REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo
Regionale per la Sicilia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 671 del
2011, proposto da
Gaetano Costa, rappresentato e difeso dagli avv.
Maria Licata e Giuseppe Ribaudo, con domicilio eletto presso l’avv.
Giuseppe Ribaudo in Palermo, via M. Stabile 241;
contro
Ministero della Salute, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato
di Palermo, presso i cui offici, in Palermo, via A. De Gasperi 81, è
domiciliato per legge;
per l'esecuzione
della sentenza del
T.A.R. Sicilia, sede di Palermo, n. 4140 del 20 dicembre
2006.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di
costituzione in giudizio di Ministero della Salute;
Viste le memorie
difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera
di consiglio del giorno 5 luglio 2011 il dott. Giovanni Tulumello e uditi
per le parti i difensori come specificato nel verbale;
1. Con
ricorso per esecuzione di giudicato notificato il 25 marzo 2011, e
depositato il successivo 31 marzo, il prof. Gaetano Costa ha chiesto
l’esecuzione della sentenza di questo T.A.R. n. 4140 del 20 dicembre 2006,
confermata a seguito di decisione del Consiglio di Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana, n. 1042 del 15 dicembre
2008.
Espone, in particolare l’odierno ricorrente:
- di essere stato
designato componente del collegio sindacale dell’Azienda Ospedaliera
“Civico-Fatebenefratelli-M. Ascoli- Di Cristina” in data 5 aprile 2006
quale rappresentante del Ministero della Salute;
- che lo stesso
Ministero, con successiva nota 29 maggio 2006, ha revocato la
designazione;
- che la revoca, impugnata dallo stesso prof. Costa, è
stata annullata dalla sentenza di questo T.A.R. n. 4140 del 20 dicembre
2006, confermata a seguito di decisione del Consiglio di Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana, n. 1042 del 15 dicembre
2008.
- di essersi insediato quale componente del collegio sindacale
solo in data 21 luglio 2007.
Nel ricorso in esame il prof. Costa
lamenta la mancata percezione dei compensi economici relativi alla
funzione di componente del collegio sindacale, dal 16 ottobre 2006 (data
di insediamento dell’organo) al 31 luglio 2007.
Chiede quindi che, in
esecuzione del giudicato formatosi sulle richiamate sentenze di primo e
secondo grado, il Ministero intimato sia condannato al pagamento:
a)
della somma di € 11.641,05 (corrispondenti agli emolumenti non percepiti),
oltre interessi e rivalutazione, ai sensi dell’art. 112, comma 3, del
codice del processo amministrativo;
b) delle spese del giudizio di
annullamento della revoca, liquidate in complessivi euro 1.500,00, mai
corrisposti dall’amministrazione (anche in questo caso con interessi e
rivalutazione).
2. Con memoria depositata il 31 maggio 2011, si è
costituito in giudizio il Ministero della Salute, con il patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato.
L’amministrazione intimata chiede che il
ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque improcedibile sulla base
delle seguenti argomentazioni:
- l’amministrazione ha pienamente
ottemperato alla sentenza che ha annullato la revoca della designazione,
provvedendo ad immettere nella funzione il prof. Costa;
-
conseguentemente, non vi è materia di giudizio di ottemperanza, in quanto
il ricorrente nella realtà non lamenta la mancata esecuzione del giudicato
di annullamento, ma domanda il risarcimento per equivalente monetario del
danno da illegittimo esercizio della funzione;
- il terzo comma
dell’art. 112 del codice del processo amministrativo non sarebbe
invocabile, in quanto non si discute di un danno da mancata esecuzione o
da violazione o elusione di giudicato (dal momento che l’odierno
ricorrente è stato integrato nella funzione addirittura prima
dell’intervenuta formazione del giudicato di annullamento, conseguente
alla sentenza di secondo grado, e quindi già in sede di esecuzione della
sentenza di primo grado gravata ma non sospesa);
- il quarto comma del
citato art. 112, in astratto invocabile, è però in concreto rimedio non
percorribile, attesa l’intervenuta proposizione della domanda ben al di là
del termine decadenziale di centoventi giorni dall’avvenuta formazione del
giudicato di annullamento, stabilito dall’art. 30, comma 5 del codice,
espressamente richiamato dal quarto comma dell’art. 112.
Il ricorso è
stato trattenuto in decisione all’udienza camerale del 5 luglio
2011.
3. Osserva preliminarmente il collegio, in punto di
qualificazione della domanda e di conseguente individuazione del suo
regime, come la prospettazione posta a fondamento della memoria
dell’Amministrazione sia pienamente condivisibile.
Fatta eccezione per
la parte (del tutto marginale) relativa al mancato pagamento delle spese
processuali del processo di cognizione, che inerisce ad un profilo di
mancata esecuzione del giudicato formatosi all’esito di tale giudizio, la
domanda proposta con il ricorso in esame non attiene propriamente né alla
esecuzione del giudicato di annullamento, né ad un danno da mancata
esecuzione di giudicato.
La statuizione caducatoria contenuta nella
sentenza resa all’esito del giudizio di cognizione di primo grado,
confermata in appello, risulta essere stata eseguita mediante attuazione
dell’effetto ripristinatorio. L’odierno ricorrente è stato, infatti,
reintegrato nella funzione nel corso del giudizio di appello: di talché,
come correttamente dedotto dalla difesa erariale, appena venuto ad
esistenza il giudicato di annullamento risultava in realtà già eseguito,
in relazione a tutti i suoi effetti.
Né le conclusioni mutano ove
s‘intenda la presente domanda come rivolta non all’esecuzione del
giudicato, ma della sentenza di primo grado non sospesa: quest’ultima
risulta pienamente eseguita prima della conferma in appello.
Si è
dunque fuori dall’ambito di applicabilità dell’art. 112, comma 3, cod.
proc. amm., secondo cui nel giudizio di ottemperanza “può essere proposta
anche azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e
interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché
azione di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione,
violazione o elusione del giudicato”.
L’effetto conformativo del
giudicato di annullamento, e quello ripristinatorio, non si spingono, in
questi casi, al punto da imporre all’amministrazione, oltre al reintegro,
anche la corresponsione degli emolumenti economici per la durata
dell’efficacia del provvedimento annullato (nel qual caso la pretesa
sarebbe azionabile in sede esecutiva entro il termine decennale consentito
dall’actio iudicati): tale adempimento attiene alla refusione di danno da
provvedimento illegittimo e non costituisce effetto naturale del giudicato
di annullamento (anzi, è proprio la non riparabilità di tale pregiudizio
mediante la rimozione del provvedimento lesivo a rendere necessario il
ricorso alla tecnica di tutela complementare a quella caducatoria,
consistente nella ripristino per equivalente monetario delle situazioni
lese) .
La fattispecie è del resto strutturalmente identica a quella
relativa al danno da ritardata assunzione: con l’unica differenza che
l’odierno ricorrente lamenta il ritardato conferimento di funzioni
onorarie, piuttosto che la ritardata costituzione del rapporto di
servizio.
Il ricorrente chiede in realtà proprio il risarcimento del
danno patrimoniale subìto per effetto della emanazione di un provvedimento
amministrativo (poi dichiarato) illegittimo, per il periodo in cui detto
provvedimento ha avuto esecuzione (danno che lo stesso ricorrente
quantifica con riferimento alla mancata percezione dei relativi emolumenti
per il periodo considerato).
Tale fattispecie, che inerisce ad un’area
di danno non risarcita né risarcibile – per ragioni diacroniche - mediante
la mera esecuzione del giudicato di annullamento del provvedimento lesivo,
si inquadra perfettamente nell’ambito precettivo dell’art. 112, comma 4,
cod. proc. amm, che recita:. “nel processo di ottemperanza può essere
altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all’ articolo 30,
comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di
ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo
ordinario”.
E’ appena il caso di osservare che sulla giurisdizione del
giudice amministrativo – sia per i profili caducatori, sia a questo punto
per i connessi profili risarcitori – si è comunque formato il
giudicato.
4. Il collegio dovrebbe quindi disporre anzitutto la
conversione del rito ai sensi dell’ultimo periodo della norma appena
trascritta..
La stessa disposizione, tuttavia, subordina la
praticabilità di tale soluzione (vale a dire, l’ammissibilità dell’azione
risarcitoria mediante conversione del rito) all’avvenuta verifica del
rispetto del termine decadenziale di cui all’art. 30, comma 5, cod. proc.
amm.
Quel precetto stabilisce invece che “nel caso in cui sia stata
proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere
formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal
passaggio in giudicato della relativa sentenza”.
Nel caso in esame il
ricorso risulta essere stato notificato il 25 marzo 2011: il predetto
termine di centoventi giorni risulta pertanto superato: sia che si assuma
come dies a quo il momento del passaggio in giudicato della sentenza
(coincidente con la pubblicazione della decisione in grado di appello: 15
dicembre 2008); sia che – posto che la richiamata disciplina è entrata in
vigore solo successivamente alla formazione di quel giudicato – si assuma
come dies a quo il momento della entrata in vigore del codice del processo
amministrativo: cioè il 16 settembre 2010.
L’azione risarcitoria
sarebbe comunque tempestiva se, in assenza della delimitazione
decadenziale posta dal citato art. 30, la sua proposizione fosse
subordinata – secondo il diritto comune - unicamente al rispetto del
termine (quinquennale) di prescrizione: sia che si assuma come dies a quo
il momento dell’adozione del provvedimento lesivo (29 maggio 2006); sia
che si abbia riguardo al momento della definitività del suo annullamento,
all’esito dell’impugnativa giurisdizionale (15 dicembre 2008),
collocandosi il momento della notifica del ricorso entro il quinquennio
decorrente dall’emanazione dell’atto lesivo (e che include il successivo e
definitivo accertamento giurisdizionale della illegittimità di
questo).
Ne discende la rilevanza, ai fini del decidere, della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5, del codice
del processo amministrativo: diversamente, il ricorso in esame dovrebbe
essere considerato senz’altro irricevibile.
Ove la norma medesima fosse
dichiarata costituzionalmente illegittima, la domanda proposta con il
presente ricorso sarebbe sicuramente tempestiva, alla stregua
dell’ordinario termine prescrizionale cui le azioni risarcitorie per
illegittimo esercizio della funzione erano sottoposte prima dell’entrata
in vigore del codice del processo amministrativo.
5. Sempre in
punto di rilevanza della questione, il collegio deve dar conto di
un’ulteriore opzione esegetica astrattamente praticabile.
Potrebbe
sostenersi che il termine decadenziale previsto dal quinto comma dell’art.
30 cod. proc. amm. trovi applicazione soltanto per i giudicati di
annullamento formatisi successivamente all’entrata in vigore del codice
del processo amministrativo: nel qual caso, nella fattispecie dedotta nel
presente giudizio, l’eccezione d’irricevibilità sollevata dalla difesa
erariale sarebbe da respingere, per inapplicabilità del precetto
concernente il termine decadenziale..
Simile esegesi, tuttavia, non
pare al collegio compatibile con il testo delle considerate prescrizioni,
peraltro in presenza di una disciplina transitoria coerente a tale
assunto..
L’art. 2 delle norme transitorie di cui all’allegato 3 del
codice del processo amministrativo, stabilisce che “per i termini che sono
in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare
applicazione le norme previgenti”.
La disposizione sembra infatti
pacificamente riferirsi ai termini processuali propriamente detti: laddove
la previsione di uno sbarramento decadenziale per l’esercizio del diritto
incide piuttosto sulla sua delimitazione già sul piano
sostanziale.
Inoltre, ciò che appare dirimente, la Relazione al codice
fornisce un autorevole e significativo avallo in questo senso, quando
specifica che la regola transitoria in esame si riferisce “ai processi
pendenti alla data di entrata in vigore del nuovo codice”: la proposizione
della domanda risarcitoria – sia in via autonoma, sia a seguito di
annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo – implica viceversa
l’introduzione di un nuovo processo, sicché la disciplina del termine
decadenziale per la proposizione di quest’ultimo esula per definizione dal
regime transitorio in esame.
Per mitigare il possibile rigore delle
conseguenze applicative derivanti dall’entrata in vigore del codice del
processo amministrativo in materia risarcitoria, può semmai ritenersi che
nelle fattispecie d’illecito provvedimentale che si pongono a cavallo
dell’entrata in vigore del codice, il dies a quo (coincidente con la
conoscenza del provvedimento lesivo, o con il definitivo accertamento
della sua illegittimità: a seconda che si abbia riguardo all’ipotesi di
azione risarcitoria autonoma, ovvero a quella di proposizione
pregiudiziale dell’azione caducatoria) venga spostato in avanti, al
momento, cioè, dell’entrata in vigore del codice, nel qual caso i
centoventi giorni andrebbero a scadere il 14 gennaio 2011.
Il collegio,
come accennato, si è fatto carico di accertare la possibilità di praticare
una simile interpretazione: ma essendo stato notificato il ricorso il 25
marzo 2011, dunque successivamente a tale ulteriore termine, neppure
questa possibile opzione esegetica consente di eludere l’interrogativo di
fondo connesso al dubbio di legittimità costituzionale della disciplina
del citato termine decadenziale.
6. La non manifesta infondatezza
della questione discende, ad avviso del collegio, dal rilievo della
irragionevole compressione – ad opera della disposizione censurata: art.
30, comma 5, cod. proc. amm. - del diritto di difesa in giudizio della
parte danneggiata, con violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della
Costituzione.
Il comma 3, prima parte, dell’art. 30 cod. proc. amm.
stabilisce che “la domanda di risarcimento per lesione di interessi
legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni
decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla
conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da
questo”.
Il successivo comma 5, oggetto specifico del dubbio di
legittimità costituzionale con riferimento alla fattispecie dedotta nel
presente giudizio, completa la disciplina estendendo la previsione del
medesimo termine decadenziale anche all’ipotesi di azione risarcitoria
preceduta dall’impugnazione del provvedimento lesivo, facendo tuttavia
decorrere il termine non dalla conoscenza di questo ma dal momento del
passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.
E’ ampiamente
nota la ratio posta alla base dei termini di decadenza previsti in materia
di annullamento di atti giuridici emanati da poteri pubblici e da soggetti
privati: si tratta dell’esigenza di certezza del diritto e di stabilità
dei rapporti giuridici, connessa al rilievo che l’atto pone un assetto di
interessi rilevante sul piano superindividuale.
Il bilanciamento fra il
diritto degli interessati a sollecitare un sindacato giurisdizionale
dell’atto, e l’interesse a definire sollecitamente la relativa vicenda in
modo da non esporre ad un arco temporale eccessivamente lungo la sorte
della fonte di un rapporto giuridico rilevante per una collettività di
soggetti, consente di individuare nella previsione di un termine di
impugnazione a pena di decadenza – purché il relativo termine sia
ragionevole e non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto –
il soddisfacente punto di equilibrio del sistema.
L’azione
risarcitoria, già sul piano strutturale, si pone al di fuori di questa
problematica: l’esposizione del debitore, pubblico o privato, alla domanda
di risarcimento non incide minimamente sulla dinamica dei rapporti
giuridici di cui lo stesso soggetto è titolare, né sulla certezza delle
situazioni e posizioni giuridiche correlate, rilevando solo sul piano
della reintegrazione patrimoniale dello spostamento di ricchezza
conseguente all’illecito.
Nella stessa sistematica del codice del
processo amministrativo (art. 7, comma 4) il risarcimento del danno è
incluso fra i “diritti patrimoniali consequenziali” all’annullamento del
provvedimento lesivo.
Se la discrezionalità legislativa avesse inteso
porre un limite temporale all’esercizio dell’azione risarcitoria
compatibile con la natura del rimedio, avrebbe potuto ragionevolmente
farlo attraverso l’individuazione di un congruo termine prescrizionale (in
tesi diverso da quello stabilito dal diritto comune, ove sussista una
congrua e ragionevole giustificazione per la differenziazione).
Un
ininterrotto e coerente insegnamento, già sul piano istituzionale,
chiarisce, infatti, che mentre la prescrizione ha per oggetto un rapporto
(azione o diritto sostanziale) che per effetto di essa si estingue, “la
decadenza ha per oggetto un atto che per effetto di essa non può più
essere compiuto”.
La disciplina dell’azione di risarcimento del danno
appare dunque ragionevolmente compatibile con la prima, e non anche con la
seconda.
Ma, ciò che appare maggiormente rilevante, è il rilievo che,
sul piano della teoria generale del diritto, la differenza strutturale ed
effettuale fra prescrizione e decadenza denota una precisa – e diversa -
connotazione funzionale dei due istituti, così da non consentirne (se non
violando il canone di ragionevolezza) un’applicazione indifferenziata.
Secondo i risalenti insegnamenti della dottrina civilistica, mentre la
prescrizione è in qualche modo legata all’inerzia del titolare del
diritto, la decadenza esprimerebbe “un’esigenza di certezza del diritto
così categorica da essere tutelata indipendentemente dalla possibilità di
agire del soggetto interessato”.
Ora, come accennato, in materia di
risarcimento del danno una esigenza di certezza, che implichi una
compressione assai significativa del diritto del danneggiato di azionare i
relativi rimedi, non pare affatto sussistente: tanto più nell’ipotesi –
quale quella in esame – di azione risarcitoria non autonoma, ma
conseguente alla proposizione dell’azione di annullamento del
provvedimento lesivo.
Uno schema logico di utile riferimento si
rinviene nella disciplina posta dall’art. 1495 del codice civile, in
materia di azione di risarcimento dei danni per vizi della cosa venduta:
laddove la denuncia del vizio deve avvenire entro un brevissimo termine di
decadenza (correlato all’esigenza di certezza dei traffici), mentre la
successiva azione risarcitoria, subordinata alla tempestiva (e
pregiudiziale) denuncia, ma di per sé ormai estranea all’esigenza posta
alla base del ridetto termine decadenziale, soggiace – coerentemente - al
un termine prescrizionale annuale.
La situazione è strutturalmente
identica a quella dell’illecito da atto della pubblica amministrazione,
nell’ipotesi – qui ricorrente - in cui l’azione risarcitoria sia preceduta
dalla pregiudiziale impugnazione della statuizione lesiva: con la
significativa differenza , tuttavia, che il termine decadenziale per
l’impugnazione del provvedimento è ampiamente giustificato dalla funzione
cui lo stesso provvedimento assolve, mentre, diversamente dalla
sistematica del codice civile, la successiva azione risarcitoria è nel
codice del processo amministrativo anch’essa soggetta ad un termine
decadenziale, peraltro infrannuale (con significativa compressione del
diritto di difesa del danneggiato, in assenza di un reale e giustificato
interesse antagonista ).
Mentre nel caso di azione risarcitoria
autonomamente proposta (art. 30, comma 1, cod. proc. amm.) l’accertamento
– sia pure meramente incidentale, e dunque senza effetti sostanziali sul
rapporto – della illegittimità del provvedimento veicolo di lesione
potrebbe in tesi giustificare la previsione di tale termine, la definitiva
certezza giuridica prodotta – sul rapporto - dal passaggio in giudicato
della sentenza che statuisce sulla domanda di annullamento del
provvedimento, priva di qualsivoglia giustificazione razionale la
previsione di un brevissimo termine decadenziale per la proposizione
dell’azione risarcitoria incidente unicamente sul profilo della
regolazione patrimoniale delle conseguenze dell’illecito.
7. I
contributi della dottrina hanno generalmente formulato ampie riserve
critiche sulla soluzione recata dalla disposizione in esame.
Si è, in
particolare, posto in evidenza da parte dei più autorevoli studiosi del
processo amministrativo, come la disciplina recata dall’art. 30 risponda
unicamente ad una logica compromissoria, volta a conciliare le opposte
posizioni emerse nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e in
quella del Consiglio di Stato in merito alle condizioni per l’accesso al
rimedio risarcitorio in materia di illecito della pubblica
amministrazione, risolvendo per legge il conflitto fra i due massimo
organi giurisdizionali.
Si sarebbe così affermata la possibilità
teorica della proponibilità dell’azione risarcitoria autonoma, ma
assoggettandola ad un breve termine di decadenza (con il risultato pratico
di non differenziare di molto, quanto a condizioni di accesso, le due
forme di tutela).
La critica più diffusa poggia sulla “mancanza di
tenuta sul piano teorico” della soluzione prescelta: id est, sulla
irragionevolezza in sé della disposizione, sulla intrinseca carenza di una
sua giustificazione razionale, a prescindere dai risvolti in ordine alla
compressione del diritto di difesa.
In questo senso la previsione di un
termine decadenziale per proporre azione risarcitoria autonoma
(fattispecie invero puramente teorica, anche a seguito
dell’interpretazione dell’impianto codicistico resa dal diritto vivente:
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione n. 3 del 2011), pare
confermare questa lettura: il codice non ha inteso discostarsi formalmente
dall’indicazione del giudice dei diritti, ed ha ammesso l’autonoma
proponibilità dell’azione risarcitoria, ma sottoponendola ad un regime –
almeno in punto di sbarramento temporale – molto più simile a (e
compatibile con) quello dell’azione di annullamento del provvedimento
amministrativo, che a quello della domanda di risarcimento del
danno.
Se già questo esito appare fortemente discutibile, ancor di più
lo è l’estensione – ad opera del comma 5 dell’art. 30 - di tale regime
alla diversa fattispecie di azione risarcitoria preceduta dalla
(pregiudiziale) impugnazione del provvedimento lesivo, caratterizzata,
come accennato, dalla avvenuta, irrevocabile formazione della certezza
giuridica sul profilo sostanziale della spettanza.
In disparte ogni
considerazione sualla effettiva eziologia storico-giuridica del regime
censurato, esso appare al collegio irragionevolmente e ingiustificatamente
compressivo del diritto del danneggiato a richiedere il risarcimento del
danno.
Il parametro di legittimità della decadenza convenzionale (art.
2965 cod. civ.) è dato dal limite della eccessiva difficoltà
nell’esercizio del diritto: dal che discende la centralità, anche nelle
ipotesi di decadenza legale, del criterio funzionale (l’unica differenza
risiede nel fatto che mentre nel primo caso la verifica della rispondenza
al cennato parametro funzionale è operata dal giudice comune, nel secondo
caso, relativo alla decadenza legale, la valutazione è affidata al Giudice
delle leggi).
Il profilo di irragionevolezza che vizia la disposizione
in esame attiene quindi sia alla previsione di un termine stabilito a pena
di decadenza, al di fuori del presupposti legittimanti una così incisiva
compressione del’esercizio del diritto (senza la possibilità di conciliare
la delimitazione temporale con il più favorevole - per il danneggiato –
regime della prescrizione); sia nella concreta fissazione di tale termine
in centoventi giorni.
8. Il giudizio di irragionevolezza si fonda
sia sulle argomentazioni di ordine teorico-generale e disciplinare sopra
esposte, sia sul rilievo della inesistenza di un tertium comparationis che
giustifichi l’introduzione di simile disciplina.
La Relazione al codice
del processo amministrativo afferma che il termine di centoventi giorni si
giustificherebbe “sul presupposto che la previsione di termini
decadenziali non è estranea alla tutela risarcitoria, vieppiù a fronte di
evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la
pubblica amministrazione”.
Quanto alla prima parte dell’affermazione,
non è dato rinvenire riscontri alla stessa: se non, come osservato, in
relazione al diverso profilo della esistenza, nell’ambito della complessa
disciplina dei rimedi contro l’illecito, di termini decadenziali relativi
ad attività propedeutiche alla proposizione dell’azione di danno, ma da
questa strutturalmente e funzionalmente distinte (ciò che, nel processo
amministrativo, è garantito dal termine per la sollecita impugnazione del
provvedimento lesivo; e, nell’esempio tratto dal diritto civile relativo
alla garanzia per i vizi della cosa venduta, dalla tempestiva denuncia
della scoperta del vizio).
Quanto alla seconda parte dell’affermazione,
se le “esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la
pubblica amministrazione” possono avere un qualche rilievo oltre la
prospettiva meramente caducatoria (il che è tradizionalmente escluso), ciò
potrebbe al più riscontrarsi nell’ipotesi di proposizione dell’azione
risarcitoria in via autonoma, con contestuale sindacato (incidentale)
della legittimità del provvedimento lesivo.
Non già nell’ipotesi, qui
ricorrente, in cui detto sindacato è stato definitivamente compiuto, con
efficacia di giudicato.
9. La violazione degli artt. 24, 103 e 113
della Costituzione si configura anche per altra via.
All’esito della
ricostruzione del sistema di tutela del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione, cui ha recato un fondamentale contributo la
sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, si ritiene
comunemente che il rimedio risarcitorio sia inscindibilmente legato, in
relazione di complementarietà, a quello caducatorio: la tutela
costituzionale dell’interesse legittimo è soddisfatta solo se il titolare
può chiedere, oltre all’annullamento del provvedimento lesivo, il
risarcimento per equivalente del danno che traguardi e completi gli
effetti del giudicato di annullamento.
L’azione di danno è dunque
costituzionalmente necessaria; in questo senso la Corte costituzionale è
stata ancora più esplicita nella successiva sentenza n. 191 del 2006:
“laddove la legge (……..) costruisce il risarcimento del danno, ai fini del
riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo,
come strumento di tutela affermandone – come è stato detto – il carattere
“rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi,
costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo
esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi
ragionevoli”.
La concentrazione dei rimedi in capo al giudice
amministrativo, tuttavia, funzionale alla contrazione dei tempi
processuali, non può avvenire a condizione della introduzione di
condizioni di accesso alla tutela assolutamente (e senza ragione)
restrittive. Se l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa della
cognizione dell’azione risarcitoria, coerente alla pienezza della tutela
in termini ragionevoli, comporta come contropartita l’introduzione di un
regime che, derogando al diritto comune, comprime significativamente le
condizioni per l’accesso al rimedio, risulta palesemente contraddetta la
finalità stessa della previsione dello strumento risarcitorio accanto a
quello caducatorio nel sistema di tutela dell’interesse legittimo: in
altre parole, viene contraddetta l’esigenza di pienezza ed effettività
della tutela..
La richiamata giurisprudenza costituzionale ha reso,
invero, le riportate affermazioni in presenza di una disciplina dell’
accesso al rimedio risarcitorio nei confronti della pubblica
amministrazione regolata dal diritto comune: dal che discende il quesito
circa la perdurante attualità di quelle considerazioni, in punto di
conformità allo standard di tutela posto dall’art. 24 della Costituzione,
alla luce della disciplina introdotta dal codice del processo
amministrativo, e in particolare della disposizione censurata..
10.
E’ appena il caso di osservare che è estranea alla prospettazione del
vizio di legittimità costituzionale la qualificazione, in termini di
diritto soggettivo o di interesse legittimo, della situazione giuridica
soggettiva del danneggiato che domanda il risarcimento del danno da
illegittimo esercizio della funzione amministrativa.
Nel primo caso,
non trova ragionevole giustificazione una disciplina diversa da quella
stabilita per ogni diritto soggettivo dalla clausola generale di
responsabilità civile (la pubblica amministrazione essendo un debitore la
cui posizione in nulla si differenzia, sotto questo profilo, da quella
dell’obbligato ex delicto).
Nel secondo caso, la complementarietà dei
rimedi evocata dalla citata giurisprudenza costituzionale ha un senso se
si mantiene la diversità strutturale degli stessi e delle corrispondenti
tecniche di tutela: se invece si assimila – quanto alle condizioni di
accesso – quello risarcitorio a quello caducatorio, la complementarietà si
riduce ad una astratta petizione di principio, risolvendosi in concreto la
tutela dell’interesse legittimo nella sola possibilità di contestare entro
un breve termine di decadenza la legittimità del provvedimento (a fini
caducatori, ovvero a fini risarcitori). In conclusione, appare rilevante e
non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 30, comma 5, del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per violazione
degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione.
Il processo dev’essere
dunque sospeso, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ed
ogni conseguente statuizione.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della
Sicilia, sede di Palermo, Sezione Prima,
non definitivamente
pronunciando:
visti gli artt. 134 Cost.; 1 l. cost. 9 febbraio 1948, n.
1; 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, :
- dichiara rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 30, comma 5, del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per violazione
degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione;
- visto l'art. 79, co.
1, cod. proc. amm., dispone la sospensione del presente giudizio;
-
ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
-
ordina che a cura della Segreteria della Sezione la presente ordinanza sia
notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri,
nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato
della Repubblica.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio
del giorno 5 luglio 2011 con l'intervento dei magistrati:
Filoreto
D'Agostino, Presidente
Nicola Maisano, Consigliere
Giovanni
Tulumello, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 07/09/2011