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n. 9-2011 - © copyright

 

GIOVANNI COFRANCESCO

Il bilancio dello Stato tra dirigismo e diritti individuali finanziariamente condizionati. Alla ricerca del podestà straniero

 

 


 

 

SOMMARIO: 1. La contabilità pubblica: un sapere per iniziati. 2. L’art. 81 Cost e il suo spirito originario: bilancio di competenza e bilancio di cassa. 3. La legge finanziaria n. 468 del 1978; “collegati” e “salvadanai”: rispetto formale dell’art. 81 Cost. e stravolgimento sostanziale. Il documento di Programmazione Economica e Finanziaria (D.P.E.F.). La prassi delle modifiche legislative al bilancio in corso. 4. La legge bipartisan n. 196 del 2009. Il ruolo primario del Governo. La legge di stabilità. La decisione di finanza pubblica quale “atto dovuto”. Bilancio di competenza vs bilancio di cassa. 5.(Continua): l’impostazione dirigista del bilancio. Clausola di salvaguardia e diritti finanziariamente condizionati. L’implosione dell’assistenza e della previdenza sociale. 6. L’incerto federalismo fiscale in continuità con le c.d. “leggi Bassanini”. 7. Il retroterra delle difficoltà dei paesi membri dell’U.E.: il disavanzo di bilancio al 3% secondo il trattato di Maastricht e sua giustificazione. 8.Gli accordi di Bretton Woods e politiche keynesiane. L’equazione di Fisher. Globalizzazione e ridimensionamento dell’egemonia statunitense. Il costo del lavoro e delle materie prime fanno aggio sull’innovazione tecnologica. 9. Alla ricerca del podestà straniero (o del dittatore benevolo): auspicio o provocazione?



1. La contabilità pubblica: un sapere per iniziati.

Uno dei tanti paradossi che caratterizza l’ordinamento giuridico del nostro Paese, è che le materie disciplinate più sono importanti e più vengono qualificate come “tecniche”, oggetto di un sapere per iniziati depositari degli arcana imperii. Questo vale, in particolare, per il diritto amministrativo nel cui ampio spettro rientra la contabilità pubblica. Si pensi alle nozioni, entrate nel linguaggio corrente di deficit o di debito pubblico decisive nella geografia delle funzioni e dei pubblici servizi: moderne colonne d’Ercole, il cui superamento fa rischiare il naufragio per la barca italiana delle finanze (e di quelle dei Paesi aderenti all’euro) con conseguenze catastrofiche per i passeggeri/cittadini e il cui rispetto giustifica ogni scelta pubblica e il suo contrario per i “parametri di Maastricht”. Quando si constata però che il deficit del settore pubblico (o indebitamente netto) ha superato il previsto limite del 3% del Prodotto Interno Lordo (P.I.L.) e che l’ammontare cumulativo del debito pubblico continua ad aumentare attestandosi ben oltre il 100% del PIL sorge la domanda sul carattere inderogabile dei parametri e del loro sforamento.
In molti altri settori del diritto pubblico sono presenti concetti normativi inderogabili e sistematicamente violati, tanto che si dubita di una loro effettiva vigenza: il principio di legalità vanificato da norme indeterminate (o da procedure inapplicabili) che vengono saltate se l’Amministrazione non impone discrezionalmente il controllo successivo (è il caso dell’istituto della segnalazione certificato di inizio attività, che ha sostituito la DIA); la tutela delle posizioni giuridiche soggettive spettanti ai privati progressivamente diminuite (si veda in proposito il recente codice del processo amministrativo) delle già deboli possibilità di tutela giudiziaria; ancora il principio di competenza degli enti pubblici in concorrenza con quello di “sussidiarietà” continuamente ricontrattato per le realizzazioni di opere pubbliche tra le Amministrazioni, alcune delle quali solo formalmente S.p.A.
Anche nel settore della contabilità pubblica le regole sono figlie di una cultura basata sulla declinazione “caso per caso”.


2. L’art. 81 Cost. ed il suo spirito originario: bilancio di competenza e bilancio di cassa.

La disciplina costituzionale della contabilità pubblica è contenuta nell’art. 81 Cost.[1] e venne dettata in Costituente da Luigi Einaudi: il primo comma riprende il principio fondamentale dello stato occidentale liberale e democratico secondo cui le spese pubbliche vanno approvate dai rappresentanti di coloro che sono tenuti a sostenerlo (no taxation whitout representation). In sessant’anni di applicazione, tuttavia, il Governo è diventato il vero “padrone” del bilancio (grazie anche all’apporto delle eminenze grigie dell’Amministrazione contabile: per tutti il prof. Andrea Monorchio), mentre il Parlamento ha assunto la veste di controllore formale o “politico” limitando i propri poteri di modifica a specifiche variazioni, motivate da interessi ed obiettivi più o meno settoriali, con un rovesciamento dei ruoli tra l’organo democraticamente eletto che pretende maggiori esborsi per le più varie clientele [l’abnorme espansione dell’assistenza e della previdenza sganciata dalla logica contributiva e incentrata sulla “ripartizione”: le pensioni, cioè, vengono pagate da chi lavora, La qualcosa è conveniente in una fase espansiva dell’economia, ma è un disastro in fase recessiva anche considerato l’invecchiamento della popolazione ed i lavori, spesso precari e sottopagati, degli occupati per di più gravati da oneri insostenibili. Oggi per dieci persone con un impiego ce ne sono sette con una pensione per una spesa di 253,5 miliardi di euro pari al 18% del P.I.L.] e l’organo esecutivo che tende a stringere i “cordoni della borsa”; il terzo comma per cui in sede di elaborazione del bilancio di previsione non possono essere stabiliti nuovi tributi o nuove spese imponeva che il bilancio dovesse essere separato dalle modifiche legislative aventi comunque effetti sulla finanza e avere per oggetto l’andamento presunto delle entrate e delle uscite statali a legislazione vigente (bilancio di competenza).


3. La legge finanziaria n. 468 del 1978, “collegati” e “salvadanai”: rispetto formale dell’art. 81 Cost e stravolgimento sostanziale: Il Documento di Programmazione Economica e Finanziario (D.P.E.F.). La prassi delle modifiche legislative al bilancio in corso.

La prassi delle modifiche legislative al bilancio in corso divenne, in parte per ragioni oggettive legate agli “imprevisti” del ciclo economico ma soprattutto per motivi politivi (stagione consociativa del “compromesso storico” che sfonda la spesa pubblica) diviene costante.
Con la L. 468 del 1978 si istituzionalizza il sistema: la c.d. “finanziaria” che si affianca alla legge di approvazione del bilancio, pur formalmente rispettosa dell’art. 81, 3°comma, viene deputata ad operare le modifiche alle spese e ai tributi previsti nella legge di bilancio.
In realtà cresce la commistione tra il momento previsionale ed autorizzatorio relativo all’andamento della gestione finanziaria pubblica affidato alla legge di bilancio e quello modificativo della legislazione ordinaria.
Tendenza accentuatasi con le leggi “collegate” alla finanziaria da approvarsi contestualmente ma, a volte, anche in corso di anno e finalizzate a “correggere” la manovra di bilancio, la regia della quale è in mano al Governo attraverso l’elaborazione del Documento di Programmazione Economico Finanziario (DPEF). Sorte analoga (rispetto della lettera e violazione delle spirito della norma) ha avuto anche il quarto comma dell’art. 81 secondo cui le leggi diverse da quella di bilancio (e quindi non collegate nell’ottica del costituente) devono prevedere i mezzi con cui far fronte alle nuove spese. Un’ottica di trasparenza, più che di necessaria corrispondenza tra bilancio di previsione, approvato a legislazione vigente, ed effettivo andamento delle entrate e delle spese dell’anno di competenza, sul quale possono ovviamente influire eventi non prevedibili, tra i quali l’approvazione di nuove leggi, sempre che diano conto della copertura. Ad una tradizione generosa nel prevedere spese, coperte dal più vario tipo di entrate (dall’accensione di debiti all’utilizzo di beni di capitale pubblico), in corrispondenza con la concentrazione della manovra di bilancio in un’ottica sempre più unitaria e sempre più governativa, la L. n.382 del 1988, anche per la copertura delle nuove leggi ha ridefinito e ricondotto al rispetto delle previsioni di bilancio e più a monte di quella della manovra finanziaria annuale, contenuta nel DPEF. Ovviamente, dato che l’andamento dell’esercizio finanziario, in particolare quando è riferito allo Stato, soggetto a doveri pubblici e a pressioni di ogni genere, non è del tutto prevedibile in sede di bilancio di previsione e il volere riportare la copertura delle nuove leggi ad un bilancio redatto mesi prima della loro approvazione e talora senza una conoscenza minima dell’impatto finanziario nel corso dell’esercizio, ha portato ad inserire nel bilancio di previsione degli appositi “salvadanai”, costituiti dai cosiddetti “fondi speciali”, cui attingere in caso di maggiori spese. Il che ha reso certo più elastico il bilancio, ma ha assegnato un’ampia discrezionalità all’Esecutivo, abilitato a “manovrare” i suddetti fondi e quindi a garantire (o a non garantire), l’entrata in vigore della legge comportante oneri, (sostituendo così ad una decisione affidata al Parlamento una scelta giustificata ancora una volta dalla complessità “tecnica” lasciata nelle mani del Governo, salvi i soliti poteri del Parlamento di “insistere” su questo o quel provvedimento particolare, la cui copertura, in quanto provvedimento particolare, è sempre garantita dall’esistenza dei salvadanai.


4. La legge bipartisan n. 196 del 2009. Il ruolo primario del Governo. La legge di stabilità. La decisione di finanza pubblica quale “atto dovuto”. Bilancio di competenza vs bilancio di cassa.

Questa la situazione quale poteva apparire sino alla manovra 2010. La recente riforma della contabilità pubblica di portata “epocale” contenuta nella L. 196 del 2009 e destinata a valere a partire dalla manovra finanziaria del 2011 modifica ancora una volta il quadro.
La sua importanza deriva dal carattere onnicomprensivo, essendo finalizzata a riscrivere con successivi decreti legislativi la disciplina approvata in Parlamento vuoi dalla maggioranza e vuoi dall’opposizione. Il primo interrogativo riguarda il rapporto, fisiologicamente impostato nel nostro sistema in un’ottica conflittuale o almeno dialettica tra le previsioni di bilancio da effettuarsi a legislazione vigente e le innovazioni legislative imprevedibili (in termini costituzionali comma 1 e comma 4 dell’art. 81 Cost.). La riforma ha confermato il ruolo primario delle scelte del Governo a monte della manovra annuale, espresse dalla Decisione di Finanza Pubblica, ex art. 10 della L. n. 196 del 2009 che ha sostituito il DPEF, con dubbi sulla costituzionalità che un tale primato assegnato ad un documento di indirizzo, oggetto di valutazione da parte del Parlamento, finisce per sollevare. Inoltre, il legame funzionale tra il bilancio annuale e le modifiche legislative, sembra rafforzato. Se infatti l’originaria ottica di separazione tra bilancio a legislazione vigente e leggi successive fu ben presto stravolta dalla necessità di predisporre delle leggi ad hoc destinate a far “quadrare” i conti ponendo in essere le misure per raggiungere gli obiettivi politici prefissati (disponendo nuove imposte e nuove spese), dando luogo alla redazione posticipata del bilancio tramite la concessione dell’esercizio provvisorio di cui all’art. 81 c. 2 Cost., con legge finanziaria prevista dalla L. n. 468 del 1978 si predispone uno strumento di collegamento con la redazione del bilancio, capace di operare le modifiche sia in campo fiscale che in altri campi (i contenuti omnibus di molte finanziarie fanno ormai parte della cultura politica, per la verità, non solo del nostro Paese), onde consentire alla legge di bilancio di essere comunque approvata a legislazione vigente, dato che la finanziaria era stata approvata poco prima, con la L. n. 196 del 2009.
La legge di stabilità che, (in base all’art. 11) ha preso il posto della legge finanziaria si limita, invece ad indicare alcune grandezze contabili fondamentali che il bilancio dovrà rispettare, mentre le uniche modifiche al diritto sostanziale sono costituite dal ritocco delle aliquote di alcune imposte e da quelle necessarie a gestire i rapporti con le Regioni e gli enti territoriali minori, in relazione al patto di stabilità interno: per la conformazione del bilancio agli obiettivi politico economici previsti, la legge rimanda ai provvedimenti legislativi collegati, da emanarsi non più contestualmente al bilancio, ma entro il mese di febbraio. Con ciò il bilancio tende a divenire sempre più “elastico”, meno condizionato nel suo contenuto dalla legislazione vigente e aperto alle modifiche previste già in sede di manovra e affidate non più alla legge di stabilità (ex finanziaria) ma ai successivi provvedimenti collegati, rispetto ai quali la legge di bilancio, iscrivendo fondi speciali ad hoc concede un’apertura di credito in bianco (art. 18 L. n. 196 del 2009).
Si conferma la tendenza a rendere le decisioni sulla materia contabile sempre più tecniche e a configurarle come “atti dovuti” (a causa della inflessibile necessità di far quadrare i conti), atti dovuti dietro i quali possono occultarsi (e si occultano) scelte discrezionali che vanno a incidere ben oltre la materia contabile. Discrezionalità, certo non arbitraria, ma il fatto che una scelta debba essere ponderata e adottata tenendo anche conto delle oggettive necessità economiche e finanziarie del settore pubblico non significa mancanza di trasparenza: se non sono chiari i parametri quale consenso può dare il Parlamento alle entrate e alle uscite dello Stato? Per non parlare dei cittadini contribuenti del tutto incapaci di comprendere alcunché. Sotto questo aspetto la legge presenta molti punti in cui le decisioni rischiano di essere “calate dall’alto” frutto, in realtà, di contrattazioni occulte.
Si possono fare a questo proposito due esempi, uno riguardante gli effetti strettamente contabili e l’altro di più ampio respiro. Il primo riguarda la modalità dell’iscrizione di somme tra le spese del bilancio di previsione, disciplinato dall’art.21 l.n.196 del 2009, e disciplinato ora, in missioni e programmi (il programma costituisce la cosiddetta “unità di voto” cioè l’unità minima soggetta ad approvazione parlamentare), modalità basata sulla distinzione tra spese rimodulabili, e spese non rimodulabili, cioè tra spese il cui importo può essere ridefinito nel suo ammontare relativamente ai vari “programmi” in sede di approvazione del bilancio e spese il cui ammontare è predeterminato e la cui iscrizione in bilancio per un dato ammontare è un atto dovuto. In base all’art.21 le spese non rimodulabili (cioè vincolate alla destinazione iscritta in bilancio) corrispondono a quelle su cui l’Amministrazione “non ha possibilità di esercitare un effettivo controllo”, espressione quanto mai vaga non chiarita dalla definizione esplicativa che si richiama alle previsioni di “leggi e altri atti normativi” (quindi anche di un regolamento, se non di una circolare organizzativa?), né all’elenco esemplificativo allegato.
Peraltro a tale meccanismo “draconiano” si accompagna una discrezionalità tecnica che concerne sia la fissazione dei limiti massimi di spesa, che rischiano di essere sovradimensionati per leggi ritenute importanti, e sottodimensionati per quelle considerate di minore rilievo, sia il reperimento delle risorse necessarie a fornire copertura allo sforamento (il che in un bilancio pieno di fondi speciali, dedicati a coprire la spesa derivante da nuove leggi, non dovrebbe essere, volendo, troppo difficile). Il sistema sembra andare verso una minore trasparenza, ponendo dei limiti perfetti, e ideali, con i quali la pratica di gestione delle pubbliche finanze potrà solo tendere ad adeguarsi, lasciando alle decisioni casuistiche, la fissazione della misura e delle modalità dell’adeguamento.
Il tutto è confermato dal fatto che, in continuità con il sistema precedente, la gestione contabile, affidata al controllo interno della Ragioneria Generale dello Stato e a quello esterno paragiudiziario della Corte dei Conti, rimane ancorata a criteri formalistico-giuridici, congegnati più ad accertare la legalità formale dei movimenti di denaro (in particolare quello delle uscite) che non a verificarne finalità e tempistica. Infatti, l’introduzione di bilanci tesi a valorizzare l’aspetto economico, relativo ai costi e ai ricavi oltre che agli investimenti patrimoniali, e non quello meramente finanziario, relativo alle entrate ed uscite (o spese, per seguire la terminologia usuale) di denaro, è prevista dall’art.2 della L.n.196 del 2009 (che ne affida l’introduzione ad un apposito decreto legislativo) solo a fini conoscitivi. Viene da chiedersi quanto la situazione possa essere modificata dalla disposizione (art.42 L.n.196 del 2009) che prevede, affidandone l’attuazione ad un decreto legislativo, che il bilancio statale debba essere redatto secondo il solo criterio di cassa (in base al quale le entrate e le spese vengono contabilizzate con riferimento al momento dell’introito o del pagamento del denaro), e che quindi non venga più redatto (anche) secondo il criterio di competenza (in base al quale si contabilizzano le entrate e le spese al momento del sorgere della pretesa giuridica ad incassare o dell’obbligo giuridico a pagare). Nel permanere infatti di un’ottica giuridico formale, non è certo da sottovalutare il rischio che l’attuale grado di opacità (o di occultamento) delle reali dinamiche di spese, pur a fronte di un controllo formale ineccepibile rimanga molto elevato, e che anzi, con l’eliminazione di un passaggio nella fase di previsione ed in quella di riscontro della regolarità delle entrate e delle spese, possa persino aumentare.
Questo comporta una discrezionalità eccessiva nel classificare una spesa inderogabile nel suo ammontare e nella sua destinazione, discrezionalità che viene consegnata nelle mani del Governo e dei suoi organi tecnici, che hanno anche la competenza a quantificare tali spese, che fa il paio con quella che deriva dalla definizione delle spese “rimodulabili”, suddivise in spese modificabili solo in sede di approvazione del bilancio in quanto fissate nel loro limite massimo da leggi precedenti (cosiddetti fattori legislativi) e spese liberamente quantificabili in sede di bilancio (cosiddette spese di adeguamento al fabbisogno).


5.(Continua): l’impostazione dirigista del bilancio. Clausola di salvaguardia e diritti individuali finanziariamente condizionati. L’implosione dell’assistenza e della previdenza sociale.

C’è di più. Alla discrezionalità tecnica si somma quella amministrativa e la redazione del bilancio, formalmente atto sovrano del Parlamento, viene sostanzialmente determinato dal Governo che può imporre l’iscrizione in bilancio di importi per spese ritenute in via interpretativa inderogabili, condizionando anche giuridicamente, “di diritto”, oltre che politicamente, “di fatto”, le decisioni parlamentari. Le ragioni della discrezionalità tecnica (e amministrativa) sembrano imporsi su quelle del controllo e della trasparenza anche in ambito che va oltre quello strettamente contabile, cioè riguardo la copertura delle spese da parte delle nuove leggi, prevista dall’art. 17 della L. n. 196 del 2009, che in questo ha la funzione di applicare , o visto che siamo in tema, di “rimodulare” l’applicazione dell’art. 81 c.4, Cost. L’imposizione della clausola di salvaguardia, in base alla quale ogni legge deve indicare il tetto massimo di spesa e una volta superato cessa di avere efficacia, nella pur lodevole intenzione di limitare le uscite pubbliche finisce per determinare un pericoloso limite finanziario all’efficacia delle leggi e soprattutto ai diritti individuali dando luogo a quella figura che sempre più si ripropone nel nostro ordinamento dei diritti finanziariamente condizionati costruzione della Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 455 del 1990.
Così, in questo periodo, abbiamo sofferto tagli di pensioni, differimento di trattamento di fine rapporto (TFR) e, in prospettiva, di soppressione; per contro sono diventati relativi i concetti di vecchiaia e di giovinezza. L’anno scorso sono stati prepensionati coattivamente vecchi decrepiti di 57 anni per far posto a giovani di 55 purché avessero maturato l’anzianità contributiva, anche fittizia, di quarant’anni. Oggi le pensioni di anzianità vengono “criminalizzate” come “pensioni di giovinezza”, sempre in ragione dell’economicità e della virtuosità dell’ente pubblico ovviamente per merito della fiscalità generale. Siamo di fronte ad una schizofrenia legislativa alla quale l’opposizione risponde con un “assordante silenzio”.
Nessuna posizione soggettiva può considerarsi diritto [per il cardinale Dionigi Tettamanzi (Corriere della Sera, 15 agosto), i diritti acquisiti sono privilegi. (Sic!) Ma fortunatamente oggi Milano ha il vantaggio di avere tre cardinali, due in pensione ma in buona salute ognuno dei quali ha posizioni diverse]: certo quando vi è una totale confusione tra previdenza e assistenza è difficile individuare netti confini tra diritti e aspettative.
Le poche casse private di previdenza sono sotto mira: pur gestite dagli interessati con ottimi risultati sfuggono, peraltro, alla solidarietà intergenerazionale (propria del sistema dirigistico a ripartizione troppo dipendente dal ciclo economico) e prima o poi verranno assorbite dall’INPS, un moloc parastatale impressionante. [Con più coraggio si dovrebbe tornare al sistema contributivo (ognuno paga per la propria pensione e la solidarietà va affidata alla fiscalità generale. Non ultimo dei danni del sistema a ripartizione è stato quello di far proliferare ogni genere di prestazioni pensionistiche (rectius: elargizioni graziose) a scopo clientelare quando il ciclo economico era favorevole ed anche irresponsabilmente nei momenti di crisi)].
Neppure chi cerca di cautelarsi con risparmi finanziari può sperare di farla franca: sarà impoverito dalla tassazione quale intollerabile percettore di rendite.


6. L’incerto federalismo fiscale in continuità con la logica delle c.d. “leggi Bassanini”.

Appena un breve cenno al problematico rapporto fra Stato ed autonomie locali. Il Federalismo fiscale disciplinato dalla L. n. 42 del 2009, materia strettamente collegata a quella della contabilità pubblica, verrà attuato mediante decreti legislativi (art. 2) con la modifica dell’attuale ripartizione delle entrate tributarie. Osservato che la L. n. 196 del 2009 ha in parte modificato la L. n. 42, istituendo un sistema di contabilità integrato, che comporta l’obbligo di criteri contabili e di classificazioni dei conti comuni a tutto il settore pubblico, accenniamo a quello che sembra essere il problema maggiore che si potrebbe porre a livello di gestione delle spese delle regioni e degli enti territoriali minori. Ci limiteremo al rapporto Stato–Regioni in materia di utilizzo delle risorse tributarie, tenendo conto che il rapporto tra Stato ed enti minori segue in parte criteri analoghi. Anche in questo ambito si solleva il problema delle possibili modalità di gestione di un sistema che si basa su parametri “ideali” che, nel momento in cui vengono calati nella realtà, rendono possibile una gestione dei rapporti finanziari tra gli enti coinvolti basata su scelte discrezionali occultate dal rigore e dalla oggettività apparente della tecnica ragionieristica e dalla indiscutibilità dei dati numerici. Innanzi tutto, i nuovi tributi spettanti alle Regioni corrispondono in gran parte agli attuali trasferimenti statali, commisurati alla cosiddetta spesa storica per lo svolgimento delle funzioni globalmente esercitate dalle Regioni, e sono costituiti da compartecipazioni (principalmente al gettito IVA) e da addizionali (al gettito IRPEF) a tributi statali, mentre un ruolo secondario sono destinati ad avere i tributi regionali veri e propri, sia quelli disciplinati da leggi statali (ad es.l’imposta di bollo automobilistico), sia quelli istituiti, nel rispetto dei principi dell’ordinamento con legge propria delle regioni (art.7 L.n.42 del 2009). Inoltre (art.8), l’importo delle compartecipazioni e delle addizionali in parte è erogato a titolo di tributo regionale in senso stretto ed in parte a titolo di quota del fondo perequativo previsto dall’art.119 c.3 Cost., avente la funzione di compensare le differenti capacità di produrre gettito fiscale dei diversi “territori”, e segue criteri diversi a seconda che si riferisca alle spese destinate a consentire alle Regioni di garantire ai cittadini, ai sensi dell’art.117 c.2 lett.m) Cost., i livelli essenziali delle prestazioni (L.E.P.) in materia sanitaria e di istruzione oltre quelle riguardanti l’esercizio delle funzioni statali loro attribuite, oppure alle spese relative allo svolgimento delle altre funzioni regionali. In entrambi i casi i parametri sono decisamente astratti, essendo riferiti, per quanto riguarda le spese necessarie a garantire i L.E.P., al costo standard dell’unità di servizio (che potrebbe essere ad esempio il posto letto in ospedale, ma la definizione operativa è affidata ai decreti legislativi attuativi) moltiplicato per il fabbisogno standard (ad es., il numero di posti letto nella Regione), mentre per quanto riguarda le altre funzioni sono in parte basati su un’aliquota media nazionale e in parte determinati in ragione inversa della capacità fiscale per abitante della Regione, entrambe calcolate sul gettito IRPEF (artt.8 e 9 L.n.42 del 2009). Come si vede, si tratta di criteri estremamente tecnici, che proprio a causa della loro astrattezza sembrano consentire applicazioni troppo discrezionali. Il costo (per rimanere all’esempio fatto) di un posto letto in un ospedale di una città in pianura è diverso da quello riferito ad un ospedale che serve un territorio montano e rurale; mentre a fronte di una differente capacità fiscale i criteri di riequilibrio sono in buona misura discrezionali, dovendo ridurre, ma non eliminare le differenze della capacità fiscale media per abitante delle Regioni (art. 9 lett.g). Se a questo si aggiunge: 1) che nella definizione dei costi e dei fabbisogni standard, da stabilirsi in successivi decreti legislativi, giocherà un ruolo decisivo la Commissione tecnica paritetica per il federalismo fiscale (art.4), collegata alla Conferenza Permanente per il Coordinamento della Finanza pubblica (art.5), composte entrambe di rappresentanti di Stato, Regioni ed enti locali minori (art.2 c.6); 2) che il sistema deve comunque consentire un’adeguata “flessibilità fiscale” per consentire alle Regioni lo svolgimento dei servizi non riferiti ai L.E.P. (art.2 c.2 lett. cc); 3) che rimane comunque salva la possibilità di erogazione a favore delle Regioni da parte statale dei fondi speciali previsti dall’art.119 c.5 (art.16 L.n.42 del 2009), il rischio di decisione discrezionale nell’assegnazione delle risorse e dell’applicazione da parte statale delle misure premiali o sanzionatorie alle Regioni rispettivamente virtuose o inadempimenti (art.17 L.n.42 del 2009), anche in questo caso è molto elevato. Per non parlare poi della fase transitoria (art.20) destinata a protrarsi per lungo tempo, al fine di consentire il passaggio dal sistema degli attuali trasferimenti statali al nuovo regime, che certamente determina possibilità di contrattazioni discrezionali nell’attribuzione delle risorse finanziarie alle Regioni. Per vero non ci si discosta molto dalla logica delle c.d.“leggi Bassanini”, ovvero del “capitalismo municipale”.
In conclusione, con lo spirito socratico di chi sa di non sapere, ci chiediamo se le riforme contenute nella L.n.196 del 2009 di contabilità e della finanza pubblica, e per quanto qui interessa quelle previste dalla L.n.42 del 2009 in tema di federalismo fiscale, modificheranno il modo di gestire il pubblico denaro in Italia da parte dei soggetti pubblici, e a tal proposito rimane il dubbio, posto che entrambe le leggi vanno nel senso del rigore economico, in relazione ad una situazione che vede diminuire le risorse a disposizione degli Stati occidentali (in particolare di quelli europei), sul modo in cui verrà effettivamente gestita la riduzione della “torta”. Anziché una gestione empirica, basata sulle libere scelte dei soggetti pubblici e sulla loro responsabilità di fronte agli amministrati, che farebbe propria anche in tempi di crisi l’eredità del principio no taxation without representation, c’è il rischio che si delinei un sistema dove la fissazione dei livelli di tassazione, del ricorso all’indebitamento pubblico (grazie all’impostazione propria dell’U.E., che in modo analogo fissa parametri normativi astratti e purtroppo inadeguati ai fatti concreti), e persino delle modalità di destinazione delle risorse disponibili sia affidata a criteri tanto astrattamente inderogabili (a maggior ragione in quanto ammantati dalla insindacabilità “tecnica”), quanto concretamente suscettibili di applicazioni elastiche, condizionabili, in senso buono dalla necessità di adeguare le previsioni contabili e finanziarie alle esigenze, imprevedibili, della congiuntura economica, ed al livello dei servizi pubblici da garantire, e in senso meno nobile da accordi o conflitti tra piccoli e grandi centri d’interesse.


7. Il retroterra delle difficoltà dei paesi membri dell’U.E.: il disavanzo di bilancio al 3% del Trattato di Maastricht e sua giustificazione.

Le difficoltà italiane sono comuni ai molti Paesi europei [in vent’anni dal Trattato di Maastricht (1992) il rapporto debito-prodotto interno lordo (P.I.L.= valore complessivo dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese nell’arco di un anno e destinati ad usi finali: consumi, investimenti ed esportazioni nette) è peggiorato ovunque ] e hanno creato dubbi sul disavanzo di bilancio al 3% poiché – secondo alcuni – privo di logica economica in una fase di rallentamento se non di recessione dell’economia europea in particolare.
All’origine del Patto, come noto, c’era la necessità di prevenire che la crisi del debito pubblico di un Paese potesse contagiare anche gli altri.
Con le monete nazionali il limite di capacità di indebitamento di uno Stato è dato dall’onere che i i cittadini sono disposti a sopportare per ripagarlo (in termini di tasse o inflazione). Superato quel limite gli investitori disertano il debito pubblico, trasferiscono i loro risparmi altrove, e il Paese rischia una crisi valutaria.
La scarsa credibilità di un Paese, può diventare quindi un problema per tutta l’Europa ma si è posto un limite al disavanzo e non al debito poiché molti Paesi (tra cui l’Italia e il Belgio) non sarebbero entrati nell’U.E.
Con una crescita del 5% del PIL nominale il disavanzo se si vuole che lo stock di debito pubblico alla lunga non ecceda il 60% del PIL come indicato a Maastricht non deve superare il 3%.
Molte cose però non sono andate nel verso giusto. Negli anni ’80, ad es. in Italia, è vero che il debito pubblico cresceva ma era in mano agli italiani che reimpiegavano in patria gli interessi ricevuti. Ed anche l’economia cresceva. Oggi metà del debito pubblico è in mani straniere. Questo è il punto. Come afferma Giuseppe Guarino (in Corriere della. Sera, 15 agosto 2011), “se il costo di questa quota del debito in relazione al PIL è inferiore al tasso di crescita del medesimo, tutto bene. Se è pari, avremo una situazione stazionaria, ma con una fuoriuscita dei capitali costante. Se infine la dinamica del costo del debito pubblico detenuto all’estero è superiore alla crescita dell’economia, avremo una fuoriuscita di capitali crescente che, cumulandosi,aumenterà il debito. Purtroppo l’Italia si trova nella terza condizione. Il servizio del debito pubblico incide per il 4,8% sul PIL, la quota estera è più o meno la metà, la crescita 1992-2005 è pari all’1,3%, mezzo punto in meno dell’Eurozona”.
D’altro canto la Germania aveva imposto quei vincoli illudendosi di far sopravvivere il marco all’euro per via amministrativa. Ma il marco aveva alla spalle, al contrario di altri paesi aderenti all’U.E., un governo e una società coesa, l’euro no. Nel momento in cui si sono sdoganati i flussi dei capitali dentro il mercato unico e tra questo e il resto del mondo la finanza sembra essere diventata una variabile impazzita ed i mercati azionari, in preda al panico, non si sa che cosa riflettano.


8. Accordi di Bretton Woods e politiche keynesiane. L’equazione di Fisher. Globalizzazione e ridimensionamento dell’egemonia statunitense. Il costo del lavoro e delle materie prime fanno aggio sull’innovazione tecnologica.

Gli accordi di Bretton Woods (1944) ispirati in gran parte a politiche keynesiane ressero per poco più di un ventennio ma il mercato mondiale era solo quello occidentale dominato dalla potenza egemone statunitense.
Nel 1971 quando il presidente degli USA Nixon sospende la convertibilità del dollaro in oro, nel Fondo Monetario Internazionale erano già operativi i diritti speciali di prelievo con un valore puramente convenzionale: gli accordi erano in crisi da un pezzo.
L’iniziale globalizzazione, in ogni caso, fa saltare l’equazione di Irving Fisher (1867-1947): PQ=MV da cui si desume che il valore delle merci scambiate contro moneta dipende da tutti i mezzi di pagamento presenti nel sistema moltiplicati per le rispettive velocità di circolazione (si pensi alla esponenziale velocità di circolazione con le carte di credito) regola di buon senso che prima ancora di essere “matematica” era stata preceduta da un’approfondita ricerca storica ma la teoria di J.M. Keynes (1883-1946) del deficit spending per cui vi era crescita pure se, tramite una politica di investimenti pubblici, si scavavano buche da una parte per riempirle dall’altra al fine di sostenere il consumo (è rimasta celebre la frase “nei tempi lunghi siamo tutti morti”. Giusto, ma Keynes è morto e noi, a Dio piacendo, siamo vivi).
Rimane però inevasa una domanda: per la crescita vale di più la costruzione di un’autostrada per creare occupazione o un aumento della spesa corrente per scuola o sanità? Avrebbe mai pensato l’illustre economista che anche gli investimenti pubblici nel settore delle comunicazioni avrebbero generato crisi da debito? E’ ovvio che qui occorre fermarsi non essendo “addetti al mestiere”.
Venendo al costruttivismo dell’euro (esiste un solo caso nella storia in cui la moneta unica abbia preceduto quella politica?), l’enorme potenzialità dell’U.E. (la più grande del mondo secondo Romano Prodi) sembra avviarsi ad un lento declino per l’incapacità di cambiare i valori culturali prima ancora di quelli economici.
Tra l’altro per mantenere un welfare così costoso abbiamo anche perso le radici cristiane per un demenziale indifferentismo, contrabbandato come multiculturalismo ma, a ben vedere, falsa coscienza in senso marxiano: a) per abbassare il costo del lavoro da parte dei “dannati della terra” e per ottenere delocalizzazione di impianti industriali nei loro paesi d’origine; b) per garantire, finché è possibile, sanità ed assistenza sempre più inefficienti per tutti i Paesi europei.
Difficile comprendere, infine, l’U.E. dei vincoli senza una governance finanziaria quando i capitali sono stati mondializzati e possono aggredire a piacimento i debiti sovrani degli stati.
E’ vero che USA e Giappone sono più indebitati di noi ma i governi hanno il controllo della finanza ed il credito cinese che finanzia il debito nord americano può essere drasticamente ridotto da parte di un’agenzia privata di rating (Mody’s) che da i punteggi di merito agli Stati più o meno virtuosi.
Non tentiamo neppure una spiegazione: è un fatto che costo del lavoro e materie prime sembrano fondamentali, per la competitività economica globale, più della stessa innovazione tecnologica (sempre in mano agli U.S.A. ma abbondantemente copiata dai Paesi del Sud-Est asiatico ed in primis dalla Cina).


9. Alla ricerca del podestà straniero (o del dittatore benevolo): auspicio o provocazione?

Forse inconsapevolmente, sulle colonne del Corriere della Sera (11 e 15 agosto 2011),un economista Mario Monti e un giurista Giuseppe Guarino paventano (o auspicano?) il podestà straniero ricordando come le corporazioni comunali della Penisola nel XIII secolo in lotta tra di loro non di rado si accordavano chiamando un Governatore “al di sopra delle fazioni” (il podestà straniero).
In particolare Giuseppe Guarino riflettendo sul fatto che l’Italia da tempo immemorabile esporta merci o ideologie proprie ( Comuni, Rinascimento, Signorie, Controriforma, Fascismo, Made in Italy degli anni 50-60 del secondo dopoguerra) o importa quelle degli altri (Rivoluzione francese, parlamentarismo, razzismo antisemita, americanismo e/o comunismo, islamismo) propone di riconoscere volentieri al personale politico del Paese più forte e virtuoso, la Germania, il primato nel governo comune dell’U.E.
Testualmente “nel secolo XIX, non esitammo a lasciare la guida dello Stato unitario ai piemontesi divenuti italiani. Lo stesso fecero i tedeschi con i prussiani”.
Il governo federale non avrebbe più l’obbligo del pareggio di bilancio che ha oggi l’Unione, a ben guardare poco più che un “cartello” fra gli stati membri, in mano ad una discutibile tecnocrazia che regge bene il confronto con i privilegi della nostra Casta italiana.

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[1] Art. 81 Cost. “Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.”

 

(pubblicato il 13.9.2011)

 

 

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