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n. 9-2011 - © copyright |
STEFANIA FLORIAN
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Note sull’inquadramento sistematico
del diniego di provvedimento
1. - Introduzione - 2. - Primi orientamenti
dottrinali: norme strumentali e norme materiali; dovere d’ufficio ed
obbligo di pronuncia. Atto negativo quale estinzione del dovere
d’ufficio. Il silenzio della pubblica Amministrazione quale figura
autonoma rispetto all’atto negativo. - 3. - I
successivi sviluppi dottrinali: teoria della rilevanza giuridica;
norme d’ azione istitutive di doveri in senso stretto e norme
d’azione istitutive di obblighi giuridici; il fenomeno della
pluriqualificazione - 4. - Dovere di provvedere e dovere di
pronuncia: atto negativo quale estinzione del dovere di pronuncia.
Tutela giurisdizionale. - 5. - Silenzio. Inadempimento del dovere di
pronuncia e inadempimento del dovere di provvedere. - 6. - Possibili
analogie tra atto negativo, s.c.i.a., silenzio
assenso.
1. ─ La presente indagine si propone di
delineare la natura giuridica del diniego di provvedimento
amministrativo, al fine di comprendere quali siano le forme di
tutela giurisdizionale offerte al privato dall’ordinamento
giuridico, anche per quanto attiene alle ipotesi di inerzia della
pubblica Amministrazione.
Inizialmente la ricerca viene condotta
attraverso lo studio di un’ originaria bipartizione normativa, che
aveva individuato, nelle norme materiali e strumentali, quella
distinzione tipologica indispensabile per comprendere sia la
funzione, che la posizione all’interno del sistema della pronuncia
negativa.
Tuttavia, recenti orientamenti dottrinali hanno
dimostrato come tale ricostruzione, dopo aver distinto tra dovere
d’ufficio ed obbligo di pronuncia, non si sia rivelata esauriente
nel descrivere il modo in cui il diniego di provvedimento verrebbe
ad estinguere il dovere di provvedere. Tale originaria impostazione,
infatti, si è limitata ad affermare che il diniego rende definitiva
l’omissione sottostante, consentendo, di conseguenza, l’impugnazione
di questa pronuncia da parte del privato; non viene chiarito, però,
se gli effetti estintivi del c.d. dovere d’ufficio siano prodotti
direttamente dall’atto negativo, o se, invece, debbano essere
ricondotti a tale atto, riconoscendo all’estinzione del correlato
dovere valore di fatto, anziché di atto giuridico[1]. Posto che,
anche quando le figure di doverosità abbiano a contenuto il
compimento di atti giuridici, l’effetto estintivo del dovere si
produce sempre allo stesso modo (attraverso una “(dipendente)
qualificazione dell’atto, in quanto fatto”[2]); si è dimostrato,
attraverso specifiche tesi sui fenomeni della dinamica giuridica[3],
come, in realtà, non può essere riconosciuto valore di atto
giuridico ad un comportamento che non è, neppure ipoteticamente,
idoneo a produrre effetti giuridici propri[4].
L’atto negativo,
quindi, sarebbe da qualificare non come una manifestazione di
volontà orientata alla produzione di effetti giuridici, bensì come
una manifestazione di volontà di non rilasciare il provvedimento
richiesto dal privato. Ne deriva che lo stesso atto verrebbe,
dunque, ad identificarsi con l’estinzione dell’obbligo di
pronuncia[5].
In ogni caso l’Autorità pubblica, adempiendo all’
obbligo di pronuncia, non si può limitare ad esternare la propria
volontà di provvedere oppure di non provvedere, ma deve chiarire le
ragioni di legittimità e di merito che l’hanno condotta a
manifestare un determinato volere[6].
Quando il giudice annulla
un atto negativo illegittimo, infatti, si limita ad accertare, in
realtà, che non è stato pienamente soddisfatto il dovere di
conclusione del procedimento[7] perché non sono state osservate
quelle prescrizioni, formali e sostanziali, volte a garantire un
controllo di legittimità o di merito sull’operato
dell’Amministrazione.
Di conseguenza, dopo l’accoglimento del
ricorso proposto nei confronti dell’ atto negativo, il dovere di
pronunciarsi sulla questione non viene ad essere restaurato, ma
viene sostanzialmente accertato il medesimo originario dovere che
già incombeva sull’Amministrazione, sin dal formarsi della
fattispecie[8]. Il sindacato giurisdizionale sul diniego di
provvedimento avrebbe, quindi, natura meramente dichiarativa e non
costitutiva[9], come imponeva, invece, l’impostazione
tradizionale.
E, mentre l’azione di “annullamento” mira a
tutelare l’interesse alla certezza di una legittima regolazione
giuridica dell’attività privata da parte della pubblica
Amministrazione[10], la proposizione di un’azione risarcitoria mira,
invece, a salvaguardare figure giuridiche diverse dall’interesse
legittimo, ed inquadrabili nel c.d. danno da ritardo[11]. Dunque,
l’”annullamento” concorre, in un certo senso, ad integrare la
fattispecie illecita, perché determina il ripristino dell’eventuale
obbligo di provvedere mai pienamente soddisfatto, stante il
carattere retroattivo dell’annullamento stesso.
Tali
considerazioni sulla natura giuridica dell’atto negativo hanno
portato a specifici rilievi anche per quanto riguarda la natura
giuridica di altre figure come il silenzio inadempimento, il
silenzio assenso, nonchè di attività liberalizzate, come, ad
esempio, la s.c.i.a. o la d.i.a.
2. ─ Al fine di delineare la
natura giuridica dell’atto negativo, e la conseguente tutela
giurisdizionale offerta al privato, una prima ricostruzione
dottrinale ha proposto di ravvisare nelle c.d. norme strumentali e
materiali[12], quella bipartizione normativa in grado di regolare a
pieno l’agire della pubblica Amministrazione. Le norme strumentali
sono identificate con quella serie di proposizioni giuridiche che
stabiliscono le condizioni di rilevanza e di efficacia dell’atto
stesso; sicchè, dal coordinamento di queste norme verrebbe desunto
il c.d. modello legale dell’atto[13]. Le norme materiali
vengono a coincidere, invece, con quelle proposizioni giuridiche che
considerano l’ emanazione dell’atto come un comportamento idoneo a
procurare una certa utilità (in ragione dell’efficacia giuridica
dell’atto stesso), ed identificano il contenuto dello stesso con una
situazione di dovere[14].
Tale distinzione tipologica ha portato
alcuni Autori ad individuare l’esistenza di due interessi
suscettibili di lesione: un interesse materiale, considerato
alla stregua di un accadimento di ordine naturale, in grado di
ripercuotersi nella sfera economica del soggetto privato; ed un
interesse connesso ma distinto, perché riguardante direttamente le
situazioni giuridiche del privato, dell’Amministrazione, o di
entrambi[15]. L’indagine condotta attraverso l’utilizzo di questa
bipartizione normativa, quindi, ha portato a ravvisare nel dovere
d’ufficio e nell’ obbligo di pronuncia quei distinti momenti che
caratterizzano l’agire della pubblica Amministrazione, e, dunque,
anche la formazione dell’atto negativo: il dovere d’ufficio
rappresenterebbe quel momento che precede, cronologicamente,
l’obbligo di pronuncia.
Essendo la tutela dell’ interesse
pubblico il fine principale a cui mira l’agire dell’ Autorità
pubblica, la ricostruzione in esame ha rilevato come l’ “esigenza
giuridica di mutamento del rapporto autorità –
libertà”[16] venga assicurata dalla legge mediante l’imposizione
di doveri. Infatti, “alla norma strumentale dell’atto non può non
far riscontro una norma materiale che qualifichi come giuridicamente
necessario un determinato comportamento dell’autorità
amministrativa”[17]. Il contenuto del dovere in questione si
estende, necessariamente, sin dal momento iniziale del processo di
formazione della volontà, e si specifica gradualmente, secondo
l’esito delle varie attività ed operazioni giuridicamente necessarie
per la determinazione del “dover essere” relativo a
quella realtà che viene a profilarsi come concreto oggetto
dell’ufficio. Identificando il dovere d’ufficio con quella
situazione stabilita dall’ordinamento generale volta ad acquisire e
valutare fatti che, secondo la previsione di legge, hanno un valore
decisivo nella determinazione concreta dell’Amministrazione[18];
contenuto del dovere non è l’esercizio del potere, ma “l’agire
per l’esercizio eventuale del potere”[19]. Tale dovere avrebbe,
quindi, una funzione propulsiva, in quanto costringe l’Autorità a
compiere tutte le operazioni volte ad accertare l’esistenza del
potere, e le condizioni cui è subordinata la sua realizzazione
(raggiunta solo quando tale accertamento abbia avuto esito
positivo)[20]. Gli Autori che sostengono la tesi della bipartizione
tra norme strumentali e materiali hanno rilevato come alla
determinazione del dovere d’ufficio concorrano entrambe le tipologie
normative. Infatti, mentre le norme materiali qualificherebbero
l’agire della pubblica Amministrazione in termini di doverosità; le
norme strumentali individuerebbero il c.d. modello legale dell’atto, che contribuisce a descrivere, dal punto di vista
normativo, il comportamento dovuto. Tuttavia, non sarebbe possibile
giungere a conclusioni diverse perché, se la norma di dovere fosse
considerata estranea all’ordinamento generale, si dovrebbe
inevitabilmente ammettere che l’attività preordinata all’esercizio
del potere sia irrilevante o sostanzialmente libera[21].
La
dottrina richiamata afferma che una volta emanato l’atto, il suo
rapporto con il modello legale non viene più in considerazione sotto
il profilo del dovere, il quale “ha ormai esaurito la sua
funzione”, ma rileva come “modo di essere dell’atto”, e
“più precisamente come elemento centrale della fattispecie
costitutiva del potere di annullamento”[22]. La considerazione
del rapporto tra il “dovere d’ufficio” e la “disciplina
giuridica dell’atto”, infatti, sarebbe solo finalizzata a
chiarire la situazione dell’Amministrazione pubblica nel momento che
precede l’esercizio del potere, e la correlata posizione d’interesse
del privato, e non il valore giuridico dell’atto nell’ambito
dell’ordinamento generale[23].
Infine, il dovere d’ufficio, che
riveste un certo rilievo nei confronti dei soggetti dell’ordinamento
generale, viene necessariamente connesso, dalla ricostruzione
riferita, al c.d. dovere di servizio: tra le due situazioni vi
sarebbe un rapporto di connessione necessaria perché la situazione
prevista dall’ordinamento generale deve essere attuata e, quindi,
tradotta dall’ordinamento interno in uno o più doveri delle persone
fisiche legate all’ente da rapporti di servizio[24]. L’obbligo di
servizio viene, dunque, posto dall’ordinamento interno, e
costituisce un mezzo di distribuzione delle attività tra le persone
fisiche che operano nell’ente[25].
Nell’ipotesi in cui l’azione
della pubblica Amministrazione sia, per qualche aspetto, di
carattere discrezionale, la teoria riferita rileva come il contenuto
del dovere d’ufficio venga stabilito dalla norma materiale mediante
il richiamo a determinati “criteri di convenienza
amministrativa”, ai quali la scelta discrezionale deve essere
uniformata per fare in modo che il risultato dell’azione sia
adeguato alle finalità cui la stessa attribuzione del potere è
preordinata[26]. Sul piano concettuale, l’unico limite alla
configurabilità di obblighi e doveri di questo tipo, è dato dall’
esigenza che il criterio di determinazione del comportamento dovuto
non si identifichi del tutto con un interesse esclusivo
dell’agente.
La scelta discrezionale rimessa alla pubblica
Amministrazione, quindi, non può mai riguardare l’an agatur, perché, quando determinati fatti rivelino l’ esigenza di instaurare
un certo assetto di interessi, o la sola possibilità di instaurare
un assetto di interessi maggiormente confacente agli scopi
perseguiti dall’ordinamento, l’Amministrazione non può restare
inerte, ma “deve agire, quanto meno, per stabilire se in concreto
sussistano le condizioni cui la legge subordina codesta
innovazione”[27]. La facoltà di scelta discrezionale può
riguardare, dunque, solo quell’azione specifica che può essere
individuata mediante l’indicazione di un atto determinato
(quomodo)[28]. Compiuta la valutazione dei fatti rilevanti e
l’eventuale attività discrezionale, si giunge, infine, all’ultima
specificazione del dovere d’ufficio, cioè all’individuazione della
norma del caso concreto[29]. L’eventuale emanazione del
provvedimento positivo determinerebbe il superamento del profilo del
dovere: da quel momento ciò che rileva è solo l’atto e il suo
rapporto con la previsione normativa. Una volta adempiuto il dovere
d’ufficio, alla definizione dell’atto giuridico concorrono solo le
note rilevanti per la norma che collega alla fattispecie una certa
innovazione della realtà giuridica, e questa norma non implica
alcuna qualificazione in termini di necessità giuridica. Dunque, si
è affermato che l’effetto di estinzione viene a compiersi
indipendentemente dall’effetto di adempimento, perché il carattere
doveroso non viene riferito all’atto stesso, ma al comportamento da
cui esso risulta[30]. Ed è proprio questo fenomeno di dissociazione
dell’effetto di estinzione da quello di adempimento che viene
utilizzato da questi Autori, per spiegare la rilevanza dinamica
dell’atto negativo. Si afferma, infatti, che se l’attività posta in
essere dall’Amministrazione pubblica abbia rivelato l’inesistenza
delle condizioni cui è subordinata l’emanazione di un certo
provvedimento positivo, per determinare il fatto estintivo del
dovere d’ufficio è “necessario dissociare l’effetto di estinzione
da quello di adempimento, e collegarlo invece a un atto idoneo a
esprimere negli aspetti giuridicamente più rilevanti la valutazione
compiuta dall’autorità. E quest’atto non può essere evidentemente,
che la dichiarazione negativa, cioè la motivata manifestazione della
volontà di non emettere il provvedimento di cui nel caso concreto si
tratta”[31]. Tuttavia, dal momento che la legge strumentale del
provvedimento, che nel caso concreto si profili come idoneo ad
appagare un interesse del cittadino, è priva di significato in
ordine al valore di un contegno meramente omissivo, si giunge ad
affermare che “alla tutela dell’interesse individuale concorre
necessariamente anche la norma materiale, che assume a contenuto di
un dovere dell’autorità l’accertamento e la ulteriore determinazione
delle condizioni di quel provvedimento, e la stessa emanazione del
medesimo quando tali condizioni si siano realizzate. In questo
senso, appunto, si è prospettata la esistenza stessa del dovere come
un fatto rilevante per il cittadino”[32].
La pronuncia
negativa determinerebbe, quindi, l’estinzione del dovere d’ufficio,
da un lato, in quanto attesta, attraverso un “atto giuridico
formale”[33], l’avvenuto “esercizio della funzione”; e
dall’altro lato l’ adempimento dell’obbligo stabilito a favore del
privato[34], il quale esige di conoscere il risultato dell’azione
svolta dall’Autorità[35].
In questa ricostruzione l’adempimento
dell’obbligo risulta del tutto indipendente dall’adempimento del
dovere, e conseguentemente, risulta indipendente anche dalla
considerazione della legittimità del diniego inteso come atto.
Infatti, l’interesse del cittadino ad ottenere un corretto
adempimento dell’obbligo di pronuncia da parte della pubblica
Amministrazione non viene a coincidere con l’interesse materiale che
dovrebbe essere appagato con l’emanazione del provvedimento atteso,
ma “si realizza solo con il conseguimento della possibilità
pratica e giuridica di far accertare agli organi giurisdizionali la
illegittimità della determinazione sfavorevole”[36].
Proprio
in ragione di tali considerazioni, una più recente dottrina ha
evidenziato l’impossibilità di riconoscere una qualche rilevanza
dinamica all’atto negativo, affermando che si sia cercato, invece,
di ammettere la sindacabilità del diniego di provvedimento
attraverso un giudizio di mera impugnazione[37].
L’originaria
ricostruzione dottrinale, inoltre, ha precisato che contenuto dell’
obbligo, previsto dalla legge per assicurare la tutela effettiva
degli interessi individuali che verrebbero avvantaggiati da un
determinato provvedimento, non è una qualsiasi dichiarazione, ma una
pronuncia (intesa come mera attività di esternazione) sul
provvedimento atteso, o sul procedimento, cioè sull’esistenza dei
presupposti del regolare svolgimento dell’intera serie
procedimentale. A differenza di quanto rilevato per il dovere
d’ufficio, nel determinare il contenuto dell’obbligo di pronuncia,
la norma non fa riferimento alla legittimità e opportunità del
provvedimento, poiché codesti modi di essere dell’atto vengono
assicurati al cittadino solo indirettamente, mediante la
predisposizione di misure rivolte contro l’atto[38].
Nonostante
dovere d’ufficio ed obbligo di pronuncia siano rappresentati come
due momenti distinti, si è rilevato come siano, allo stesso tempo,
legati da un rapporto di connessione necessaria: l’ obbligo di
pronuncia diviene attuale solo nel momento in cui può essere
individuata la proposizione giuridica relativa al caso concreto,
cioè nel momento stesso in cui il dovere d’ufficio termina di
svolgere la sua “funzione propulsiva” rispetto a quell’agire
che è giuridicamente necessario per l’eventuale modificazione del
rapporto tra Amministrazione e privato[39].
L’esercizio della
funzione da parte dell’Amministrazione è considerato, dunque,
attività doverosa, nel caso in cui sia accertata l’esistenza di
determinate condizioni[40]; ciò che non può essere garantito al
privato è solo un certo risultato, cioè la realizzazione del potere
giuridico nel senso corrispondente alle sue aspettative[41].
Sebbene la funzione sia preordinata all’esercizio del potere, è
stato affermato come essa assuma una specifica rilevanza anche
quando, in seguito all’accertamento dell’inesistenza di una o più
delle condizioni stabilite dalla legge, tale potere non venga
esercitato. L’azione, infatti, non cessa di essere funzione solo
perché il fine a cui tendeva si è rivelato, ad un certo punto, non
realizzabile: una certa attività amministrativa continua ad essere
considerata funzione in considerazione del fine cui la medesima è
preordinata, a prescindere, quindi, dall’esito[42].
Gli stessi
Autori che hanno cercato di dimostrare la natura provvedimentale
dell’atto negativo, hanno rilevato, invece, l’inidoneità del
silenzio della pubblica Amministrazione ad esprimere il
“risultato negativo di un esercizio della
funzione”[43]. Il silenzio infatti, anche se qualificato
da una formale diffida non rappresenterebbe l’esercizio della
funzione, ma solo ed esclusivamente il modo di apparizione del fatto
negativo[44]. La qualificazione del silenzio come atto non si è
dimostrata neppure conforme alla logica giuridica. Basti pensare a
quei tentativi, in passato proposti, di garantire una tutela
giurisdizionale al privato, partendo dalla considerazione della
stessa inerzia quale vero e proprio atto.
Una prima soluzione,
infatti, aveva proposto che il giudice, una volta constatata
l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie del silenzio
rifiuto, potesse ritenere illegittimo, e, quindi, annullare
l’implicito diniego, astenendosi da qualunque indagine volta a
stabilire se esistessero ragioni tali da giustificare il rifiuto di
provvedimento atteso dal privato[45]. Tale ricostruzione è stata
considerata inattendibile perché si risolveva in un circolo vizioso,
dal momento che venivano collegati al silenzio gli effetti del
rifiuto solo per rendere possibile l’eliminazione di codesti
effetti.
La seconda soluzione proposta, invece, era imperniata
sull’idea di finzione: per garantire quella forma di tutela che
presupponeva l’esistenza dell’atto, si cercava di supplire alla
mancanza della pronuncia negativa con un mera qualificazione di
fatti eterogenei[46]. Tuttavia, l’impossibilità di annullare
un’entità giuridica ottenuta mediante finzione, ha portato alcuni
Autori a rilevare come tale finzione debba essere considerata,
invece, un mero “espediente verbale escogitato per celare la
reale natura dichiarativa della pronuncia giurisdizionale, cioè per
tener fermo almeno nella formula lo schema del giudizio costitutivo
di annullamento”[47].
Gli sviluppi dottrinali successivi,
inerenti ai fenomeni della dinamica giuridica, hanno dimostrato come
la stessa natura dichiarativa della pronuncia giurisdizionale debba
essere, in realtà, riconosciuta anche nelle ipotesi di
“annullamento” di atto negativo.
3. ─ La c.d. “teoria
della rilevanza giuridica” è di fondamentale importanza per
comprendere il fenomeno di produzione degli effetti giuridici, in
considerazione del diverso apporto che reca l’elemento
volontaristico nell’atto giuridico e nel fatto giuridico in senso
stretto[48].
Tale teorizzazione rileva perchè consente di
comprendere come dal precetto giuridico discenda una duplice
tipologia di conseguenze giuridiche: un’ “efficacia propriamente
detta”, da identificarsi con le conseguenze giuridiche che la
norma produce direttamente; e una “efficacia presupposta”,
determinata dal riconoscimento dell’esistenza di una fattispecie
giuridicamente rilevante, suscettibile di attivare il precetto,
produttivo di effetti giuridici propri[49]. La “volontà
effettuale” dell’atto non è da considerarsi corrispondente a
quella del fatto giuridico in senso stretto[50], poiché in
quest’ultimo, la volontà degli effetti deve ravvisarsi nella norma
che considera tale fatto come giuridicamente rilevante,
prescindendo, quindi, dal momento psichico[51]. A differenza delle
tesi classiche[52], per cui il fatto giuridicamente rilevante era
considerato, al pari dell’atto, fonte diretta di produzione di
effetti giuridici, si propone una diversa valutazione di
rilevanza, che riconosce solo all’atto giuridico valore di
“fonte diretta” di produzione di effetti[53]. Solo in tal modo si riesce a comprendere come fatto ed atto
giuridico siano “due circostanze complementari” e
ugualmente necessarie nel fenomeno di produzione di effetti
giuridici[54]: il fatto giuridico, quale fonte indiretta, è
espressione di una “necessità sostanziale”, “rispetto alla
quale l’atto giuridico che pone il precetto, con i propri effetti
consequenziali costituisce il rimedio approntato per
soddisfarla”[55].
Così, nella fattispecie del silenzio
assenso, ad esempio, il decorso di un dato periodo di tempo dalla
presentazione dell’istanza costituisce il fatto giuridico in senso
stretto rilevante per l’attivazione dell’atto giuridico che pone il
precetto. Gli effetti giuridici, dunque, non sono prodotti dal fatto
del decorso del tempo, ma dal precetto che prevede che, in presenza
di una determinata fattispecie giuridica presupposta (fatti storici
e qualificazioni oggettive e soggettive), l’atto produca determinati
effetti giuridici conseguenti, al fine di far fronte ad una
determinata situazione di necessità. Allo stesso modo si potrebbe
considerare il caso della segnalazione certificata di inizio
attività, in cui la presentazione delle autocertificazioni,
corredate dai relativi elaborati tecnici, possono essere considerate
il fatto presupposto per l’attivazione del precetto che prevede il
prodursi di determinati effetti diretti. La mancanza del fatto
presupposto, dunque, non comporta l’inesistenza o l’invalidità
dell’atto, bensì la sua inefficacia[56].
La soddisfazione di
determinate situazioni di necessità è assicurata dall’ordinamento
attraverso le c.d. norme d’azione, che disciplinano l’esercizio del
potere in termini di doverosità, sia nel caso in cui il
comportamento dovuto sia di natura giuridica, sia nel caso in cui
tale comportamento imposto sia di natura materiale[57]. Infatti,
data l’esigenza di perseguire interessi pubblici eteroimposti, non
possono esistere per l’Amministrazione sfere di attività libera.
Dunque, ad ogni norma di relazione, attributiva di potere[58],
possono corrispondere più norme d’azione, che qualificano lo stesso
potere come “libero” o come “dovere giuridico”. Le norme d’azione
che disciplinano l’esercizio del potere in termini di doverosità,
esprimono sostanzialmente due necessitates agendi, che si
sostanziano nelle figure dei c.d. “doveri in senso stretto” da un lato, e dei c.d. “obblighi giuridici” dall’altro[59].
E’ rimesso al diritto positivo distinguere le ipotesi in cui le
norme d’azione impongano meri doveri, dai casi in cui le stesse
impongano obblighi giuridici in senso stretto; può accadere,
tuttavia, che l’ordinamento configuri l’esercizio di un determinato
potere contemporaneamente come dovere e come obbligo, perché il
comportamento dovuto dall’Amministrazione soddisfa tanto interessi
dell’ordinamento, quanto interessi privati.
Alla prima figura di
doverosità corrisponde la tutela di un interesse generale e
personificato; nessun soggetto, infatti, può porsi in relazione con
il comportamento del titolare del potere, poiché beneficiario di
tale comportamento necessitato è l’ordinamento complessivamente
inteso[60]. In questo caso, l’interesse del privato, che si
identifica con l’interesse della generalità che taluno tenga un
comportamento determinato, viene a coincidere con la legittimazione
a proporre ricorso. Infatti, quando il ricorrente agisce in giudizio
per far valere questa posizione di dovere (il cui fondamento è
ravvisabile negli art. 24 e 113 Cost.)[61], non agisce per la
protezione di una propria figura giuridica sostanziale, inesistente
nel caso concreto, ma per l’accertamento della violazione di un
dovere generale imposto all’Autorità. Se, invece, l’interesse del
privato fosse suscettibile di considerazione autonoma, si dovrebbe
anche affermare l’idoneità dell’esito favorevole del giudizio a
riparare la lesione in questione[62].
Tale processo di
legittimità mira, dunque, a “restaurare la funzione
amministrativa” e, quando il ricorrente agisce per far valere
questa posizione di dovere, è titolare di una vera e propria
“legittimazione straordinaria”, perché non agisce per la
protezione di una propria figura giuridica sostanziale che, nel caso
concreto, è inesistente, ma per l’accertamento della violazione di
un dovere imposto all’Amministrazione, a tutela dell’interesse
pubblico[63].
Nel caso di violazione di un dovere in senso
stretto, quindi, interesse pubblico e interesse privato si
configurano come interessi complementari, protetti da figure
giuridiche di diversa natura e di diverso rilievo in giudizio:
mentre l’interesse privato è tutelato dalla cognizione operata in
sede di ammissibilità del ricorso, l’interesse pubblico al
ripristino della legalità è invece protetto dal dovere che regola
l’esercizio del potere provvedimentale amministrativo. Si è
affermato come ad entrambi questi interessi sia riconosciuta una
protezione “occasionale”, in ordine alla duplice indagine
condotta dal giudice, di rito in un primo momento, e di merito
successivamente (l’interesse privato trova protezione diretta con il
riconoscimento della legittimazione a ricorrere, occasionale in un
secondo momento, quando è necessariamente subordinato alla
valutazione dell’interesse pubblico; la protezione dell’interesse
pubblico, invece, trova protezione occasionale in un primo momento,
quando presuppone la protezione dell’interesse privato ai fini
dell’ammissibilità del giudizio, per poi acquisire carattere
autonomo nel momento della fondatezza della domanda)[64]. Posta
l’eterogeneità delle situazioni inerenti a poteri, e l’attitudine
delle norme d’azione a regolare l’esercizio di tali poteri, si è
rilevato come le norme d’azione possano regolare non solo la
legittimità di atti amministrativi, ma anche di comportamenti
meramente materiali, che si contrappongono all’esercizio dei
medesimi poteri giuridici[65]. E’ questo, ad esempio, il caso del
silenzio, in cui l’Amministrazione, tenendo un comportamento
omissivo in ordine all’esercizio di un potere, viola tutti quei
“precetti che le norme istitutive di doveri pongono”[66].
Perciò, in tali ipotesi, si potrà avere un giudizio sulla
legittimità dell’atto, se la norma d’azione violata impone doveri
inerenti all’emanazione dell’atto o alle modalità della stessa
emanazione; ovvero un giudizio di legalità sul comportamento inerte,
se la norma d’azione impone doveri di provvedere[67].
Laddove le
controversie tra Amministrazione e privato, pur inerendo
all’esercizio del potere provvedimentale, riguardano una vera e
propria relazione giuridica, si afferma che le norme d’azione
costituiscono i c.d. “obblighi giuridici”. Tuttavia,
sussistendo questi ultimi solo in presenza di un determinato diritto
di credito, si è affermato che il precetto che crea l’obbligo (in
virtù di una determinata necessitas agendi) crei anche il
correlato diritto a che sia osservata la norma d’azione impositiva
dell’obbligo[68]. Dunque, in questi casi, il privato può dirsi
titolare di un’autonoma figura giuridica sostanziale, capace di
collegarsi, secondo le forme di un vero e proprio rapporto
giuridico, alle figure di doverosità dell’Amministrazione. Il
giudizio di legittimità, che eventualmente riguardi tali norme
d’azione, quindi, non verte solo sull’accertamento
dell’illegittimità dell’atto, ma anche sull’accertamento del diritto
del privato rimasto inadempiuto[69]. Così, per queste particolari
ipotesi viene a profilarsi una natura del giudizio amministrativo
diversa da quella considerata in relazione alle norme d’azione
costitutive di doveri in senso stretto, perché tendente a delineare
il carattere dell’accertamento in termini soggettivi, anziché
oggettivi[70].
“Gli interessi legittimi, la cui struttura è
unitaria, sono dunque eterogenei, in dipendenza della diversità
delle norme di protezione dalle quali derivano; e la loro protezione
giurisdizionale produce, nei confronti dell’amministrazione, effetti
diversi in relazione alla diversità di contenuto delle norme di
protezione di cui sia accertata in giudizio la violazione”[71].
Il cittadino titolare di un interesse legittimo avente natura di
diritto di credito, mira, sostanzialmente, ad ottenere la c.d. “prestazione dell’Amministrazione”, consistente
nell’emanazione o nella non emanazione del provvedimento, ed aspira,
dunque, ad un legittimo agire dell’Autorità[72]. Perciò, anche nelle
obbligazioni di derivazione legale può affermarsi esistente un
interesse del creditore, di rilievo autonomo, poiché comunque
riconducibile ad un soggetto determinato[73]. Gli obblighi
giuridici, dunque, non tutelano solo l’interesse del privato ad
ottenere un provvedimento favorevole, ma tutelano anche l’esigenza
di ottenere una sorta di certezza sull’assetto delle figure
giuridiche soggettive, sottoposte alla vigilanza ed alla
regolamentazione dell’Autorità, che solo dal legittimo esercizio del
potere amministrativo può derivare.
Dal momento che non deve
essere perso di vista l’interesse pubblico perseguito dalla pubblica
Amministrazione, si è rilevato come le norme d’azione costitutive di
obblighi giuridici implichino necessariamente anche la sussistenza
di doveri in senso stretto, ai quali è unicamente riferibile il
perseguimento diretto della funzione pubblica. Quindi, l’azione
provvedimentale amministrativa, anche se contornata da norme
d’azione costitutive di obblighi, risulta comunque improntata al
perseguimento della funzione pubblica, attraverso il dovere in senso
stretto che sull’ente grava, e spinge l’Amministrazione a tenere
quello stesso comportamento preteso anche dal privato[74]. Detta
posizione di obbligatorietà, dunque, può considerarsi posta ad
esclusiva tutela dell’interesse privato, “senza che nel suo
complesso venga persa di vista la funzione pubblica”[75]. Tali
considerazioni portano a ritenere che le azioni risarcitorie,
esperibili dal cittadino a tutela del proprio diritto di credito,
mirino a tutelare in modo diretto e autonomo tutte quelle figure
giuridiche soggettive separate dai meri doveri provvedimentali, e,
dunque, anche le obbligazioni legali. Anche in queste ultime,
infatti, l’ interesse del creditore, pur ravvisabile nella stessa
disposizione di legge, conserva autonomo rilievo, altrimenti non
potrebbe parlarsi di obbligazione. Viceversa, quando l’interesse non
sia riconducibile ad un soggetto determinato, non verrà meno la
giuridicità del comportamento, ma potrà configurarsi solo un dovere
in senso stretto, e non un’obbligazione in senso proprio[76].
Riconoscendo l’esistenza di un interesse del creditore anche
nelle obbligazioni legali, si è affermato che l’ordinamento ammette,
in capo all’amministrato, non solo un interesse ad ottenere un
provvedimento a lui favorevole, ma anche un interesse ad ottenere
certezza sull’assetto delle figure giuridiche soggettive che lo
riguardano. Se la regolamentazione dell’attività privata, da parte
dell’Amministrazione avviene in modo non legittimo, il privato
preferirà rimanere nell’iniziale situazione di incertezza, in modo
da non vedersi preclusa la possibilità di ottenere una favorevole
determinazione amministrativa, che deve, tuttavia, essere colta in
sé, e non in relazione al provvedimento favorevole eventualmente
ottenibile[77].
In presenza di norme d’azione costitutive di
obblighi giuridici, quindi, la tutela del privato è diretta ed
autonoma perché vengono assicurati strumenti di tutela ulteriori
rispetto a quelli che sarebbero a lui riconosciuti nelle ipotesi in
cui l’Amministrazione fosse gravata da un mero dovere in senso
stretto. Tali rimedi hanno sostanzialmente natura risarcitoria e
possono ammettersi solo nei casi in cui non siano contrastanti con
il perseguimento del pubblico interesse[78].
L’esistenza di
questo duplice regime di norme d’azione, e quindi di questa duplice
tipologia di violazione normativa, è confermata dal fatto che
dall’assunzione di un atto amministrativo contra legem possono derivare sia conseguenze risarcitorie che caducatorie; tale
fatto porta di per sé a considerare che le figure giuridiche
soggettive violate dall’Amministrazione siano sostanzialmente due, a
seconda del diverso regime sanzionatorio ad esse
collegato[79].
Così, mentre l’annullamento del provvedimento
illegittimo ha una funzione ripristinatrice dell’interesse pubblico,
il risarcimento del danno mira a tutelare il correlato diritto di
credito, cui il privato è titolare.
Questo rapporto di dipendenza
tra la norma d’azione costitutiva di un obbligo provvedimentale e la
norma d’azione costitutiva di un dovere in senso stretto, ha portato
la dottrina riferita ad affermare che “anche il rapporto tra le
due qualificazioni dell’atto amministrativo (a seconda che violi
l’obbligo o il mero dovere) si pone esso stesso in termini di
pluriqualificazione dipendente”. Il diritto al risarcimento del
danno, infatti, sarà riconosciuto solo nel caso in cui sia
riconosciuta anche l’ illegittimità dell’atto amministrativo[80].
Tale dipendenza viene riconosciuta, però, solo ed esclusivamente
sotto un profilo sostanziale, in quanto attiene “alla mera
costituzione delle due figure giuridiche di doverosità”,
e non riguarda, dunque, il profilo sanzionatorio[81].
4. ─
Pur riconoscendo l’attitudine dell’atto negativo a regolare gli
interessi affidati alla cura della pubblica Amministrazione, la sua
natura di provvedimento, in realtà, non è dimostrata, dal momento
che non sono stati dimostrati i c.d. effetti giuridici direttamente
prodotti[82].
Una parte di dottrina ha affermato che questi
ultimi debbano ravvisarsi nell’estinzione del “dovere
d’ufficio”; non si chiarisce, però, se essi siano direttamente
prodotti dall’atto negativo, oppure se siano, invece, a questo
riferibili sulla base di una diversa qualificazione dell’atto, in
quanto fatto giuridico in senso stretto di adempimento[83]. Alla
luce della teoria della rilevanza giuridica e del sistema delle
pluriqualificazioni, sarebbe più corretto affermare che l’estinzione
della posizione di doverosità sia da ascriversi alla legge, per il
fatto che l’obbligato ha tenuto il comportamento imposto. Affermare
la necessità di “dissociare l’effetto di estinzione da quello di
adempimento e collegarlo ad un atto idoneo ad esprimere la
valutazione compiuta dall’Autorità”[84] significa
sostanzialmente confondere il criterio di valutazione con il suo
oggetto, cercando di ammettere un sindacato giurisdizionale nei
confronti di un atto che non può in alcun modo essere considerato
idoneo a produrre effetti giuridici propri. Tale forzatura non è
nemmeno necessaria se, invece di considerare il rapporto tra la
norma attributiva di potere (di carattere avalutativo) e l’interesse
violato, si considerano solo ed esclusivamente le norme d’azione,
suscettibili di regolare qualsiasi comportamento inerente
all’esercizio di un potere, e, perciò, anche comportamenti
materiali, che costituiscono, in realtà, il riflesso di un
dovere[85]. Conferma di tale rilievo si può avere se si considera
che il dovere di assumere un atto giuridico viene violato proprio da
un comportamento materiale, ed il divieto di assumere l’atto viene
violato dall’emanazione di quest’ultimo. Nel caso di violazione di
norme d’azione impositive di comportamenti materiali, quindi,
oggetto del sindacato giurisdizionale non sarà un atto, ma un
“non atto”, cioè un comportamento dell’Amministrazione non
equiparabile ad un vero e proprio atto giuridico[86].
Al c.d.
obbligo di pronuncia, dunque, non deve necessariamente riconoscersi
natura provvedimentale, al fine di ammettere un sindacato
giurisdizionale, essendo sufficiente un comportamento materiale per
soddisfare l’esigenza del privato di conoscere la volontà
dell’Amministrazione, in ordine all’emanazione di un determinato
provvedimento. Tale dovere riguarda, quindi, un mero pronunciarsi,
colto in sé, e non quale esercizio di un potere giuridico[87]. La
certezza, infatti, è “un risvolto della funzione di regolazione
propria non solo del provvedimento amministrativo, ma anche di
qualsiasi atto giuridico, paragonabile, per certi aspetti, ai negozi
di accertamento”[88]. Nonostante all’obbligo di pronuncia debba
attribuirsi natura materiale e all’obbligo provvedimentale natura
giuridica, può comunque accadere che queste posizioni di doverosità
siano violate in forza dei medesimi comportamenti. E probabilmente
proprio questa circostanza ha portato alcuni Autori a considerare le
due figure giuridiche soggettive “unitarie”[89].
Tuttavia,
mentre il silenzio è inquadrabile nella categoria dei comportamenti
aventi natura meramente materiale, lo stesso non può dirsi per la
pronuncia negativa, che non costituisce il comportamento antitetico
a quello giuridico consistente nel rilascio del provvedimento
richiesto, ma costituisce il comportamento opposto al dichiarare di
voler provvedere, inteso come pronuncia, coincidente, in realtà, con
il rilascio del provvedimento positivo stesso[90]. Invece, il
comportamento antitetico al rilascio del provvedimento positivo non
è la manifestazione della volontà di non rilasciare il
provvedimento, ma è il semplice fatto del mancato rilascio del
provvedimento, cioè l’inerzia dell’Amministrazione, che è legittima
solo se non sussiste un dovere di provvedere. Ne deriva che, come
l’originaria bipartizione normativa aveva consentito di constatare,
il dovere di pronunciarsi opera su un piano diverso rispetto al
dovere inerente all’emanazione del provvedimento. Infatti, la
pronuncia, colta come fatto giuridico in senso stretto, costituisce
adempimento del corrispondente dovere di pronuncia, e, operando come
fatto giuridico in senso stretto di adempimento, ne determina
l’estinzione[91]; di contro, nel caso in cui sussista un dovere di
provvedere, l’attività doverosa dell’Autorità costituisce esercizio
di un vero e proprio potere giuridico, al quale è connessa
l’emanazione di un atto giuridico, cui lo stesso sistema di norme
riconosce valore di fonte diretta di produzione di effetti
giuridici[92].
Dunque, mentre il dovere di provvedere soddisfa
esigenze inerenti all’emanazione del provvedimento favorevole, o
meno dannoso[93], il dovere di pronuncia soddisfa esigenze di tutela
diverse e ulteriori, connesse all’esigenza di certezza in ordine
alla regolamentazione delle situazioni giuridiche soggettive facenti
capo al privato.
Dal momento che ai fini della configurabilità
di un rapporto obbligatorio tra Amministrazione e privato, è
necessaria la presenza di un interesse creditorio da un lato, e di
un collegamento diretto con la funzione pubblica dall’altro, si
ritiene che l’adempimento all’obbligo di pronuncia sia
indispensabile al soddisfacimento non solo di esigenze di certezza,
di carattere privatistico, ma anche di esigenze di chiusura del
procedimento (art 2, legge 7 agosto 1990, n. 241). Ne deriva che,
per adempiere a tali posizioni di doverosità, non si può prescindere
dall’esternazione delle ragioni che hanno condotta la stessa
Amministrazione a determinate conclusioni. Nel caso in cui tali
prescrizioni, imposte anche per l’ emanazione di provvedimenti
positivi, non siano rispettate, viene a configurarsi un atto
illegittimo[94]. Se si dovesse ritenere l’obbligo pienamente
adempiuto “per il solo fatto che l’Amministrazione abbia
manifestato la volontà di non provvedere”, non sarebbe ammesso
l’esperimento dell’azione giurisdizionale contro di esso, poiché la
pronuncia assolverebbe comunque la funzione adempitiva del
dovere[95].
Dal momento che l’adempimento all’obbligo di
pronuncia si sostanzia non nell’emanazione di un atto, ma in una
dichiarazione di volontà di non rilasciare il provvedimento
richiesto, sarebbe più corretto attribuire all’azione
giurisdizionale volta ad ottenere il c.d. “annullamento” del
provvedimento negativo, natura meramente dichiarativa, e non
caducatoria, non essendoci, in realtà, nessun atto da annullare[96].
Dunque, nel caso in cui, con la pronuncia negativa, non siano
state rispettate tutte le tutele e le garanzie richieste per la
legittima conclusione del procedimento, l’ annullamento dell’ atto
negativo deve configurarsi come una dichiarazione del non completo
adempimento all’obbligo di pronuncia (intendendosi per quest’ultimo
quell’insieme di atti e fatti diretti all’emanazione di una
pronuncia amministrativa). Il privato, quindi, può dirsi titolare
non solo della legittimazione ad impugnare il provvedimento
negativo, ma anche di un diritto di credito, in forza del quale può
richiedere un risarcimento del danno, esperendo l’azione di cui
all’art. 1218 cod. civ. Il mancato riconoscimento della natura
dichiarativa all’azione di annullamento dell’atto negativo deve
probabilmente ricondursi al tradizionale sistema di giustizia
amministrativa, che precludeva al giudice amministrativo di emettere
pronunce meramente dichiarative[97].
Nonostante la dimostrata
esistenza di un rapporto di “alternatività” tra azione
risarcitoria e azione di annullamento[98], l’atto negativo
rappresenta una deroga a tale principio, dal momento che l’
“annullamento” dello stesso non preclude la possibilità di esperire,
successivamente, un’azione risarcitoria. Quest’ultima, infatti, non
trova fondamento nel fatto che l’atto “sia stato emanato
contravvenendo alle norme che lo regolano”[99], ma trova
fondamento nella lesione arrecata dal ritardo della pronuncia (c.d.
danno da ritardo)[100].
Per quanto attiene al profilo
risarcitorio, si è affermato che la quantificazione del danno da
ritardo eventualmente riconosciuto al privato[101] dipenda
sostanzialmente dalla lesione arrecata al suo interesse, a seguito
della situazione di incertezza sull’assetto delle figure giuridiche
soggettive a lui riferibili. Rientrano, quindi, nella
quantificazione del danno, oltre alle spese sostenute per la
presentazione della domanda, la prosecuzione del procedimento ed
eventuali immobilizzazioni di risorse, anche le capacità della
persona di far fruttare altrimenti i propri beni[102].
Nonostante
la risarcibilità del lucro cessante sia sempre stata preclusa,
stanti le difficoltà di applicazione dell’art 1223 cod. civ. agli
obblighi giuridici (in ragione dell’impossibilità di rimettere
valutazioni di carattere discrezionale all’organo giurisdizionale),
può affermarsi che recentemente vi sono stati orientamenti in senso
contrario[103].
5. ─ Considerando il dato normativo (art. 2
comma, legge 7 agosto 1990, n. 241; art. 2 bis, legge 6 dicembre
1971, n. 1034; art. 31 comma 1 d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104)
sembrerebbe che l’inerzia serbata dell’Amministrazione sia da
ricondursi all’inadempimento di un obbligo provvedimentale.
Tuttavia, alla luce delle conclusioni tratte sulla natura dell’atto
negativo, si può affermare che l’obbligo dell’Amministrazione di
concludere il procedimento con un “provvedimento
espresso”[104] rifletta, in realtà, il dovere
dell’Amministrazione di emettere una “pronuncia espressa e
motivata,” che, mentre nel caso di emanazione di un
provvedimento positivo viene ad identificarsi con quest’ultimo, nel
caso di mancata emanazione del provvedimento richiesto, viene a
configurarsi come un diniego di provvedimento.
Dal momento che
l’ordinamento, attraverso l’imposizione di obblighi giuridici, mira
a tutelare l’interesse del privato ad ottenere una sorta di certezza
sull’assetto delle proprie figure giuridiche soggettive, il
legislatore ha disposto che, in assenza di una pronuncia, decorsi i
termini per la conclusione del procedimento, chi vi ha interesse può
chiedere l’accertamento dell’obbligo di pronuncia (art. 31 comma 1,
d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104).
Quando, invece, la stessa inerzia
comporti anche una violazione del dovere di provvedere,
l’interessato è legittimato a chiedere al giudice di pronunciarsi
sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. Tuttavia, dal
momento che la Costituzione individua nella sola Amministrazione
l’unico soggetto deputato a curare gli interessi pubblici, al
giudice è riconosciuta la possibilità di pronunciarsi sulla
fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo nelle ipotesi in
cui è la stessa legge a prevedere che, laddove si profili una
determinata situazione, l’Amministrazione sia tenuta ad assumere un
provvedimento con un determinato contenuto. In questa disciplina
rientra anche l’ipotesi in cui l’Autorità, pur disponendo di potere
discrezionale al momento di avvio del procedimento, risulti essere
vincolata nel compimento della scelta finale, cioè nel momento di
emanazione del provvedimento. In questo caso, infatti, la sfera di
potere discrezionale si restringe nel corso del procedimento, per
l’intervento di quegli apporti procedimentali che riducono le varie
opzioni di scelta discrezionale ad una sola.
Tuttavia, tale
disposizione potrebbe ritenersi rilevante anche nelle ipotesi di
atto negativo illegittimo, poiché, nei casi di attività vincolata,
anch’esso può costituire inadempimento di un obbligo
provvedimentale[105]. Infatti, mentre in assenza di un dovere di
provvedere l’annullamento del diniego deve considerarsi alla stregua
di una dichiarazione del non completo adempimento all’obbligo di
pronuncia; nel caso in cui sussista un’ obbligazione
provvedimentale, il privato deve considerarsi inadempiente non al
mero dovere di pronuncia, bensì al c.d. dovere di provvedere
(annullamento dell’atto negativo per vizio sostanziale). In tale
ultima ipotesi, dal momento che una volta “annullato” l’atto
negativo la fattispecie sostanziale verrebbe ad essere riportata ad
una situazione analoga a quella in cui l’Amministrazione avrebbe
versato se fosse rimasta ininterrottamente inerte[106], potrebbe
ritenersi ammissibile la possibilità, per l’interessato, di adire il
giudice con una richiesta di pronuncia sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio (art. 31 comma 3, d. lgs. 2 luglio 2010
n. 104). E’ in ogni caso necessario tener presente che, essendo
preclusa al giudice ogni valutazione di carattere discrezionale per
quanto concerne l’attività amministrativa, tale pronuncia sia
ammissibile solo in presenza di attività vincolata.
6. ─ Dal
momento che solo all’Amministrazione è ricondotta la possibilità di
emettere provvedimenti amministrativi, si è rilevato che il preciso
interesse sostanziale del privato al ripristino di una sfera di
attesa[107], quanto ad una legittima regolamentazione della propria
futura attività, ad opera dell’ Amministrazione[108], non sussiste
solo in assenza di attività vincolata, ma anche nelle ipotesi in cui
l’attività provvedimentale sia vincolata.
Tale riserva di
assumere i provvedimenti, riconosciuta all’Amministrazione, è
esclusa solo nei casi in cui la legge preveda “strumenti
alternativi” [109] all’emanazione del provvedimento
favorevole[110], ravvisabili nei meccanismi della denuncia,
dichiarazione e segnalazione certificata di inizio attività.
Attraverso questi istituti, previsti per i soli casi di attività
amministrativa vincolata, l’ordinamento formula un giudizio
prognostico sulla liceità dell’attività che il privato intende porre
in essere. E proprio questa “alternatività” dimostra che al
privato è consentito di scegliere se avvalersi di una propria
“dichiarazione ad efficacia legittimante”[111], rischiando,
successivamente, di essere destinatario di un provvedimento che
imponga il divieto di proseguire l’attività, oppure se affidare la
regolamentazione della propria attività alla pubblica
Amministrazione[112]. Nel caso in cui il privato dovesse scegliere
di seguire la prima via, i vantaggi connessi a tale scelta sono da
ricondursi alla possibilità, a questi riconosciuta, di svolgere la
propria attività immediatamente, salvo il rischio di un intervento
successivo dell’Amministrazione di carattere sanzionatorio. Infatti,
soprattutto nelle ipotesi in cui il provvedimento amministrativo
favorevole subordini al proprio rilascio l’esercizio di un’attività
d’impresa, il richiedente ha un consistente interesse ad iniziare
immediatamente la propria attività, dovendo, altrimenti, tenere
inutilizzati tutti i mezzi e le risorse a disposizione, finchè
“l’Amministrazione non abbia determinato, con i propri atti, la
futura attività del privato”[113].
Dal momento che la d.i.a.
è stata recentemente definita come quel “titolo che abilita
all’intervento edificatorio”[114], intendendosi per quest’ultimo
non solo l’atto in sé, o meglio il provvedimento, ma anche il
“fatto giustificativo dell’acquisto di una posizione
soggettiva”; potrebbe ritenersi che, data la complementarietà
tra atto e fatto nel fenomeno di produzione degli effetti giuridici
(teoria della rilevanza giuridica)[115], l’esistenza dei presupposti
per la presentazione della denuncia, costituisca quell’evento
“storico” che partecipa al fenomeno di produzione degli effetti
giuridici, consentendo al precetto di operare, attivandolo[116].
Alla dichiarazione di inizio attività, dunque, non dovrebbe
riconoscersi natura provvedimentale, dal momento che il fatto
giuridico in senso stretto, costituito dalla presenza dei
presupposti per la formazione del titolo, opererebbe, in realtà,
come fonte indiretta, poiché “la volontà degli effetti deve
rinvenirsi nella norma che considera tale fatto come giuridicamente
rilevante”[117], e non nel fatto giuridico in senso stretto
stesso.
Perciò, nel caso in cui quell’evento o quell’insieme di
qualificazioni soggettive non venissero ad esistere, significherebbe
che non si è verificato alcun fenomeno di produzione di effetti
giuridici, poiché non è venuto in essere quel fatto giuridicamente
rilevante che porta alla concreta produzione degli effetti
giuridici, ad opera di un distinto atto giuridico. Non vi sarebbe,
dunque, nessun effetto giuridico da annullare, e “si dovrà
parlare, invece, (..) di esistenza o inesistenza dei presupposti per
ricorrere alla denuncia e (..) di esistenza o inesistenza della
legittimazione del privato ad effettuare l’intervento”[118].
Perciò, mentre nel caso di carenza di legittimazione formale, il
terzo pregiudicato dalla presentazione di una d.i.a. (o dalla
presentazione di una s.c.i.a.), una volta presentata un’istanza di
verifica, priva di seguito, potrebbe chiedere, trascorsi 60 giorni,
che sia accertata la “non corretta conclusione del procedimento”,
alla luce di esigenze privatistiche di certezza sull’assetto delle
figure giuridiche soggettive (in vista della possibilità di
acquisire una situazione di vantaggio); nel caso in cui a mancare
siano presupposti di carattere sostanziale, come, ad esempio, la
mancata conformità alle prescrizioni urbanistico edilizie[119],
potrebbe essere richiesto, all’organo giurisdizionale, di
pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (l’
interesse sotteso a tale azione sarebbe quello di ottenere
dall’Autorità amministrativa un provvedimento a lui favorevole,
sotto il profilo degli effetti giuridici), alla pari di ciò che
potrebbe accadere nel caso di inadempimento al dovere di provvedere,
a fronte di un atto negativo viziato.
Del resto, se non fosse
necessario distinguere i casi in cui siano posti in essere
comportamenti materiali dai casi in cui siano posti in essere
comportamenti giuridici, anche in materia di dichiarazione, denuncia
o s.c.i.a., non avrebbe senso la previsione di cui al decreto legge
del 13 agosto 2011, n. 138, che, aggiungendo il comma 6 ter all’art.
19 della legge del 9 agosto 1990, n. 241, estende l’applicazione
dell’azione avverso il silenzio (art. 31 commi 1,2,3, del d. lgs. 2
luglio 2010, n. 104) anche alle ipotesi di inerzia, a fronte di
sollecitazioni di verifica.
Dunque, anche in questo caso, “ (…) accertata l’assenza della fattispecie di legittimazione
sostanziale, pronunciando l’annullamento” si “procederà
all’eliminazione, non della denuncia, ma degli effetti prodotti
dall’attività del privato intrapresa tramite la
denuncia"[120].
Infine, ammettendo la natura
materiale, e non giuridica, di queste attività liberalizzate,
potrebbe derivarne che anche l’eventuale successivo diniego di
prosecuzione consista, in realtà, in una dichiarazione della mancata
formazione della fattispecie giuridica presupposta dal precetto, per
la produzione di determinati effetti giuridici.
Date le
considerazioni sulla natura materiale del comportamento
dell’Amministrazione volto a determinare la chiusura del
procedimento, può affermarsi che anche il silenzio assenso possa
considerarsi alla stregua di un fatto estintivo dell’autonomo dovere
di pronuncia, e non del dovere di provvedere. Infatti, dal momento
che la stessa disposizione normativa (art. 20, legge 7 agosto 1990,
n. 241 ) afferma che il silenzio dell’Amministrazione competente
equivale a “provvedimento” di accoglimento della domanda, potrebbe
ritenersi che per “provvedimento” di diniego, sufficiente ad inibire
la formazione dell’assenso, debba intendersi, in realtà, quella
esternazione di volontà volta al dichiarare di non voler provvedere.
E, dal momento che il comportamento antitetico al dichiarare di non
voler provvedere è, di per sé, il dichiarare di voler provvedere,
potrebbe ritenersi che anche il silenzio assenso possa essere
considerato alla stregua di un fatto giuridico in senso stretto,
idoneo a produrre come suo unico effetto, l’estinzione del dovere di
pronuncia.
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[1] VOLPE F., Norme di relazione, norme di
azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova,
2004, 484 s.
[2] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 485
[3] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 116 s.
[4]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 484
[5] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 484 s.
[6] VOLPE F., Norme
di relazione, cit., 496
[7] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 497
[8] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 487; DOMENICHELLI V., Giurisdizione
esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988, 180-181;
ALBINI A., Le sentenze dichiarative nei confronti della pubblica
amministrazione, Milano, 1953, 37
[9] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 488; PIRAS A., Interesse legittimo e
giudizio amministrativo, Milano, 1962, II, 541; SANDULLI A. M., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici
sottordinati, Napoli, 1963, 414; FORNACIARI M., Situazioni
potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 55
[10] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 409
[11]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 407
[12] LEDDA F., Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Padova, 1964, 19
[13] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 18
[14] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 17 s.
[15] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 24; SANTORO PASSARELLI F., Dottrine generali del
diritto civile, Napoli, 1959, 87
[16] LEDDA F., Il
rifiuto, cit., 85
[17] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 93
s.
[18] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 80
[19] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 79 s.
[20] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 86. Tesi diverse sono state sostenute da coloro che
ritengono che il potere costituisca un mezzo di adempimento del
dovere: PUGLIATTI S., Esecuzione forzata e diritto
sostanziale, Milano, 1935, 23 s.
[21] LEDDA F., Il
rifiuto, cit., 88 s.
[22] LEDDA F., Il rifiuto, cit.,
94; CASETTA E., L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953,
221 s.
[23] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 96 s.
[24]
LEDDA F., Il rifiuto, cit., 90; CAMMARATA A. E., Limiti
tra formalismo e dommatica nelle figure di qualificazione
giuridica, Catania, 1936, 404 s.; FALZONE G., Il dovere di
buona amministrazione, Milano, 1953, 65 s., 138 s.
[25]
LEDDA F., Il rifiuto, cit., 90
[26] LEDDA F., Il
rifiuto, cit., 96 s.; CAMMARATA A. E., Limiti tra formalismo
e dommatica, cit., 417 s.
[27] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 98; FALZONE G., Il dovere, cit., 60 s.
[28]
LEDDA F., Il rifiuto, cit., 101
[29] LEDDA F., Il
rifiuto, cit., 103 s.
[30] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 104 s.
[31] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 107
[32] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 108; GIANNINI M. S., Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, 273
[33]
LEDDA F., Il rifiuto, cit., 109
[34] LEDDA F., Il
rifiuto, cit., 109 s.
[35] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 110
[36] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 114
[37] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 486
[38]
LEDDA F., Il rifiuto, cit., 113 - 114
[39] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 119 s.
[40] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 128
[41] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 128
[42] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 129
[43] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 162
[44] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 161 s.
[45] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 166
[46] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 166
[47] LEDDA F., Il rifiuto, cit., 167
[48] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 104 s.
[49] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 102; SCOCA F. G., Contributo cit., 48
s.; CORSO G., L’efficacia del provvedimento amministrativo,
Milano, 1969, 44 s.
[50] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 106 s.
[51] SCOCA F. G., Contributo, cit., 93
s.
[52] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 104 s.;
D’ORSOGNA M., Il problema della nullità in diritto
amministrativo, Milano, 2004, 33; SCOCA F. G., Contributo cit., 88 s.
[53] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
110
[54] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 113
[55]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 117
[56] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 120
[57] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 185 s.
[58] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 80 s.
[59] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 199 s.
[60] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
200; VILLATA R., L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di
Stato, Milano, 1971, 243
[61] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 236
[62] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 247
[63] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
237
[64] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 242
[65]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 252 s.
[66] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 253
[67] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 254
[68] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 201
[69] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
339
[70] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 259
[71]
CACCIAVILLANI C., Giudizio amministrativo di legittimità e
tutele cautelari, Padova, 2002, 121
[72] VOLPE F., Norme
di relazione, cit., 269
[73] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 305
[74] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 291
[75] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
297
[76] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 305
[77]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 335
[78] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 339
[79] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 340
[80] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 342 s.
[81] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
404 s.
[82] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 484
[83] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 485 s.
[84]
LEDDA F., Il rifiuto, cit., 107
[85] VOLPE F., Norme
di relazione, cit., 490 s.
[86] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 249 s.
[87] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 490
[88] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 336
[89] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
495
[90] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 490 s.
[91] VOLPE F., Norme di relazione, cit ., 49. “E’
facile riconoscere al comportamento adempitivo valore di fatto
giuridico e non di atto giuridico, per quanto attiene all’estinzione
del correlato dovere, osservando l’ipotesi in cui i doveri assumono,
a loro contenuto, dei comportamenti materiali. Infatti, la
prestazione, in questi casi, per definizione, non è un atto
giuridico; eppure, da essa discende ugualmente l’estinzione della
posizione di doverosità, che è da ascriversi alla legge, per il
fatto che l’obbligato ha tenuto il comportamento imposto. Poiché,
tuttavia, si deve assumere che l’effetto estintivo del dovere si
produca sempre nello stesso modo, se ne desume che anche quando le
figure di doverosità abbiano quale loro contenuto il compimento di
atti giuridici, l’estinzione si produca sulla scorta di una
(dipendente) qualificazione dell’atto, in quanto fatto”; in VOLPE F., Norme di relazione, cit., 485
[92] VOLPE
F., Norme di relazione, cit., 139 s. L’inesistenza dell’atto
è determinata, invece, dal mancato esercizio del potere, sia che
esso esista ma non sia stato in concreto esercitato, sia che esso
non esista, e quindi non possa nemmeno essere esercitato. BERTI G., La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova,
1968, 165; CAVALLO B., Provvedimenti e atti amministrativi,
Padova, 1993, 301
[93] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 335
[94] VOLPE F., Norme di relazione, cit.,
496
[95] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 495 s.
[96] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487
[97]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487; PIRAS A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II,
Milano, 1962, cit., 541; FORNACIARI M., Situazioni potestative,
tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 55; DOMENICHELLI
V., Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo,
Padova, 1988, 180-181
[98] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 405 s. Non ritenere che l’illegittimità dell’atto sia
determinata dal fatto della sua emanazione, porterebbe ad affermare
che l’annullabilità dell’atto sia un effetto da esso direttamente
prodotto. Tale previsione, tuttavia, non è ammissibile, perché
porterebbe anche ad affermare che il potere esercitato emanando un
atto legittimo sia diverso dal potere esercitato emanando un atto
illegittimo, poiché diversi sarebbero gli effetti prodotti. Dunque,
l’atto illegittimo deve, più correttamente, essere considerato alla
stregua di una fattispecie giuridica presupposta per l’applicazione
della norma che consente il legittimo esercizio del potere di
annullamento; in VOLPE F., Norme di relazione, cit., 385
[99] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 384
[100]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 407
[101] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 407
[102] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 497; MAGGIOLO M., Il risarcimento della pura
perdita patrimoniale, Milano, 2003, 294 s.
[103] TAR Veneto,
Sez. II, 11 gennaio 2011, n. 16
[104] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 489 s.
[105] VOLPE F., Norme di
relazione, cit., 493
[106] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 487
[107] Tale protezione deve riferirsi ad un
interesse attuale del privato, e non futuro; non deve, cioè,
considerarsi come una forma di estensione della protezione accordata
agli effetti dell’eventuale provvedimento favorevole; in VOLPE F., Norme di relazione, cit., 329 s.
[108] Cons. Stato, Sez.
IV, 21 maggio 2004, n. 3355; Cons. Stato, Sez. IV, 4 maggio 2004, n.
2718
[109] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 330 s.;
MARZARO GAMBA P., La denuncia d’inizio di attività edilizia:
profili sistematici, sostanziali e processuali, Milano, 2005,
255 s.
[110] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 320
[111] Cons. Stato, Ad. Pl., 29 luglio 2011, n. 15
[112]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 331; TAR Liguria, Sez. I,
22 gennaio 2003, n. 113
[113] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 333
[114] Cons. Stato, Ad. Pl., 29 luglio 2011, n. 15
[115] VOLPE F., Norme di relazione, cit., 95 s.
[116]
VOLPE F., Norme di relazione, cit., 113 s.
[117] VOLPE
F., Norme di relazione, cit., 107; D’ORSOGNA M., Il
problema della nullità in diritto amministrativo, Milano, 2004,
33
[118] MARZARO GAMBA P., La denuncia d’inizio di attività
edilizia, cit., 262
[119] MARZARO GAMBA P., La denuncia
d’inizio di attività edilizia, cit., 263
[120] MARZARO GAMBA
P., La denuncia d’inizio di attività edilizia, cit., 266
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(pubblicato il
12.9.2011)
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