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n. 9-2011 - © copyright

 

STEFANIA FLORIAN

Note sull’inquadramento sistematico del diniego di provvedimento

 

 


 

 

1. - Introduzione - 2. - Primi orientamenti dottrinali: norme strumentali e norme materiali; dovere d’ufficio ed obbligo di pronuncia. Atto negativo quale estinzione del dovere d’ufficio. Il silenzio della pubblica Amministrazione quale figura autonoma rispetto all’atto negativo. - 3.­­ ­- I successivi sviluppi dottrinali: teoria della rilevanza giuridica; norme d’ azione istitutive di doveri in senso stretto e norme d’azione istitutive di obblighi giuridici; il fenomeno della pluriqualificazione ­- 4. - Dovere di provvedere e dovere di pronuncia: atto negativo quale estinzione del dovere di pronuncia. Tutela giurisdizionale. - 5. - Silenzio. Inadempimento del dovere di pronuncia e inadempimento del dovere di provvedere. - 6. - Possibili analogie tra atto negativo, s.c.i.a., silenzio assenso.


1. ─ La presente indagine si propone di delineare la natura giuridica del diniego di provvedimento amministrativo, al fine di comprendere quali siano le forme di tutela giurisdizionale offerte al privato dall’ordinamento giuridico, anche per quanto attiene alle ipotesi di inerzia della pubblica Amministrazione.
Inizialmente la ricerca viene condotta attraverso lo studio di un’ originaria bipartizione normativa, che aveva individuato, nelle norme materiali e strumentali, quella distinzione tipologica indispensabile per comprendere sia la funzione, che la posizione all’interno del sistema della pronuncia negativa.
Tuttavia, recenti orientamenti dottrinali hanno dimostrato come tale ricostruzione, dopo aver distinto tra dovere d’ufficio ed obbligo di pronuncia, non si sia rivelata esauriente nel descrivere il modo in cui il diniego di provvedimento verrebbe ad estinguere il dovere di provvedere. Tale originaria impostazione, infatti, si è limitata ad affermare che il diniego rende definitiva l’omissione sottostante, consentendo, di conseguenza, l’impugnazione di questa pronuncia da parte del privato; non viene chiarito, però, se gli effetti estintivi del c.d. dovere d’ufficio siano prodotti direttamente dall’atto negativo, o se, invece, debbano essere ricondotti a tale atto, riconoscendo all’estinzione del correlato dovere valore di fatto, anziché di atto giuridico[1]. Posto che, anche quando le figure di doverosità abbiano a contenuto il compimento di atti giuridici, l’effetto estintivo del dovere si produce sempre allo stesso modo (attraverso una “(dipendente) qualificazione dell’atto, in quanto fatto”[2]); si è dimostrato, attraverso specifiche tesi sui fenomeni della dinamica giuridica[3], come, in realtà, non può essere riconosciuto valore di atto giuridico ad un comportamento che non è, neppure ipoteticamente, idoneo a produrre effetti giuridici propri[4].
L’atto negativo, quindi, sarebbe da qualificare non come una manifestazione di volontà orientata alla produzione di effetti giuridici, bensì come una manifestazione di volontà di non rilasciare il provvedimento richiesto dal privato. Ne deriva che lo stesso atto verrebbe, dunque, ad identificarsi con l’estinzione dell’obbligo di pronuncia[5].
In ogni caso l’Autorità pubblica, adempiendo all’ obbligo di pronuncia, non si può limitare ad esternare la propria volontà di provvedere oppure di non provvedere, ma deve chiarire le ragioni di legittimità e di merito che l’hanno condotta a manifestare un determinato volere[6].
Quando il giudice annulla un atto negativo illegittimo, infatti, si limita ad accertare, in realtà, che non è stato pienamente soddisfatto il dovere di conclusione del procedimento[7] perché non sono state osservate quelle prescrizioni, formali e sostanziali, volte a garantire un controllo di legittimità o di merito sull’operato dell’Amministrazione.
Di conseguenza, dopo l’accoglimento del ricorso proposto nei confronti dell’ atto negativo, il dovere di pronunciarsi sulla questione non viene ad essere restaurato, ma viene sostanzialmente accertato il medesimo originario dovere che già incombeva sull’Amministrazione, sin dal formarsi della fattispecie[8]. Il sindacato giurisdizionale sul diniego di provvedimento avrebbe, quindi, natura meramente dichiarativa e non costitutiva[9], come imponeva, invece, l’impostazione tradizionale.
E, mentre l’azione di “annullamento” mira a tutelare l’interesse alla certezza di una legittima regolazione giuridica dell’attività privata da parte della pubblica Amministrazione[10], la proposizione di un’azione risarcitoria mira, invece, a salvaguardare figure giuridiche diverse dall’interesse legittimo, ed inquadrabili nel c.d. danno da ritardo[11]. Dunque, l’”annullamento” concorre, in un certo senso, ad integrare la fattispecie illecita, perché determina il ripristino dell’eventuale obbligo di provvedere mai pienamente soddisfatto, stante il carattere retroattivo dell’annullamento stesso.
Tali considerazioni sulla natura giuridica dell’atto negativo hanno portato a specifici rilievi anche per quanto riguarda la natura giuridica di altre figure come il silenzio inadempimento, il silenzio assenso, nonchè di attività liberalizzate, come, ad esempio, la s.c.i.a. o la d.i.a.

2. ─ Al fine di delineare la natura giuridica dell’atto negativo, e la conseguente tutela giurisdizionale offerta al privato, una prima ricostruzione dottrinale ha proposto di ravvisare nelle c.d. norme strumentali e materiali[12], quella bipartizione normativa in grado di regolare a pieno l’agire della pubblica Amministrazione. Le norme strumentali sono identificate con quella serie di proposizioni giuridiche che stabiliscono le condizioni di rilevanza e di efficacia dell’atto stesso; sicchè, dal coordinamento di queste norme verrebbe desunto il c.d. modello legale dell’atto[13]. Le norme materiali vengono a coincidere, invece, con quelle proposizioni giuridiche che considerano l’ emanazione dell’atto come un comportamento idoneo a procurare una certa utilità (in ragione dell’efficacia giuridica dell’atto stesso), ed identificano il contenuto dello stesso con una situazione di dovere[14].
Tale distinzione tipologica ha portato alcuni Autori ad individuare l’esistenza di due interessi suscettibili di lesione: un interesse materiale, considerato alla stregua di un accadimento di ordine naturale, in grado di ripercuotersi nella sfera economica del soggetto privato; ed un interesse connesso ma distinto, perché riguardante direttamente le situazioni giuridiche del privato, dell’Amministrazione, o di entrambi[15]. L’indagine condotta attraverso l’utilizzo di questa bipartizione normativa, quindi, ha portato a ravvisare nel dovere d’ufficio e nell’ obbligo di pronuncia quei distinti momenti che caratterizzano l’agire della pubblica Amministrazione, e, dunque, anche la formazione dell’atto negativo: il dovere d’ufficio rappresenterebbe quel momento che precede, cronologicamente, l’obbligo di pronuncia.
Essendo la tutela dell’ interesse pubblico il fine principale a cui mira l’agire dell’ Autorità pubblica, la ricostruzione in esame ha rilevato come l’ “esigenza giuridica di mutamento del rapporto autorità – libertà”[16] venga assicurata dalla legge mediante l’imposizione di doveri. Infatti, “alla norma strumentale dell’atto non può non far riscontro una norma materiale che qualifichi come giuridicamente necessario un determinato comportamento dell’autorità amministrativa”[17]. Il contenuto del dovere in questione si estende, necessariamente, sin dal momento iniziale del processo di formazione della volontà, e si specifica gradualmente, secondo l’esito delle varie attività ed operazioni giuridicamente necessarie per la determinazione del “dover essere” relativo a quella realtà che viene a profilarsi come concreto oggetto dell’ufficio. Identificando il dovere d’ufficio con quella situazione stabilita dall’ordinamento generale volta ad acquisire e valutare fatti che, secondo la previsione di legge, hanno un valore decisivo nella determinazione concreta dell’Amministrazione[18]; contenuto del dovere non è l’esercizio del potere, ma “l’agire per l’esercizio eventuale del potere”[19]. Tale dovere avrebbe, quindi, una funzione propulsiva, in quanto costringe l’Autorità a compiere tutte le operazioni volte ad accertare l’esistenza del potere, e le condizioni cui è subordinata la sua realizzazione (raggiunta solo quando tale accertamento abbia avuto esito positivo)[20]. Gli Autori che sostengono la tesi della bipartizione tra norme strumentali e materiali hanno rilevato come alla determinazione del dovere d’ufficio concorrano entrambe le tipologie normative. Infatti, mentre le norme materiali qualificherebbero l’agire della pubblica Amministrazione in termini di doverosità; le norme strumentali individuerebbero il c.d. modello legale dell’atto, che contribuisce a descrivere, dal punto di vista normativo, il comportamento dovuto. Tuttavia, non sarebbe possibile giungere a conclusioni diverse perché, se la norma di dovere fosse considerata estranea all’ordinamento generale, si dovrebbe inevitabilmente ammettere che l’attività preordinata all’esercizio del potere sia irrilevante o sostanzialmente libera[21].
La dottrina richiamata afferma che una volta emanato l’atto, il suo rapporto con il modello legale non viene più in considerazione sotto il profilo del dovere, il quale “ha ormai esaurito la sua funzione”, ma rileva come “modo di essere dell’atto”, e “più precisamente come elemento centrale della fattispecie costitutiva del potere di annullamento”[22]. La considerazione del rapporto tra il “dovere d’ufficio” e la “disciplina giuridica dell’atto”, infatti, sarebbe solo finalizzata a chiarire la situazione dell’Amministrazione pubblica nel momento che precede l’esercizio del potere, e la correlata posizione d’interesse del privato, e non il valore giuridico dell’atto nell’ambito dell’ordinamento generale[23].
Infine, il dovere d’ufficio, che riveste un certo rilievo nei confronti dei soggetti dell’ordinamento generale, viene necessariamente connesso, dalla ricostruzione riferita, al c.d. dovere di servizio: tra le due situazioni vi sarebbe un rapporto di connessione necessaria perché la situazione prevista dall’ordinamento generale deve essere attuata e, quindi, tradotta dall’ordinamento interno in uno o più doveri delle persone fisiche legate all’ente da rapporti di servizio[24]. L’obbligo di servizio viene, dunque, posto dall’ordinamento interno, e costituisce un mezzo di distribuzione delle attività tra le persone fisiche che operano nell’ente[25].
Nell’ipotesi in cui l’azione della pubblica Amministrazione sia, per qualche aspetto, di carattere discrezionale, la teoria riferita rileva come il contenuto del dovere d’ufficio venga stabilito dalla norma materiale mediante il richiamo a determinati “criteri di convenienza amministrativa”, ai quali la scelta discrezionale deve essere uniformata per fare in modo che il risultato dell’azione sia adeguato alle finalità cui la stessa attribuzione del potere è preordinata[26]. Sul piano concettuale, l’unico limite alla configurabilità di obblighi e doveri di questo tipo, è dato dall’ esigenza che il criterio di determinazione del comportamento dovuto non si identifichi del tutto con un interesse esclusivo dell’agente.
La scelta discrezionale rimessa alla pubblica Amministrazione, quindi, non può mai riguardare l’an agatur, perché, quando determinati fatti rivelino l’ esigenza di instaurare un certo assetto di interessi, o la sola possibilità di instaurare un assetto di interessi maggiormente confacente agli scopi perseguiti dall’ordinamento, l’Amministrazione non può restare inerte, ma “deve agire, quanto meno, per stabilire se in concreto sussistano le condizioni cui la legge subordina codesta innovazione”[27]. La facoltà di scelta discrezionale può riguardare, dunque, solo quell’azione specifica che può essere individuata mediante l’indicazione di un atto determinato (quomodo)[28]. Compiuta la valutazione dei fatti rilevanti e l’eventuale attività discrezionale, si giunge, infine, all’ultima specificazione del dovere d’ufficio, cioè all’individuazione della norma del caso concreto[29]. L’eventuale emanazione del provvedimento positivo determinerebbe il superamento del profilo del dovere: da quel momento ciò che rileva è solo l’atto e il suo rapporto con la previsione normativa. Una volta adempiuto il dovere d’ufficio, alla definizione dell’atto giuridico concorrono solo le note rilevanti per la norma che collega alla fattispecie una certa innovazione della realtà giuridica, e questa norma non implica alcuna qualificazione in termini di necessità giuridica. Dunque, si è affermato che l’effetto di estinzione viene a compiersi indipendentemente dall’effetto di adempimento, perché il carattere doveroso non viene riferito all’atto stesso, ma al comportamento da cui esso risulta[30]. Ed è proprio questo fenomeno di dissociazione dell’effetto di estinzione da quello di adempimento che viene utilizzato da questi Autori, per spiegare la rilevanza dinamica dell’atto negativo. Si afferma, infatti, che se l’attività posta in essere dall’Amministrazione pubblica abbia rivelato l’inesistenza delle condizioni cui è subordinata l’emanazione di un certo provvedimento positivo, per determinare il fatto estintivo del dovere d’ufficio è “necessario dissociare l’effetto di estinzione da quello di adempimento, e collegarlo invece a un atto idoneo a esprimere negli aspetti giuridicamente più rilevanti la valutazione compiuta dall’autorità. E quest’atto non può essere evidentemente, che la dichiarazione negativa, cioè la motivata manifestazione della volontà di non emettere il provvedimento di cui nel caso concreto si tratta”[31]. Tuttavia, dal momento che la legge strumentale del provvedimento, che nel caso concreto si profili come idoneo ad appagare un interesse del cittadino, è priva di significato in ordine al valore di un contegno meramente omissivo, si giunge ad affermare che “alla tutela dell’interesse individuale concorre necessariamente anche la norma materiale, che assume a contenuto di un dovere dell’autorità l’accertamento e la ulteriore determinazione delle condizioni di quel provvedimento, e la stessa emanazione del medesimo quando tali condizioni si siano realizzate. In questo senso, appunto, si è prospettata la esistenza stessa del dovere come un fatto rilevante per il cittadino”[32].
La pronuncia negativa determinerebbe, quindi, l’estinzione del dovere d’ufficio, da un lato, in quanto attesta, attraverso un “atto giuridico formale”[33], l’avvenuto “esercizio della funzione”; e dall’altro lato l’ adempimento dell’obbligo stabilito a favore del privato[34], il quale esige di conoscere il risultato dell’azione svolta dall’Autorità[35].
In questa ricostruzione l’adempimento dell’obbligo risulta del tutto indipendente dall’adempimento del dovere, e conseguentemente, risulta indipendente anche dalla considerazione della legittimità del diniego inteso come atto. Infatti, l’interesse del cittadino ad ottenere un corretto adempimento dell’obbligo di pronuncia da parte della pubblica Amministrazione non viene a coincidere con l’interesse materiale che dovrebbe essere appagato con l’emanazione del provvedimento atteso, ma “si realizza solo con il conseguimento della possibilità pratica e giuridica di far accertare agli organi giurisdizionali la illegittimità della determinazione sfavorevole”[36].
Proprio in ragione di tali considerazioni, una più recente dottrina ha evidenziato l’impossibilità di riconoscere una qualche rilevanza dinamica all’atto negativo, affermando che si sia cercato, invece, di ammettere la sindacabilità del diniego di provvedimento attraverso un giudizio di mera impugnazione[37].
L’originaria ricostruzione dottrinale, inoltre, ha precisato che contenuto dell’ obbligo, previsto dalla legge per assicurare la tutela effettiva degli interessi individuali che verrebbero avvantaggiati da un determinato provvedimento, non è una qualsiasi dichiarazione, ma una pronuncia (intesa come mera attività di esternazione) sul provvedimento atteso, o sul procedimento, cioè sull’esistenza dei presupposti del regolare svolgimento dell’intera serie procedimentale. A differenza di quanto rilevato per il dovere d’ufficio, nel determinare il contenuto dell’obbligo di pronuncia, la norma non fa riferimento alla legittimità e opportunità del provvedimento, poiché codesti modi di essere dell’atto vengono assicurati al cittadino solo indirettamente, mediante la predisposizione di misure rivolte contro l’atto[38].
Nonostante dovere d’ufficio ed obbligo di pronuncia siano rappresentati come due momenti distinti, si è rilevato come siano, allo stesso tempo, legati da un rapporto di connessione necessaria: l’ obbligo di pronuncia diviene attuale solo nel momento in cui può essere individuata la proposizione giuridica relativa al caso concreto, cioè nel momento stesso in cui il dovere d’ufficio termina di svolgere la sua “funzione propulsiva” rispetto a quell’agire che è giuridicamente necessario per l’eventuale modificazione del rapporto tra Amministrazione e privato[39].
L’esercizio della funzione da parte dell’Amministrazione è considerato, dunque, attività doverosa, nel caso in cui sia accertata l’esistenza di determinate condizioni[40]; ciò che non può essere garantito al privato è solo un certo risultato, cioè la realizzazione del potere giuridico nel senso corrispondente alle sue aspettative[41].
Sebbene la funzione sia preordinata all’esercizio del potere, è stato affermato come essa assuma una specifica rilevanza anche quando, in seguito all’accertamento dell’inesistenza di una o più delle condizioni stabilite dalla legge, tale potere non venga esercitato. L’azione, infatti, non cessa di essere funzione solo perché il fine a cui tendeva si è rivelato, ad un certo punto, non realizzabile: una certa attività amministrativa continua ad essere considerata funzione in considerazione del fine cui la medesima è preordinata, a prescindere, quindi, dall’esito[42].
Gli stessi Autori che hanno cercato di dimostrare la natura provvedimentale dell’atto negativo, hanno rilevato, invece, l’inidoneità del silenzio della pubblica Amministrazione ad esprimere il “risultato negativo di un esercizio della funzione”[43]. Il silenzio infatti, anche se qualificato da una formale diffida non rappresenterebbe l’esercizio della funzione, ma solo ed esclusivamente il modo di apparizione del fatto negativo[44]. La qualificazione del silenzio come atto non si è dimostrata neppure conforme alla logica giuridica. Basti pensare a quei tentativi, in passato proposti, di garantire una tutela giurisdizionale al privato, partendo dalla considerazione della stessa inerzia quale vero e proprio atto.
Una prima soluzione, infatti, aveva proposto che il giudice, una volta constatata l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie del silenzio rifiuto, potesse ritenere illegittimo, e, quindi, annullare l’implicito diniego, astenendosi da qualunque indagine volta a stabilire se esistessero ragioni tali da giustificare il rifiuto di provvedimento atteso dal privato[45]. Tale ricostruzione è stata considerata inattendibile perché si risolveva in un circolo vizioso, dal momento che venivano collegati al silenzio gli effetti del rifiuto solo per rendere possibile l’eliminazione di codesti effetti.
La seconda soluzione proposta, invece, era imperniata sull’idea di finzione: per garantire quella forma di tutela che presupponeva l’esistenza dell’atto, si cercava di supplire alla mancanza della pronuncia negativa con un mera qualificazione di fatti eterogenei[46]. Tuttavia, l’impossibilità di annullare un’entità giuridica ottenuta mediante finzione, ha portato alcuni Autori a rilevare come tale finzione debba essere considerata, invece, un mero “espediente verbale escogitato per celare la reale natura dichiarativa della pronuncia giurisdizionale, cioè per tener fermo almeno nella formula lo schema del giudizio costitutivo di annullamento”[47].
Gli sviluppi dottrinali successivi, inerenti ai fenomeni della dinamica giuridica, hanno dimostrato come la stessa natura dichiarativa della pronuncia giurisdizionale debba essere, in realtà, riconosciuta anche nelle ipotesi di “annullamento” di atto negativo.

3.La c.d. “teoria della rilevanza giuridica” è di fondamentale importanza per comprendere il fenomeno di produzione degli effetti giuridici, in considerazione del diverso apporto che reca l’elemento volontaristico nell’atto giuridico e nel fatto giuridico in senso stretto[48].
Tale teorizzazione rileva perchè consente di comprendere come dal precetto giuridico discenda una duplice tipologia di conseguenze giuridiche: un’ “efficacia propriamente detta”, da identificarsi con le conseguenze giuridiche che la norma produce direttamente; e una “efficacia presupposta”, determinata dal riconoscimento dell’esistenza di una fattispecie giuridicamente rilevante, suscettibile di attivare il precetto, produttivo di effetti giuridici propri[49]. La “volontà effettuale” dell’atto non è da considerarsi corrispondente a quella del fatto giuridico in senso stretto[50], poiché in quest’ultimo, la volontà degli effetti deve ravvisarsi nella norma che considera tale fatto come giuridicamente rilevante, prescindendo, quindi, dal momento psichico[51]. A differenza delle tesi classiche[52], per cui il fatto giuridicamente rilevante era considerato, al pari dell’atto, fonte diretta di produzione di effetti giuridici, si propone una diversa valutazione di rilevanza, che riconosce solo all’atto giuridico valore di “fonte diretta” di produzione di effetti[53]. Solo in tal modo si riesce a comprendere come fatto ed atto giuridico siano “due circostanze complementari” e ugualmente necessarie nel fenomeno di produzione di effetti giuridici[54]: il fatto giuridico, quale fonte indiretta, è espressione di una “necessità sostanziale”, “rispetto alla quale l’atto giuridico che pone il precetto, con i propri effetti consequenziali costituisce il rimedio approntato per soddisfarla”[55].
Così, nella fattispecie del silenzio assenso, ad esempio, il decorso di un dato periodo di tempo dalla presentazione dell’istanza costituisce il fatto giuridico in senso stretto rilevante per l’attivazione dell’atto giuridico che pone il precetto. Gli effetti giuridici, dunque, non sono prodotti dal fatto del decorso del tempo, ma dal precetto che prevede che, in presenza di una determinata fattispecie giuridica presupposta (fatti storici e qualificazioni oggettive e soggettive), l’atto produca determinati effetti giuridici conseguenti, al fine di far fronte ad una determinata situazione di necessità. Allo stesso modo si potrebbe considerare il caso della segnalazione certificata di inizio attività, in cui la presentazione delle autocertificazioni, corredate dai relativi elaborati tecnici, possono essere considerate il fatto presupposto per l’attivazione del precetto che prevede il prodursi di determinati effetti diretti. La mancanza del fatto presupposto, dunque, non comporta l’inesistenza o l’invalidità dell’atto, bensì la sua inefficacia[56].
La soddisfazione di determinate situazioni di necessità è assicurata dall’ordinamento attraverso le c.d. norme d’azione, che disciplinano l’esercizio del potere in termini di doverosità, sia nel caso in cui il comportamento dovuto sia di natura giuridica, sia nel caso in cui tale comportamento imposto sia di natura materiale[57]. Infatti, data l’esigenza di perseguire interessi pubblici eteroimposti, non possono esistere per l’Amministrazione sfere di attività libera. Dunque, ad ogni norma di relazione, attributiva di potere[58], possono corrispondere più norme d’azione, che qualificano lo stesso potere come “libero” o come “dovere giuridico”. Le norme d’azione che disciplinano l’esercizio del potere in termini di doverosità, esprimono sostanzialmente due necessitates agendi, che si sostanziano nelle figure dei c.d. “doveri in senso stretto” da un lato, e dei c.d. “obblighi giuridici” dall’altro[59].
E’ rimesso al diritto positivo distinguere le ipotesi in cui le norme d’azione impongano meri doveri, dai casi in cui le stesse impongano obblighi giuridici in senso stretto; può accadere, tuttavia, che l’ordinamento configuri l’esercizio di un determinato potere contemporaneamente come dovere e come obbligo, perché il comportamento dovuto dall’Amministrazione soddisfa tanto interessi dell’ordinamento, quanto interessi privati.
Alla prima figura di doverosità corrisponde la tutela di un interesse generale e personificato; nessun soggetto, infatti, può porsi in relazione con il comportamento del titolare del potere, poiché beneficiario di tale comportamento necessitato è l’ordinamento complessivamente inteso[60]. In questo caso, l’interesse del privato, che si identifica con l’interesse della generalità che taluno tenga un comportamento determinato, viene a coincidere con la legittimazione a proporre ricorso. Infatti, quando il ricorrente agisce in giudizio per far valere questa posizione di dovere (il cui fondamento è ravvisabile negli art. 24 e 113 Cost.)[61], non agisce per la protezione di una propria figura giuridica sostanziale, inesistente nel caso concreto, ma per l’accertamento della violazione di un dovere generale imposto all’Autorità. Se, invece, l’interesse del privato fosse suscettibile di considerazione autonoma, si dovrebbe anche affermare l’idoneità dell’esito favorevole del giudizio a riparare la lesione in questione[62].
Tale processo di legittimità mira, dunque, a “restaurare la funzione amministrativa” e, quando il ricorrente agisce per far valere questa posizione di dovere, è titolare di una vera e propria “legittimazione straordinaria”, perché non agisce per la protezione di una propria figura giuridica sostanziale che, nel caso concreto, è inesistente, ma per l’accertamento della violazione di un dovere imposto all’Amministrazione, a tutela dell’interesse pubblico[63].
Nel caso di violazione di un dovere in senso stretto, quindi, interesse pubblico e interesse privato si configurano come interessi complementari, protetti da figure giuridiche di diversa natura e di diverso rilievo in giudizio: mentre l’interesse privato è tutelato dalla cognizione operata in sede di ammissibilità del ricorso, l’interesse pubblico al ripristino della legalità è invece protetto dal dovere che regola l’esercizio del potere provvedimentale amministrativo. Si è affermato come ad entrambi questi interessi sia riconosciuta una protezione “occasionale”, in ordine alla duplice indagine condotta dal giudice, di rito in un primo momento, e di merito successivamente (l’interesse privato trova protezione diretta con il riconoscimento della legittimazione a ricorrere, occasionale in un secondo momento, quando è necessariamente subordinato alla valutazione dell’interesse pubblico; la protezione dell’interesse pubblico, invece, trova protezione occasionale in un primo momento, quando presuppone la protezione dell’interesse privato ai fini dell’ammissibilità del giudizio, per poi acquisire carattere autonomo nel momento della fondatezza della domanda)[64]. Posta l’eterogeneità delle situazioni inerenti a poteri, e l’attitudine delle norme d’azione a regolare l’esercizio di tali poteri, si è rilevato come le norme d’azione possano regolare non solo la legittimità di atti amministrativi, ma anche di comportamenti meramente materiali, che si contrappongono all’esercizio dei medesimi poteri giuridici[65]. E’ questo, ad esempio, il caso del silenzio, in cui l’Amministrazione, tenendo un comportamento omissivo in ordine all’esercizio di un potere, viola tutti quei “precetti che le norme istitutive di doveri pongono”[66]. Perciò, in tali ipotesi, si potrà avere un giudizio sulla legittimità dell’atto, se la norma d’azione violata impone doveri inerenti all’emanazione dell’atto o alle modalità della stessa emanazione; ovvero un giudizio di legalità sul comportamento inerte, se la norma d’azione impone doveri di provvedere[67].
Laddove le controversie tra Amministrazione e privato, pur inerendo all’esercizio del potere provvedimentale, riguardano una vera e propria relazione giuridica, si afferma che le norme d’azione costituiscono i c.d. “obblighi giuridici”. Tuttavia, sussistendo questi ultimi solo in presenza di un determinato diritto di credito, si è affermato che il precetto che crea l’obbligo (in virtù di una determinata necessitas agendi) crei anche il correlato diritto a che sia osservata la norma d’azione impositiva dell’obbligo[68]. Dunque, in questi casi, il privato può dirsi titolare di un’autonoma figura giuridica sostanziale, capace di collegarsi, secondo le forme di un vero e proprio rapporto giuridico, alle figure di doverosità dell’Amministrazione. Il giudizio di legittimità, che eventualmente riguardi tali norme d’azione, quindi, non verte solo sull’accertamento dell’illegittimità dell’atto, ma anche sull’accertamento del diritto del privato rimasto inadempiuto[69]. Così, per queste particolari ipotesi viene a profilarsi una natura del giudizio amministrativo diversa da quella considerata in relazione alle norme d’azione costitutive di doveri in senso stretto, perché tendente a delineare il carattere dell’accertamento in termini soggettivi, anziché oggettivi[70].
Gli interessi legittimi, la cui struttura è unitaria, sono dunque eterogenei, in dipendenza della diversità delle norme di protezione dalle quali derivano; e la loro protezione giurisdizionale produce, nei confronti dell’amministrazione, effetti diversi in relazione alla diversità di contenuto delle norme di protezione di cui sia accertata in giudizio la violazione”[71].
Il cittadino titolare di un interesse legittimo avente natura di diritto di credito, mira, sostanzialmente, ad ottenere la c.d. “prestazione dell’Amministrazione”, consistente nell’emanazione o nella non emanazione del provvedimento, ed aspira, dunque, ad un legittimo agire dell’Autorità[72]. Perciò, anche nelle obbligazioni di derivazione legale può affermarsi esistente un interesse del creditore, di rilievo autonomo, poiché comunque riconducibile ad un soggetto determinato[73]. Gli obblighi giuridici, dunque, non tutelano solo l’interesse del privato ad ottenere un provvedimento favorevole, ma tutelano anche l’esigenza di ottenere una sorta di certezza sull’assetto delle figure giuridiche soggettive, sottoposte alla vigilanza ed alla regolamentazione dell’Autorità, che solo dal legittimo esercizio del potere amministrativo può derivare.
Dal momento che non deve essere perso di vista l’interesse pubblico perseguito dalla pubblica Amministrazione, si è rilevato come le norme d’azione costitutive di obblighi giuridici implichino necessariamente anche la sussistenza di doveri in senso stretto, ai quali è unicamente riferibile il perseguimento diretto della funzione pubblica. Quindi, l’azione provvedimentale amministrativa, anche se contornata da norme d’azione costitutive di obblighi, risulta comunque improntata al perseguimento della funzione pubblica, attraverso il dovere in senso stretto che sull’ente grava, e spinge l’Amministrazione a tenere quello stesso comportamento preteso anche dal privato[74]. Detta posizione di obbligatorietà, dunque, può considerarsi posta ad esclusiva tutela dell’interesse privato, “senza che nel suo complesso venga persa di vista la funzione pubblica”[75]. Tali considerazioni portano a ritenere che le azioni risarcitorie, esperibili dal cittadino a tutela del proprio diritto di credito, mirino a tutelare in modo diretto e autonomo tutte quelle figure giuridiche soggettive separate dai meri doveri provvedimentali, e, dunque, anche le obbligazioni legali. Anche in queste ultime, infatti, l’ interesse del creditore, pur ravvisabile nella stessa disposizione di legge, conserva autonomo rilievo, altrimenti non potrebbe parlarsi di obbligazione. Viceversa, quando l’interesse non sia riconducibile ad un soggetto determinato, non verrà meno la giuridicità del comportamento, ma potrà configurarsi solo un dovere in senso stretto, e non un’obbligazione in senso proprio[76].
Riconoscendo l’esistenza di un interesse del creditore anche nelle obbligazioni legali, si è affermato che l’ordinamento ammette, in capo all’amministrato, non solo un interesse ad ottenere un provvedimento a lui favorevole, ma anche un interesse ad ottenere certezza sull’assetto delle figure giuridiche soggettive che lo riguardano. Se la regolamentazione dell’attività privata, da parte dell’Amministrazione avviene in modo non legittimo, il privato preferirà rimanere nell’iniziale situazione di incertezza, in modo da non vedersi preclusa la possibilità di ottenere una favorevole determinazione amministrativa, che deve, tuttavia, essere colta in sé, e non in relazione al provvedimento favorevole eventualmente ottenibile[77].
In presenza di norme d’azione costitutive di obblighi giuridici, quindi, la tutela del privato è diretta ed autonoma perché vengono assicurati strumenti di tutela ulteriori rispetto a quelli che sarebbero a lui riconosciuti nelle ipotesi in cui l’Amministrazione fosse gravata da un mero dovere in senso stretto. Tali rimedi hanno sostanzialmente natura risarcitoria e possono ammettersi solo nei casi in cui non siano contrastanti con il perseguimento del pubblico interesse[78].
L’esistenza di questo duplice regime di norme d’azione, e quindi di questa duplice tipologia di violazione normativa, è confermata dal fatto che dall’assunzione di un atto amministrativo contra legem possono derivare sia conseguenze risarcitorie che caducatorie; tale fatto porta di per sé a considerare che le figure giuridiche soggettive violate dall’Amministrazione siano sostanzialmente due, a seconda del diverso regime sanzionatorio ad esse collegato[79].
Così, mentre l’annullamento del provvedimento illegittimo ha una funzione ripristinatrice dell’interesse pubblico, il risarcimento del danno mira a tutelare il correlato diritto di credito, cui il privato è titolare.
Questo rapporto di dipendenza tra la norma d’azione costitutiva di un obbligo provvedimentale e la norma d’azione costitutiva di un dovere in senso stretto, ha portato la dottrina riferita ad affermare che “anche il rapporto tra le due qualificazioni dell’atto amministrativo (a seconda che violi l’obbligo o il mero dovere) si pone esso stesso in termini di pluriqualificazione dipendente”. Il diritto al risarcimento del danno, infatti, sarà riconosciuto solo nel caso in cui sia riconosciuta anche l’ illegittimità dell’atto amministrativo[80]. Tale dipendenza viene riconosciuta, però, solo ed esclusivamente sotto un profilo sostanziale, in quanto attiene “alla mera costituzione delle due figure giuridiche di doverosità”, e non riguarda, dunque, il profilo sanzionatorio[81].

4. ─ Pur riconoscendo l’attitudine dell’atto negativo a regolare gli interessi affidati alla cura della pubblica Amministrazione, la sua natura di provvedimento, in realtà, non è dimostrata, dal momento che non sono stati dimostrati i c.d. effetti giuridici direttamente prodotti[82].
Una parte di dottrina ha affermato che questi ultimi debbano ravvisarsi nell’estinzione del “dovere d’ufficio”; non si chiarisce, però, se essi siano direttamente prodotti dall’atto negativo, oppure se siano, invece, a questo riferibili sulla base di una diversa qualificazione dell’atto, in quanto fatto giuridico in senso stretto di adempimento[83]. Alla luce della teoria della rilevanza giuridica e del sistema delle pluriqualificazioni, sarebbe più corretto affermare che l’estinzione della posizione di doverosità sia da ascriversi alla legge, per il fatto che l’obbligato ha tenuto il comportamento imposto. Affermare la necessità di “dissociare l’effetto di estinzione da quello di adempimento e collegarlo ad un atto idoneo ad esprimere la valutazione compiuta dall’Autorità”[84] significa sostanzialmente confondere il criterio di valutazione con il suo oggetto, cercando di ammettere un sindacato giurisdizionale nei confronti di un atto che non può in alcun modo essere considerato idoneo a produrre effetti giuridici propri. Tale forzatura non è nemmeno necessaria se, invece di considerare il rapporto tra la norma attributiva di potere (di carattere avalutativo) e l’interesse violato, si considerano solo ed esclusivamente le norme d’azione, suscettibili di regolare qualsiasi comportamento inerente all’esercizio di un potere, e, perciò, anche comportamenti materiali, che costituiscono, in realtà, il riflesso di un dovere[85]. Conferma di tale rilievo si può avere se si considera che il dovere di assumere un atto giuridico viene violato proprio da un comportamento materiale, ed il divieto di assumere l’atto viene violato dall’emanazione di quest’ultimo. Nel caso di violazione di norme d’azione impositive di comportamenti materiali, quindi, oggetto del sindacato giurisdizionale non sarà un atto, ma un “non atto”, cioè un comportamento dell’Amministrazione non equiparabile ad un vero e proprio atto giuridico[86].
Al c.d. obbligo di pronuncia, dunque, non deve necessariamente riconoscersi natura provvedimentale, al fine di ammettere un sindacato giurisdizionale, essendo sufficiente un comportamento materiale per soddisfare l’esigenza del privato di conoscere la volontà dell’Amministrazione, in ordine all’emanazione di un determinato provvedimento. Tale dovere riguarda, quindi, un mero pronunciarsi, colto in sé, e non quale esercizio di un potere giuridico[87]. La certezza, infatti, è “un risvolto della funzione di regolazione propria non solo del provvedimento amministrativo, ma anche di qualsiasi atto giuridico, paragonabile, per certi aspetti, ai negozi di accertamento”[88]. Nonostante all’obbligo di pronuncia debba attribuirsi natura materiale e all’obbligo provvedimentale natura giuridica, può comunque accadere che queste posizioni di doverosità siano violate in forza dei medesimi comportamenti. E probabilmente proprio questa circostanza ha portato alcuni Autori a considerare le due figure giuridiche soggettive “unitarie”[89].
Tuttavia, mentre il silenzio è inquadrabile nella categoria dei comportamenti aventi natura meramente materiale, lo stesso non può dirsi per la pronuncia negativa, che non costituisce il comportamento antitetico a quello giuridico consistente nel rilascio del provvedimento richiesto, ma costituisce il comportamento opposto al dichiarare di voler provvedere, inteso come pronuncia, coincidente, in realtà, con il rilascio del provvedimento positivo stesso[90]. Invece, il comportamento antitetico al rilascio del provvedimento positivo non è la manifestazione della volontà di non rilasciare il provvedimento, ma è il semplice fatto del mancato rilascio del provvedimento, cioè l’inerzia dell’Amministrazione, che è legittima solo se non sussiste un dovere di provvedere. Ne deriva che, come l’originaria bipartizione normativa aveva consentito di constatare, il dovere di pronunciarsi opera su un piano diverso rispetto al dovere inerente all’emanazione del provvedimento. Infatti, la pronuncia, colta come fatto giuridico in senso stretto, costituisce adempimento del corrispondente dovere di pronuncia, e, operando come fatto giuridico in senso stretto di adempimento, ne determina l’estinzione[91]; di contro, nel caso in cui sussista un dovere di provvedere, l’attività doverosa dell’Autorità costituisce esercizio di un vero e proprio potere giuridico, al quale è connessa l’emanazione di un atto giuridico, cui lo stesso sistema di norme riconosce valore di fonte diretta di produzione di effetti giuridici[92].
Dunque, mentre il dovere di provvedere soddisfa esigenze inerenti all’emanazione del provvedimento favorevole, o meno dannoso[93], il dovere di pronuncia soddisfa esigenze di tutela diverse e ulteriori, connesse all’esigenza di certezza in ordine alla regolamentazione delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo al privato.
Dal momento che ai fini della configurabilità di un rapporto obbligatorio tra Amministrazione e privato, è necessaria la presenza di un interesse creditorio da un lato, e di un collegamento diretto con la funzione pubblica dall’altro, si ritiene che l’adempimento all’obbligo di pronuncia sia indispensabile al soddisfacimento non solo di esigenze di certezza, di carattere privatistico, ma anche di esigenze di chiusura del procedimento (art 2, legge 7 agosto 1990, n. 241). Ne deriva che, per adempiere a tali posizioni di doverosità, non si può prescindere dall’esternazione delle ragioni che hanno condotta la stessa Amministrazione a determinate conclusioni. Nel caso in cui tali prescrizioni, imposte anche per l’ emanazione di provvedimenti positivi, non siano rispettate, viene a configurarsi un atto illegittimo[94]. Se si dovesse ritenere l’obbligo pienamente adempiuto “per il solo fatto che l’Amministrazione abbia manifestato la volontà di non provvedere”, non sarebbe ammesso l’esperimento dell’azione giurisdizionale contro di esso, poiché la pronuncia assolverebbe comunque la funzione adempitiva del dovere[95].
Dal momento che l’adempimento all’obbligo di pronuncia si sostanzia non nell’emanazione di un atto, ma in una dichiarazione di volontà di non rilasciare il provvedimento richiesto, sarebbe più corretto attribuire all’azione giurisdizionale volta ad ottenere il c.d. “annullamento” del provvedimento negativo, natura meramente dichiarativa, e non caducatoria, non essendoci, in realtà, nessun atto da annullare[96].
Dunque, nel caso in cui, con la pronuncia negativa, non siano state rispettate tutte le tutele e le garanzie richieste per la legittima conclusione del procedimento, l’ annullamento dell’ atto negativo deve configurarsi come una dichiarazione del non completo adempimento all’obbligo di pronuncia (intendendosi per quest’ultimo quell’insieme di atti e fatti diretti all’emanazione di una pronuncia amministrativa). Il privato, quindi, può dirsi titolare non solo della legittimazione ad impugnare il provvedimento negativo, ma anche di un diritto di credito, in forza del quale può richiedere un risarcimento del danno, esperendo l’azione di cui all’art. 1218 cod. civ. Il mancato riconoscimento della natura dichiarativa all’azione di annullamento dell’atto negativo deve probabilmente ricondursi al tradizionale sistema di giustizia amministrativa, che precludeva al giudice amministrativo di emettere pronunce meramente dichiarative[97].
Nonostante la dimostrata esistenza di un rapporto di “alternatività” tra azione risarcitoria e azione di annullamento[98], l’atto negativo rappresenta una deroga a tale principio, dal momento che l’ “annullamento” dello stesso non preclude la possibilità di esperire, successivamente, un’azione risarcitoria. Quest’ultima, infatti, non trova fondamento nel fatto che l’atto “sia stato emanato contravvenendo alle norme che lo regolano”[99], ma trova fondamento nella lesione arrecata dal ritardo della pronuncia (c.d. danno da ritardo)[100].
Per quanto attiene al profilo risarcitorio, si è affermato che la quantificazione del danno da ritardo eventualmente riconosciuto al privato[101] dipenda sostanzialmente dalla lesione arrecata al suo interesse, a seguito della situazione di incertezza sull’assetto delle figure giuridiche soggettive a lui riferibili. Rientrano, quindi, nella quantificazione del danno, oltre alle spese sostenute per la presentazione della domanda, la prosecuzione del procedimento ed eventuali immobilizzazioni di risorse, anche le capacità della persona di far fruttare altrimenti i propri beni[102].
Nonostante la risarcibilità del lucro cessante sia sempre stata preclusa, stanti le difficoltà di applicazione dell’art 1223 cod. civ. agli obblighi giuridici (in ragione dell’impossibilità di rimettere valutazioni di carattere discrezionale all’organo giurisdizionale), può affermarsi che recentemente vi sono stati orientamenti in senso contrario[103].

5. ─ Considerando il dato normativo (art. 2 comma, legge 7 agosto 1990, n. 241; art. 2 bis, legge 6 dicembre 1971, n. 1034; art. 31 comma 1 d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104) sembrerebbe che l’inerzia serbata dell’Amministrazione sia da ricondursi all’inadempimento di un obbligo provvedimentale. Tuttavia, alla luce delle conclusioni tratte sulla natura dell’atto negativo, si può affermare che l’obbligo dell’Amministrazione di concludere il procedimento con un “provvedimento espresso”[104] rifletta, in realtà, il dovere dell’Amministrazione di emettere una “pronuncia espressa e motivata,” che, mentre nel caso di emanazione di un provvedimento positivo viene ad identificarsi con quest’ultimo, nel caso di mancata emanazione del provvedimento richiesto, viene a configurarsi come un diniego di provvedimento.
Dal momento che l’ordinamento, attraverso l’imposizione di obblighi giuridici, mira a tutelare l’interesse del privato ad ottenere una sorta di certezza sull’assetto delle proprie figure giuridiche soggettive, il legislatore ha disposto che, in assenza di una pronuncia, decorsi i termini per la conclusione del procedimento, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo di pronuncia (art. 31 comma 1, d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104).
Quando, invece, la stessa inerzia comporti anche una violazione del dovere di provvedere, l’interessato è legittimato a chiedere al giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. Tuttavia, dal momento che la Costituzione individua nella sola Amministrazione l’unico soggetto deputato a curare gli interessi pubblici, al giudice è riconosciuta la possibilità di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo nelle ipotesi in cui è la stessa legge a prevedere che, laddove si profili una determinata situazione, l’Amministrazione sia tenuta ad assumere un provvedimento con un determinato contenuto. In questa disciplina rientra anche l’ipotesi in cui l’Autorità, pur disponendo di potere discrezionale al momento di avvio del procedimento, risulti essere vincolata nel compimento della scelta finale, cioè nel momento di emanazione del provvedimento. In questo caso, infatti, la sfera di potere discrezionale si restringe nel corso del procedimento, per l’intervento di quegli apporti procedimentali che riducono le varie opzioni di scelta discrezionale ad una sola.
Tuttavia, tale disposizione potrebbe ritenersi rilevante anche nelle ipotesi di atto negativo illegittimo, poiché, nei casi di attività vincolata, anch’esso può costituire inadempimento di un obbligo provvedimentale[105]. Infatti, mentre in assenza di un dovere di provvedere l’annullamento del diniego deve considerarsi alla stregua di una dichiarazione del non completo adempimento all’obbligo di pronuncia; nel caso in cui sussista un’ obbligazione provvedimentale, il privato deve considerarsi inadempiente non al mero dovere di pronuncia, bensì al c.d. dovere di provvedere (annullamento dell’atto negativo per vizio sostanziale). In tale ultima ipotesi, dal momento che una volta “annullato” l’atto negativo la fattispecie sostanziale verrebbe ad essere riportata ad una situazione analoga a quella in cui l’Amministrazione avrebbe versato se fosse rimasta ininterrottamente inerte[106], potrebbe ritenersi ammissibile la possibilità, per l’interessato, di adire il giudice con una richiesta di pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31 comma 3, d. lgs. 2 luglio 2010 n. 104). E’ in ogni caso necessario tener presente che, essendo preclusa al giudice ogni valutazione di carattere discrezionale per quanto concerne l’attività amministrativa, tale pronuncia sia ammissibile solo in presenza di attività vincolata.

6. ─ Dal momento che solo all’Amministrazione è ricondotta la possibilità di emettere provvedimenti amministrativi, si è rilevato che il preciso interesse sostanziale del privato al ripristino di una sfera di attesa[107], quanto ad una legittima regolamentazione della propria futura attività, ad opera dell’ Amministrazione[108], non sussiste solo in assenza di attività vincolata, ma anche nelle ipotesi in cui l’attività provvedimentale sia vincolata.
Tale riserva di assumere i provvedimenti, riconosciuta all’Amministrazione, è esclusa solo nei casi in cui la legge preveda “strumenti alternativi” [109] all’emanazione del provvedimento favorevole[110], ravvisabili nei meccanismi della denuncia, dichiarazione e segnalazione certificata di inizio attività. Attraverso questi istituti, previsti per i soli casi di attività amministrativa vincolata, l’ordinamento formula un giudizio prognostico sulla liceità dell’attività che il privato intende porre in essere. E proprio questa “alternatività” dimostra che al privato è consentito di scegliere se avvalersi di una propria “dichiarazione ad efficacia legittimante”[111], rischiando, successivamente, di essere destinatario di un provvedimento che imponga il divieto di proseguire l’attività, oppure se affidare la regolamentazione della propria attività alla pubblica Amministrazione[112]. Nel caso in cui il privato dovesse scegliere di seguire la prima via, i vantaggi connessi a tale scelta sono da ricondursi alla possibilità, a questi riconosciuta, di svolgere la propria attività immediatamente, salvo il rischio di un intervento successivo dell’Amministrazione di carattere sanzionatorio. Infatti, soprattutto nelle ipotesi in cui il provvedimento amministrativo favorevole subordini al proprio rilascio l’esercizio di un’attività d’impresa, il richiedente ha un consistente interesse ad iniziare immediatamente la propria attività, dovendo, altrimenti, tenere inutilizzati tutti i mezzi e le risorse a disposizione, finchè “l’Amministrazione non abbia determinato, con i propri atti, la futura attività del privato”[113].
Dal momento che la d.i.a. è stata recentemente definita come quel “titolo che abilita all’intervento edificatorio”[114], intendendosi per quest’ultimo non solo l’atto in sé, o meglio il provvedimento, ma anche il “fatto giustificativo dell’acquisto di una posizione soggettiva”; potrebbe ritenersi che, data la complementarietà tra atto e fatto nel fenomeno di produzione degli effetti giuridici (teoria della rilevanza giuridica)[115], l’esistenza dei presupposti per la presentazione della denuncia, costituisca quell’evento “storico” che partecipa al fenomeno di produzione degli effetti giuridici, consentendo al precetto di operare, attivandolo[116]. Alla dichiarazione di inizio attività, dunque, non dovrebbe riconoscersi natura provvedimentale, dal momento che il fatto giuridico in senso stretto, costituito dalla presenza dei presupposti per la formazione del titolo, opererebbe, in realtà, come fonte indiretta, poiché “la volontà degli effetti deve rinvenirsi nella norma che considera tale fatto come giuridicamente rilevante”[117], e non nel fatto giuridico in senso stretto stesso.
Perciò, nel caso in cui quell’evento o quell’insieme di qualificazioni soggettive non venissero ad esistere, significherebbe che non si è verificato alcun fenomeno di produzione di effetti giuridici, poiché non è venuto in essere quel fatto giuridicamente rilevante che porta alla concreta produzione degli effetti giuridici, ad opera di un distinto atto giuridico. Non vi sarebbe, dunque, nessun effetto giuridico da annullare, e “si dovrà parlare, invece, (..) di esistenza o inesistenza dei presupposti per ricorrere alla denuncia e (..) di esistenza o inesistenza della legittimazione del privato ad effettuare l’intervento”[118]. Perciò, mentre nel caso di carenza di legittimazione formale, il terzo pregiudicato dalla presentazione di una d.i.a. (o dalla presentazione di una s.c.i.a.), una volta presentata un’istanza di verifica, priva di seguito, potrebbe chiedere, trascorsi 60 giorni, che sia accertata la “non corretta conclusione del procedimento”, alla luce di esigenze privatistiche di certezza sull’assetto delle figure giuridiche soggettive (in vista della possibilità di acquisire una situazione di vantaggio); nel caso in cui a mancare siano presupposti di carattere sostanziale, come, ad esempio, la mancata conformità alle prescrizioni urbanistico edilizie[119], potrebbe essere richiesto, all’organo giurisdizionale, di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (l’ interesse sotteso a tale azione sarebbe quello di ottenere dall’Autorità amministrativa un provvedimento a lui favorevole, sotto il profilo degli effetti giuridici), alla pari di ciò che potrebbe accadere nel caso di inadempimento al dovere di provvedere, a fronte di un atto negativo viziato.
Del resto, se non fosse necessario distinguere i casi in cui siano posti in essere comportamenti materiali dai casi in cui siano posti in essere comportamenti giuridici, anche in materia di dichiarazione, denuncia o s.c.i.a., non avrebbe senso la previsione di cui al decreto legge del 13 agosto 2011, n. 138, che, aggiungendo il comma 6 ter all’art. 19 della legge del 9 agosto 1990, n. 241, estende l’applicazione dell’azione avverso il silenzio (art. 31 commi 1,2,3, del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104) anche alle ipotesi di inerzia, a fronte di sollecitazioni di verifica.
Dunque, anche in questo caso, “ (…) accertata l’assenza della fattispecie di legittimazione sostanziale, pronunciando l’annullamento” si “procederà all’eliminazione, non della denuncia, ma degli effetti prodotti dall’attività del privato intrapresa tramite la denuncia"[120].
Infine, ammettendo la natura materiale, e non giuridica, di queste attività liberalizzate, potrebbe derivarne che anche l’eventuale successivo diniego di prosecuzione consista, in realtà, in una dichiarazione della mancata formazione della fattispecie giuridica presupposta dal precetto, per la produzione di determinati effetti giuridici.
Date le considerazioni sulla natura materiale del comportamento dell’Amministrazione volto a determinare la chiusura del procedimento, può affermarsi che anche il silenzio assenso possa considerarsi alla stregua di un fatto estintivo dell’autonomo dovere di pronuncia, e non del dovere di provvedere. Infatti, dal momento che la stessa disposizione normativa (art. 20, legge 7 agosto 1990, n. 241 ) afferma che il silenzio dell’Amministrazione competente equivale a “provvedimento” di accoglimento della domanda, potrebbe ritenersi che per “provvedimento” di diniego, sufficiente ad inibire la formazione dell’assenso, debba intendersi, in realtà, quella esternazione di volontà volta al dichiarare di non voler provvedere. E, dal momento che il comportamento antitetico al dichiarare di non voler provvedere è, di per sé, il dichiarare di voler provvedere, potrebbe ritenersi che anche il silenzio assenso possa essere considerato alla stregua di un fatto giuridico in senso stretto, idoneo a produrre come suo unico effetto, l’estinzione del dovere di pronuncia.

 

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[1] VOLPE F., Norme di relazione, norme di azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 484 s.
[2] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 485
[3] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 116 s.
[4] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 484
[5] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 484 s.
[6] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 496
[7] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 497
[8] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487; DOMENICHELLI V., Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988, 180-181; ALBINI A., Le sentenze dichiarative nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1953, 37
[9] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 488; PIRAS A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, II, 541; SANDULLI A. M., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 414; FORNACIARI M., Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 55
[10] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 409
[11] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 407
[12] LEDDA F., Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Padova, 1964, 19
[13] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 18
[14] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 17 s.
[15] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 24; SANTORO PASSARELLI F., Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1959, 87
[16] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 85
[17] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 93 s.
[18] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 80
[19] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 79 s.
[20] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 86. Tesi diverse sono state sostenute da coloro che ritengono che il potere costituisca un mezzo di adempimento del dovere: PUGLIATTI S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, 23 s.
[21] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 88 s.
[22] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 94; CASETTA E., L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, 221 s.
[23] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 96 s.
[24] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 90; CAMMARATA A. E., Limiti tra formalismo e dommatica nelle figure di qualificazione giuridica, Catania, 1936, 404 s.; FALZONE G., Il dovere di buona amministrazione, Milano, 1953, 65 s., 138 s.
[25] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 90
[26] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 96 s.; CAMMARATA A. E., Limiti tra formalismo e dommatica, cit., 417 s.
[27] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 98; FALZONE G., Il dovere, cit., 60 s.
[28] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 101
[29] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 103 s.
[30] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 104 s.
[31] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 107
[32] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 108; GIANNINI M. S., Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, 273
[33] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 109
[34] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 109 s.
[35] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 110
[36] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 114
[37] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 486
[38] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 113 - 114
[39] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 119 s.
[40] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 128
[41] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 128
[42] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 129
[43] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 162
[44] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 161 s.
[45] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 166
[46] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 166
[47] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 167
[48] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 104 s.
[49] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 102; SCOCA F. G., Contributo cit., 48 s.; CORSO G., L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 1969, 44 s.
[50] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 106 s.
[51] SCOCA F. G., Contributo, cit., 93 s.
[52] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 104 s.; D’ORSOGNA M., Il problema della nullità in diritto amministrativo, Milano, 2004, 33; SCOCA F. G., Contributo cit., 88 s.
[53] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 110
[54] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 113
[55] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 117
[56] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 120
[57] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 185 s.
[58] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 80 s.
[59] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 199 s.
[60] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 200; VILLATA R., L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 243
[61] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 236
[62] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 247
[63] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 237
[64] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 242
[65] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 252 s.
[66] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 253
[67] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 254
[68] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 201
[69] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 339
[70] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 259
[71] CACCIAVILLANI C., Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, 2002, 121
[72] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 269
[73] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 305
[74] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 291
[75] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 297
[76] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 305
[77] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 335
[78] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 339
[79] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 340
[80] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 342 s.
[81] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 404 s.
[82] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 484
[83] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 485 s.
[84] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 107
[85] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 490 s.
[86] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 249 s.
[87] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 490
[88] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 336
[89] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 495
[90] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 490 s.
[91] VOLPE F., Norme di relazione, cit ., 49. “E’ facile riconoscere al comportamento adempitivo valore di fatto giuridico e non di atto giuridico, per quanto attiene all’estinzione del correlato dovere, osservando l’ipotesi in cui i doveri assumono, a loro contenuto, dei comportamenti materiali. Infatti, la prestazione, in questi casi, per definizione, non è un atto giuridico; eppure, da essa discende ugualmente l’estinzione della posizione di doverosità, che è da ascriversi alla legge, per il fatto che l’obbligato ha tenuto il comportamento imposto. Poiché, tuttavia, si deve assumere che l’effetto estintivo del dovere si produca sempre nello stesso modo, se ne desume che anche quando le figure di doverosità abbiano quale loro contenuto il compimento di atti giuridici, l’estinzione si produca sulla scorta di una (dipendente) qualificazione dell’atto, in quanto fatto”; in VOLPE F., Norme di relazione, cit., 485
[92] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 139 s. L’inesistenza dell’atto è determinata, invece, dal mancato esercizio del potere, sia che esso esista ma non sia stato in concreto esercitato, sia che esso non esista, e quindi non possa nemmeno essere esercitato. BERTI G., La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova, 1968, 165; CAVALLO B., Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, 301
[93] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 335
[94] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 496
[95] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 495 s.
[96] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487
[97] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487; PIRAS A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II, Milano, 1962, cit., 541; FORNACIARI M., Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 55; DOMENICHELLI V., Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988, 180-181
[98] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 405 s. Non ritenere che l’illegittimità dell’atto sia determinata dal fatto della sua emanazione, porterebbe ad affermare che l’annullabilità dell’atto sia un effetto da esso direttamente prodotto. Tale previsione, tuttavia, non è ammissibile, perché porterebbe anche ad affermare che il potere esercitato emanando un atto legittimo sia diverso dal potere esercitato emanando un atto illegittimo, poiché diversi sarebbero gli effetti prodotti. Dunque, l’atto illegittimo deve, più correttamente, essere considerato alla stregua di una fattispecie giuridica presupposta per l’applicazione della norma che consente il legittimo esercizio del potere di annullamento; in VOLPE F., Norme di relazione, cit., 385
[99] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 384
[100] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 407
[101] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 407
[102] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 497; MAGGIOLO M., Il risarcimento della pura perdita patrimoniale, Milano, 2003, 294 s.
[103] TAR Veneto, Sez. II, 11 gennaio 2011, n. 16
[104] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 489 s.
[105] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 493
[106] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487
[107] Tale protezione deve riferirsi ad un interesse attuale del privato, e non futuro; non deve, cioè, considerarsi come una forma di estensione della protezione accordata agli effetti dell’eventuale provvedimento favorevole; in VOLPE F., Norme di relazione, cit., 329 s.
[108] Cons. Stato, Sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3355; Cons. Stato, Sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2718
[109] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 330 s.; MARZARO GAMBA P., La denuncia d’inizio di attività edilizia: profili sistematici, sostanziali e processuali, Milano, 2005, 255 s.
[110] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 320
[111] Cons. Stato, Ad. Pl., 29 luglio 2011, n. 15
[112] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 331; TAR Liguria, Sez. I, 22 gennaio 2003, n. 113
[113] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 333
[114] Cons. Stato, Ad. Pl., 29 luglio 2011, n. 15
[115] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 95 s.
[116] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 113 s.
[117] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 107; D’ORSOGNA M., Il problema della nullità in diritto amministrativo, Milano, 2004, 33
[118] MARZARO GAMBA P., La denuncia d’inizio di attività edilizia, cit., 262
[119] MARZARO GAMBA P., La denuncia d’inizio di attività edilizia, cit., 263
[120] MARZARO GAMBA P., La denuncia d’inizio di attività edilizia, cit., 266

 

(pubblicato il 12.9.2011)

 

 

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