), preferendo evidenziare alcuni aspetti trattati nel libro su cui ho avuto modo di riflettere in passato, seppure in una diversa prospettiva.
Il primo aspetto riguarda il rapporto tra politica e amministrazione, rapporto che negli ultimi anni si è andato complicando per l’adozione di numerose riforme legislative e per la giurisprudenza amministrativa e costituzionale. Nello specifico, mi soffermerò sulle criticità evidenziate da Longobardi e relative alla prassi generata a seguito della riforma iniziata con il d.lgs. n. 29 del 1993, che ha, nella prospettiva dell’Autore, impedito un funzionamento efficiente e, soprattutto, imparziale della P.A.
Il secondo aspetto, invece, riguarda la certezza del diritto, o meglio, la mancanza di certezza del diritto, individuata da Nino Longobardi come un’ulteriore causa del declino italiano. Da qui, l’attenzione sulla necessità che i giudici, al pari dei dirigenti, vengano scelti con criteri diversi dalla sola conoscenza del diritto, e sulla politicizzazione che caratterizza alcune giurisdizioni (in primis, il Consiglio di Stato). Tali fenomeni, infatti, a giudizio dell’Autore, andrebbero contrastati al fine di realizzare la certezza del diritto, vista non come prodotto semplificato, bensì come sintesi di principi e valori condivisi.

2. Il rapporto politica-amministrazione.
Nino Longobardi ritiene, sulla base della sua attività di studioso e avvocato, che le ragioni del declino economico italiano si siano verificate a partire dagli anni ’90 del secolo scorso e siano da ricercare nel sistema istituzionale. E cercando di risalire alle cause della degenerazione delle istituzioni, punta il dito sul rapporto politica-amministrazione, ovvero, più in generale, sull’inadeguatezza delle istituzioni italiane. Egli, infatti, rileva che, a fronte di un mutato contesto internazionale basato sull’innovazione tecnologica (e direi anche sulla globalizzazione), le istituzioni italiane non sono state in grado di rafforzare la capacità competitiva del nostro Paese e di favorire il passaggio ad un’economia basata sull’innovazione (l’Autore ricorda il recente rapporto dell’autorevole istituto americano Pew Research Center che, in tema di percezione della qualità delle istituzioni in 27 paesi del mondo, considera l’Italia al penultimo posto, meglio soltanto della Grecia).
Secondo Longobardi vi è stato un progressivo scadimento della qualità della classe politica dopo il 1992, attestato dal peggioramento del livello di istruzione e della qualità degli eletti in parlamento, e accompagnato da un forte incremento dello stipendio dei parlamentari (sulle anomalie di alcune retribuzioni, Longobardi è critico, ma assolutamente lucido. Egli parla: di una “crescita decisamente anomala delle retribuzioni dei dirigenti pubblici e, in particolare, di quelli statali apicali legati da un rapporto fiduciario con il ministro”; delle retribuzioni dei magistrati italiani, tra le più alte all’interno dei paesi OCSE, tenute al riparo dalle restrizioni di finanza pubblica imposte dalla crisi finanziaria del 2007; delle retribuzioni dei professori universitari, scivolate, negli ultimi anni, agli ultimi posti tra i paesi europei).
Ebbene, proprio in riferimento all’annoso rapporto politica-amministrazione, Longobardi evidenzia le deleterie conseguenze prodotte dalla c.d. privatizzazione del pubblico impiego operata dal nostro legislatore con il d.lgs. n. 29 del 1993; una scelta, questa, definita “errata nei presupposti” e che ha condotto la dirigenza pubblica anche dello Stato, “proprio nel momento in cui doveva essere rafforzata, alla mercé della politica”.
Longobardi utilizza il termine di “congiuntura critica” (ovverossia, il complesso di eventi e fattori economici che, alterando gli equilibri politici ed economici di una società, possono incidere sulla direzione di un paese, in positivo attraverso l’emersione di istituzioni inclusive, in negativo, indirizzando in senso estrattivo le istituzioni). E, relativamente al sistema italiano, l’Autore ritiene che la congiuntura critica possa essere individuata proprio con le vicende dei primi anni ’90 che hanno visto, in particolare, il forte ricambio della classe dirigente.
La rincorsa alla privatizzazione della disciplina del lavoro nella P.A. ha mostrato i suoi punti deboli più rilevanti, soprattutto in riferimento alla figura del dirigente pubblico. Anzi, come sottolinea Longobardi, la contrattualizzazione dei dirigenti pubblici ha ridotto il grado di separazione tra politica e amministrazione, in palese contraddizione, se vogliamo, con l’obiettivo dichiarato della riforma del 1992 e ha esteso il c.d. “patronaggio politico”.
È stato rilevato in dottrina, ed anche in alcuni miei precedenti lavori[1], come la contrattualizzazione presupponga la presenza, in ciascuna amministrazione, di un vero e proprio “datore di lavoro” che evochi, in qualche modo, il titolare dell’impresa privata. Tuttavia, “mentre il datore di lavoro privato c’è, quello pubblico va costruito”[2]: ed il datore di lavoro dei dipendenti nell’amministrazione pubblica non può che essere impersonato da un dirigente, il quale, però, se a sua volta contrattualizzato, non può avere, quale propria controparte datoriale, una figura politica: insomma, “in linea di principio è contraddittorio creare una relazione di lavoro tra politici ed alti dirigenti nello stesso momento in cui si tenta di stabilire un preciso regolamento di confini tra politica e amministrazione, basato su sfere di autonomia, in vista di un bilanciamento istituzionale tra potere politico e potere burocratico”[3]. Ne deriva che, mentre nel settore privato esiste una sola figura imprenditoriale-manageriale, nel settore pubblico questa figura si sdoppia in due diverse componenti: la componente politica e quella amministrativa. Si crea, così, un “giano-bifronte” che riprende quella doppiezza classica, insita nella natura delle cose, che era stata già evidenziata dagli antichi greci.
Ed è questo l’aspetto contraddittorio dell’attuale assetto istituzionale. Non a caso Longobardi, nella parte finale della sua monografia, utilizza il termine “azzardo istituzionale” con riferimento alle strategie della classe politica e agli esiti incoerenti delle riforme della P.A. e, più in generale, dello Stato.
Come già rilevato, nel secondo capitolo del libro, intitolato “Grandi temi istituzionali tra credenze e realtà con esse contrastanti”, Longobardi si sofferma sul grande tema “Amministrazione pubblica e suo statuto”, evidenziando come l’esigenza di separazione dell’amministrazione dal Governo si sia affermata con forza già dall’entrata in vigore della Costituzione italiana, con gli artt. 97 e 98. Ciò, a mio avviso, nonostante nel nostro ordinamento vigesse, all’epoca, un modello per molti versi opposto a quello attuale. Infatti, come è noto, due sono i modelli storicamente succedutisi, nel tempo, volti a disciplinare il rapporto tra politica e amministrazione[4]. Il primo, definito “a responsabilità ministeriale”, strumento classico dello Stato liberale; il secondo “a competenze differenziate”, attualmente vigente, fondato sull’esigenza di evitare quelle interferenze tra politica e amministrazione che, agli inizi degli anni ’90, avevano interessato le cronache giudiziarie (a partire dalle note vicende di Tangentopoli e del finanziamento pubblico dei partiti). Entrambi i modelli, seppur così diversi tra loro per contenuti e funzioni, sono apparsi sempre conformi al testo costituzionale, sebbene con motivazioni diverse, tanto da poter considerare superata la apparente “antinomia” tra alcune disposizioni costituzionali (artt. 95, 97 e 98 Cost.) che non sembrano escludere nessuno dei due modelli appena indicati[5].
Ne consegue, a giudizio di Longobardi, la centralità della legge nella disciplina fondamentale del rapporto di lavoro del funzionario pubblico (il c.d. statuto pubblicistico), i cui principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità, se da un lato impongono oggi la separazione tra politica e amministrazione, dall’altro richiedono applicazioni differenziate in relazione alle diverse funzioni e ai modi del loro esercizio. Da qui, il riferimento ad amministrazioni in posizioni di relativa indipendenza rispetto all’indirizzo politico, secondo un “modello regolativo-giustiziale” proprio delle autorità amministrative indipendenti, la cui funzione istituzionale di regolazione è intesa in senso ampio: è, infatti, la legge a conferire all’autorità un mandato pieno con riguardo al settore affidatole, con adeguati poteri, oltre ad essere garantita la sua indipedenza dal governo e dai soggetti regolati. In tali organizzazioni, le problematiche qui affrontate possono risolversi, rappresentando un particolare strumento di armonizzazione tra valori come la regolazione, l’amministrazione e la giurisdizione.
Longobardi pone al centro delle sue osservazioni la Costituzione, con la sua funzione stabilizzante, con la certezza delle regole e dei principi da essa posti. Più scettico, invece, si mostra nei confronti degli organi di garanzia, ad es. la Corte Costituzionale che non sembra essere stata in grado di contrastare adeguatamente la politicizzazione della dirigenza pubblica.
E dopo aver illustrato in maniera capillare le varie riforme per lo più amministrative, (e soprattutto i numerosi tentativi di riforma), che hanno riguardato il nostro ordinamento, si sofferma, nella parte finale del lavoro, sul modello generale di amministrazione imposto dal d.lgs. n. 29 del 1993, definito una “artificiale costruzione dislocatrice di poteri”, modello, a suo avviso, connotato da irrazionalità e criticità, in quanto fondato su falsi presupposti di ordine generale.
Il primo falso presupposto è rappresentato, a suo dire, da una generale e acritica assimilazione tra impresa privata e pubblica amministrazione. Quest’ultima non è e non può diventare una vera e propria attività imprenditoriale: il valore centrale deve essere costituito dall’imparzialità. E invece, nel nostro paese, la legislazione, la giurisprudenza, ma anche la dottrina hanno spesso contrapposto l’efficienza alla imparzialità, vista come ostacolo al raggiungimento di alti traguardi di rendimento delle strutture pubbliche. In tal modo, si è persa l’imparzialità e non si è guadagnata l’efficienza.
Il secondo falso presupposto sul quale si fonda il modello generale di amministrazione delineato dal decreto del 1993 è proprio la separazione tra politica e amministrazione sulla base della distinzione tra direzione politica e gestione amministrativa, rappresentandosi così un’immagine dei dirigenti chiamati a rispondere dei risultati alla stregua dei manager dell’impresa privata. In altri termini, i concetti di stabilità e garanzie tradizionalmente riconosciute vengono sostituiti da premi e sanzioni collegati alla valutazione dei risultati. E questo aspetto, secondo Longobardi, è il più pericoloso e fallace: proprio il ruolo autonomo dei dirigenti (che sono direttamente esposti perché sono gli unici responsabili dell’attività amministrativa) richiede necessariamente un rafforzamento delle garanzie giuridiche, affinché essi siano messi al riparo da pressioni e condizionamenti soprattutto ad opera dei politici, al fine di non ledere il valore dell’imparzialità.
Al contrario, assistiamo ad un fenomeno di “politicizzazione” dell’amministrazione. Longobardi parla di un “mercato di dirigenti pubblici, nel quale i peculiari acquirenti consumatori sono i vertici politici e i vertici amministrativi fiduciari dei primi”.
In quest’ottica, determinante è stato l’istituto dello spoils system, che si è declinato nel tempo in due diverse forme: lo spoils system c.d. “in senso stretto” e quello “in senso lato”. Lo spoils system in senso stretto consiste nello strumento in base al quale, cambiando il vertice politico, si produce, quale effetto automatico, la decadenza del dirigente dall’incarico. Tale meccanismo è stato applicato dalla disciplina generale contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001 a pochi incarichi dirigenziali ma poi, con altre norme c.d. una tantum, si è esteso a tutte le posizioni dirigenziali.
La seconda tecnica, c.d. spoils system in senso lato, consiste nel principio di temporaneità degli incarichi dirigenziali (la c.d. dirigenza precarizzata). Come sostiene sul punto Longobardi, il dirigente si vede negato il diritto all’ufficio, in quanto la qualifica dirigenziale acquisita per concorso pubblico non garantisce più l’esercizio effettivo di funzioni, ma l’accesso ad una PA riformata, in cui si può essere dirigente senza fare il dirigente.
E proprio attraverso la creazione di una dirigenza a carattere fiduciario, sottoposta, nella nomina così come nella revoca, agli “umori” della classe politica, gli organi di governo si sono riappropriati delle scelte operative e gestionali che ad essi erano stati sottratte con il passaggio dal modello a responsabilità ministeriale al modello a competenze differenziate. Il principio della distinzione funzionale tra politica e amministrazione, affermatosi con nettezza nella forma, è stato aggirato nella sostanza mediante la fidelizzazione politica della dirigenza[6].
L’attuazione dello spoils system nel nostro ordinamento, con la decadenza automatica degli incarichi dirigenziali in deroga ai principi costituzionali che connotano in via generale il pubblico impiego, ha generato, com’è noto, un ampio dibattito. In particolare, è emerso che l’introduzione del criterio della fiducia nel rapporto politica-amministrazione è contrario al disegno costituzionale: dai principi contenuti negli artt. 97 e 98 Cost. (legalità, imparzialità, indipendenza e buon andamento della pubblica amministrazione) risulta, infatti, che la posizione complessiva del dipendente pubblico è regolata per sottrarla ai condizionamenti dei partiti (e dei governi).
Da qui, una serie di ricorsi dinanzi alla Consulta volti a sollevare questioni di legittimità costituzionale di un sistema che metteva in forse il criterio di imparzialità nell’azione dei pubblici poteri. Si sono avute numerose pronunce della Corte Costituzionale con le quali la Consulta ha cercato di precisare i contorni del c.d. spoils system, al fine di ristabilire i giusti confini fra la sfera politica e quella amministrativa.
All’inizio la Consulta si è dimostrata a favore di un sistema di attribuzione fiduciario degli incarichi dirigenziali che implicasse la decadenza automatica delle nomine conferite intuitu personae al mutare degli organi di indirizzo politico[7].
Successivamente, però, la Corte Costituzionale ha modificato tale orientamento e con le note sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 (ribadite anche in seguito con ulteriori pronunce) ha sancito l’illegittimità costituzionale dei meccanismi dello spoil system in senso stretto per contrasto con tre principi della Costituzione: buon andamento (sotto il profilo della continuità dell’azione amministrativa), imparzialità e giusto procedimento. In particolare, la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile una disciplina legislativa che consenta al vertice politico di rimuovere i dirigenti a prescindere dal rispetto pieno dell’obbligo di contraddittorio e dell’obbligo di motivazione.
Successivamente la Corte, con la sentenza n. 351 del 2008, e sulla scia di quanto sostenuto nelle precedenti pronunce del 2007, ha ribadito che il rapporto di lavoro dirigenziale dovesse essere caratterizzato da stabilità, essendo questa coerente con il principio di imparzialità della pubblica amministrazione. Ha sostenuto, inoltre, che non si potesse consentire che, per effetto del mutamento della titolarità dell’organo di indirizzo politico, venissero a cessare automaticamente incarichi in corso, legittimamente conferiti dal precedente titolare dell’organo e ciò senza garanzie procedimentali e in assenza di ogni valutazione di risultato. Sulla base di tali considerazioni, la Consulta ha osservato come forme di riparazione economica, quali il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non potessero rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi.
Ed ancora, la Consulta, con sentenza del 5 marzo 2010, n. 81, ha inflitto un altro stop all’uso c.d. “spregiudicato” dello spoils system. Riprendendo le precedenti decisioni in materia, infatti, la Corte costituzionale ha ribadito con fermezza che la previsione di un meccanismo di decadenza automatica degli incarichi dirigenziali a seguito del ricambio politico, non collegato ad un accertamento in concreto e in contraddittorio della responsabilità dirigenziale, strideva con il principio di distinzione funzionale tra politica e amministrazione.
Appare chiaro, quindi, il ruolo assunto dalla Corte che, attraverso vari interventi, ha invitato il legislatore ad adeguare l’impianto normativo alle problematiche e alle esigenze denunciate, così da costituire un meccanismo di verifica e di valutazione della classe dirigenziale oggettivo e funzionale e, soprattutto, non rimesso alla scelta arbitrale della politica.
Tuttavia, Longobardi definisce il ruolo svolto in questi anni dalla Corte costituzionale sul punto come “timido, tardivo, parziale e ondivago”.
Infatti, l’Autore evidenzia come il giudice delle leggi si sia limitato a censurare le forme più gravi in tema di decadenza automatica e revoca degli incarichi, stabilendo che la decadenza possa riguardare solo i titolari degli organi apicali della P.A. nominati dai politici e che partecipano alla definizione dell’indirizzo politico. Ciò al fine di non violare la continuità dell’azione amministrativa che costitusce un presupposto del buon andamento della P.A.
Inoltre, Longobardi ricorda come da ultimo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 23 del 2019, abbia ritenuto legittime le norme che consentono ai sindaci di disfarsi dei segretari comunali in carica, in patente contraddizione con la propria precedente e consolidata giurisprudenza.
In sostanza, ciò che emerge dall’analisi del libro è l’immagine di un’Amministrazione che si potrebbe definire “difensiva”, nel senso che i dirigenti, pressati tra le esigenze di essere riconfermati e di evitare il carico di responsabilità esclusiva che ricade su di loro, preferiscono non decidere, rimandare, servirsi dei cavilli e dell’oggettiva complessità di alcune normative (si pensi al codice degli appalti pubblici) per non affrontare questioni che, al contrario, dovrebbero garantire l’efficacia e l’efficienza della P.A.
Longobardi scrive, con un pizzico anche di pessimismo: “L’amministrazione è allo sbando. La legislazione procede a tentoni”.
Appare, dunque, necessario ristabilire un clima di fiducia: per raggiungere tale obiettivo, come auspica l’Autore, occorrerebbe restituire all’amministrazione pubblica autorevolezza, imparzialità e stabilità nelle cariche e nelle funzioni, valorizzando il merito ed eliminando quella politicizzazione che oggi sembrerebbe manifestare un vero e proprio asservimento della funzione pubblica agli organi elettivi. Ma per fare questo, a mio avviso, non bastano le leggi, i regolamenti e la giurisprudenza, quanto una crescita culturale della classe sia politica, sia burocratica, fondata in entrambi i casi sui valori di responsabilità, autonomia, giustizia, buon senso, impegno, capacità innovativa, conoscenza e apertura alle nuove tecnologie.

3. La certezza del diritto: un valore in discussione.
Longobardi evidenzia un’altra importantissima causa del declino italiano. La giustizia amministrativa viene accusata di un eccesso di deference verso l’amministrazione pubblica, che la colloca in una situazione di “ambiguità” che riflette la strutturale duplicità del diritto amministrativo, caratterizzato, come dice Pajno, “da due anime, una legata all’imperium ed alla natura esorbitante del potere, l’altra alla garanzia nei confronti del potere”. E lo stesso giudice amministrativo, privato dell’interlocutore essenziale costituito da una dirigenza amministrativa stabile protetta dal rapporto di diritto pubblico, diventa lui stesso titolare di incarichi di amministrazione attiva (alta burocrazia) nei ministeri.
Longobardi ritiene che la certezza del diritto richieda oggi da parte della giurisdizione decisioni autorevoli e ponderate, guidate dai principi di razionalità e proporzionalità, oltre che indirizzate alla tutela dei diritti fondamentali, come si richiede in uno Stato di diritto. Quindi, occorre che la certezza del diritto derivi, anche (e soprattutto), dalla qualità degli attori, in primis dei giudici, oltre che dai “congegni istituzionali diretti ad assicurarla” (in questo caso Longobardi richiama il vincolo del precedente giuridico che, secondo le parole di North, “offre la continuità e la prevedibilità essenziali a ridurre il livello di incertezza tra le parti contraenti”. Anche se, a mio avviso, un minimo di incertezza consente di adeguare la giurisprudenza all’evoluzione della società e non è, quindi, in via generale, del tutto negativa).
Ulteriormente, Longobardi si interroga sull’adeguatezza dell’attuale assetto organizzativo e funzionale del potere giudiziario.
Il problema che evidenzia attiene ad una diversa formazione e ad una maggiore qualificazione e selezione dei giudici. A suo avviso, la selezione deve assicurare l’accesso alla funzione giurisdizionale, soprattutto nei posti più elevati, a personalità esterne, non individuate dal ceto politico, “bensì riconosciute per competenza e integrità professionale dalla comunità degli operatori del diritto”.
Longobardi ritiene, infine, che, per realizzare una piena indipendenza del giudice amministrativo, occorra “troncare i rapporti con il governo” e per far ciò sottolinea come siano indispensabili due passaggi: 1) abrogare le disposizioni che attribuiscono al governo il potere di nominare un quarto di Consiglieri di Stato; 2) togliere al Governo il potere sostanziale di nominare il Presidente del Consiglio di Stato e di individuare i magistrati chiamati a rivestire incarichi nelle amministrazioni, ove sia ritenuto necessario (e Longobardi sul punto è scettico) lo svolgimento di questa attività extragiudiziaria.
In definitiva, secondo Longobardi, avere dei buoni giudici può rappresentare un vero e proprio antidoto alle degenerazioni che, come si è visto, possono interessare anche i rapporti tra politica e amministrazione.

4. Conclusioni.
Queste mie riflessioni vogliono essere un omaggio al prof. Longobardi, il quale si è sempre segnalato all’interno della dottrina amministrativistica italiana per una spiccata originalità che lo ha portato ad interessarsi di profili di grande interesse.
In quest’ultimo libro la predetta originalità si coniuga con una serrata analisi critica dei principali fenomeni del diritto amministrativo in una curvatura storica che ben evidenzia l’evoluzione del diritto amministrativo, della giustizia amministrativa, della giustizia costituzionale e della legislazione degli ultimi tre decenni.
Un riflessione profonda e sincera, che rispecchia la sua autonomia di pensiero e che sicuramente è in grado di fornire ulteriori stimoli intellettuali ai giovani studiosi e, in particolare, ai dottorandi che seguono queste nostre riflessioni.

[1] Fanti V., Politica e amministrazione tra storia e attualità: a proposito della figura del dirigente pubblico, in Diritto e processo amministrativo, 2011, 817-917; Id., Commento all’art. 107 del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, in  AA.VV., a cura di G. Ferrari – G. Ferrari, La disciplina del pubblico impiego e dei concorsi, 2010, vol. I, 1157-1199, Roma, Nel Diritto Editore; Id., L’ “atto politico” nel governo degli enti locali, in Diritto e processo amministrativo, 2008, vol. 2, 433-520, in particolare da pag. 505 in poi.
[2] Battini S., Un vero datore di lavoro per il settore pubblico: politico o amministrativo?, in Giorn. dir. amm., n.5, 2009, 475.
[3] Così Rusciano M., Problemi sulla contrattualizzazione del lavoro pubblico, in Il diritto del lavoro, 1998, 224.
[4] Follieri E., Politica e amministrazione nella Costituzione, in Costituzione e ordinamento giuridico, Atti del Convegno per il decennale della Facoltà di Giurisprudenza – Foggia, 24-25 novembre 2006, a cura di Lorusso S., Milano, 2009, 63 e ss.; Merloni F., Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Il modello italiano in Europa, Bologna, 111 e ss.
[5] Fanti V., Politica e amministrazione tra storia e attualità: a proposito della figura del dirigente pubblico, cit., 862 e ss.
[6] Fanti V., Politica e amministrazione tra storia e attualità: a proposito della figura del dirigente pubblico, cit., 884 e ss.
[7] Corte cost., 16 giugno 2006, n. 233.