Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 8-2011 - © copyright

 

ATTILIO TOSCANO [1]

A proposito del discusso contributo di solidarietà: riflessioni sulla persistente tentazione del legislatore di introdurre norme tributarie retroattive

 

 


 

 

Sommario: 1. Il contributo di solidarietà e la sua parziale retroattività. – 2. Lo Statuto del contribuente e la sua collocazione all’interno della gerarchia delle fonti. La posizione della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. – 3. Il fondamento costituzionale del principio di irretroattività delle norme tributarie. – 4. Osservazioni in merito all’orientamento della Corte costituzionale. La posizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – 5. La possibile dignità costituzionale del principio di irretroattività delle norme tributarie. – 6. Considerazioni conclusive sul contributo di solidarietà.


1. Il contributo di solidarietà e la sua parziale retroattività.

L’articolo 2 del decreto-legge n. 138 del 13 agosto ultimo scorso introduce il contributo di solidarietà a carico di coloro che avranno per gli anni 2011, 2012 e 2013 un reddito lordo annuo superiore a 90.000 euro (contributo del 5% sulla parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro; contributo del 10% sulla parte eccedente i 150.000 euro)[2].
La norma dispone così l’introduzione di un nuovo onere tributario anche per l’anno in corso e, per tale parte, essa produce un evidente effetto retroattivo che si pone in aperto contrasto con l’art. 3 del c.d. Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000 n. 212), che prevede, invece, il principio di irretroattività delle norme tributarie[3].
Sulla natura retroattiva della norma introdotta dal Governo non sembra che si possano adombrare particolari perplessità per due ordini di ragioni. Da un lato, è lo stesso legislatore d’urgenza che ha affermato expressis verbis di voler derogare alla disposizione della legge n. 212/2000 in materia di irretroattività delle norme tributarie[4]; dall’altro, viene esplicitamente dichiarato che il contributo di solidarietà opererà già a partire dal 2011, di tal che la capacità contributiva dell’anno in corso subirà una maggiore tassazione in virtù di una disposizione che, se convertita in legge, produrrà, quantomeno in parte, effetti impositivi anche per il passato e non già solo per il futuro.
La dottrina non ha dubbi nel riconoscere come appartenente alla casistica delle norme tributarie retroattive quelle che dispongono che «determinati effetti si verifichino posteriormente alla sua entrata in vigore, relativamente a fatti posti in essere anteriormente; così come non potrà disconoscersene l’applicazione (della retroattività, n.d.r.) a quei precetti, che, specie nelle cosiddette leggi finanziarie, intervengono pochi giorni prima della chiusura del periodo di imposta e sono dichiarati applicabili all’intero periodo»[5].
Il Governo, evidentemente consapevole del contrasto della nuova disposizione con l’enunciato dello Statuto del contribuente, si è preoccupato di esplicitare che trattasi di una deroga al principio di irretroattività delle norme tributarie ed ha giustificato tale strappo, in virtù della eccezionalità della situazione economica internazionale ed in considerazione delle esigenze prioritarie di finanza pubblica concordate in sede europea.
È bene sin da subito precisare che il riferimento alla eccezionalità della situazione economica internazionale ed alla necessità di rispettare gli impegni assunti in sede europea rappresentano, oltre che l’asserito presupposto giustificativo della decretazione d’urgenza nella sua interezza, tanto la premessa quanto gli obiettivi specifici in vista dei quali si è provveduto all’introduzione del contributo di solidarietà.
Ciò detto, è opportuno osservare che, tuttavia, la legislazione d’urgenza sembra non avere tenuto in debita considerazione l’art. 1 della legge n. 212/2000, il quale sancisce, altresì, che «le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell'ordinamento tributario e possono essere modificate o derogate solo espressamente e mai da leggi speciali». Né sembra essersi preoccupato il Governo della successiva previsione dell’art. 4 che vieta espressamente l’utilizzo del decreto-legge per introdurre un nuovo tributo o per estenderne l’applicazione a soggetti prima esclusi[6].

2. Lo Statuto del contribuente e la sua collocazione all’interno della gerarchia delle fonti. La posizione della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale.

Ora, l’esatta collocazione, all’interno della gerarchia delle fonti, dello Statuto del contribuente è stata a lungo dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza in considerazione del fatto che l’auto-qualificazione, in esso contenuta, di legge di attuazione di specifiche disposizioni costituzionali ha contribuito, sin dalla sua emanazione, a far pensare che gli si potesse riconoscere una forza ulteriore a quella tipica di una legge ordinaria[7].
In verità, però, la struttura della disposizione dell’art. 1 rende difficoltosa una lettura univoca; da un lato, infatti, il legislatore, nel dichiarare che i precetti dello Statuto sono diretta attuazione di specifiche norme costituzionali, parrebbe avere astretto per il futuro la sua discrezionalità nella materia tributaria all’interno di un ambito dai contorni ben individuati. Dall’altro, però, ha previsto la possibilità di derogare alle norme di diretta attuazione di disposizioni costituzionali senza, tuttavia, dare alcuna indicazioni circa i limiti e le coordinate che devono condizionare tali deroghe, ma limitandosi a prescrivere, in negativo, la forma che esse non possono assumere.
Cosicché il dato formale della legislazione e quello sostanziale sembrano indicare percorsi tra loro non del tutto coerenti.
Su un piano meramente formale, infatti, non si può negare che anche lo Statuto del contribuente sia una legge ordinaria e che, come tale, potrebbe essere derogata e sin anche abrogata da una successiva fonte pari-ordinata del diritto. Il Governo prima ed il Parlamento poi, sarebbero, dunque e in quest’ottica, ben legittimati a derogare al principio di irretroattività delle norme tributarie (cui si riconnette il principio di affidamento, di rilevanza comunitaria oltre che nazionale) ed al divieto di utilizzare lo strumento della decretazione d’urgenza in materia di imposizione tributaria.
La circostanza, tuttavia, che l’art. 1 dello Statuto sottolinei che le sue norme rappresentino attuazione di precipue disposizioni costituzionali e che esse costituiscano anche principi generali dell’ordinamento tributario, sembrerebbe assegnare, come detto, un carattere del tutto particolare nelle gerarchia delle fonti a quella che, sul piano formale, è comunque una semplice legge ordinaria e, come tale, astrattamente sottoposta alle normali regole di risoluzione delle antinomie.
In altri termini, lo Statuto del contribuente parrebbe essere, dal punto di vista sostanziale, qualcosa di più di una semplice legge ordinaria; le sue norme ed i suoi principi non sarebbero cioè ordinariamente derogabili da una fonte pari-ordinata successiva. Esso stesso, infatti, sembrerebbe imporre che le modifiche e le deroghe delle sue norme e dei suoi principi avvengano esclusivamente attraverso una riconsiderazione complessiva della compatibilità costituzionale dell’esercizio della discrezionalità legislativa in materia tributaria, affidata ad una ponderata riflessione parlamentare non contingente, né tantomeno dettata da urgenze o eccezionalità di sorta[8].
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sancito in più occasioni questo carattere, per così dire, preminente delle disposizioni della legge n. 212/2000, sottolineando che l’essere esse strumento di attuazione di precise disposizioni costituzionali vale a porle quantomeno su un piano di maggiore considerazione. In particolare, è stato osservato che «Il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che trova la sua base costituzionale nel principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.), e costituisce un elemento essenziale dello Stato di diritto e ne limita l’attività legislativa ed amministrativa, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico ed anche nell'ambito della materia tributaria, dove è stato reso esplicito dall'art. 10, comma primo, della legge n. 212/2000»[9].
La stessa sentenza citata chiarisce che «la correttezza e la buona fede nei confronti del contribuente devono essere osservate non solo dall'amministrazione finanziaria in fase applicativa, ma anche dallo stesso legislatore tributario all'atto dell'emanazione di fonti normative, come emerge in particolare dall’art. 2 che detta i criteri di chiarezza e trasparenza che debbono essere osservati nelle disposizioni tributarie e dallo stesso art. 3 sul divieto di attribuire ad esse efficacia retroattiva». Più di recente la suprema Corte ha puntualizzato che i principi espressi dallo Statuto del contribuente o desumibili da esso (compreso dunque il principio di irretroattività della legge tributaria), proprio perché attuazione di norme costituzionali, hanno una rilevanza del tutto particolare nell’ambito della legislazione tributaria ed una sostanziale superiorità rispetto alle altre disposizioni vigenti in materia[10].
Sulla base del predetto indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione ed in considerazione di quanto siamo venuti dicendo emerge, allora, più d’un dubbio sulla possibilità che il legislatore d’urgenza possa derogare ai principi espressi nello Statuto del contribuente e che, nello specifico, possano essere sacrificati i canoni della correttezza, della buona fede e dell’affidamento, di chiara rilevanza comunitaria e costituzionale.
Sebbene, come abbiamo visto, il rapporto fra norme di principio e norme derogative potrebbe già di per sé condurre alla prevalenze delle prime sulle seconde, ciò che suscita qualche esitazione rispetto al recente intervento del Governo è, dunque, non tanto la deroga sul piano formale allo Statuto, quanto quella al principio di irretroattività, diretta attuazione della Costituzione.
Sul piano della possibile risoluzione dell’antinomia che si verrebbe a verificare quante volte una norme di legge ordinaria speciale violasse i precetti dello Statuto del contribuente, vi è da dire, innanzitutto che la Corte costituzionale ha ritenuto che le disposizioni della legge n. 212/2000 non possano in alcun modo considerarsi norme interposte idonee a rappresentare il fondamento del sindacato di legittimità costituzionale[11].
Un giudizio di illegittimità costituzione potrebbe però sorreggersi sulle disposizioni di cui la legge n. 212/2000 rappresenta diretta ed esplicita applicazione (artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.). Quale sarebbe, diversamente, il significato da attribuire al richiamo che l’art. 1 dello Statuto fa agli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione se non quello di affermare che i principi della legge n. 212/2000 vivono e sono già cogenti in virtù della stessa Carta fondamentale? E si osservi, poi, che tale argomentazione è immediata espressione della volontà del Legislatore, di colui cioè che per dettato costituzionale ha il compito di estrapolare dalla Grundnorm i principi che devono essere tradotti in norme concrete e specifiche. D’altronde, che i principi esplicitati dalle norme dello Statuto fossero di già immanenti all’ordinamento costituzionale è stato riconosciuto più volte dalla stessa Corte di Cassazione[12].
A ciò si aggiunga, ora, che una norma che rappresenta diretta applicazione di una disposizione costituzionale non può essere creata e proiettata all’interno dell’ordinamento giuridico dalla Corte costituzionale, sin tanto che il legislatore non si sia determinato circa la misura e le modalità di esercizio della discrezionalità che gli è propria. Ma una volta che per il suo tramite si è data applicazione ad uno specifico precetto costituzionale, non parrebbe più possibile procedere alla abrogazione od alla ingiustificata deroga di un precetto direttamente riconducibile ad uno specifico dettato costituzionale, a meno di non doverlo ulteriormente bilanciare con un interesse costituzionale di pari rango[13].

3. Il fondamento costituzionale del principio di irretroattività delle norme tributarie.

Seguendo questo ordine di argomentazioni, la dottrina ha rinvenuto molteplici disposizioni in grado di dare contezza del rango costituzionale del «diritto all’affidamento nel suo rapporto con il principio di certezza» e del relativo corollario dell’irretroattività delle leggi tributarie. In particolare, si è fatto riferimento nell’ordine: all’art. 1 Cost. come espressione del potere di autodeterminazione di ciascuno; all’art. 2 ed al II comma dell’art. 3 che sanciscono rispettivamente l’inviolabilità dei diritti afferenti la persona umana e la tutela della libertà personale; all’art. 41 che tutela la libertà di iniziativa e di programmazione economica; alla garanzia della proprietà privata prevista dall’art. 42; alla tutela del risparmio di cui all’art. 47; al principio di capacità contributiva fissato dall’art. 53. E si è ritenuto che dalle disposizioni «che garantiscono i singoli diritti fondamentali si possono desumere argomenti in favore della rigorosa applicazione del diritto d’affidamento anche in relazione alla successione delle leggi nel tempo»[14].
Questa tematica è stata affrontata più ampiamente con riferimento alla possibilità di trovare agganci costituzionali che vietino la retroattività tout court di qualsiasi legge in materia civile. E si è giunti alla condivisibile conclusione che la retroattività delle norme di legge civili, allorché non consenta più di guidare i comportamenti dei soggetti verso fini individualmente programmati sulla base della normativa esistente al momento della definizione della volontà di ciascuno, ripropone le medesime ragioni che sorreggono il divieto costituzionale di norme retroattive in materia penale.
La retroattività di una norma di legge, infatti, qualsiasi sia l’ambito in cui essa produca efficacia, se incide sulla possibilità di programmare e di prevedere ragionevolmente gli effetti dell’agire di ciascuno, alterando il rapporto fra determinazione della volontà individuale e capacità di avere anticipata consapevolezza degli effetti che quella volontà e quell’agire produrranno nell’ordinamento giuridico, avrà come inevitabile effetto quello di conculcare la libertà individuale. Di tal che essa non potrà che essere giudicata irrazionale, inefficiente e, in definitiva, incostituzionale[15].
Le predette riflessioni critiche della dottrina sembrano meritevoli di adesione.
Su un piano squisitamente positivo ci pare colgano nel segno i riferimenti a quelle disposizioni costituzionali che valorizzano, in particolare, la libertà e la capacità di autodeterminazione di ciascuno, oltre che la tutela del risparmio, la libertà di iniziativa e di programmazione economica.
Ma ancora più qualificante appare il riferimento all’inviolabilità del diritto a potere fare affidamento sugli effetti giuridici favorevoli prodottisi in seguito a fatti posti in essere proprio in ragione delle conseguenze giuridiche che l’ordinamento aveva promesso di riconoscere loro. Non si può disconoscere l’esattezza della connessione individuata fra la produzione di effetti giuridici limitativi, successiva all’efficacia retroattiva delle norme di legge, e la violazione della libertà individuale. Se la libertà è la capacità di scegliere consapevolmente le conseguenze della manifestazione della propria volontà e delle azioni ad essa connesse, si deve concludere che non vi è libertà quante volte le conseguenze delle nostre azioni siano rimesse non già al nostro volere, bensì all’arbitrio di chi ha il potere di mutarne la qualificazione giuridica[16].
Che questo elementare principio di razionalità giuridica non sia codificato o comunque desumibile dalle norme costituzionali vigenti appare veramente difficile da argomentare. Si potrà, al più, sostenere che esistono valori costituzionali (ad esempio la solidarietà) per tutelare i quali possa essere necessario limitare (ma mai sopprimere) la forza espansiva della libertà personale.

4. Osservazioni in merito all’orientamento della Corte costituzionale. La posizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

La posizione della Corte costituzionale italiana non appare, tuttavia, del tutto concorde con quanto siamo venuti sin qui dicendo[17].
A dire il vero, alcune affermazioni della Consulta sembrano seguire l’indirizzo interpretativo che riconosce dignità costituzionale al principio di irretroattività delle disposizioni di legge tributarie, nel momento in cui si è ritenuto che «anche al di fuori della materia penale, l’emanazione di una legge retroattiva, e in particolare di una legge finanziaria retroattiva, può rivelarsi in contrasto con qualche specifico principio o precetto costituzionale (sentenza n. 118/1957; n. 81 del 1958). Quanto all’art. 53 della Costituzione, la Corte ha affermato che una legge tributaria retroattiva non comporta per se stessa la violazione del principio di capacità contributiva e ha successivamente precisato che deve essere verificato di volta in volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa, con l’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, …abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contributiva e abbia così violato il precetto costituzionale»[18].
Sempre il Giudice delle leggi, poi, ha anche affermato che: «Né può omettersi di rilevare che l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento e, se pur non elevato fuori della materia penale, a dignità costituzionale, rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini»[19].
Ma, ad un più attento esame, la posizione della Corte costituzionale italiana appare meno solida di quanto possa sembrare in materia di tutela dell’affidamento e di divieto di leggi tributarie retroattive, sol che si consideri che ancora di recente essa ha ribadito che il principio di irretroattività della legge assume dignità costituzionale esclusivamente per la materia penale in virtù dell’art. 25 Cost., mentre per gli altri ambiti, tributario compreso, l’interesse alla retroattività deve essere confrontato e bilanciato con il canone della ragionevolezza e con ulteriori valori ed interessi costituzionalmente protetti[20].
Questa ultima presa di posizione della Corte, però, sembra mal celare, in realtà, la ritrosia a volere affermare esplicitamente ciò che comunque pare desumibile dall’iter argomentativo della sentenza.
Il principio di divieto di retroattività della legislazione tributaria non assurge, secondo la Consulta, a rango costituzionale, tuttavia, è necessario che la retroattività «trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti». Ma i valori o i principi costituzionali che non consentono alla retroattività di essere costituzionalmente coerente, allorché questa produca l’effetto di limitarli oltremodo, indirettamente sembrano assegnare dignità costituzionale all’opposto principio di irretroattività della legge.
In altre parole, ciò che la Corte ha detto equivale ad attribuire rilievo costituzionale alla irretroattività tout court ed a riconoscere, allo stesso tempo, la possibilità che la necessità di bilanciare la pluralità degli interessi costituzionali, tutti egualmente degni di essere tutelati, ponga il divieto di retroattività su un piano che può essere solo occasionalmente recessivo. Mentre, allora, l’irretroattività in materia penale rappresenta un principio costituzionale, per così dire, categorico, non soggetto ad alcun bilanciamento, quella delle altre leggi ordinarie sarebbe, in questa ottica, anch’esso un principio di rango costituzionale, soggetto, tuttavia, ad essere adeguatamente bilanciato con altri interessi costituzionalmente rilevanti.
Suonerebbero, così, coerenti le affermazione del legislatore dello Statuto del contribuente che sembrava, infatti, avere affermato che dagli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione discendessero tutta una serie di principi di rango super-primario, fra i quali quello della irretroattività della legge tributaria.
La necessità di collocare il principio di irretroattività della legge, ed in particolare di quella tributaria, al più alto livello della gerarchia delle fonti normative sembra essere stata accolta anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Da una attenta ricostruzione della giurisprudenza comunitaria dell’ultimo ventennio emerge la tendenza della Corte ad assegnare valore preminente tanto al diritto all’affidamento, quanto all’irretroattività delle legge tributaria. Come sempre, però, anche in questo caso, alle affermazioni di carattere generale che sembrerebbero assolutizzare il valore di un principio giuridico si accompagnano, poi, numerosi tentativi di adeguarne la forza e l’estensione alle necessità di tenere conto, altresì, di altri e diversi valori ritenuti anche essi di primaria importanza e che non possono mai essere del tutto pretermessi.
E, dunque, la legittimità della retroattività della norma tributaria è condizionata dalla rilevanza dell’interesse pubblico (anche contingente) che con essa si intende tutelare, dalla adeguata motivazione con la quale si dà conto della necessità di utilizzare la norma retroattiva come unica risorsa idonea alla tutela di quell’interesse, dalla consistenza dei diritti che l’efficacia di una tale norma sacrifica e dalla misura di tale compressione[21].
Ancora una volta, è la necessità di perseguire un ragionevole bilanciamento fra interessi che non possono che coesistere armonicamente, a configurare, caso per caso, lo spessore e la capacità espansiva di un principio giuridico che sembra collocarsi, comunque, all’apice della gerarchia delle fonti.
A voler sottolineare, tuttavia, un tratto peculiare della giurisprudenza comunitaria nella materia che ci occupa possiamo ricordare una categoria di sentenze della Corte del Lussemburgo che ritengono violato dalla retroattività delle norme tributarie il legittimo affidamento e la certezza del diritto tour court[22].
Ne consegue che la legislazione nazionale ordinaria che viola il precetto dell’irretroattività dell’efficacia della norma tributaria ed il conseguente principio del legittimo affidamento potrebbe porsi in contrasto anche con l’art. 117 Cost., primo comma, per violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario per come sono interpretati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
E con riferimento ai citati vincoli derivanti dall’ordinamento internazionale, appare opportuno fare menzione anche dell’orientamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di irretroattività delle norme tributarie, per mettere in evidenza due particolari profili[23].
Innanzitutto è interessante il tentativo della Corte di Strasburgo di ricollegare l’eventuale illegittimità delle norme tributarie retroattive alla violazione dell’art. 1 del primo protocollo ed al diritto di proprietà; v’è poi da notare, però, come anche in ambito CEDU la retroattività sia giustificata in ragione della tutela di interessi pubblici particolarmente rilevanti e purché essa non crei un effetto sorpresa e non risulti una misura manifestamente sproporzionata rispetto alla cura dell’interesse stesso.
Di tal che si è concluso che: «Sulla base delle sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo discussi sopra, sembra che la Corte Europea neghi il diritto ad invocare il principio della non retroattività ogni qualvolta non crei un effetto sorpresa»[24].

5. La possibile dignità costituzionale del principio di irretroattività delle norme tributarie.

Per parte nostra, riteniamo, in definitiva, di potere affermare, per le motivazioni sopra esposte, che il divieto di retroattività delle norme tributarie, codificato esplicitamente dall’articolo 3 della legge n. 212/2000 (c.d. Statuto del contribuente), non sia esso stesso una semplice norma di rango ordinario, ma un principio avente dignità costituzionale direttamente riconducibile agli artt. 1, 2, 3, 23, 41, 42, 47, 53, 97 e 117 Cost.
Tuttavia questa qualificazione e tale collocazione nella gerarchia delle fonti, secondo la ricostruita interpretazione offerta in primo luogo dalla Corte costituzionale, dovrebbero essere precisate meglio al fine di non fraintenderne il significato e, soprattutto, di non assolutizzarne l’efficacia.
La Consulta ritiene che l’irretroattività delle norme tributarie rappresenti un principio giuridico e non già una norma e, seguendo un canone interpretativo ormai dominante nelle lettura costituzionale, ne fa discendere il divieto di primazia assoluta. Trattandosi di un principio, infatti, esso non dovrebbe essere pedissequamente applicato in presenza della fattispecie che lo prevede, alla stessa guisa di una norma, ma dovrebbe, invece investire di sé l’ordinamento giuridico con una intensità ed un grado di efficacia che dipendono, di volta in volta, dalla necessità di garantire la coesistenza ad altri principi costituzionali che tutelino ulteriori interessi giuridici[25].
È opinione del tutto dominante nella dottrina e nella giurisprudenza costituzionale, infatti, che le norme si applichino senza eccezione alcuna e che solo per esse si utilizzino i criteri giuridici di risoluzione delle antinomie, primo fra tutti quello della gerarchia. Mentre per i principi costituzionali varrebbe il diverso canone del bilanciamento, secondo il quale la forza espansiva e di penetrazione di ciascuno di essi sarebbe condizionato dalle varie e contingenti necessità di assicurare moderata prevalenza ora all’uno ora all’altro, senza, tuttavia, comprimere oltremodo il nucleo fondamentale di alcuno. Ne consegue, e di ciò v’è sovrabbondante conferma in giurisprudenza, che non esiste alcuna gerarchia di principi costituzionali, ma, soprattutto, che non è possibile ricostruire una graduazione dei diritti fondamentali, nessuno dei quali è in definitiva costantemente prevalente sugli altri[26].
È stato, tuttavia autorevolmente osservato che una tale idea del costituzionalismo principialista è criticabile sotto almeno due concorrenti punti di vista[27].
In primo luogo, offusca gravemente la linea di demarcazione delle attribuzioni dei poteri dello Stato in considerazione del fatto che l’esatta definizione degli ambiti di operatività di ciascun principio e diritto costituzionale è rimesso, in definitiva, alla valutazione discrezionale e contingente degli organi giurisdizionali e di quelli costituzionali in particolare. È la Consulta, infatti, che rivendica l’individuazione concreta dell’esatto equilibrio e della composizione ragionevole fra le varie esigenze costituzionali[28].
Gli organi rappresentativi, il Parlamento innanzitutto, vedrebbero, così, snaturata la loro funzione di mediazione politica attraverso la produzione legislativa ed assisterebbero passivamente alla traslazione del baricentro della democrazia dalla rappresentanza alla giurisdizione.
La forza normativa della Costituzione, poi, verrebbe grandemente ridotta perché i precetti costituzionali seguirebbero un andamento altalenante, condizionato dalla singolarità ed unicità della fattispecie da regolare: «un depotenziamento e virtualmente un collasso della normatività dei principi costituzionali e una degradazione dei diritti fondamentali in essi stabiliti a generiche raccomandazioni di tipo etico-politico».
La Costituzione rimarrebbe, così, priva della sua forza precettiva, della sua capacità di conformare le norme legislative sotto-ordinate: non sarebbe più il «dover essere» in grado di autorizzare la dichiarazione di illegittimità delle norme invalide e non rappresenterebbe più il principale canone per la risoluzione delle antinomie normative[29].
Le osservazioni critiche sommariamente descritte ci paiono mettere in evidenza alcune questioni particolarmente interessanti che non meritano di essere trascurate.
Tralasciando gli aspetti generali della questione, crediamo di potere affermare, per ciò che riguarda il caso di cui ci stiamo occupando, che al divieto di retroattività delle norme tributarie dovrebbe essere riconosciuta una forza precettiva pressoché cogente. Esso, cioè, seguendo gli schemi argomentativi della dottrina costituzionale, dovrebbe essere considerato un principio di rango costituzionale, difficilmente derogabile, poiché la retroattività si risolve quasi sempre in una compromissione radicale della libertà personale ed introduce un criterio di irrazionalità e di arbitrio per lo più ingiustificabile.
E non ci pare si possa negare la riconducibilità della retroattività delle norme tributarie al nucleo fondamentale della libertà personale per il solo fatto che viene in prima battuta in rilievo l’aspetto economico di essa e non già quello strettamente attinente alla libertà del proprio corpo, del proprio tempo, di movimento etc.
Sarebbe sufficiente, infatti, rammentare quanto sosteneva John Locke nel suo Trattato sul Governo e cioè che il frutto del lavoro ed il risparmio rappresentano proprietà inviolabili della persona perché diretta espressione della appartenenza d’essa esclusivamente a se medesima![30]
Così come non potrebbe disconoscersi l’origine risalente del principio di irretroattività della legge tributaria all’antico brocardo latino «Nulla poena sine lege previa, nullum tributum sine lege previa».
Non sembra ridondante, così, in presenza di provvedimenti legislativi come quelli qui in commento, ricordare che, unitamente alla materia penale, quella tributaria rappresenta l’ambito all’interno del quale meglio si apprezza la natura della forma di Stato, in ultimo, il rapporto fra l’autorità e la libertà, fra il potere e l’individuo. E, conseguentemente, non può che ribadirsi come la legislazione tributaria incida profondamente sulla tutela dei diritti fondamentali. Sulla libertà di autodeterminazione e sulla libertà personale, in primo luogo, sulla capacità cioè di scegliere consapevolmente gli effetti e le conseguenze delle proprie azioni; e sul diritto di proprietà che subisce grave violazione quando i suoi oggetti (beni mobili, immobili, denaro, crediti, etc.) vengono sottratti al legittimo titolare in virtù di una disposizione imprevista ed imprevedibile.
In definitiva, le ragioni del dissenso sulle modalità attraverso le quali la Corte costituzionale, la Corte del Lussemburgo e quella di Strasburgo rendono vivente il principio di irretroattività delle norme tributarie, oltre e più che intorno alla sua collocazione all’interno della gerarchia delle fonti, risiedono nella spazio concesso di volta in volta ai contro-interessi pubblici che legittimerebbero la sua deroga.
È evidente che una presa di posizione teorica irrimediabilmente rigida rischierebbe di compromettere del tutto le ragioni pratiche del bilanciamento e condurrebbe alla sconsigliabile accettazione dell’altro brocardo latino «Fiat iustitia, pereat mundus». Affinché, tuttavia, non perisca il mondo, occorrerebbe innanzitutto che i sacrifici dei diritti fondamentali siano richiesti solo quando esso sia in serio e concreto pericolo.
E dunque, fuor di metafora, quando lo spessore dell’interesse pubblico sotteso alla retroattività, l’eccezionalità e l’imprevedibilità delle evenienze che la giustifichino ed il rango dei diritti individuali compromessi dalla sua assenza si facciano apprezzare, ictu oculi, in tutta la loro dimensione e senza dubbio alcuno.
Lo scetticismo è alimentato dalla consapevolezza dell’esistenza di più d’un precedente giurisprudenziale in occasione del quale la Corte costituzionale ha ritenuto costituzionalmente compatibile la retroattività di norme tributarie con una decorrenza, ad esempio, addirittura di tre anni precedente la data di istituzione del nuovo tributo[31]; di tal che nei fatti la Consulta ha quasi sempre ammesso la retroattività delle norme tributarie, con poche eccezioni caratterizzate, per fare ancora un esempio, da una retroattività pressoché decennale[32].

6. Considerazioni conclusive sul contributo di solidarietà.

Volendo, tuttavia, considerare condivisibili gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale sopra esposti, appare opportuno verificare se la retroattività parziale di cui all’art. 2 del decreto-legge del 13 agosto possa ritenersi ragionevole in considerazione degli interessi che con essa si intendono tutelare, della loro consistenza, del rango dei diritti che essa comprime e della sua idoneità a soddisfare gli obiettivi in vista dei quali è stata normativamente imposta.
Vogliamo, innanzitutto, prendere le mosse dalla definizione di contributo di solidarietà.
Come è stato notato appena alcuni giorni dopo la pubblicazione del decreto-legge, l’utilizzo del termine contributo è improprio, in quanto a fronte del prelievo forzoso non vi è in realtà alcuna controprestazione; questa ultima, invece, rappresenta l’elemento qualificante per potere definire un’imposizione tributaria nei termini utilizzati con la decretazione d’urgenza[33].
Il richiamo, poi, alla solidarietà sembrerebbe inscrivere l’azione del legislatore all’interno di una logica c.d. redistributiva, volta alla soddisfazione, cioè, di bisogni primari di altri concittadini ed il sacrificio contributivo (anche se retroattivo) sarebbe così imposto in virtù dell’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà sociale.
L’invocazione della solidarietà, tuttavia, rischia di apparire inappropriato ed irragionevole e sembra svolgere l’unica funzione di individuare un interesse costituzionale da opporre solo formalmente alla compressione della libertà personale.
Ed infatti, il contributo non viene chiesto per fare fronte ad un qualche evento (magari imprevedibile) che ha inciso profondamente sulla situazione economica e sociale di una ben individuata categoria di soggetti, ma serve (sono parole del legislatore) «in considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale ed in considerazione delle esigenze prioritarie di finanza pubblica concordate in sede europea».
Si tratta, in sostanza, di provvedere al risanamento del bilancio statale al fine di ridurre il debito pubblico; un obiettivo, com’è facile intuire, che è del tutto estraneo ad una logica di solidarietà (e in special modo ad una logica di solidarietà eccezionale) e che si inscrive, invece, in una politica di ordinaria imposizione tributaria.
Non sembra ragionevole, ancora, qualificare come imprevedibili tanto la situazione economica internazionale quanto le esigenze di finanza pubblica. Delle seconde si può sicuramente dire che sono note in tutta la loro drammaticità da più di un decennio e che avrebbero meritato un intervento programmato in grado di svilupparsi nel corso degli anni, che avrebbe consentito a ciascuno di esercitare la propria libertà sotto leggi finanziarie chiare e certe. Ed un bilancio strutturalmente non deficitario avrebbe radicalmente ridimensionato l’eccezionalità della situazione economica internazionale sino a renderla del tutto ordinaria e priva di seri pericoli[34].
Infine, non appare fondato sostenere che la misura del contributo di solidarietà valga a soddisfare in radice le esigenze di finanza pubblica e quindi, sotto questo punto di vista, che sia proporzionato e ragionevole rispetto alla natura ed alle dimensioni del problema da risolvere.
Sebbene si debba essere consapevoli del fatto che su questo crinale ci si addentri nell’ambito delle considerazioni di politica finanziaria e di bilancio, che sicuramente meritano ben altro approfondimento, non si può omettere di considerare l’evidente inidoneità di una misura contingente e quantitativamente modesta, qual è il contributo di solidarietà (previsto solo per il triennio 2011-2013), a risolvere un deficit strutturale che, per giudizio unanime della dottrina e della giurisprudenza contabile, richiederebbe modifiche organiche di ben altra natura (si pensi alle pensioni), idonee, esse sole, a ridisegnare radicalmente il volto del bilancio statale ed a porre fine alle emergenze speculative ed alle esigenze di finanza pubblica.
Anche sotto quest’ultimo profilo, dunque la norma tributaria retroattiva si palesa irragionevole perché non adeguata rispetto all’obiettivo che vuole raggiungere e quindi inutilmente limitativa della libertà personale.
Rimane, invece, la considerazione che il legislatore (almeno per ora quello dell’urgenza ex art. 77 Cost.), dopo che sono trascorsi i due terzi dell’anno fiscale nel corso dei quali ciascun contribuente-cittadino ha agito e programmato le proprie attività economiche in vista di una tassazione previamente conosciuta, ha introdotto, per mere esigenze di cassa, un ulteriore onere tributario retroattivo. Non possono essere trascurate le evidenti conseguenze in termini di compromissione della libertà personale, di affievolimento della certezza del diritto e di violazione del diritto all’affidamento[35]; lesioni che rendono il provvedimento del Governo difficilmente giustificabile sul piano del diritto positivo e della razionalità giuridica.

 

----------

 

[1] Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli studi di Catania.
[2] Il decreto-legge è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 188 del 13 agosto 2011. Nel momento in cui si scrive pare sia stato raggiunto l’accordo tra le forze politiche di maggioranza per la parziale soppressione del contributo di solidarietà. Così si legge nel comunicato del Governo del 29 agosto 2011: «La riunione di maggioranza presieduta dal Presidente Silvio Berlusconi si è conclusa con le seguenti unanimi determinazioni:…
- sostituzione del contributo di solidarietà con nuove misure fiscali finalizzate a eliminare l’abuso di intestazioni e interposizioni patrimoniali elusive nonché riduzione delle misure di vantaggio fiscale alle società cooperative;
- contributo di solidarietà a carico dei membri del parlamento;» in www.governo.it.
[3] L’art. 3 della legge n. 212 del 2000 stabilisce che: «Salvo quanto disposto dall’art. 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo».
[4] Il comma 1 dell’art. 2 del decreto-legge in parola statuisce che: «In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 2011 e fino al 2013, in deroga all’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, sul reddito complessivo di cui all’art. 8 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 90.000 euro lordi annui, è dovuto un contributo di solidarietà del 5% sulla parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10 per cento sulla parte eccedente 150.000 euro».
[5] G. Marongiu, Sulla legittimità costituzionale delle norme tributarie retroattive, in Rivista di diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pag.72. Nello stesso senso A. Amatucci, Il divieto di retroattività in materia tributaria. Nuovi orientamenti in ambito nazionale e comunitario. Conclusioni, in Rivista di diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pag. 201. L’Autore correttamente ritiene che: «Una legge, che aggravi l’imposizione sul reddito e che sia pubblicata nel corso dell’anno ma che consideri imponibile tutto il reddito formato in quell’anno, è parzialmente retroattiva, perché è pubblicata allorché la formazione del presupposto non si è ancora esaurita. Infatti, una parte del reddito è stata già prodotta, allorché il contribuente nel corso dell’anno apprende che è modificata la legge con decorrenza dall’inizio dello stesso anno. Anche se con intensità minore, questa forma di parziale retroattività lede le garanzie costituzionali esaminate, in quanto impegna comunque la parte del presupposto non ancora realizzata».
[6] La norma richiamata dispone che: «Non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti». A ciò si aggiunga che perfino le norme interpretative, secondo l’art. 1, comma 2, dello Statuto, possono essere adottate solo in casi eccezionali e comunque con legge ordinaria.
[7] Ancor prima della sua elaborazione si è discusso in dottrina della necessità di assicurare ai principi fondamentali poi introdotti con lo Statuto del contribuente il rango di norme costituzionali per il tramite di un legge approvata ex art. 138 Cost. Per tali osservazioni si veda G. Marongiu, (Voce) Statuto del contribuente, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Vol. VI, Giuffrè, 2006, pagg. 5763 e ss.
[8] Si è ritenuto che «l’intervento per principi non si traduce in un mero manifesto di buone intenzioni; essi, infatti, devono essere letti congiuntamente con la clausola di auto qualificazione di cui all’art. 1, comma 1, che esprime la funzione attuativa di determinate disposizioni della Costituzione (artt. 3, 23, 53 e 97)». Con la conclusione che: «le disposizioni dello Statuto, in quanto dichiarate principi generali, assumono una particolare collocazione nella gerarchia delle fonti del diritto. È ben vero che le disposizioni speciali possono derogare a quelle generali di principio ma è altrettanto vero che la specialità della legge derogativa dei principi deve essere in qualche modo giustificata sulla base di esigenze particolari e che, inoltre, i principi forniscono la chiave interpretativa delle disposizioni speciali, le quali, per quanto possibile, devono essere conformate ai principi» G. Marongiu, Lo statuto del contribuente e i vincoli al legislatore, in Il fisco, 2008, 46, pagg. 8271 e ss. Si vedano anche le affermazioni di A. Amatucci, in Il divieto di retroattività in materia tributaria. Cit., pag. 202, ove si afferma che: «Lo Statuto si colloca in una posizione di preminenza rispetto ad altre fonti del medesimo livello sul piano gerarchico, allorché riesce ad esprimere correttamente principi costituzionali fondamentali. Lo Statuto, in quanto estrinsecazione di tali principi, è «rinforzato» dalla Costituzione e non dal proprio art. 1, il quale stabilisce che lo stesso Statuto può essere modificato solo espressamente e non con una legge speciale. Esiste una gerarchia strutturale tra le norme, di pari livello, tra le quali si collocano le norme di secondo grado che talvolta disciplinano l’applicazione e la vigenza di altre leggi, prevalendo su queste».
[9] Cass. civ., Sez. V, 10.12.2002, sentenza n. 17576, in Foro It. 2003, 1, 1104. Vedi anche Corte di Cassazione, Sez. V, 14.04.2004, sentenza n. 7080, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 2, 847, con nota di De Mita.
[10] Corte di Cassazione, Sez. V, 14.04.2004, sentenza n. 7080/2004, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 2, 847, con nota di De Mita.
[11] Corte Costituzionale, sentenza 27.02.2009, n. 58, in Corriere Trib., 2009, 14, 1102, con nota di Basilavecchia e Marongiu. Nella sentenza si legge che «…come più volte affermato da questa Corte, non esiste un principio di irretroattività della legge tributaria fondato sull'evocato parametro, né hanno rango costituzionale - neppure come norme interposte - le previsioni della legge n. 212 del 2000 (ordinanze n. 41 del 2008, n. 180 del 2007 e n. 428 del 2006)».
[12] Cass. civ., Sez. V, sentenza 10.12.2002, n. 17576, in Foro It. 2003, 1, 1104.
[13] Si consideri, ad esempio, quanto la Corte costituzionale ha affermato nella sentenza n. 80/2010 in materia di attuazione dei diritti costituzionalmente garantiti degli alunni disabili. Com’è noto la legge n. 104/1992 rappresenta diretta attuazione dei precetti costituzionali che tutelano i diritti inviolabili delle persone disabili; l’art. 40 della legge n. 449/1997 completa tale attuazione prevedendo un’assistenza particolare per gli alunni disabili, consentendosi all’amministrazione scolastica di assumere insegnanti di sostegno in deroga all’ordinario rapporto docenti-alunni. Allorché il legislatore ha introdotto, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, una norma che ha soppresso tale forma ulteriore di tutela la Corte costituzionale l’ha ritenuta incostituzionale perché la norma soppressa rappresenta diretta attuazione di disposizioni costituzionali (nello specifico, art. 2, 3, 35 e 38 Cost.). Vedi C. Ciano, Il contenuto essenziale del diritto all'istruzione dell'alunno disabile: cancellate le limitazioni per gli insegnanti di sostegno, in www. giustamm.it, aprile 2011.
[14] M. Luciani, Il dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi di incentivazione economica, (prima parte), in Giurisprudenza Italiana, 2007, pag. 1825 e ss. L’autore precisa che: «La tutela dell’affidamento deve essere ancorata alle singole previsioni costituzionali, che tipizzano quella tutela per ogni singolo diritto fondamentale in rapporto ai suoi limiti specifici. Una volta che si operi tale ancoraggio, non ha più molto senso ipotizzare l’esistenza di un diritto all’affidamento garantito in via generale dall’ordinamento, dovendosi semmai parlare di profili di affidamento connessi a ciascun diritto fondamentale, che esigono tutele differenziate per misura e modo, proprio in ragione del diritto in considerazione. In altri termini…vi sono robusti dati costituzionali che indicano come tra le garanzie dei singoli diritto fondamentali sia inclusa (in forme e gradi diversi) anche quella dell’affidamento nella stabilità della situazione normativa in essere, se funzionale al godimento di quei diritti» M. Luciani, cit., pagg. 1938-1939.
[15] «Essendo specifica funzione delle norme qualificare fatti e così guidare comportamenti, ciascuno agendo fida che la sua azione varrà in base alla regola di cui tiene conto, ed è irrazionale qualificare i comportamenti pregressi secondo norme che non hanno potuto guidarli. Si apre dunque un’alternativa: che la norma retroattiva intervenga solo sui fatti rispetto ai quali un comportamento deve ancora essere adottato ovvero che intervenga su fatti rispetto ai quali un comportamento è già stato adottato. Nel primo caso la retroattività non preclude al soggetto di determinare il proprio comportamento sulla base della consapevolezza del suo valore giuridico e l’applicazione della legge retroattiva conduce pur sempre ad attribuire all’atto consapevole un valore congruente al suo effettivo senso. Nel secondo caso invece, non avendo il soggetto determinato il proprio comportamento sulla base della consapevolezza del valore giuridico che ora gli si attribuisce, la retroattività provoca un’applicazione della legge retrospettiva incongruente al senso dell’atto che essa regola… Le conseguenze sfavorevoli non possono trovare applicazione se non sulla base di libere scelte consapevoli dell’interessato. Che non può vedersi privato di un diritto o gravato di un obbligo in base a comportamenti commissivi o omissivi che ha adottato quando non poteva calcolare il valore giuridico che la norma retroattiva a posteriori attribuisce loro. La norma retroattiva è dunque in parte necessariamente difettosa; estendendo al passato il proprio vigore si pone nelle condizioni di funzionare solo in parte. Il valore che assume riesce a guidare efficacemente il comportamento coevo ma non quello antecedente. Può costruire nel passato un fondamento fittizio per legittima la realtà attuale, come quegli antichi storici norvegesi che per legittimare la successione della nuova monarchia inventarono risalenti genealogie di re; ma non può suscitare una realtà corrispondente, perché non può con la valutazione di ora guidare i comportamenti di allora, e dunque non può stabilirne razionalmente il valore, perché non è frutto di libera scelta… La razionalità limitata della norma retrospettiva diventa così irragionevolezza. Ogni norma, anche retroattiva, non dispone efficacemente che per l’avvenire. Può ricorrere al’effetto retroattivo per aggiustare il presente. Se invece vuole qualificare comportamenti che non ha potuto a guidare è condannata all’inefficienza. E’ infatti inefficiente e perciò irragionevole applicare a comportamenti precedenti alla sua entrata in vigore una nuova disposizione, perché il presupposto della sua applicazione razionale è che un comportamento sia adottato liberamente con la coscienza del senso che la norma gli attribuirà. E questo ovviamente non si da quando la norma vi sopravviene. In tal caso infatti è conculcata una libertà» A. Gentili, Sulla retroattività delle leggi civili, in Rivista di diritto civile, 2007, pagg. 793-795.
[16] Riprendiamo un esempio concreto suggerito da autorevole dottrina al fine di sperimentare direttamente le conseguenze della norma tributaria retroattiva: «Un venditore che il 20 aprile dell’anno 2001 stipula un contratto di compravendita di una merce concordando la forma e il prezzo, deve già sapere il 20 aprile 2001 e non invece il 31 dicembre 2001, l’entità dell’imposta sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto che graveranno per effetto del contratto concluso» G. Marongiu, Sulla legittimità costituzionale delle norme tributarie retroattive, in Rivista di diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pag. 71.
[17] Per una ricostruzione dei differenti orientamenti della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale in materia di vigenza del diritto all’affidamento e del divieto di retroattività delle leggi tributarie si veda M. Villani, Principio dell’affidamento: tra normativa tributaria e normativa comunitaria, in www.legali.com. Vedi anche G. Rebecca, Retroattività delle norme tributarie nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2007, n. 21, pagg. 3125 e ss.
[18] Corte Costituzionale, sentenza 4 maggio 1966, n. 44; si veda anche la sentenza n. 236 del 10 giugno 1994 ove si afferma esplicitamente che «la retroattività di disposizioni tributarie è preclusa dall’art. 53 quando essa finisca per gravare il soggetto d’imposta per una capacità contributiva non più esistente al momento dell’imposizione».
[19] Corte Costituzionale, sentenza 4 aprile 1990, n. 155.
[20] Corte Costituzionale, sentenza 28 marzo 2008, n. 74, in Foro It., 2008, 9, 1, 2411, ove si afferma «Questa Corte ha avuto modo di affermare, in più di un’occasione (da ultimo, sentenza n. 234 del 2007), che non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva) ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva, trattandosi in entrambi i casi di accertare se la retroattività della legge, il cui divieto non è stato elevato a dignità costituzionale, salvo che per la materia penale, trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti».
[21] Per una approfondita ricostruzione degli orientamenti della Corte di giustizia europea in materia di legittimo affidamento e di retroattività delle disposizioni comunitarie e nazionali in materia tributaria si veda S. Antoniazzi, Recenti conferme della Corte di giustizia circa la ricostruzione di un principio fondamentale di tutela dell’affidamento nell’ordinamento comunitario», in Rivista Italiana di diritto pubblico comparato, 2002, pagg. 1130 e ss. Rilevanti, ai nostri fini, appaiono le seguenti considerazioni: «Per una significativa ricostruzione dell’affidamento, è di importanza prioritaria la questione dell’irretroattività degli atti normativi emanati dalle istituzioni della Comunità e delle sentenze dei giudici comunitari, in quanto taluni soggetti interessati, considerando l’esistenza di determinate norme e facendo affidamento sulla loro persistenza, possono assumere impegni di carattere economico di certo pregiudicati dal mutamento della disciplina giuridica. L’esame della giurisprudenza comunitaria, anche risalente, evidenzia una frequente considerazione dell’ipotesi di modifica di rapporti sorti sulla base dell’affidamento prima delineato, alla luce di una valutazione dei contrapposti interessi; anche qualora prevalga la tutela dell’interesse pubblico, si configura la tutela dell’affidamento secondo determinati presupposti. Si prospetta in modo problematico la disciplina di situazioni intertemporali conseguenti all’ipotesi in cui una nuova norma, pur avendo un’efficacia ex nunc, disciplini situazioni giuridiche ancora pendenti, ma sorte sotto il vigore della normativa precedente; peraltro, sebbene si rilevino esigenze di tutela dell’affidamento, si sottolinea che la Corte ha più volte affermato che il diritto comunitario non esclude in senso assoluto l’ammissibilità di una disciplina retroattiva. Occorre comunque richiamare la regola, ormai consolidata a seguito di una certa evoluzione, secondo cui le leggi modificative di una disposizione legislativa sono applicabili, salva un’espressa deroga, agli effetti futuri di situazioni verificatesi in vigenza della disciplina previgente; in relazione a ciò la Corte ha più volte ribadito che il principio dell’affidamento si pone come limite all’efficacia immediata della normativa comunitaria» pagg. 1144-1145.
[22] Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione V, sentenza 11 luglio 2002, in causa C – 62/00; Marcks & Spencer c. Commissioners of Customs & Excise, in Rivista Italiana di diritto pubblico comparato, 2002, pag. 1122.
[23] Per una ricostruzione su tale argomento si veda J. Malherbe e P. Daenen, La retroattività delle norme tributarie interne e la giurisprudenza in materia fiscale della Corte di Giustizia Europea. La Prospettiva Belga e il contesto europeo, in Rivista di diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pagg. 35 e ss.
[24] J. Malherbe e P. Daenen, La retroattività delle norme tributarie interne e la giurisprudenza in materia fiscale della Corte di Giustizia Europea. Cit., pag. 50.
[25] «L’elemento decisivo su cui si basa la distinzione tra regole e principi e che mentre le regole sono norme che possno solo essere osservate e violate, i principi sono norme che comandano che si realizzi qualcosa nella misura del possibile, cioè tenuto conto di ciò che è fattualmente e giuridicamente possibile» R. Alexi, Teoria de los derechos fundamentales, par. 2, pagg. 86-87. Nello stesso senso R. Dworkin, in I diritti presi sul serio, a cura di G. Rebuffa, Bologna, 1982, pagg. 93-95, afferma che «La differenza tra principi giuridici e regole è di carattere logico. Gli uni e le altre orientano a particolari decisioni, ma differiscono per il carattere dell’orientamento che suggeriscono. Le regole sono applicabili nella forma del tutto o niente. Se si danno i fatti stabiliti da una regola, allora si determinano le conseguenze per essi predisposte. I principi, invece, esprimono una ragione che spinge in una direzione, ma che non necessita di una particolare decisione».
[26] E’ stato, infatti, sostenuto che «nessun diritto è illimitato, nessun interesse è senza peso…», R. Bin, in Capire la Costituzione, Laterza, 2008, pag. 59.
[27] L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in Giurisprudenza costituzionale, 2010, pag. 2771 e ss.
[28] «L’idea che I principi costituzionali sono sempre oggetto di ponderazione anziché di applicazione, o peggio che possono essere ponderati con principi morali inventati dai giudici, genera evidentemente un pericolo, del quale non sempre i suoi sostenitori sembrano consapevoli, per l’indipendenza della giurisdizione e per la sua legittimazione politica. Se infatti si sostiene che i giudici non devono limitarsi a interpretare le norme di diritto positivo ma sono abilitati a crearle essi stessi, sia pure attraverso il bilanciamento dei principi, allora viene minata la separazione dei poteri. E in tempi come gli attuali – di crescente tensione tra potere politico e potere giudiziario e di insofferenza del primo per i controlli di legalità esercitati dal secondo – la teorizzazione di una simile potestà normativa dei giudici rischi di offrire un potente argomento a sostegno della loro investitura politica, tramite la loro elezione, o peggio la loro collocazione alle dipendenze dal potere esecutivo» L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, cit., 2806.
[29] «Il costituzionalismo principialista, non diversamente dal realismo e dal neopandettismo, comporta dunque un depotenziomento e virtualmente un collasso della normativa dei principi costituzionali e una degradazione dei diritti fondamentali in essi stabiliti a generiche raccomandazioni di tipo etico - politico. Sovverte la gerarchia delle fonti affidando la scelta di attuare questa anziché quella norma costituzionale al bilanciamento legislativo e a quello giudiziario e perciò alla discrezionalità potestativa del legislatore ordinario e dei giudici costituzionali…Con il risultato paradossale che l’esperienza giuridica più avanzata della modernità, rappresentata dalla positivizzazione del «dover essere» del diritto e dalla soggezione a limiti e a vincoli giuridici di qualunque potere, viene interpretata come una sorta di regressione al diritto giurisprudenziale e dottrinario premoderno» L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, cit., 2816.
[30] «Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona; su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui. Il lavoro del suo copro e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà del lavoratore, nessun altro che lui può aver diritti a ciò cui esso è stato incorporato, almeno là dove avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti ed altrettanto buoni» J. Locke, Trattato sul governo, Editori riuniti, 1974, pag. 23.
[31] Sentenza Corte Costituzionale n. 415/1994.
[32] Sentenza della Corte Costituzionale n. 44 del 04.05.1966. Per una disamina dei casi all’esame della Corte Costituzionale in materia di retroattività delle norme tributarie si veda G. Rebecca, Retroattività delle norme tributarie nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2007, n. 21, pagg. 3125 e ss.
[33] Si veda P. Selicato, Il contributo di solidarietà: profili di illegittimità e possibili correttivi, in www. Federalismi.it, agosto 2011. L’Autore sottolinea, inoltre, come il contributo di solidarietà presenti ulteriori profili di illegittimità con particolare riferimento alla individuazione della capacità contributiva. Da un alto, infatti, «la disciplina del nuovo contributo va attentamente considerata sotto il profilo della legittimità costituzionale in rapporto al problema dei nuclei familiari monoredditoIn questo caso, infatti, la più intensa solidarietà richiesta a titolo straordinario ai contribuenti più abbienti potrebbe restare priva del suo presupposto laddove si tenesse conto delle profonde differenze in termini di capacità contributiva che esistono tra soggetti titolari di redditi di pari ammontare ma con una diversa composizione del nucleo familiare e con una diversa distribuzione del reddito della famiglia tra i soggetti che la compongono». Dall’altro, «il profilo di maggiore criticità del nuovo prelievo è senz’altro quello attinente alla eccessiva ristrettezza dell’indice di ricchezza assunto a base imponibile, non solo (e non tanto) sul piano quantitativo ma anche (e soprattutto) su quello qualitativo… Pare, invero, che per ottenere, sia pure indirettamente, il risultato immediato di assoggettare al contributo straordinario la ricchezza accumulata (anche) attraverso l’evasione e distribuire in modo più equo tra i consociati il relativo onere, sarebbe oltremodo auspicabile l’introduzione (a fianco o in sostituzione dell’imposizione sui redditi di maggiori dimensioni) di un prelievo straordinario sul patrimonio. Il carattere patrimoniale sarebbe, tra l’altro, più aderente con le finalità straordinarie cui sarebbe destinato il relativo gettito».
[34] Vogliamo qui riportare un breve passo del discorso del Presidente della Repubblica del 21 agosto 2011 al Meeting per l’amicizia dei popoli a conferma della odierna consapevolezza della mancata programmazione in materia di finanza pubblica degli ultimi anni: «Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi - riecheggiando le famose parole del Presidente Roosvelt, appena eletto nel 1932 - «l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa». Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare - e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani - il linguaggio della verità: perché esso «non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza». Abbiamo, noi qui, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi, che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni?... Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali. Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge?», in www.quirinale.it.
[35] Si veda G. Grasso, L’affidamento quale principio generale del diritto, in www.giustamm.it, agosto 2011.

 

(pubblicato il 31.8.2011)

 

 

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento