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n. 10-2012 - © copyright |
ALESSANDRO AULETTA
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L’incertezza dell’identità del Codice
del processo amministrativo persiste anche dopo i c.d. correttivi: alcune
brevi osservazioni
In uno dei primi commenti all’articolato
(provvisoriamente) definitivo del d.lgs. 104 del 2010, ci si
chiedeva se la riforma potesse essere qualificata come Codificazione
in senso proprio ovvero (più semplicemente, e con notevole
ridimensionamento delle ambizioni iniziali) come raccolta
compilativa di regole preesistenti (elaborate a livello legislativo
e/o pretorio) [CAPONI, La riforma del processo amministrativo:
primi appunti per una riflessione, in www.giustamm.it].
Dopo l’approvazione dei correttivi
(d.lgs. 195 del 2011 e d.lgs. 160 del 2012), la risposta al riferito
interrogativo è, a nostro avviso, che non si tratta né di un Codice
né, con apparente paradosso, di una mera compilazione; deve
piuttosto registrarsi un costante (e preoccupante) alternarsi di
prese di posizione discordanti da parte del Legislatore (in specie
di quello delegato) e della giurisprudenza, che spesso si è
orientata e si orienta (e probabilmente, viste le carenze del dato
positivo, pur dopo i correttivi, si orienterà) formulando soluzioni praeter codicem.
Non un Codice, quindi, almeno se ci si
riferisce all’accezione pregnante di questo termine.
Il Codice
del processo amministrativo, specie dopo le “mutilazioni” subite
dalla bozza licenziata dalla Commissione speciale istituita presso
il Consiglio di Stato (e formata, quasi a rispecchiare la matrice
composita del diritto amministrativo, processuale ma non solo, da
giudici amministrativi, studiosi ed esponenti del foro, libero ed
erariale), ha probabilmente abdicato alla funzione tipica di un
Codice: quella di fornire una precisa identità ad un sistema
(in questo caso processuale) incarnando, nei limiti del possibile,
una mutata sensibilità sociale riguardo all’oggetto
disciplinato; nonché a quella di essere il coronamento di un disegno
politico; quando addirittura non si vogliano scorgere funzioni
ulteriori (oggi impensabili), come quella di educare i cittadini al
corretto uso della lingua, come si ricava dall’aneddoto, sovente
raccontato alle matricole dei corsi di laurea in giurisprudenza,
secondo cui si raccomandava ai cittadini francesi, nello scrivere e
nel parlare, di imitare lo stile chiaro e conciso delle disposizioni
del Code Napoleon [SAITTA N., Verso una risciacquatura in
Arno del codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it, ha al contrario causticamente stigmatizzato
la cattiva formulazione delle norme del Codice del processo
amministrativo, anzitutto dal punto di vista del rispetto della
grammatica italiana]. Di certo è definitivamente tramontato il mito della Codificazione, collegato alle istanze del
giuspositivismo Ottocentesco: oggi nessun Professore di diritto
privato (o di qualsiasi altra materia “codificata”) farebbe
affermazioni del tipo di quella di Jean Bugnet: “io non insegno il
diritto civile, io insegno il Codice Napoleone”.
Se è vero, come
ricorda lo storico del diritto Van Caenegem [I signori del
diritto, trad. it. Milano, 1991, spec. 131 e ss.], che la
Codificazione ha storicamente rappresentato un “un’arma contro la
magistratura, ovvero contro quella casta della noblesse de
robe che possedeva le proprie cariche e si appellava a nebulosi
principi generali che non erano messi per iscritto”, la produzione
giurisprudenziale registratasi in questi due anni di vigenza del
d.lgs. 104 del 2010 – assai copiosa ed innovativa – ci mostra
l’immagine di un Giudice amministrativo quanto mai lontano
dall’(altrettanto tramontato) ideale, predicato da Montesquieu
[De l’esprit des lois, 1748], del funzionario bouche de la
loi. Basti ricordare – ma sul punto si tornerà più
approfonditamente –quanto la Plenaria (decisioni nn. 3 e 15 del
2011) ha affermato in tema di azione di accertamento e di azione di
adempimento, in linea con l’intendimento della nuova dimensione
(dall’atto al rapporto) del processo amministrativo, chiamata
com’era a svolgere, in pratica, una funzione di supplenza del
Legislatore delegato che aveva ritenuto opportuno, per imprecisate
ragioni di contenimento della spesa pubblica, non riprodurre
nell’articolato definitivo le norme (presenti nella bozza
predisposta dalla Commissione speciale) che disciplinavano tali
azioni [la fallacia di tale argomento giustificativo è stata posta
in luce dal MERUSI, A volte ritornano… il correttivo del
correttivo del codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it. Le critiche all’atteggiamento rinunciatario
del Legislatore delegato sono state pressoché unanimi in dottrina:
si vedano anche ROMANO TASSONE, Così non serve a nulla, in www.giustamm.it; SAITTA N., Il codice che poteva
essere, ivi; FOLLIERI, La natura giuridica dell’articolato
provvisorio denominato codice del processo amministrativo, ivi,
che propende, pur con qualche cautela, per la qualificazione del
d.lgs. 104 del 2010 in termini di “codice di nuova generazione”].
Ma il lavorio giurisprudenziale ha riguardato, con eguale grado
di innovatività, anche aspetti non altrettanto centrali sotto il
profilo sistematico: si allude, per esempio, alla giurisprudenza che
ritiene - andando al di là del dato letterale (negativo) della
mancata riproduzione nel Codice di rito della norma, contenuta
nell’art. 45, comma 3, della bozza, secondo cui “il giudice deve
comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui
esame non possa con evidenza derivare alcuna utilità per il
ricorrente” - che la prassi dell’assorbimento dei motivi si
pone in contrasto con il nuovo modo di intendere il processo
amministrativo e cioè come giudizio sul rapporto [T.A.R.
Toscana, Firenze, Sez. II, 5 ottobre 2011, n. 1443, ma vedi contra, nel senso della permanenza della regola
dell’assorbimento dei motivi, T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 2
agosto 2011, n. 439].
Anche l’altra opzione definitoria – cioè
che il d.lgs. 104 del 2010, non incarnando lo spirito autentico di
una Codificazione in senso proprio, vada guardato alla stregua di un
“riassunto delle puntate precedenti”, non dettando un programma per
il futuro ma limitandosi a consolidare le regole (anche di origine
pretoria) del passato ed a convogliarle in un unico testo normativo
[come ritiene CAPONI, op. cit.] - sembra, pur dopo i
correttivi, percorribile soltanto in parte.
Vero è che il
Legislatore delegato è da ultimo pervenuto, dopo qualche
tentennamento, alla positivizzazione, in due tappe
successive, delle regole elaborate (in molti casi) praeter
codicem dalla giurisprudenza amministrativa (ma non solo) dopo
l’entrata in vigore del d.lgs. 104 del 2010; però è altrettanto vero
che lo ha fatto affidando la sua voluntas a proposizioni
normative equivoche e lacunose, che non escludono, anzi
incoraggiano, un approccio autenticamente creativo da parte del
Giudice amministrativo.
Limitando la nostra attenzione al
tema delle azioni proponibili nel processo amministrativo, occorre
segnalare:
a) la modifica, attuata con il primo correttivo,
dell’art. 31, comma 1, del Codice, nel punto in cui si dispone che
la domanda di accertamento dell’obbligo di provvedere è ammessa,
oltre che in caso di inutile decorso del termine di conclusione del
procedimento (in ciò si esauriva la disposizione nella sua
originaria formulazione), “negli altri casi previsti dalla legge”.
Un riferimento per molti versi laconico, che però è servito alla
giurisprudenza [T.A.R. Veneto, Venezia, Sez. II, 5 marzo 2012, n.
298; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 18 luglio 2012, n.
6564] per riaffermare, in ordine alla controversa questione della
tutela del terzo controinteressato all’intrapresa ed alla
prosecuzione di un’attività sottoposta al regime della s.c.i.a.,
l’esperibilità di un’azione di accertamento (circa l’insussistenza
dei presupposti di legge dichiarati come esistenti), facendo seguito
a quanto già detto dalla Plenaria (nella già citata decisione
n. 15 del 2011) – sulla base di un complesso ragionamento volto a
superare le strettoie imposte dalla norma secondo cui il Giudice
amministrativo “non può pronunciarsi su poteri non ancora
esercitati” (art. 34, comma 2) –, ma repentinamente contraddetto dal Legislatore (d.l. 138 del 2011, convertito
con la l. 148 del 2011), che nel modificare l’art. 19 della l. 241
del 1990 – segnatamente introducendo il comma 6-ter, che
rinvia a sua volta all’art. 31 del Codice di rito (per come era
allora formulato) – affida(va) la tutela del terzo
controinteressato esclusivamente all’azione avverso il
silenzio inadempimento, con ciò presupponendo l’inutile decorso del
termine (di trenta giorni in materia edilizia e di sessanta in tutti
gli altri) previsto per l’adozione di provvedimenti inibitori.
Ciò posto, pare si debba concludere nel senso che l’azione di
accertamento sia tipica, perché ammessa (oltre che
nell’ipotesi di inerzia non diversamente qualificata della p.a.)
solo “negli altri casi previsti dalla legge”, al di là di quanto
afferma (e di quanto già affermava prima del correttivo) la
giurisprudenza, allorché ricollega la necessità di una tutela atipica all’obiettivo di una tutela piena, imposto
dall’art. 24 della Costituzione [vedi in specie T.A.R. Lazio, Roma,
Sez. II-bis, 18 luglio 2012, n. 6564, cit., e prima del
correttivo la sentenza della Plenaria n. 15 del 2011]. Altrimenti
detto, o l’azione di accertamento è atipica, in quanto si ritiene,
seguendo la traiettoria argomentativa tracciata dalla
giurisprudenza, che “l’assenza di una previsione legislativa
espressa non osta all’esperibilità di un’azione di tal genere quante
volte detta tecnica di tutela sia l’unica idonea a garantire una
protezione adeguata ed immediata dell’interesse legittimo e [che] la
mancata previsione, nel testo finale del codice del processo
amministrativo, dell’azione generale di accertamento non preclude la
praticabilità di una tecnica di tutela, ammessa dai principali
ordinamenti europei, che, ove necessaria al fine di colmare le
esigenze di tutela non soddisfatte dalle azioni tipizzate, ha un
fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Carta
fondamentale al fine di garantire la piena e completa protezione
dell’interesse legittimo” [così testualmente T.A.R. Lazio, Roma,
Sez. II-bis, 18 luglio 2012, n. 6564, cit., che, non senza
contraddire la ricordata premessa “di sistema”, fa applicazione,
onde ammettere l’esperibilità dell’azione in questione, del
novellato art. 31, assumendo che quello previsto dall’art. 19 sia
uno dei casi previsti dalla legge cui la norma processuale fa
riferimento]; oppure (come pare preferibile) che l’azione di
accertamento è tipica, in quanto si ritiene che questo sia l’unico
modo possibile di interpretare il richiamo operato dal novellato
art. 31 agli “altri casi previsti dalla legge” [sarebbe così
confermata l’idea di FOLLIERI, L’azione di nullità dell’atto
amministrativo, in www.giustamm.it, secondo cui la
tipicità delle azioni nel processo amministrativo fa da contraltare
alla mancanza di una compiuta disciplina sostanziale – quale invece
si riscontra nel Codice civile riguardo ai diritti soggettivi -
della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio]. Tertium non datur. O almeno così sembra: si potrebbe forse
“recuperare” il carattere generale della tutela di accertamento
attingendo all’affermata generalità (che, dopo il secondo
correttivo, sembra incontrovertibile) della tutela di condanna, e
cioè sostenendo che prima di condannare la p.a. al rilascio di un
provvedimento (purché vincolato) il giudice deve prima accertare la fondatezza della pretesa sostanziale. Un simile modo di
argomentare, tuttavia, non pare corretto: in primo luogo, perché ciò
di cui si discute è il carattere tipico o atipico dell’azione di mero accertamento (non funzionale, cioè, alla pronuncia di
condanna); in secondo luogo, perché, come meglio si dirà, il nuovo
art. 34, comma 1, lett. c), richiede che l’azione di condanna sia
esperita “contestualmente all’azione di annullamento del
provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio”. Non
anche, quindi, contestualmente all’azione (a questo punto tipica) di
accertamento né all’azione di nullità [per quanto, rispetto a
quest’ultima, si registra l’opinione di chi ritiene essersi trattato
di una dimenticanza del Legislatore, essendo stata l’azione di
nullità concepita come volta a sanzionare una “annullabilità forte”:
CARBONE A., L’azione di adempimento è nel Codice. Alcune
riflessioni sul d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160 (c.d. Secondo
Correttivo), in www.giustamm.it];
b) la modifica,
disposta in sede di secondo correttivo, dell’art. 34, comma 1, lett.
c), che, come si anticipava, oggi ammette l’azione di condanna al
rilascio di un provvedimento favorevole, “nei limiti di cui all’art.
31, comma 3” e sempreché l’azione sia esercitata contestualmente
all’azione di annullamento (del provvedimento di rigetto
dell’istanza) o all’azione avverso il silenzio-inadempimento.
Anche su questo punto, pertanto, il Legislatore delegato si
allinea all’elaborazione pretoria e dottrinale successiva al Codice:
ma lo fa lasciando spazio, a causa di una tecnica redazionale non
proprio impeccabile, a dubbi esegetici di non agevole soluzione.
Come va inteso, ad esempio, il riferimento all’art. 31, comma
3?. In sede di primo commento [CARBONE A., op. cit.] è stato
paventato il rischio che, leggendo il rinvio in senso pieno - cioè
come ricomprensivo del richiamo alla natura vincolata del potere
esercitato ed alla non necessità di ulteriori adempimenti
istruttori da parte dell’amministrazione -, sarebbe precluso al
Giudice di pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza anche nel caso
in cui, pur trattandosi di potere (in astratto) discrezionale, non
residuino ulteriori profili di valutazione ponderativa
dell’interesse pubblico, e venga in rilievo quindi un’attività
sostanzialmente segnata nel suo sviluppo; per continuare ad
ammettere la sussistenza di tale potere cognitorio e decisorio,
sulla scia di quanto già affermato in giurisprudenza [T.A.R.
Lombardia, Milano, Sez. III, 10 aprile 2012, n. 1045], si suggerisce
da parte di tale dottrina un’interpretazione minimalista del
rinvio operato all’art. 31, comma, 3, rinvio che ricomprenderebbe
soltanto il riferimento alla natura vincolata (anche in concreto)
del potere esercitato, e non anche quello alla non necessità di
ulteriori adempimenti istruttori, tale ultimo limite attenendo
specificamente all’azione avverso il silenzio, considerata la
specialità del rito, che è tale da impedire accertamenti di una
certa complessità. Questa lettura “manipolativa”, che ha una sua
ragionevolezza e che è condivisibile quanto al risultato che si
intende ottenere (ammettere l’esperimento dell’azione in un numero
più ampio di casi), non sembra però trovare riscontro nella lettera
del nuovo art. 34, comma 1, lett. c), che non consente di
selezionare, tra i due limiti contemplati dall’art. 31, comma 3,
solo quello che si accorda (o meglio si accorderebbe) con la
maggiore estensione applicativa dell’azione di condanna, escludendo
l’altro. Va notato, più che altro, che la stessa giurisprudenza
prima ricordata ha chiarito che l’art. 31, comma 3, complessivamente
considerato, esprime un principio generale – quello
dell’intangibilità delle (sole) manifestazioni autenticamente
discrezionali - valevole “sia che l’amministrazione rimanga inerte
sia che emani un provvedimento espresso di diniego”, in quanto
l’interesse pretensivo ha, nell’uno e nell’altro caso, la stessa
consistenza e lo stesso bisogno di tutela. Ciò nondimeno, anche
intendendo il richiamo di che trattasi in senso pieno (come pare
corretto), non è da escludere aprioristicamente che la
giurisprudenza – ancora una volta rimediando all’imprecisione del
dato normativo, atteso che sarebbe stato preferibile chiarire
esplicitamente, e non attraverso un rinvio ad altra norma (operato
oltretutto senza gli adattamenti del caso), in quali casi sia
possibile esercitare l’azione di condanna - possa continuare a
percorrere la strada già intrapresa, ordinando l’adozione del
provvedimento richiesto ed illegittimamente negato anche laddove la
discrezionalità, pur presente, sia stata interamente consumata,
cosicché l’esito del procedimento sia segnato nel suo sviluppo (e
quindi si tratti di un procedimento in concreto vincolato):
l’inclusione tra le condizioni di ammissibilità dell’azione di
condanna della non necessità di ulteriori adempimenti istruttori non
osta a tale lettura, se è vero che gli unici adempimenti istruttori
infungibili sono quelli (e solo quelli) che attengono alla
ponderazione dell’interesse pubblico [come invero ritiene lo stesso
CARBONE A., op. cit., allorché ipotizza, della novella in
commento, una interpretazione alternativa a quella prima ricordata].
Ma i dubbi interpretativi sollevati dalla nuova disposizione non
si esauriscono in quanto anzidetto. Vanno in specie chiariti: il
rapporto tra l’art. 30, comma 1, e l’art. 34, comma 1, lett. c), e
quello tra il combinato disposto di tali norme e l’art. 124 del
Codice, concernente la disciplina dell’aggiudicazione iussu
iudicis in materia di contratti pubblici.
Quanto al primo
aspetto, vi è una sostanziale continuità tra le due norme: l’art.
30, comma 1, prevede che il ricorrente “può” (nel senso di: ha il
potere di) domandare la condanna dell’amministrazione
contestualmente alla proposizione di un’altra azione [che già i
primi commentatori identificavano con l’azione di annullamento: cfr.
VERDE, Sguardo panoramico al libro primo ed in particolare alle
tutele e ai poteri del giudice, in Dir. Proc. Amm., 2009,
795], siccome è solo nei casi previsti dallo stesso art. 30 ed in
quelli devoluti alla giurisdizione esclusiva del g.a. che l’azione
di condanna può essere esercitata in via autonoma; analogamente
l’art. 34, comma 1, lett. c), declina il rapporto tra azione di
annullamento (o azione avverso il silenzio) ed azione di condanna ad
un facere specifico in termini di necessaria pregiudizialità
della prima rispetto alla seconda.
L’azione di condanna autonoma
dovrebbe così essere relegata ad ipotesi affatto particolari (quelle
previste dai commi 2 e ss. dell’art. 30 del Codice), tra le quali,
per quanto qui interessa, non può essere inclusa la condanna
all’adozione del provvedimento richiesto ed illegittimamente negato.
Oltretutto, anche nei casi in cui si ammette l’azione di
condanna autonoma (e cioè essenzialmente in materia risarcitoria),
il Legislatore ha predisposto, in ciò assecondato da
un’interpretazione rigorosa da parte dell’Adunanza Plenaria, una
fitta rete di contenimento, tale da renderne particolarmente gravoso
e rischioso (nel senso che diremo) l’esperimento. Si allude, in
specie, all’azione risarcitoria autonoma, proponibile nel
(ristretto) termine decadenziale di centoventi giorni (un temine che
si voleva estendere ad un anno in sede di secondo correttivo: tale
modifica non è stata tuttavia riprodotta nell’articolato definitivo)
– ma questo non impedisce ad autorevole dottrina [MERUSI, In
viaggio con Laband, in www.giustamm.it] di pensare che
sia pur tuttavia possibile proporre al g.o. domande risarcitorie nel
termine di prescrizione, il che sembra confermato dalla
giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (ordinanze nn.
6594, 6595, 6596 del 23 marzo 2011) – seguita da quella
amministrativa: T.A.R. Toscana, Sez. II, 28 agosto 2012, n. 1487 -
sebbene con segnato riguardo al risarcimento per lesione
dell’affidamento incolpevolmente riposto nella legittimità del
provvedimento che, in quanto illegittimo, è stato annullato in
autotutela dalla p.a. –, e proponibile - si avvertiva - a rischio e
pericolo del danneggiato, poiché ai sensi del terzo comma dell’art.
30 il Giudice (che decide sulla domanda risarcitoria autonoma)
valuta il comportamento complessivo delle parti, tenendo conto del
mancato esperimento dei mezzi di tutela previsti: la Plenaria nella
citata decisione n. 3 del 2011 – peraltro facendo applicazione
dell’art. 1227 c.c., che l’art. 30 del Codice non richiama
espressamente - ritiene che questo riferimento vada inteso in senso
forte, come necessità di proporre, affinché sia integrata la
diligenza ex latere creditoris, l’azione di annullamento del
provvedimento lesivo, quantunque la dottrina abbia posto in luce le
criticità di tale lettura [SCOCA F.G., Piccola storia di un
serrato dialogo tra i giudici: la vicenda della pregiudizialità
amministrativa, in www.giustamm.it.] e la giurisprudenza
percorso diversi (e meno rigorosi: nel senso di una maggiore
apertura verso la tutela risarcitoria autonoma) itinerari
interpretativi [Cons. St., Sez. V, 29 novembre 2011, n. 6296; T.A.R.
Puglia, Bari, Sez. I, 21 marzo 2012, n. 592].
In conclusione, al
di fuori di casi tutto sommato marginali, la tradizionale azione di annullamento (cioè la tutela demolitorio-conformativa) rimane una necessità
imprescindibile allorché si intenda attingere all’innovativo strumento dell’azione di condanna: a dimostrazione della perdurante specialità della giurisdizione amministrativa [ad
avviso di ROMANO TASSONE, Morire per la pregiudiziale, in www.giustamm.it, messa in pericolo dall’idea – allora
sostenuta con forza dalla Sezioni Unite della Cassazione (sentenza
n. 30254 del 2008), dell’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto
a quella di annullamento], che si connota, nella generalità dei
casi, innanzitutto per uno scrutinio circa il legittimo esercizio
del potere e, solo dopo (e subordinatamente a certe condizioni,
attualmente di difficile decodificazione, vista la formulazione
perfettibile della norma), per la valutazione circa la fondatezza
della pretesa sostanziale.
Quanto al secondo aspetto (rapporti
tra la tutela generale e quella settoriale in materia di appalti
pubblici), si è ritenuto di aderire in altra sede [Azione di
esatto adempimento ed atipicità della tutela nel processo
amministrativo, in Rivista Nel Diritto, 2012, 992 e ss.,
cui sia consentito rinviare] alla lettura secondo cui
l’aggiudicazione iussu iudicis sia da ricondurre al modello
dell’azione risarcitoria (in particolare a quello della
reintegrazione in forma specifica [su cui si veda, per tutti,
LIGUORI, La reintegrazione in forma specifica nel processo
amministrativo, Napoli, 2002]) piuttosto che a quello
dell’azione di adempimento [propende per tale ultima lettura,
invece, il GRECO, Illegittimo affidamento dell’appalto, sorte del
contratto e sanzioni alternative nel d.lgs. 53/2010, in www.giustamm.it]: come ha sottolineato una parte della
dottrina la qualificazione della fattispecie in questo secondo senso
rischia di compromettere l’esigenza di una tutela piena e del
tutto satisfattiva, perché, se dopo l’aggiudicazione ordinata
dal Giudice residua un ulteriore danno in capo al concorrente
pretermesso, questi non potrebbe essere ristorato [FOLLIERI, I
poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo
2010, n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del processo
amministrativo, in www.giustamm.it, spec. 49, che
ipotizza il caso in cui l’impresa abbia accettato altri appalti
nell’incertezza circa l’esito ed i tempi del giudizio, con
conseguente necessità di modificare l’organizzazione imprenditoriale
per rispettare i tempi]. Intendendo il rimedio come rimedio
risarcitorio, invece, il ricorrente che abbia – anche in questo caso
- chiesto ed ottenuto il pregiudiziale annullamento del
provvedimento lesivo, nonché la dichiarazione di inefficacia del
contratto, potrebbe domandare oltre al subentro nel contratto
medesimo il risarcimento del danno differenziale, con il solo
limite segnato dal principio per cui il risarcimento non può
trasformarsi in una fonte di arricchimento della vittima [nella
giurisprudenza civile il principio è affermato, di recente, da Cass.
civ., Sez. II, 8 maggio 2009, n. 10663]. La norma sulla quale
fondare la risarcibilità del danno differenziale non è, a nostro
avviso, il secondo alinea dell’art. 124, primo comma, che riguarda
la diversa ipotesi in cui, non essendo stata dichiarata
l’inefficacia del contratto, e non essendo quindi avvenuta
l’attribuzione del bene della vita a chi spetta (la pronuncia di
condanna ad un facere specifico presuppone infatti la
dichiarazione di inefficacia del contratto), occorre riparare in
termini monetari l’intero pregiudizio subìto dal ricorrente;
bensì il primo alinea della medesima disposizione, letto in
combinato disposto con l’art. 30, commi 1 e 2, ed alla luce dei
principi espressi dall’art. 1 del Codice del processo
amministrativo.
Ci si chiede, a questo punto, se l’azione di cui
all’art. 124 possa essere ancora riportata al modello risarcitorio
ovvero debba trovare il proprio punto di riferimento, a livello
generale, nel novellato art. 34; sempreché – capovolgendo i termini
della questione - non si voglia valutare la possibilità di
ricostruire la stessa azione generale di condanna come
reintegrazione in forma specifica, in base al combinato disposto
degli artt. 34, comma 1, lett. c), e 30, comma 2.
Per le ragioni
esposte in precedenza si propende per la lettura “risarcitoria”
(quanto meno) dell’azione prevista dall’art. 124: un’opzione
interpretativa, questa, che sembra più in linea con le ragioni di
una tutela piena e che per altro verso non comporta l’effetto indesiderato (tipico delle domande
risarcitorie) di imporre al danneggiato la prova di tutti gli
elementi dell’illecito (in specie di quello soggettivo), in quanto è
ormai consolidata la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, che, in materia di appalti, ritiene che la colpa sia in re
ipsa nella violazione delle regole che presiedono allo
svolgimento delle procedure evidenziali, secondo il modello della
responsabilità oggettiva [in giurisprudenza, cfr. CGCE, 30 settembre
2010, in causa C-314/09, Graz Stadt. Nello stesso senso CGCE,
14 ottobre 2004, in causa C-275/03, Commissione c. Repubblica
Portoghese; Id., 10 gennaio 2008, in causa C-70/06, Commissione c. Repubblica Portoghese. T.A.R. Lombardia,
Brescia, Sez. II, 4 novembre 2010, n. 4552; Id., 19 novembre 2010,
n. 4660; Cons. St., Sez. V, 24 febbraio 2011, n. 1193. In dottrina,
v. CIMINI, La tutela risarcitoria in materia di contratti
pubblici: tra novità normative e assestamenti giurisprudenziali,
in www.giustamm.it, nonché ID., La colpa è ancora un
elemento essenziale della responsabilità da attività provvedimentale
della p.A.?, ivi; ma in questo senso vedi già LIGUORI, Appunti sulla tutela processuale e sui poteri del giudice nel
decreto legislativo n. 53 del 2010, ivi.].
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(pubblicato il
3.10.2012)
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