Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 1-2012 - © copyright

 

FABIO CINTIOLI

Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato
(art. 21 bis della legge n. 287 del 1990)

 

 


 

 

SOMMARIO: 1. Il nuovo art. 21 bis ed altre novità nell’ordinamento processuale; 2. La giurisdizione amministrativa e c.d. la giurisdizione di diritto oggettivo; 3. L’idea di inserire il pubblico ministero nel processo amministrativo; 4. Metodo di interpretazione ed art. 21 bis; 5. Il parere preventivo di AGCM e l’autotutela decisoria; 6. L’archiviazione di AGCM; 7. Interesse ad agire e giurisdizione oggettiva; 8. Irricevibilità, rinuncia al ricorso, cessata materia del contendere ed improcedibilità; 9. Il contenuto del ricorso. La violazione delle norme del TFUE sulla concorrenza; 10. Segue. La violazione di norme di promozione della concorrenza e di regolazione. Il caso degli affidamenti in house e le norme sulla privatizzazione; 11. Segue. La violazione delle norme sulla liberalizzazione di settori economici; 12. Segue. La impugnazione dei bandi di gara; 13. Approccio economico, metodo giuridico e legittimazione ad agire di AGCM.



1. La legislazione dell’emergenza o, per dir meglio, la legislazione delle manovre che si è sviluppata, non senza accenti di drammaticità, nel corso dell’ultimo anno, ha prodotto un frutto decisamente originale e destinato, se verrà conservato nell’ordinamento, ad avere un impatto pratico considerevole e ad incidere non poco sui caratteri del nostro processo amministrativo.
L’art. 35 del d.l. n. 201 del 2011, decreto denominato Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici e più noto alle cronache come “decreto salvaItalia”, è intitolato al Potenziamento dell’Antitrust. Esso ha introdotto nella l. n. 287 del 1990 il nuovo art. 21 bis, a sua volta intitolato ai Poteri dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza.
L’art. 21 bis affida ad AGCM la legittimazione “ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Il comma 2 detta una peculiare sequenza procedimentale che l’Autorità è tenuta ad osservare. Essa, quando “ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate”. Quando l’amministrazione non si conforma nei 60 giorni successivi a tale comunicazione, l’Autorità ha 30 giorni di tempo per proporre il ricorso, con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato.
Il comma 3 dell’art. 21 bis sottopone questo giudizio all’applicazione della disciplina concernente i riti abbreviati, di cui all’art. 119 c.p.a.
Che ad un ente pubblico e ad una amministrazione, quale sicuramente l’AGCM è, il legislatore abbia assegnato una legittimazione ad impugnare gli atti amministrativi così ampia è, come si intuisce da subito, una novità dirompente nel processo. A guardare ancor più da vicino l’istituto, ci si convince che il suo impatto è ancor più significativo, nonostante la sua apparente limitazione al tema della concorrenza.
In primo luogo, si deve registrare un dato più generale il quale ci offre un contesto storico ed una linea di tendenza del legislatore meritevoli di una attenta sottolineatura.
Nel corso di questi ultimi anni il processo amministrativo ha registrato l’ingresso di alcune nuove funzioni attribuite al giudice.
La prima è quella della c.d. azione di classe nei confronti della p.a., che mira a sollecitare, tramite l’iniziativa diffusa tra i singoli interessati, un controllo giudiziale sui livelli di efficienza dell’amministrazione (L’istituto è disciplinato dal d. lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, con la denominazione di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici). L’attore utilizza una posizione individuale che sembra (pur con qualche incertezza interpretativa di cui dobbiamo tener conto) sganciarsi dalla solida consistenza giuridica dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo e che perciò lambisce l’interesse di mero fatto, vale a dire quello che appartiene ad ogni singolo cittadino, che si riassume nell’interesse pubblico generale al buon andamento dell’azione amministrativa e che, proprio per questo, resta innominato e indefinito e, di regola, insufficiente a fondare la legittimazione processuale.
La seconda è quella delle c.d. sanzioni alternative di cui all’art. 123 c.p.a. Si tratta di quelle sanzioni consistenti o nella riduzione della durata del contratto o in una sanzione pecuniaria, che vengono comminate, anche ex officio, dal g.a. quando egli, pur avendo identificato alcune violazioni gravi commesse dalla stazione appaltante, abbia ritenuto di conservare l’efficacia del contratto per tutelare imperative esigenze di interesse generale.
La terza è quella che si prende qui in esame, ultima in ordine di tempo. Delle tre è forse la più rilevante, se non altro perché, diversamente dalle prime due, si potrebbe prestare, sol che lo voglia l’Autorità, ad una applicazione ben più frequente rispetto a quella che si è potuta registrare fino adesso per le altre due.
Tra questi istituti esiste un evidente filo conduttore. Tutti e tre vengono ad introdurre delle forme di giurisdizione che, se non vi appartengono a pieno titolo, quantomeno sono molto vicine alla nozione di giurisdizione di diritto oggettivo.

2. La giurisdizione amministrativa è, come sappiamo, giurisdizione di diritto soggettivo, perché è una funzione che tutela situazioni giuridiche soggettive individuali, si tratti di interessi legittimi o di diritti soggettivi.
Essa è dominata dal principio dispositivo, il quale opera sia sul fronte della domanda sia sul fronte della formazione della prova.
Sotto il primo profilo, abbiamo che il processo è nella disponibilità del ricorrente, sicché il g.a. si pronuncia unicamente sulla base dei motivi che dal primo siano stati dedotti e sempre il ricorrente ha il potere di impedire al giudice di pronunciarsi, mediante rinuncia al ricorso (e al suo diritto di azione).
Sotto il secondo profilo, abbiamo che il g.a. deve comporre il quadro probatorio anzitutto tenendo conto delle istanze delle parti, salvo quel peculiare temperamento che consiste nel metodo acquisitivo e che, nonostante i mutamenti intervenuti di recente, può dirsi appartenga ancora al nostro processo amministrativo dopo il codice del 2010.
La nozione di giurisdizione di diritto oggettivo risale soprattutto al dibattito dottrinale che si sviluppò all’indomani della legge Crispi, la quale istituì nel 1889 la prima Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato.
A fronte di coloro che avevano sostenuto che non si potesse definire come giurisdizionale una tale funzione, perché non mirata alla tutela di diritti soggettivi (a quel tempo la serie delle situazioni soggettive tutelabili era incentrata nel diritto soggettivo), vi era chi aveva obiettato prontamente che la funzione giurisdizionale è più ampia e che essa poteva anche svilupparsi nella tutela di un interesse alla legalità o comunque nella tutela di un interesse pubblico, procurando una protezione soltanto indiretta e mediata dei cittadini. Si menzionava in proposito la giurisdizione penale: in essa si tutela un interesse generale dell’ordinamento e nondimeno essa è certamente una autentica funzione di giurisdizione.
Sennonché il processo amministrativo (al di là di una disputa che comunque aveva anche talora una dimensione solo nominalistica) è stato, sin da principio, guidato lungo il sentiero della giurisdizione di diritto soggettivo. La scelta fondamentale del legislatore era infatti di delimitare il sindacato del Consiglio di Stato ai motivi proposti dal ricorrente, al quale spettava, su tutti, quel potere di rinuncia al ricorso che costituiva il più illuminante esempio del principio dispositivo. Proprio questo tratto ha consentito di segnare una netta distinzione tra funzione giurisdizionale e funzione di controllo.
La Costituzione, all’art. 103, ha poi stabilito che il Consiglio di Stato e gli altri organi della giurisdizione amministrativa hanno giurisdizione per la tutela di concreti e individuali interessi legittimi o diritti soggettivi. Sicché la giurisdizione amministrativa è stata sino ad oggi quell’istituto e quella istituzione che ha il compito di tutelare i cittadini che siano titolari di situazioni giuridiche soggettive vere e proprie, si è ispirata al principio dispositivo ed è proprio grazie a questo dato di partenza che essa si è sviluppata in modo da raggiungere una tutela effettiva di dette situazioni.
A ben vedere, il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui agli artt. 24 e 113 Cost., le cui declamazioni sono tanto giuste quanto abbondanti in dottrina e giurisprudenza, si spiega sul piano e strutturale e funzionale solo se (e sempre che) si parta dal presupposto che il processo serva a proteggere i singoli anziché ad attuare la legalità in termini generali e assoluti. Tutela l’intera situazione soggettiva in modo pieno, ma solo quella, per dirla con Chiovenda. E questa evoluzione, sia consentito dirlo, è avvenuta al di là delle questioni interpretative che si sono continuate ad agitare circa il valore dell’espressione costituzionale che parla di giustizia nell’amministrazione.
L’importanza del principio dispositivo e del suo connubio con il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale va colta allora nei termini di una vera architrave dello Stato liberale di diritto. Il principio dispositivo, infatti, è garanzia di una funzione giurisdizionale che, senza confondersi con l’amministrazione, si pronunci solo sulle situazioni soggettive individuali. E’ garanzia di un giudice che non venga ad espandersi sino a farsi interprete delle esigenze della legalità al di là della domanda di giustizia, o della buona amministrazione, o di un interesse pubblico indefinito. Impedisce che il giudice possa eventualmente dimenticarsi di essere solo chiamato ad esercitare una funzione anziché essere investito di una missione.
L’equilibrio tra autorità e libertà nel rapporto tra p.a. e cittadino è un risultato che la giurisdizione amministrativa deve saper assicurare. Proprio per questo, però, il giudice dà ingresso solo a pretese individuali che siano effettivamente tali, senza ammettere doglianze che si allarghino sino a reclamare la cura dell’interesse della legge; e sempre per questo il giudice evita di farsi autorità e di farsi soggetto che venga a declinare le proprie visioni dell’interesse generale al di fuori di una domanda di parte e soprattutto al di fuori di una situazione giuridica soggettiva da tutelare e attuare nell’ordinamento.
La giurisdizione di diritto oggettivo è allora sostanzialmente scomparsa dal processo amministrativo italiano. E’ sopravvissuta solo in casi davvero marginali, come quello del processo nei confronti dei regolamenti, perché il g.a. ha mantenuto fermo il principio per cui l’accoglimento del ricorso provoca l’annullamento del regolamento con effetti erga omnes; e questo con la giustificazione che, altrimenti, visti i limiti del controllo svolto dalla Corte costituzionale solo sulle leggi, i regolamenti sarebbero andati esenti da ogni sindacato giurisdizionale di legittimità. Ma non è casuale che, proprio per poter mantenere l’unitarietà della funzione di giurisdizione soggettiva, più di un autore abbia proposto nella fase più recente di congegnare il processo amministrativo sui regolamenti in termini diversi, prevedendo la mera disapplicazione del regolamento e l’annullamento del provvedimento lesivo nei confronti del (solo) ricorrente e con un giudicato dagli effetti ad esso (solo) circoscritti.
Pur essendo fortemente consolidata come giurisdizione di diritto soggettivo la giurisdizione amministrativa italiana e pur essendosi dichiaratamente ispirato il nuovo codice del processo amministrativo (il frutto più recente di un corso storico ultracentenario) al principio di effettività della tutela di diritti e interessi, colpisce allora che il processo amministrativo abbia registrato tre scostamenti così visibili ed in un lasso di tempo così breve.

3. Detto questo, cerchiamo di spiegare meglio il perché tali novità legislative evochino la giurisdizione di diritto oggettivo.
Essa, quando si afferma con pienezza, possiamo dire che presenterà i seguenti caratteri: (i) il primo e più importante sta nel fatto che il giudice non tutela unicamente situazioni soggettive individuali, bensì un interesse generale, ad esempio quello alla legalità, o al buon andamento e all’imparzialità dell’azione amministrativa, ovvero, per restare vicini al nostro tema, quello alla tutela della concorrenza; in altri termini, non viene più in gioco un interesse legittimo, bensì è come se rilevasse un interesse di mero fatto, ossia proprio quell’interesse del quivis de populo, disseminato tra tutti i cittadini, alla realizzazione di un interesse pubblico generale, che sappiamo essere ammesso invece eccezionalmente nei soli casi tassativi di azione popolare e pressoché esclusivamente nel caso del contenzioso elettorale; (ii) il giudice non si pronuncia necessariamente solo sullo specifico vizio-motivo dedotto dal ricorrente, ma spazia sino a ponderare l’interesse generale che viene in gioco secondo la volontà dell’ordinamento; (iii) la sentenza del giudice non produce un effetto che si limiti alla sfera giuridica del ricorrente, perché si espande anche verso i terzi.
Il caso della class action amministrativa rispecchia il primo carattere ed in qualche misura anche il secondo. Il caso delle sanzioni alternative il primo ed il secondo carattere. Quello che esaminiamo in questo scritto attua certamente il primo carattere, indirettamente anche il secondo, perché esso è imperniato sulla tutela della concorrenza come interesse generale, ed eventualmente anche il terzo, lì dove l’oggetto della impugnazione sia un regolamento o un atto amministrativo generale (categorie che ci permettono certamente di attrarre il fenomeno, ad esse sovente trasversale, della c.d. regolazione dei mercati).
Il conferimento ad AGCM della legittimazione ad agire davanti al TAR trova, in verità, dei precedenti in alcune iniziative legislative, non approdate all’esito conclusivo, con le quali era stata prevista e inserita la figura del pubblico ministero nel processo amministrativo. E’ infatti ragionevole, per spirito della legge e per contenuti normativi, assimilare proprio a questi casi ed a questo ricorrente dibattito la nostra novità.
Potremo allora ricordare che nel corso della XI legislatura era stato discusso presso la prima Commissione del Senato un disegno di legge governativo che conferiva al Prefetto, di ufficio o su denuncia, il potere di proporre ricorso al TAR competente per l’annullamento di un atto illegittimo, sempre che l’ente locale, preventivamente diffidato, non avesse provveduto a revocare o modificare l’atto e sussistesse un interesse pubblico alla rimozione dell’atto stesso. Inoltre il d.l. 8 marzo 1993, n. 54, art. 3, poi non convertito in parte qua, ha attribuito al procuratore regionale della Corte dei conti il potere in via autonoma di proporre ricorso davanti al TAR avverso atti e provvedimenti delle p.a., in vista dell’interesse generale al buon andamento e all’imparzialità di esse, a tutela della legittimità dell’azione amministrativa e che potesse altresì resistere e intervenire nei giudizi pendenti davanti a questo Tribunale, nonché a proporre appello nei confronti delle sentenze di primo grado.
Queste iniziative avevano suscitato un coro di critiche. In particolare, contro la seconda iniziativa, che sembrava addirittura sganciare il ricorso del procuratore presso la Corte dei conti dalla deduzione di puntuali motivi di ricorso, si opponeva che la giurisdizione amministrativa non può espandersi ad un sindacato pieno che valga per interessi generali anziché per specifiche situazioni soggettive e che varchi persino la griglia necessaria dei motivi puntualmente dedotti. Questa giurisdizione piena e sindacatoria sarebbe stata assimilabile ad una funzione di controllo e suscettibile persino di sconfinare nel merito dell’azione amministrativa, con violazione dei limiti esterni della giurisdizione e con compromissione dei criteri generali di divisione dei poteri e della riserva di amministrazione rispetto alla giurisdizione. Sicché vi sarebbe stata una violazione dell’art. 103 Cost., lì dove quest’ultimo assegna alla giurisdizione il compito di tutelare unicamente situazioni soggettive, siano esse diritti soggettivi o interessi legittimi. Si aggiungeva che il diritto di azione si sostanziava, in un caso del genere, quale vero e proprio obbligo, con la conseguenza che, per un verso, avremmo avuto l’annullamento di atti amministrativi sì viziati ma se del caso anche vantaggiosi per la collettività e, per altro verso, avremmo creato un enorme flusso di ricorsi con un pericoloso intasamento nelle aule della giustizia amministrativa.
E’ da dire che il contesto storico di quegli anni contribuisce a spiegare il perché di simili iniziative. La crisi del sistema politico dei primi anni ’90 e la tendenza ad assegnare ad organi indipendenti e non responsabili politicamente compiti di tutela dell’interesse pubblico sono due fattori che creavano un clima culturale indubbiamente propenso ad innovazioni di tal fatta.
Dal canto suo il dibattito non aveva soltanto ospitato critiche a queste idee ed il panorama era abbastanza ampio al riguardo. Così vi era anche chi aveva invece esplicitamente auspicato che fosse istituita, appunto, la figura del p.m. presso il giudice amministrativo. Questo avrebbe accentuato il connotato sociale della giustizia amministrativa. Vale a dire che il g.a. avrebbe così ancor meglio esercitato anche una sorta di funzione sociale, a tutela dell’interesse generale, garantendo il corretto esercizio del potere pubblico; un potere che, per sua definizione, non interessa unicamente il singolo cittadino il quale decidesse eventualmente di intraprendere la via del ricorso, ma l’intera collettività. Il g.a. avrebbe così coperto una serie di illegittimità altrimenti non rilevabili, garantendo una correzione del potere pubblico nella sua accezione meta-individuale nonché una esigenza di giustizia che le vicende di vita avrebbero reso sempre più evidente. Il fondamento costituzionale di siffatta proposta era rinvenuto nell’art. 108, il quale impone che la legge assicuri l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali e del pubblico ministero presso di esse.
Questa tesi trovava poi una correzione (ed una giustificazione) quando rilevava che una simile innovazione sarebbe stata utile anche a causa della limitata prospettiva di indagine che continuava a caratterizzare il processo amministrativo (di quel tempo) come processo sull’atto. A questo proposito, sappiamo invece quanti passi avanti siano stati fatti e sappiamo che, perlomeno dalla l. n. 205 del 200, è stata conclamato nell’ordinamento il principio e la regola di fondo per cui il processo amministrativo non è unicamente processo sull’atto, ma è anche processo di spettanza, che guarda alla fondatezza della pretesa sostanziale.
Detto questo, unendoci alle critiche mosse contro questi tentativi di introdurre un p.m. nel processo amministrativo, deve obiettarsi che questa proiezione del sindacato giudiziale amministrativo verso traguardi di socialità è esattamente quel che al giudice amministrativo deve ritenersi inibito. Ed è, siffatta accezione sociale, quel che il principio dispositivo, nella sua genuina origine liberale, rifiuta. La giurisdizione amministrativa non serve tout court ad orientare l’azione amministrativa verso la legalità, né serve ad assicurare l’attuazione in termini generali dei principi di imparzialità e di buon andamento. La giurisdizione amministrativa non può sindacare l’azione amministrativa utilizzando parametri così sfumati e generali (recte: generici) al di fuori di una concreta vicenda di vita e di una lesione altrettanto concreta ad una situazione soggettiva tutelata. Se lo facesse, tra l’altro, sarebbe anche inevitabile il passaggio al sindacato del merito puro dell’attività amministrativa. Il compito immediato della giustizia amministrativa non è, insomma, quello di assicurare obiettivi generali di giustizia, legalità o miglior cura dell’interesse generale (si scelga l’espressione che si preferisce) in modo assoluto, capillare, totalizzante. Il suo compito è invece quello di assicurare la protezione dei diritti ed interessi dei singoli, quando tali interessi abbiano raggiunto la soglia della situazione soggettiva tutelabile e quando, dunque, abbiano quei connotati giuridici cui è ancorata la legittimazione. Che possa residuare aliunde una fetta (anche purtroppo vasta) di azione amministrativa illegittima è nella natura delle cose e sono altri i rimedi cui l’ordinamento si affida per porvi rimedio, nella consapevolezza che l’obiettivo della legittimità in senso assoluto è una utopia; una utopia che, coltivata con eccesso di convinzione, aprirebbe le porte persino ad accenti autoritari nella concezione ed attuazione della funzione di giurisdizione.
Questo ragionamento, sia concesso precisarlo, non vuole negare ed anzi è in simbiosi con quella linea di pensiero che ammette che nella giurisdizione amministrativa permanga una connotazione parzialmente oggettivistica della tutela. Questo perché l’interesse legittimo, essendo quella situazione soggettiva che dialoga con il potere pubblico e con esso si confronta, si misura con un effetto giuridico (quello che si connette appunto al potere pubblico) che per sua natura ha pur sempre una portata generale e meta-individuale. Come è stato detto in dottrina, è pur sempre il potere amministrativo che funge da ineliminabile fattore di collegamento tra la lesione dell’interesse individuale e la violazione delle norme di azione.

4. Il confronto con questi precedenti può essere utile per un primo inquadramento dei nuovi poteri assegnati ad AGCM. Per alcuni aspetti si possono riscontrare evidenti similitudini; per altri aspetti rilevanti diversità.
Così come in alcune delle iniziative legislative del passato, l’impugnazione è qui preceduta da una fase che potremmo definire procedimentale e che si sostanzia nell’emanazione del parere motivato nel quale vengono individuati in maniera specifica i vizi riscontrati. Si tratta di una sollecitazione all’autotutela amministrativa, come si dirà, la quale raggiungerà il suo scopo allorquando l’amministrazione si conforma al parere.
Rispetto alle previsioni di quel decreto legge del 1993 che aveva affidato la legittimazione ad agire alla procura contabile, il nuovo art. 21 bis segna invece una decisa restrizione dei contenuti che l’impugnazione può avere. Non si tratta più di una formula generale come quella che pone l’accento sul mancato rispetto dell’interesse generale all’imparzialità ed al buon andamento dell’azione amministrativa, né si può fare a meno della deduzione di un apposito vizio-motivo. Per la precisione, vi sono nell’art. 21 bis almeno tre profili di specificità che meritano di esser sottolineati: (i) è necessario, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, dedurre un motivo e non è possibile invece richiamare un generico interesse alla tutela della concorrenza; (ii) il vizio deve consistere nella violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato; (iii) il ricorso, anziché buono alla tutela di qualsivoglia interesse pubblico, è fondato sulla rilevanza e sulla constatazione della lesione di un ben determinato interesse di ordine generale assunto dall’ordinamento, ossia quello che corrisponde alla tutela della concorrenza e del mercato.
Questi elementi di specificità, tuttavia, non escludono il carattere di giurisdizione di diritto oggettivo, né i problemi di coerenza con il principio costituzionale di cui all’art. 103, secondo il quale la giurisdizione amministrativa è funzionale alla tutela di situazioni soggettive individuali e non di interessi generali, per quanto essi siano di contenuto delimitato. L’interprete non potrà non tener conto di questo dato. Così come non potrà dimenticare le obiezioni da sempre sollevate contro l’idea di inserire un p.m. nel processo amministrativo.
Tale premessa ci consente allora di suggerire una interpretazione della norma che sia costituzionalmente orientata. Essa pertanto dovrà sottolineare che la giurisdizione di diritto oggettivo resta una eccezione e che, per altro verso, quegli elementi di specificità presenti nell’art. 21 bis vanno certamente valorizzati, soprattutto lì dove possono giustificare un sia pur parziale richiamo al principio della domanda.

5. Se, dunque, non sarà possibile circoscrivere in capo ad AGCM una situazione soggettiva in senso proprio, perché questo significherebbe concedere tanto alla nozione da renderla del tutto evanescente e priva di rilevanza classificatoria, si dovrà nondimeno verificare in qual misura le indicazioni della norma potranno reagire sulla configurazione di questo modello processuale. Seguono, dunque, alcune considerazioni, le quali, essendo fatte a prima lettura, non hanno ovviamente ancora scontato le prime verifiche della giurisprudenza.
In primo luogo, il parere serve a stimolare l’esercizio del potere con cui la p.a. potrebbe conformarsi alle indicazioni di AGCM. Benché non vi sia una esplicita indicazione testuale, parrebbe che tale potere sia quello di autotutela, per necessità di ordine sistemico e di coerenza con i principi generali.
Avremo, perciò, che tra le due figure previste, rispettivamente, dagli artt. 21 quinquies e 21 nonies della l. n. 241 del 1990, sarà la seconda a venire in rilievo. Sicché l’amministrazione dovrà appurare, al di là della sollecitazione proveniente dall’Autorità, se esistono oppure no i requisiti prescritti dalla legge per un legittimo esercizio dei poteri di annullamento d’ufficio. La norma, come sappiamo, allude a circostanze attinenti alla data di emanazione dell’atto, agli effetti che abbia prodotto, al coinvolgimento delle posizioni soggettive di terzi, all’affidamento che sia stato eventualmente ingenerato, all’interesse pubblico in gioco; in sintesi, quell’insieme di valutazioni, guidate sul sentiero della ragionevolezza, che possono essere ancor oggi sintetizzate nella formula tradizionale della necessaria ponderazione dell’interesse pubblico attuale e concreto ad annullare. Se i requisiti non sussistono, la p.a. non si conformerà, salvo l’obbligo di pronunciarsi motivatamente; obbligo di provvedere il quale di solito (si noti) non si accompagna alle istanze volta a stimolare l’autotutela e che però in questo caso sembra potersi fondare eccezionalmente sulla legge.
Quando la p.a. non si sia conformata, AGCM potrà agire. Ci si deve chiedere, però, se il ricorso possa essere accolto anche quando la valutazione della p.a. circa la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 21 nonies sia stata negativa, appositamente motivata e soprattutto fondata. La risposta che sembra preferibile è che in tal caso il ricorso non possa trovare accoglimento, quand’anche vi sia stata, a suo tempo, una violazione delle predette norme. Se infatti classifichiamo il conformarsi dell’amministrazione destinataria del parere di AGCM come un fenomeno di autotutela decisoria, avremo che, una volta accertato che non esistono i presupposti di legge per il suo esercizio, anche il potere di ricorso di AGCM dovrà arrestarsi di fronte a questo dato. Altrimenti, avremmo riconosciuto alla speciale legittimazione dell’Autorità una forza che nessun’altra forma di ricorso possiede e che oltretutto sarebbe in evidente distonia con irrinunciabili esigenze di interpretazione sistematica. Pertanto, quando la p.a. decida di non conformarsi e lo faccia con una motivazione nella quale ponga in rilievo la carenza dei presupposti ex art. 21 nonies, l’Autorità potrà evidentemente agire, ma il giudice, quando ritenga fondata una tale valutazione amministrativa dovrà rigettare il ricorso.
E’ chiaro in proposito che l’interesse pubblico attuale e concreto che l’amministrazione avesse posto a base della sua decisione ben potrebbe essere (e molto probabilmente sarà) diverso da quella alla tutela della concorrenza. Ma questa circostanza non smentisce affatto il ragionamento, a meno di accettare l’originale idea che l’ordinamento voglia dare a tale ultimo interesse una sorta di inedito primato su tutti gli altri interessi generali nel sistema. Gli interessi pubblici, quelli di portata generale, così come i corrispondenti valori costituzionali, vanno invece tutti nel contempo attuati e, quando nasce un problema di reciproca frizione, vanno tra di loro contemperati, negando la possibilità che uno di essi sia invece suscettibile di una sorta di protezione assoluta.
Questa limitazione al potere-dovere di conformarsi dell’amministrazione e la corrispondente limitazione della chance di agire con successo davanti al giudice amministrativo è confortata altresì dalla considerazione che l’art. 21 bis confeziona per il ricorso di AGCM un termine di decadenza ad hoc: trenta giorni dalla scadenza dei sessanta dalla comunicazione del parere. In linea di principio questo sistema potrebbe spostare il termine di decadenza anche molto in avanti a beneficio di AGCM, la cui facoltà di attivarsi inviando un parere motivato non è a sua volta subordinata ad un termine ad hoc. A quanto pare non varrebbe per questo speciale ricorso il termine che vale invece per tutti gli altri soggetti che intendessero agire. A ben vedere, il richiamo all’art. 21 nonies ed alla ragionevolezza del termine entro cui l’annullamento d’ufficio può intervenire ben potrebbe essere un rimedio ad una anomalia altrimenti troppo dirompente, atteso che il termine processuale di decadenza salvaguarda una fondamentale esigenza di certezza che deve assistere le determinazioni della p.a., nell’interesse generale dell’ordinamento ed oltretutto in coerenza con altrettante indicazioni del diritto comunitario. Sicché, seguendo questo ragionamento, quando AGCM si attivasse troppo tardi nel tempo con il suo parere, l’amministrazione potrebbe (e dovrebbe) obiettare che è ormai decorso il termine ragionevole di cui parla l’art. 21 nonies.
In definitiva, il ricorso al regime dell’annullamento d’ufficio consentirebbe di sostituire il predetto termine ragionevole al termine di decadenza processuale e per questa via si troverebbe una comunque indispensabile armonia sistematica.
L’unica alternativa sarebbe forse quella di ritenere che, nonostante il silenzio del legislatore ed il riferimento espresso dell’art. 21 bis ad un termine di trenta giorni, il termine orinario di decadenza decorrente dalla conoscenza del provvedimento debba in ogni caso applicarsi ad AGCM in via di interpretazione integrativa.
Il ragionamento testé svolto è altresì confermato dal fatto che non è descritto nella previsione dell’art. 21 bis l. n. 287 del 1990 un automatismo tra mancata conformazione al parere ed azione di AGCM. Si scrive che l’Autorità può presentare il ricorso. Sicché l’Autorità potrà anche condividere le considerazioni della p.a. circa l’assenza dei requisiti del citato art. 21 nonies e determinarsi a non agire.
Parimenti, il verbo potere lascia pensare che il legislatore, anche al di fuori della disciplina sull’annullamento d’ufficio, abbia inteso lasciare alla p.a. uno spazio di valutazione sul merito della contestazione ed una corrispondente facoltà di rifiuto che sia motivato mediante argomentata replica alle obiezioni dell’Autorità. In altre parole, la p.a. potrebbe ritenere che non vi sia la violazione delle norme sulla concorrenza, che la posizione assunta nel parere non sia fondata e che quindi non ci si debba conformare ad essa. Di fronte a siffatta valutazione, AGCM dovrà effettuare una scelta. Potrà decidere di agire, ma potrà anche ritenere di modificare la propria posizione. A parte il caso, indubbiamente difficile a verificarsi, in cui AGCM venga convinta dall’amministrazione e voglia così modificare la posizione assunta già nel parere, potrebbero emergere elementi di fatto ed acquisizioni istruttorie nuovi e tali da poter indurre l’Autorità a modificare il proprio avviso.
Il fatto che dal parere di AGCM nasca, come detto, in capo alla p.a. un obbligo di provvedere e quindi di aprire un procedimento amministrativo volto a decidere sulla possibilità di pronunciare un annullamento d’ufficio, è una circostanza inedita. Proprio per questo deve escludersi che il privato possa, magari accostando la sua iniziativa a quella dell’Autorità, anch’egli denunciare la violazione di norme sulla concorrenza provocando l’obbligo di pronunciarsi della p.a. e magari per questa via garantirsi una impropria riapertura del termine di impugnazione che fosse già scaduto, imbastendo una azione contro il silenzio. L’obbligo riguarda perciò solo il rapporto tra p.a. ed AGCM, la quale potrà allora dirsi, per questo limitato profilo, titolare di una pretesa tutelata a che la prima si esprima sulla vicenda.

6. L’Autorità non può comunque agire senza attivare la fase procedimentale preliminare. Qualora non vi ottemperasse, il relativo ricorso sarebbe inammissibile, per carenza di un vero e proprio presupposto processuale.
Si deve adesso spostare l’attenzione sulla posizione dell’Autorità rispetto alla violazione delle norme sulla concorrenza che essa abbia occasione di rilevare, d’ufficio o anche su segnalazione di un interessato.
La norma parrebbe compatibile con un vero e proprio obbligo di attivarsi (emette un parere motivato), il che toglierebbe discrezionalità all’Autorità. Sicché quando la violazione si ritenga sussistente, non si potrà far altro che emanare il parere. Questa interpretazione sembra plausibile, anche se va raccordata con l’esigenza di evitare prassi che abbiano ricadute gravi sul funzionamento e sull’operato di una istituzione che ha molti altri e rilevanti missioni da portare a compimento. Vale anche per questa norma quindi l’evocazione dei rischi di intasamento che si faceva, qualche decennio fa, a commento delle disposizioni che volevano introdurre il p.m. nel processo amministrativo; un rischio che, questa volta, sembra materializzabile non solo per il giudice ma anche per l’autorità indipendente.
E’ comunque consuetudine di AGCM dare seguito alle segnalazioni che abbia ricevuto, se del caso mediante una lettera di archiviazione. E’ pensabile che questo varrà anche per questo genere di atti.
Quando, su sollecitazione di un privato, l’Autorità fosse posta a conoscenza di una possibile violazione delle norme sulla concorrenza ed il mercato e si decidesse di archiviare, si porrebbe poi l’ulteriore questione se una tale archiviazione sia, a sua volta, impugnabile da tale privato. A parte i problemi che riguardano la necessaria configurazione di una ordinaria legittimazione ad agire del singolo e la previa e necessaria configurazione di una posizione soggettiva nella sua titolarità, sembra davvero difficile riconoscere gli spazi per una simile iniziativa giurisdizionale: il privato, con ogni probabilità, sarà verosimilmente un soggetto già leso dall’atto che si assume abbia violato norme sulla concorrenza e sul mercato. Sicché delle due l’una: o egli potrà ancora agire direttamente, impugnando personalmente e per violazione di legge un tale atto amministrativo davanti al TAR e questo renderà superflua ogni iniziativa contro l’archiviazione; oppure avrà omesso di farlo nel termine di decadenza ed allora l’ordinamento non potrà consentirgli una impropria rimessione in termini mediante l’impugnazione dell’archiviazione dell’Autorità e col fine di rimettere in moto, per volontà del giudice, tutto il meccanismo di cui all’art. 21 bis; se poi si trattasse di un atto amministrativo generale o di un regolamento non ancora lesivo per la mancanza di un atto applicativo, allora il privato interessato potrebbe serenamente attendere l’atto applicativo di segno negativo ed impugnare, a quel tempo, quest’ultimo insieme all’atto generale e/o alla norma di regolamento che lo presupponga.

7. La natura oggettiva di questa giurisdizione è destinata a riflettersi sull’assestamento di una serie di istituti processuali.
Perché un ricorso possa dirsi ammissibile contro un provvedimento amministrativo sono richiesti: (i) una posizione differenziata e la corrispondente legittimazione ad agire; (ii) un interesse ad agire quale ulteriore condizione dell’azione; (iii) un interesse legittimo, quale posizione soggettiva sostanziale.
Ebbene, nel nostro caso il primo requisito è sostituito dalla volontà della legge, che conferisce all’Autorità la legittimazione ad impugnare. Resta da accertare se nella nostra vicenda siano richiesti e se quindi debbano essere verificati gli altri due requisiti.
La risposta dev’essere negativa. Non è possibile ritenere che l’Autorità, in quanto tale, sia titolare di un interesse legittimo in senso proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e realizzazione di un interesse generale alla concorrenza che, per un verso, finisce per coincidere con una sommatoria di interessi di mero fatto ascrivibili alla collettività e, per altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri di una situazione soggettiva imputabile ad un soggetto di diritto.
Nel contempo, quasi come una conseguenza inevitabile, sfuma nel rapporto processuale che contraddistingue questo peculiare diritto di azione di AGCM anche l’interesse ad agire. L’interesse ad agire è personale, attuale e concreto. Sono, questi, caratteri che non si addicono all’azione di un ente pubblico che sia chiamato all’attuazione della legge (le norme a tutela della concorrenza) anziché alla realizzazione di propri interessi. AGCM agisce, appunto, come una sorta di p.m. e per la realizzazione dell’interesse generale alla concorrenza.
Se nascesse la tentazione di sostenere che in questo modello è pur sempre presente l’interesse legittimo, personificato in capo ad AGCM quale ente collettivo (sulla falsariga della costruzione che dato ingresso agli interessi diffusi nel processo amministrativo), probabilmente avremmo concesso così tanto alla nozione da privarla di qualsiasi contenuto giuridicamente rilevante. AGCM non è parte del rapporto con l’amministrazione. AGCM non fa valere situazioni soggettive proprie. Per concludere in questo senso basta il riferimento, da una parte, alle previsioni della norma ed ai lavori preparatori, e, dall’altra parte, alla nozione di situazione soggettiva e di interesse legittimo. Non vi è neppure bisogno, allora, di allargare il discorso, sino a ricordare, ad esempio, che le autorità indipendenti, in quanto ricomprese nello Stato-comunità anziché nello Stato-apparato, non possono vantare la suitas di un interesse pubblico dato né possono corrispondentemente sostenere una peculiare e individuale posizione di interesse.
Una volta accettata questa premessa, avremo che l’azione può dispiegarsi senza che sussista l’interesse al ricorso quale sua condizione. Ne segue ulteriormente che la tradizionale analisi sulla lesività dell’atto amministrativo non dovrà neppure essere esercitata. Questa circostanza potrebbe produrre rilevanti effetti nel caso di impugnazione di regolamenti o di atti amministrativi generali. Per essi, infatti, vale la regola per cui l’impugnazione potrà essere immediata a diretta solo quando (e nei rari casi in cui) abbiano i caratteri della volizione-azione, ossia manifestino una speciale attitudine, per via del loro contenuto, ad incidere immediatamente nella sfera giuridica di un determinato soggetto. Quando invece si tratti di volizione-preliminare, l’impugnazione dovrà esser rivolta di necessità contro l’atto applicativo del regolamento o dell’atto generale, unitamente a quest’ultimo. Ebbene, questa distinzione, nel nostro caso, sembra non doversi più applicare, sicché tutti gli atti generali acquistano, rispetto ad AGCM, i tratti della volizione-azione e diventano suscettibili di impugnazione.
Questa affermazione potrebbe produrre conseguenze rilevanti nella prassi, soprattutto per il caso dei bandi di gara e lettere-invito (e quindi per la lex specialis di gara) nei procedimenti di affidamento di contratti pubblici. E’ noto che, secondo la giurisprudenza, le clausole del bando sono immediatamente impugnabili solo quando hanno un effetto escludente per il partecipante, mentre per tutte le altre il ricorso è proponibile solo rispetto all’atto che chiude la successiva fase procedimentale e sempre che effettivamente esso abbia segno negativo per il singolo soggetto interessato. Viceversa, AGCM potrebbe impugnare, da subito, tutte le clausole del bando. Questo, perlomeno, vale dal punto di vista dell’analisi dell’interesse ad agire e della c.d. lesività del provvedimento. Altro discorso è, invece quello che attiene al vizio-motivo ed alla effettiva ricorrenza di una violazione delle norme poste a tutela della concorrenza. Per tale profilo si rinvia ai prossimi paragrafi (infra, sub. 12).
Deve aggiungersi che l’irrilevanza dell’interesse ad agire potrebbe condizionare notevolmente l’eventuale domanda cautelare che AGCM intendesse proporre davanti al TAR. Infatti il requisito del periculum in mora si gioca e si apprezza soprattutto in funzione del concreto interesse al ricorso. L’Autorità si potrebbe trovare allora nella condizione di non poter facilmente dimostrare di avere integrato questo requisito. Potrebbe venire, forse, in rilievo il pericolo di danno alla struttura del mercato concorrenziale intesa in senso oggettivo, che già rileva quale presupposto per l’adozione di misure cautelari (amministrative) antitrust da parte dell’Autorità ex art. 14 bis della l. n. 287 del 1990. Anche tale requisito però è di incerta consistenza (v. infra par. 13) e di non agevole prova in sede processuale.

8. Se, dunque, non sembra possibile una pronuncia giudiziale di inammissibilità per originario difetto di interesse ad agire, è plausibile, invece, una dichiarazione di irricevibilità, dato che il termine di 30 giorni prescritto dall’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 21 bis sembra avere i caratteri della decadenza processuale.
Il ricorso, poi, dovrebbe essere rinunciabile da parte di AGCM. Posto che il recupero possibile (e parziale ovviamente) dei connotati della giurisdizione di diritto soggettivo è sempre da auspicare, non si vede perché debba considerarsi irretrattabile la decisione di AGCM di proporre il ricorso. Potrebbe l’Autorità, teoricamente, tornare sui suoi passi e ritenere che, a ben vedere, l’ipotizzata violazione delle norme sulla concorrenza non si sia integrata.
Il ricorso potrebbe essere poi dichiarato inammissibile qualora l’Autorità formulasse un vizio motivo che non corrisponde alla violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. Infatti, la legittimazione di AGCM, proprio perché ha carattere eccezionale, non può estendersi al di fuori dei casi espressamente previsti dalla norma in esame. Non stiamo alludendo al caso della infondatezza del vizio-motivo, che provoca una decisione di rigetto, bensì alla deduzione di un vizio-motivo diverso da quello ammesso dalla legge. Posto che la legittimazione ad agire oggettiva attribuita ad AGCM ha sicuramente carattere eccezionale, quando fosse esercitata oltre i confini segnati dalla norma, il giudice dovrebbe arrestarsi ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per carenza della legitimatio ad causam.
Del pari, potrebbe inserirsi tra gli sbocchi di un tale processo la dichiarazione di cessata materia del contendere, per l’eventualità che la p.a. emanasse un nuovo atto che sia satisfattivo dell’interesse generale fatto valere da AGCM. Quest’ultimo, infatti, elimina la violazione, dando luogo al conformarsi dell’amministrazione, sia pur tardivo, all’orientamento espresso dall’Autorità.
Più difficile è stabilire se sia altresì configurabile una sentenza che dichiari la improcedibilità del ricorso per via dell’emanazione di un nuovo provvedimento amministrativo che genera la medesima violazione della concorrenza che già aveva indotto AGCM ad agire contro il primo atto. Se accettiamo l’idea che l’interesse ad agire sia al di fuori del campo di osservazione dell’interprete e quindi estraneo alle condizioni dell’azione (le quali, diversamente dai presupposti processuali, si ricorda che devono sussistere lungo tutta la durata del processo), allora potremmo avere difficoltà a configurare una simile dichiarazione di improcedibilità. Infatti, si potrebbe obiettare che la circostanza che sopravvenga una nuova violazione non elimina l’interesse ad agire contro la precedente, poiché esso non è richiesto come tale e poiché residuerebbe lo scopo di favorire una pronuncia che, nell’interesse generale alla concorrenza, accerti comunque che quel provvedimento è stato posto in violazione di certe norme e che per questo vada annullato.
Tuttavia, quando la violazione delle norme sulla concorrenza sia sostanzialmente identica alla prima e sia commessa dalla medesima amministrazione con un proprio atto (ad esempio l’emanazione di un nuovo regolamento o di un bando, sostitutivo del precedente, che reitera la violazione de qua), potrebbe forse sostenersi che il modello della improcedibilità possa essere replicato. Benché il concetto di interesse ad agire sia qui solo virtuale, per le ragioni anzidette, si potrebbe configurare un onere di AGCM di impugnare anche il secondo atto amministrativo, pena la improcedibilità del ricorso proposto contro il precedente. L’interesse ad una tempestiva impugnativa contro gli atti della p.a. permane anche rispetto ad AGCM, com’è ovvio e com’è confermato dal medesimo art. 21 bis, così come permane l’istituto della inoppugnabilità degli atti amministrativi. Sicché potrebbe tentarsi di configurare i margini per lasciar vivere l’istituto della improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse nei termini così delineati. Come già sostenuto nei paragrafi precedenti, la giurisdizione di tipo oggettivo è eccezionale ed è, anzi, un vulnus rispetto all’armonia del sistema ed ai principi di fondo disegnati in Costituzione, per cui è da favorire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 21 bis, la quale, quando possibile, sciolga i nodi e chiarisca i dubbi in modo da conservare gli istituti tipici del processo amministrativo (e che testimoniano la sua natura prettamente soggettiva).
Infine, la legittimazione ad impugnare implica anche una legittimazione ad appellare. Più delicato è stabilire se la norma abbia voluto concedere ad AGCM anche una legittimazione a proporre appello contro una sentenza di primo grado che sia stata pronunciata in un processo cui l’Autorità sia rimasta estranea. Da un certo punto di vista, la mancanza di un dies a quo severo nell’art. 21 bis e l’apparente possibilità di agire anche dopo un cospicuo periodo di tempo dall’emanazione dell’atto lasciano pensare che una tale strada sia percorribile. Da un altro punto di vita, però, l’eccezionalità della norma, il suo tenore testuale e la difficoltà di incrociare il complesso congegno procedimentale dell’art. 21 bis con un processo già pendente fanno propendere per la soluzione negativa.

9. E’ adesso il momento di concentrare l’attenzione sul contenuto del ricorso. La legittimazione dell’Autorità è infatti circoscritta, sotto pena di inammissibilità come si è detto, alla possibilità di dedurre una ben precisa categoria di vizio-motivo, consistente nella violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato.
Anzitutto, parrebbe che esso corrisponda ad un sottotipo di uno dei tre generali vizi di legittimità, ossia ad un sottotipo della violazione di legge. Sicché sarebbe estraneo all’impugnazione in questione quel particolare vizio che consiste nell’eccesso di potere.
Tuttavia, nell’ambito del concetto di legge sono compresi anche i principi generali, parte integrante del diritto positivo. Ne segue che anche la loro violazione, quando possa nel contempo qualificarsi alla stregua della violazione di norme a tutela della concorrenza e del mercato, dovrebbe poter esser ricompresa nel vizio-motivo a disposizione dell’Autorità. Questo assunto finisce, a ben vedere, per avvicinare potenzialmente questo tipo di doglianza all’eccesso di potere. Questo è anche conseguenza della progressiva erosione della linea di discrimine tra i due vizi di legittimità, in atto da molto tempo, e soprattutto della tendenziale assimilazione dell’eccesso di potere al vizio consistente nella violazione dei parametri generali di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa. In breve, nonostante la puntualizzazione legislativa, per la via dei principi generali il sindacato richiesto da AGCM potrebbe anche finire per lambire la sfera del merito e sovrapporsi a profili che tradizionalmente appartengono alla figura dell’eccesso di potere. Questa circostanza induce a considerare con ancora maggior cautela i confini del concetto di violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, confini sui quali dobbiamo ora soffermarci.
In verità, il problema interpretativo è serio e non facile da risolvere. Non esistono dati univoci che ci consentano di dire quando una siffatta violazione sia stata effettivamente maturata. In attesa di verificare quali saranno le scelte della giurisprudenza, possiamo intrattenerci su alcune possibili e plausibili soluzioni.
La prima possibilità è di guardare agli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento UE, i quali, disciplinando rispettivamente l’intesa anticoncorrenziale e l’abuso di posizione dominante, rappresentano le principali direttive dell’azione antitrust in ambito europeo.
Sennonché queste disposizioni possono costituire solo un elemento di orientamento e non possono esaurire la ricerca delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. Infatti, la loro violazione (recte: la commissione di quei comportamenti che esse considerano come illeciti) è già presidiata da un autonomo sistema di reazioni disciplinate puntualmente dall’ordinamento, e comunitario e nazionale. Sul piano dei rapporti contrattuali e dell’illecito civile è prevista la giurisdizione del g.o. dall’art. 33 l. n. 287 del 1990. Sul piano del public enforcement, invece, l’Autorità è chiamata, nel quadro del network disciplinato dal regolamento n. 1 del 2003, ad attivare i suoi poteri di accertamento e sanzionatori, sicché non v’è spazio per inserirvi una simile impugnazione.
Nondimeno, come si dirà tra un attimo, gli artt. 101 e 102 e soprattutto l’insieme di principi ed interpretazioni che su di essi si sono formate costituiscono un punto di riferimento che ben potrebbe guidare l’interprete, se non altro per delineare la tipologia di violazioni e di comportamenti che sono rilevanti per l’interesse generale alla concorrenza.
Piuttosto, è da chiedersi se, con una espressione così ampia, il legislatore non abbia voluto affidare ad AGCM il potere di impugnare atti amministrativi che si pongano in contrasto con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 107 e ss. del Trattato.
Il tema è complesso e richiederebbe una trattazione a sé stante. Si deve comunque ricordare che una comunicazione della Commissione del 2009 (Comunicazione relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato da parte dei giudici nazionali, in G.U. n. C 85 del 9 aprile 2009, 1) intende stimolare ed accrescere l’attenzione dei giudici nazionali per l’applicazione nei rapporti tra privati della disciplina sugli aiuti di Stato; in modo particolare per quel che concerne le azioni risarcitorie proposte dai terzi che si ritengano lesi da aiuti di Stato illegittimi e le azioni di recupero degli aiuti dichiarati illegittimi. Nel nostro caso, si potrebbe verificare appunto se non si sia voluto anche ampliare le competenze dell’Autorità sino ad attivare davanti al g.a. nazionale una controversia volta ad ottenere l’annullamento di provvedimenti che siano in contrasto con la disciplina sugli aiuti.
Esiste però un ostacolo di fondo, che deriva dal fatto che la competenza volta a stabilire se un aiuto sia compatibile con la libera concorrenza e con le regole di buon funzionamento del mercato interno è saldamente ancorata in capo alla Commissione e non è previsto per gli aiuti un sistema di decentramento delle competenze come quello disciplinato dal regolamento n. 1 del 2003 a proposito degli illeciti antitrust. Questo dato potrebbe ostacolare una simile interpretazione estensiva. Resterebbe da verificare se essa, però, non possa esser riproposta per quelle fattispecie nelle quali l’accertamento di illegittimità dell’aiuto sia stato già effettuato dalla Commissione e siano successivamente adottati atti amministrativi con esso contrastanti; si pensi, in particolare, al tema del recupero dell’aiuto.

10. Una volta che si escluda che le norme generali del TFUE sulla concorrenza possano essere la puntuale (ed esclusiva) cornice della violazione che AGCM è oggi legittimata a dedurre davanti al giudice amministrativo, è necessario allargare il quadro di analisi. E così interrogarsi sul se il concetto di tutela della concorrenza debba essere interpretato in modo restrittivo, sì da vincolarlo nel solco di quella attività che si sostanzia nella vigilanza ex post su fatti lesivi della libertà di concorrenza e da escludere dal suo bacino l’amplissima gamma degli interventi di promozione della concorrenza, i quali operano secondo una logica ex ante. Il primo settore coincide perlopiù con la disciplina antitrust intesa in senso proprio; il secondo settore invece abbraccia l’intero spettro della disciplina regolatoria volta a promuovere e ad instaurare la concorrenza rispetto a mercati e/o situazioni concrete nelle quali la libertà di competizione non possa dirsi davvero affermata.
Benché l’auspicio già formulato in questo scritto sia (ove possibile) nel segno di una interpretazione restrittiva della disposizione dell’art. 21 bis, non sembra plausibile circoscriverne l’applicazione ai soli casi in cui la violazione attenga a norme volte a tutelare la concorrenza secondo una logica ex post. In primo luogo, questa serie di norme corrisponde proprio agli artt. 101 e 102 citati (e, nel campo nazionale, agli artt. 2 e 3 della l. n. 287 del 1990), sicché valgono le considerazioni testé svolte circa la loro non diretta e specifica rilevanza nella vicenda che si sta qui trattando. In secondo luogo, l’art. 21 bis menziona non soltanto le norme a tutela della concorrenza, bensì anche quelle a tutela del mercato, dal che può evincersi una portata applicativa più ampia. In terzo luogo, l’espansione verso la violazione di norme di regolazione e di promozione della concorrenza è un obiettivo dichiarato nei lavori preparatori e nel dibattito che ha accompagnato questa novità legislativa.
A quest’ultimo proposito, può essere ricordato che il potere di impugnazione di AGCM parrebbe esser stato introdotto anche per favorire l’impugnazione di quegli atti con i quali gli enti locali, disattendendo gli indirizzi del legislatore nazionale, confermino gli affidamenti diretti a società in house providing delle concessioni per la gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. L’Autorità ha visto nel corso degli ultimi anni a sé assegnato un potere di vigilanza che si esprimeva nell’emanazione di un parere (obbligatorio ma non vincolante, ex art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008 e s.m.i.), con la conseguenza che, qualora l’ente locale avesse, nonostante un parere contrario, confermato la propria decisione circa l’affidamento in house e qualora in tali contingenze non vi fossero stati dei soggetti specificamente interessati a proporre un ricorso davanti al g.a., avremmo avuto che un tale affidamento si sarebbe comunque consolidato. L’art. 21 bis verrebbe, in certo qual modo, a colmare questa lacuna e consentirebbe ad AGCM di agire direttamente per ottenere l’annullamento dell’affidamento contrastante con i requisiti tassativamente imposti dalla legge nazionale.
In concreto, poi, un intervento di tal fatta (mirato ad impugnare un affidamento compiuto in via diretta senza celebrare una gara) dovrebbe oggi ben coordinarsi con il parere che ai sensi dell’art. 4, commi 3 e 4, del d.l. n. 138 del 2011, novellato dall’art. 25 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, AGCM è chiamata a dare sulle delibere di verifica delle condizioni del singolo servizio pubblico locale da parte degli enti competenti. Si tratta di un coordinamento non facile, che probabilmente dovrebbe comunque prevedere in prima battuta il parere ex art. 4 citato e, solo dopo l’eventuale insistenza dell’amministrazione, il secondo parere ex art. 21 bis preordinato all’impugnazione. I casi concreti dimostreranno se, ed in qual misura, risulterà possibile concentrare i due pareri in una determinazione unitaria.
Al di là di tali profili di specie, il capitolo in questione è di estremo interesse per chi voglia comprendere quale sia la portata applicativa della disposizione che esaminiamo. Infatti, affermare che il settore degli affidamenti in house possa esservi attratto presuppone, a ben vedere, due scelte di fondo, entrambe nel segno di una interpretazione piuttosto ampia della disposizione: (i) la prima è quella, di cui si è detto poc’anzi, a favore della impugnazione di norme che siano oltre che di tutela anche di promozione della concorrenza e di regolazione pro-concorrenziale; (ii) la seconda è quella che addirittura postula l’applicazione del 21 bis in costanza della violazione di norme che non siano volte in senso proprio a favorire la liberalizzazione e quindi la concorrenza, bensì la mera privatizzazione di settori dell’economia. L’ostilità espressa in questi ultimi anni dal legislatore nazionale verso gli affidamenti in house dei servizi pubblici locali non è il frutto di una politica di liberalizzazione tout court, ma di una spinta verso la loro privatizzazione. Le politiche di privatizzazione dei servizi pubblici locali (perlomeno sino all’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011) hanno assecondato un modello che non vede necessariamente la competizione tra più operatori, perché mantiene delle condizioni di monopolio legale nella gestione in esclusiva del servizio, pur imponendo la selezione imparziale e mediante gara di un privato per la loro gestione.
Le norme che sospingono i processi di privatizzazione non sono, in senso proprio, norme a tutela della concorrenza e non sono (o non sono sempre) norme di liberalizzazione; o meglio, esse possono ridondare in una ricaduta pro-concorrenziale nella parte in cui introducono il congegno della gara e della concorrenza per il mercato nella selezione del privato od essere strumentali alla futura apertura dei determinati mercati e quindi alla effettiva loro liberalizzazione, sì da evitare che il portato della loro efficacia sia unicamente la sostituzione di un monopolista pubblico con uno privato. Ma la distinzione di fondo rimane ben scolpita.
L’espansione a tutti questi casi del potere di impugnazione è indubbiamente un passo interpretativo di rilievo, specie se torniamo alla eccezionalità del potere conferito ad AGCM. Tuttavia, sia il dato letterale sia (e soprattutto) i lavori preparatori e l’insieme del dibattito che ha ispirato il legislatore inducono a ritenere che una tale espansione sia possibile. Sicché la violazione di norme sulla privatizzazione obbligatoria di un certo mercato è sufficiente ad integrare quel vizio-motivo che l’Autorità potrà dedurre nel proprio ricorso.

11. Accanto alle norme che si limitano, perlomeno in prima battuta, ad imporre la privatizzazione di dati mercati, ne esistono altre che invece ne impongono effettivamente pure la liberalizzazione. Questo è stato, ad esempio, da ultimo previsto come passo avanti proprio per il caso dei servizi pubblici locali dall’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, il quale ha richiesto che, prima di optare per la gestione in esclusiva di un servizio, l’ente locale debba accertare se non vi sia la possibilità di una gestione in concorrenza da parte di più operatori. Il che condurrebbe a sostituire allo strumento dell’affidamento della concessione al monopolista quello del rilascio di una pluralità di autorizzazioni, se del caso sempre a seguito di un confronto competitivo quando le autorizzazioni debbano essere contingentate e gli aspiranti siano in numero superiore. Che tali disposizioni possano esser considerate norme a tutela della concorrenza e del mercato ai fini dell’art. 21 bis sembra, a questo punto del ragionamento, scontato. Sicché, quando l’amministrazione abbia posto in essere un atto generale o regolamentare ovvero anche un provvedimento puntuale che siano in contrasto con siffatte norme, sarà possibile che AGCM agisca davanti al TAR, e questa volta come guardiano della liberalizzazione e non soltanto della privatizzazione.
Si sono fatti da ultimo esempi che riguardano attività che potrebbero rientrare pur sempre nella nozione di servizio di interesse economico generale e che quindi gravitano nel tradizionale ambito del servizio pubblico.
Andando al di là di esso, però, vi sono quelle norme che abbiano previsto per attività (e corrispondenti mercati) in precedenza gestiti mediante atti di concessione od autorizzazione la completa esenzione da forme di previa vigilanza amministrativa e quindi la destinazione senza limiti al mercato libero. Ebbene, anche questo scenario merita attenzione. Dei provvedimenti che, in distonia con queste premesse, reintroducessero vincoli amministrativi tali da restringere la competizione, introdurre improprie barriere all’ingresso ovvero imporre oneri economici, sarebbero infatti tutti atti contrastanti con la tutela del mercato; e questo perché determinerebbero una estensione della mano pubblica che impedisce alle logiche di mercato di muoversi secondo le loro naturali dinamiche. Gli esempi potrebbero essere molteplici e spesso essi sono stati oggetto di interventi dell’Autorità nell’esercizio delle sue funzioni consultive e di proposta: per fare qualche esempio concreto, vanno dal trasporto cittadino su bus turistici, che è aperto alla competizione libera e non confondibile col servizio pubblico di trasporto locale, sino alla attività di recupero della gestione dei rifiuti, che non è sottoposta al regime di privativa che contraddistingue le fasi precedenti del servizio integrato di gestione dei rifiuti urbani.
Si potrebbe obiettare che, in questo modo, ci si muove su una linea di eccessivo ampliamento della nozione e che il fine della norma sia invece quello di tutelare la concorrenza e non il libero mercato tout court. Insomma, si potrebbe osservare che l’unica violazione che può interessare AGCM è quella che incide con nesso causale diretto sulla competizione e non anche quella che, senza alterarla, venisse a porre oneri amministrativi od anche economici che finissero per gravare su tutti i competitors. Questo ordine di idee collegherebbe il potere di ricorso solo a quelle determinazioni amministrative che fossero effettivamente in grado di alterare la par condicio tra i concorrenti. Se invece non si provocasse una vera discriminazione, il nesso causale verrebbe meno e non vi sarebbe più il fondamento di tale legittimazione ad agire.
Ma se davvero l’art. 21 bis dovesse funzionare solo per quegli atti che avessero la capacità di incidere direttamente sulla competizione in un dato luogo di mercato, allora dovrebbe derivarne una forte limitazione del suo spettro di applicazione. Anche le vicende del c.d. in house providing non darebbero luogo a provvedimenti che incidono sulla competizione tra più operatori alterandone il suo naturale corso. Sicché il punto cruciale è quello di stabilire se una certa qual espansione della legittimazione ad agire in questione sia ammissibile o se debba esser confinata entro limiti molto ristretti. Chi abbia a cuore la giurisdizione di diritto soggettivo e consideri, inevitabilmente, questa novità come una eccezione alla regola, potrebbe guardare con interesse ad interpretazioni restrittive dell’art. 21 bis. Tuttavia, il tenore letterale e soprattutto la ratio legis desumibile dai lavori preparatori, come già sottolineato, non mi pare che consenta una prospettiva così ristretta. Potremmo, se del caso, aprire un dibattito circa l’opportunità di assegnare ad AGCM compiti che non siano strettamente coerenti con la sua principale missione istituzionale; ma si tratterebbe di compiere valutazioni di politica legislativa, che non possono interferire con il ruolo dell’interprete, l’unico rilevante per l’approccio in questo scritto. Quindi i provvedimenti che imponessero oneri “amministrativi” o barriere su mercati liberalizzati potrebbero dirsi posti in violazione di norme a tutela della concorrenza e del mercato.

12. Una considerazione a sé è dovuta ancora al caso dei bandi di gara ed alla facoltà di impugnarne le clausole che possano essere considerate in violazione delle norme sulla concorrenza e il mercato.
E’ sempre più frequente l’osservazione che collega alla tutela della concorrenza pressoché tutte le norme che disciplinano la selezione del contraente delle amministrazioni e degli enti ad esse assimilati.
Il codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 163 del 2006) è sovente definito come un testo di legge che si occupa di tutelare la concorrenza.
Questo è accaduto almeno per tre motivi.
Il primo consiste nel fatto che la disciplina comunitaria si è molto ampliata nel corso dell’ultimo ventennio, come sappiamo, diventando il principale parametro di riferimento di quella nazionale per ciò che concerne il fenomeno procedimentale di cui discutiamo. Dal momento che la radice primaria della normativa comunitaria riguarda la tutela della libertà di concorrenza, di libera circolazione e di stabilimento nel mercato interno, si tende ad assorbire (e semplificare) il profilo teleologico delle norme nazionali, concludendo che, esse, ormai, tutelano anzitutto la concorrenza prima ancora che altri valori, come l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, se non addirittura in esclusiva la concorrenza come valore assoluto.
Il secondo motivo è al primo strettamente connesso: si tratta dell’osservazione, anch’essa molto diffusa, secondo cui le norme de quibus sono lontane dall’impostazione tradizionale della disciplina contabilistica degli anni ’20, che tutelava in primo luogo l’interesse dell’amministrazione, e guardano ormai alla protezione di tutti i soggetti che prendono parte a questi procedimenti e, quindi, anzitutto dei privati partecipanti in competizione tra di loro.
Il terzo motivo nasce da una contingenza tutta peculiare all’ordinamento italiano. Si tratta del “disordine” nell’allocazione delle materie di competenza legislativa di Stato e Regioni apertosi dopo il 2001 e la novella dell’art. 117 Cost. La Corte costituzionale (sent. n. 401 del 2007), chiamata a stabilire se la disciplina statale sui procedimenti di selezione del contraente nei contratti pubblici contenuta nel predetto codice avesse provocato una invasione nelle materie di legislazione regionale, ha risolto il problema facendo appello alla materia statale della tutela della concorrenza. Più precisamente ha rinvenuto la radice di questa competenza statale nell’ambito dell’art. 117, comma 2, lett. e), in quella materia testualmente riferita alla tutela della concorrenza ed intesa così (ai soli fini dell’art. 117, si noti) secondo una accezione molto ampia.
Queste tendenze interpretative, una volta trapiantate nella nostra fattispecie, potrebbero portare ad un allargamento davvero sorprendente dell’art. 21 bis.
Nutriamo però, al riguardo, più di una perplessità.
La qualificazione di ogni norma che riguardi il fenomeno della c.d. evidenza pubblica esterna nei termini di norma che tutela la concorrenza è accettabile solo se ad essa non si facciano seguire conseguenze interpretative così stringenti. Infatti, dire che la disciplina sulla selezione dei contraenti è improntata alla tutela della concorrenza significa incorrere, inevitabilmente, in una semplificazione concettuale. Le norme in discussione hanno uno spetto teleologico ben più vasto. Resta in primo piano la tutela dell’imparzialità dell’azione amministrativa, nonché del buon andamento in tutte le sue accezioni, così come sono in primo piano i suoi numerosi sottoprincipi, non ultimo, specie ai nostri giorni, quello della economicità e parsimoniosa utilizzazione delle risorse pubbliche. Assume rilevanza persino la tutela dell’ambiente e la realizzazione di fini di rilievo sociale. La tutela della concorrenza in questa materia, lungi dal presentarsi come valore assoluto o presuntivamente primario, è destinato allora a combinarsi e ad essere contemperato con tutti gli altri che l’ordinamento prende in considerazione, in sintonia con una tradizione antica e però ancora attualissima. E questa ampiezza di contenuti, si noti, non è propria unicamente dell’ordinamento nazionale, ma è anzi consolidata proprio nell’ordinamento comunitario (basti guardare al contenuto del Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici, Commissione UE 27 gennaio 2011, COM 2011, 15 def.).
Si aggiunga che il settore di cui discutiamo è un tassello rilevante e delicato dell’economia nazionale (e comunitaria, evidentemente). E’ frequente nel dibattito pubblico e di politica legislativa la doglianza circa il (vero o presunto) effetto limitativo dell’azione pubblica, specie nella realizzazione di infrastrutture, provocato dal contenzioso amministrativo. Del pari, l’ultima riforma del processo sui contratti pubblici, al di là delle esigenze di recepimento della direttiva 66/2007, ha inteso con evidenza disincentivare il processo, con misure di estremo rigore, come la prescrizione di severissimi termini di decadenza. Ebbene, in tale contesto parrebbe quantomeno originale che il legislatore avesse inteso affidare ad AGCM il potere di ricorrere contro tutte le clausole dei bandi di gara (e magari contro tutti gli altri provvedimenti posti in essere dall’amministrazione in tali procedimenti) e per la violazione di tutte le norme di legge (ed i relativi principi) vigenti in materia. Saremmo di fronte ad un potere di azione oltretutto sterminato, se consideriamo il numero di stazioni appaltanti ed il numero di contratti pubblici. Per non dire del fatto che esiste in quest’ambito già l’attività regolatoria dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e che si rischierebbero duplicità di interventi ed inopportune interferenze. Il tutto con una espansione della sfera pubblica davvero rimarchevole.
Sembra inevitabile allora auspicare un’interpretazione restrittiva.
Essa potrebbe anzitutto suggerire di distinguere tra norma e norma, per stabilire e definire quale possa effettivamente dirsi posta a tutela della concorrenza.
In secondo luogo, si potrebbe a questo fine accertare quando una di esse presenti un profilo comune a norme che siano quantomeno definibili a tutela del mercato e quindi connesse alla disciplina che fosse stata emanata a sostegno della privatizzazione o liberalizzazione di settori economici. Valga ancora il riferimento già fatto al settore dei servizi pubblici locali.

13. La problematica da ultimo presa in considerazione va anche esaminata sotto un diverso profilo.
Si tratta di aprire una parentesi e di allargare il discorso ad alcuni temi e ad altrettante contrapposizioni teoriche che hanno contraddistinto il diritto antitrust comunitario nel corso di questi ultimi anni, per domandarci se possano avere una rilevanza nell’interpretazione dell’art. 21 bis.
Il diritto antitrust è sempre vissuto nel solco di un sottile equilibrio tra per se rule e rule of reason. Ossia nell’equilibrio tra una interpretazione che fa del principio di tipicità la chiave principale del public enforcement ed una interpretazione che invece si alimenta direttamente al criterio di ragionevolezza e che si munisce perciò di altrettante valvole flessibili per la distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato.
L’ultima fase di questa dialettica è l’acceso confronto, emerso sia in termini generali e metodologici sia in relazione a singole fattispecie, che ha contrapposto in dottrina un approccio economico-sostanziale ad un metodo giuridico-formale.
Il primo, per poter dire definitivamente che un dato comportamento è lesivo della libertà di concorrenza e che perciò merita una valutazione negativa da parte dell’ordinamento, postula che debba esser dimostrato, prima ancora ed oltre che la violazione della norma in senso formale, un effetto sostanziale negativo. Tale effetto sostanziale corrisponde alla lesione del c.d. consumer welfare. Il diritto antitrust tutela il benessere del consumatore, sicché solo quando sia dato registrare grazie all’analisi economica una simile lesione sarà possibile concludere che un illecito sia stato configurato. Questa visione sottolinea anche che le discipline economiche hanno avuto, da sempre, un ruolo cruciale nell’orientare il diritto della concorrenza. Esse, allora, costituirebbero il grimaldello per poter appurare quando si sia sconfinato nel campo dell’illegalità.
Queste tendenze hanno trovato spazio sia nella normativa comunitaria sia negli orientamenti della Commissione, anche se la Corte di giustizia si è mostrata ancora piuttosto diffidente verso di essi. Bastino qui tre esempi: (i) il regolamento del 2004 sulle concentrazioni di livello comunitario, che ha iniziato ad unire al test formale della dominanza nel mercato (quale indice negativo per il rilascio dell’autorizzazione) la considerazione empirica della Substantial Lessening of Competition (la sostanziale riduzione della concorrenza); (ii) gli orientamenti della Commissione del dicembre 2008 sugli abusi escludenti, i quali, pur tra molte incertezze applicative, tendono comunque ad assicurare che vengano sanzionate come abuso di posizione dominante solo quelle condotte che, al di là della cornice giuridico-formale, si possano dire davvero, e in concreto, dannose per la concorrenza e i consumatori; (iii) le linee guida diramate dalla Commissione sugli accordi di cooperazione orizzontale e pubblicate nel gennaio del 2011, le quali hanno iniziato a mettere in discussione che una intesa anticoncorrenziale solo “per l’oggetto” possa esser sanzionata senza alcun concreto accertamento degli ulteriori “effetti” anticoncorrenziali e lesivi per il benessere dei consumatori.
Il secondo orientamente, invece, ribadisce l’importanza della cornice legale di riferimento. Pur riconoscendo il fondamentale ruolo che l’analisi economica svolge in questo settore del diritto, nega che il consumer welfare possa avere un valore sostitutivo del dato positivo. Questo lo si afferma ricordando, nel contempo, che il diritto positivo va letto e ricostruito in linea con i risultati più recenti che lo stesso ordinamento ha offerto: non tanto come mero dato formale della norma, quanto come regola e/o principio ricostruito nel segno delle interpretazioni che della norma sono state proposte dalla amministrazione (in tal caso dalla Commissione) e dai giudici, comunitari e nazionali. La logica dello stare decisis in questo campo si salda con la (limitata) forza esplicativa della norma e produce un illecito che potremmo continuare a considerare perciò tipico e tipizzato. In breve, secondo tale approccio l’illecito sussiste quando è stata violata la legge e non quando (e solo quando) sia stato procurato un danno al consumer welfare.
A sostegno di questo secondo orientamento si denuncia il rischio che l’approccio sostanzialista possa condurci nello spazio sconfinato (e gravemente insicuro) del diritto libero, con un vulnus ai principi dello Stato liberale di diritto: si consentirebbe di stabilire volta per volta la soglia di punibilità di un certo comportamento e la linea di discrimine verrebbe stabilita dalle personali convinzioni di un’autorità amministrativa, o dalle convinzioni della scienza economica, soggetta peraltro a mutevoli orientamenti.
Vi è una seconda obiezione alla base di questa linea di pensiero; forse la più spinosa e certamente quella più interessante ai fini dell’art. 21 bis.
Secondo essa, in realtà, il consumer welfare non esiste: è una fictio, dai contorni così mutevoli e oscillanti da non poter costituire il parametro di funzionamento di una norma sanzionatoria. Da un lato, dal momento che qui stiamo discutendo di una valutazione sostanziale di effetti sostanziali, non possiamo certamente legare un ragionamento di questo tipo ad un consumer welfare inteso come l’idea media, o il valore medio, o la tendenza del consumatore medio, del bonus pater familias. Dall’altro lato, non possiamo ragionare come se esistesse una categoria omogenea di soggetti che esprimono tutti insieme dei valori comuni e che formano, quindi, quel terreno d’analisi che ci dà poi il consumer welfare. In realtà, nel mercato ci sono interessi divergenti, ci sono interessi conflittuali, perché – per fare un esempio anche banale, ma forse efficace – se sanzioniamo una grande impresa, probabilmente faremmo il benessere di alcuni consumatori, ma certamente danneggeremmo gli interessi degli azionisti e degli obbligazionisti di quella grande impresa, che potrebbero anche risentire di conseguenze molto gravi dall’applicazione di una sanzione antitrust alla società di cui loro sono stakeholders. E se è vero che nel mercato, in realtà, non esiste un benessere del consumatore in quanto tale, ontologicamente ricostruito, e se esistono invece interessi sparsi, in conflitto tra di loro, la decisione dell’autorità nazionale di concorrenza allora incide su un conflitto, e quindi non fa altro che compiere comunque un bilanciamento degli interessi in gioco, componendo tali conflitti secondo l’una o l’altra logica possibile.
Ma, ancora, se così è, se non esiste il consumer welfare in quanto tale, se esiste invece una pluralità di interessi che sono in contrapposizione tra di loro, se è vero che la decisione interviene su questi interessi in conflitto assestandoli, componendoli, bilanciandoli secondo una certa idea che, poi, è quella che alimenta l’accertamento del disvalore del comportamento; se tutto ciò è vero, noi non possiamo accettare la tesi che la soglia di discriminazione tra il lecito e l’illecito, nella decisione dell’autorità amministrativa, sia l’incremento o la reductio di un consumer welfare che è intangibile e impalpabile, perché avremmo l’enunciazione formale di un dato sostanziale impercettibile, che verrebbe paradossalmente addirittura a nascondere, ad occultare il vero fine ed il vero intendimento dell’autorità. Perché l’autorità, in realtà, incidendo sui conflitti di interessi, dietro quell’apparente enunciazione della tutela del benessere del consumatore, non fa altro che utilizzare un’espressione di sintesi che cela dietro sé un certo modo di comporre il conflitto tra gli interessi che stanno sul mercato; ma se non si dichiara che, a ben vedere, si sta effettuando quella composizione e si afferma, invece, che si sta tutelando il benessere del consumatore, si rischia di non rendere trasparente la ragione del decidere, di non rendere percettibile nel dibattito pubblico il perché è stata adottata una certa scelta piuttosto che un’altra e, nell’ambito della scelta adottata, perché è stato effettuato un certo tipo di dosaggio rispetto a date componenti della decisione piuttosto che non altre.
Ebbene, una volta chiusa la parentesi, ci chiediamo: perché richiamare questo dibattito ai nostri fini? Quale attinenza può mai avere con l’azione affidata dall’art. 21 bis ad AGCM?
In primo luogo, la risposta sta nella stessa disposizione, dato che essa fonda siffatta legittimazione sulla violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. Si tratta perciò di stabilire il confine di cosa sia una violazione (effettiva) della concorrenza e di decidere se, per poterla definire, sia sufficiente guardare alla norma ed al modo in cui il diritto vivente ne ha contornato i tratti o se invece si debba anche registrare una lesione effettiva al consumer welfare.
Inoltre, dato che la legittimazione è conferita ad AGCM nelle forme di una giurisdizione oggettiva e per realizzare l’interesse generale alla concorrenza, si devono definire i confini di tale ultimo interesse, allo scopo di stabilire se esso possa esser letto come ispirato in termini sostanziali alla realizzazione del consumer welfare.
Personalmente, riterrei di dover dare una risposta unitaria ai due quesiti, pur sottolineando le differenti conseguenze che ne derivano circa la portata della norma.
Quando ci chiediamo se la violazione deducibile davanti al TAR sia quella caratterizzata dalla lesione del benessere del consumatore, risponderemo che questo elemento aggiuntivo non è né previsto né richiesto dalla norma. La violazione della norma resta qualificata dalla relativa cornice giuridica e dalle sue interpretazioni nel diritto vivente. Oltretutto, rispetto a questo dato riscontriamo la diversità tra i due problemi interpretativi (un conto è definire i limiti della speciale legittimazione a ricorrere, altro conto appurare i presupposti dell’illecito antitrust ex artt. 101 e 102 TFUE) e torniamo a sottolineare il peso che per l’art. 21 bis hanno e il tenore letterale e i lavori preparatori.
L’effetto di tale risposta è quello di espandere la portata applicativa della norma: basterà rinviare a quanto si è detto a proposito delle norme sulla promozione della concorrenza e sul sostegno alla privatizzazione, la cui violazione può dar luogo alla speciale legittimazione ad agire.
Quando, poi, ci interroghiamo sul fondamento di questa legittimazione speciale, dovremo dire che l’interesse generale alla concorrenza quale fondamento ispiratore di questa eccezionale legittimazione processuale di AGCM deve essere interpretato e soppesato in sintonia con quel che l’ordinamento positivo prevede con le sue norme sulla tutela della concorrenza e del mercato, senza aggiungervi accenti sostanzialistici che alludano ad una funzione ulteriore di tutela del consumer welfare.
Questa risposta segna, diversamente dalla precedente, una spinta verso l’applicazione restrittiva della norma, perché impedisce che l’allargamento del concetto di violazione di norme della concorrenza perda il contatto con la cornice giuridica e sconfini in ambiti imprevedibili e dominati da valutazioni prevalentemente non giuridiche ed economico-sostanziali.
Quest’ultima considerazione è importante, non soltanto perché si riannoda al già rimarcato carattere eccezionale della norma e quindi ne favorisce una applicazione “meditata”, ma anche perché ci mette al riparo da alcuni rischi.
L’amministrazione rimane un soggetto molto particolare nell’ordinamento, la cui azione presuppone alcune regole altrettanto peculiari ed un regime speciale.
Sicché, ammonendo sulla “giuridicità” dell’interesse alla tutela della concorrenza e del mercato, si evita il rischio che sotto l’egida del consumer welfare il giudice amministrativo, su impulso dell’Autorità, vada a sconfinare nelle “praterie” del merito amministrativo. Il tema della riserva di amministrazione verso la giurisdizione, quanto alla sfera del merito, parrebbe non toccato dalla vicenda qui in esame. Sennonché occorre molta cautela, perché la giurisdizione di diritto oggettivo, specie se collegata ad interessi generali non sempre puntualmente definibili, rischia di determinare proprio questo tipo di interferenze.
Ricordando che l’interesse generale alla concorrenza che guida l’azione di AGCM è agganciato a dati giuridico-formali, si evita altresì il rischio che l’imprevedibilità e l’imprecisione di tale concetto finisca per rendere imprevedibile anche l’illegittimità amministrativa, creando per l’amministrazione e per i cittadini nei loro reciproci rapporti un velo di incertezza difficilmente sopportabile. Il bene della certezza nella relazioni giuridiche è anch’esso parimenti (e quanto mai) prezioso. Ancor più lo è quando è in gioco l’azione amministrativa. Proprio la concorrenza e il mercato principalmente se ne nutrono, sicché è necessario che se ne tenga adeguatamente conto.

 

(pubblicato il 30.1.2012)

 

 

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento