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n. 8-2011 - © copyright |
ATTILIO TOSCANO [1]
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A proposito del discusso contributo
di solidarietà: riflessioni sulla persistente tentazione del legislatore
di introdurre norme tributarie retroattive
Sommario: 1. Il contributo di solidarietà e la sua
parziale retroattività. – 2. Lo Statuto del contribuente e la sua
collocazione all’interno della gerarchia delle fonti. La posizione
della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. – 3. Il
fondamento costituzionale del principio di irretroattività delle
norme tributarie. – 4. Osservazioni in merito all’orientamento della
Corte costituzionale. La posizione della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. –
5. La possibile dignità costituzionale del principio di
irretroattività delle norme tributarie. – 6. Considerazioni
conclusive sul contributo di solidarietà.
1. Il
contributo di solidarietà e la sua parziale
retroattività.
L’articolo 2 del decreto-legge n. 138 del
13 agosto ultimo scorso introduce il contributo di
solidarietà a carico di coloro che avranno per gli anni 2011,
2012 e 2013 un reddito lordo annuo superiore a 90.000 euro
(contributo del 5% sulla parte eccedente il predetto importo fino a
150.000 euro; contributo del 10% sulla parte eccedente i 150.000
euro)[2].
La norma dispone così l’introduzione di un nuovo onere
tributario anche per l’anno in corso e, per tale parte, essa produce
un evidente effetto retroattivo che si pone in aperto contrasto con
l’art. 3 del c.d. Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000 n.
212), che prevede, invece, il principio di irretroattività delle
norme tributarie[3].
Sulla natura retroattiva della norma
introdotta dal Governo non sembra che si possano adombrare
particolari perplessità per due ordini di ragioni. Da un lato, è lo
stesso legislatore d’urgenza che ha affermato expressis
verbis di voler derogare alla disposizione della legge n.
212/2000 in materia di irretroattività delle norme tributarie[4];
dall’altro, viene esplicitamente dichiarato che il contributo di
solidarietà opererà già a partire dal 2011, di tal che la capacità
contributiva dell’anno in corso subirà una maggiore tassazione in
virtù di una disposizione che, se convertita in legge, produrrà,
quantomeno in parte, effetti impositivi anche per il passato e non
già solo per il futuro.
La dottrina non ha dubbi nel riconoscere
come appartenente alla casistica delle norme tributarie retroattive
quelle che dispongono che «determinati effetti si verifichino
posteriormente alla sua entrata in vigore, relativamente a fatti
posti in essere anteriormente; così come non potrà disconoscersene
l’applicazione (della retroattività, n.d.r.) a quei precetti,
che, specie nelle cosiddette leggi finanziarie, intervengono pochi
giorni prima della chiusura del periodo di imposta e sono dichiarati
applicabili all’intero periodo»[5].
Il Governo, evidentemente
consapevole del contrasto della nuova disposizione con l’enunciato
dello Statuto del contribuente, si è preoccupato di esplicitare che
trattasi di una deroga al principio di irretroattività delle norme
tributarie ed ha giustificato tale strappo, in virtù della
eccezionalità della situazione economica internazionale ed in
considerazione delle esigenze prioritarie di finanza pubblica
concordate in sede europea.
È bene sin da subito precisare che il
riferimento alla eccezionalità della situazione economica
internazionale ed alla necessità di rispettare gli impegni assunti
in sede europea rappresentano, oltre che l’asserito presupposto
giustificativo della decretazione d’urgenza nella sua interezza,
tanto la premessa quanto gli obiettivi specifici in vista dei quali
si è provveduto all’introduzione del contributo di solidarietà.
Ciò detto, è opportuno osservare che, tuttavia, la legislazione
d’urgenza sembra non avere tenuto in debita considerazione l’art. 1
della legge n. 212/2000, il quale sancisce, altresì, che «le
disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3,
23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali
dell'ordinamento tributario e possono essere modificate o derogate
solo espressamente e mai da leggi speciali». Né sembra essersi
preoccupato il Governo della successiva previsione dell’art. 4 che
vieta espressamente l’utilizzo del decreto-legge per introdurre un
nuovo tributo o per estenderne l’applicazione a soggetti prima
esclusi[6].
2. Lo Statuto del contribuente e la sua
collocazione all’interno della gerarchia delle fonti. La posizione
della Corte di Cassazione e della Corte
costituzionale.
Ora, l’esatta collocazione,
all’interno della gerarchia delle fonti, dello Statuto del
contribuente è stata a lungo dibattuta in dottrina ed in
giurisprudenza in considerazione del fatto che
l’auto-qualificazione, in esso contenuta, di legge di attuazione di
specifiche disposizioni costituzionali ha contribuito, sin dalla sua
emanazione, a far pensare che gli si potesse riconoscere una forza
ulteriore a quella tipica di una legge ordinaria[7].
In verità,
però, la struttura della disposizione dell’art. 1 rende difficoltosa
una lettura univoca; da un lato, infatti, il legislatore, nel
dichiarare che i precetti dello Statuto sono diretta attuazione di
specifiche norme costituzionali, parrebbe avere astretto per il
futuro la sua discrezionalità nella materia tributaria all’interno
di un ambito dai contorni ben individuati. Dall’altro, però, ha
previsto la possibilità di derogare alle norme di diretta attuazione
di disposizioni costituzionali senza, tuttavia, dare alcuna
indicazioni circa i limiti e le coordinate che devono condizionare
tali deroghe, ma limitandosi a prescrivere, in negativo, la forma
che esse non possono assumere.
Cosicché il dato formale della
legislazione e quello sostanziale sembrano indicare percorsi tra
loro non del tutto coerenti.
Su un piano meramente formale,
infatti, non si può negare che anche lo Statuto del contribuente sia
una legge ordinaria e che, come tale, potrebbe essere derogata e sin
anche abrogata da una successiva fonte pari-ordinata del diritto. Il
Governo prima ed il Parlamento poi, sarebbero, dunque e in
quest’ottica, ben legittimati a derogare al principio di
irretroattività delle norme tributarie (cui si riconnette il
principio di affidamento, di rilevanza comunitaria oltre che
nazionale) ed al divieto di utilizzare lo strumento della
decretazione d’urgenza in materia di imposizione tributaria.
La
circostanza, tuttavia, che l’art. 1 dello Statuto sottolinei che le
sue norme rappresentino attuazione di precipue disposizioni
costituzionali e che esse costituiscano anche principi generali
dell’ordinamento tributario, sembrerebbe assegnare, come detto, un
carattere del tutto particolare nelle gerarchia delle fonti a quella
che, sul piano formale, è comunque una semplice legge ordinaria e,
come tale, astrattamente sottoposta alle normali regole di
risoluzione delle antinomie.
In altri termini, lo Statuto del
contribuente parrebbe essere, dal punto di vista sostanziale,
qualcosa di più di una semplice legge ordinaria; le sue norme ed i
suoi principi non sarebbero cioè ordinariamente derogabili da una
fonte pari-ordinata successiva. Esso stesso, infatti, sembrerebbe
imporre che le modifiche e le deroghe delle sue norme e dei suoi
principi avvengano esclusivamente attraverso una riconsiderazione
complessiva della compatibilità costituzionale dell’esercizio della
discrezionalità legislativa in materia tributaria, affidata ad una
ponderata riflessione parlamentare non contingente, né tantomeno
dettata da urgenze o eccezionalità di sorta[8].
La
giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sancito in più occasioni
questo carattere, per così dire, preminente delle
disposizioni della legge n. 212/2000, sottolineando che l’essere
esse strumento di attuazione di precise disposizioni costituzionali
vale a porle quantomeno su un piano di maggiore considerazione. In
particolare, è stato osservato che «Il principio della tutela del
legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che
trova la sua base costituzionale nel principio di uguaglianza dei
cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.), e costituisce un
elemento essenziale dello Stato di diritto e ne limita l’attività
legislativa ed amministrativa, è immanente in tutti i rapporti di
diritto pubblico ed anche nell'ambito della materia tributaria, dove
è stato reso esplicito dall'art. 10, comma primo, della legge n.
212/2000»[9].
La stessa sentenza citata chiarisce che «la
correttezza e la buona fede nei confronti del contribuente devono
essere osservate non solo dall'amministrazione finanziaria in fase
applicativa, ma anche dallo stesso legislatore tributario all'atto
dell'emanazione di fonti normative, come emerge in particolare
dall’art. 2 che detta i criteri di chiarezza e trasparenza che
debbono essere osservati nelle disposizioni tributarie e dallo
stesso art. 3 sul divieto di attribuire ad esse efficacia
retroattiva». Più di recente la suprema Corte ha puntualizzato
che i principi espressi dallo Statuto del contribuente o desumibili
da esso (compreso dunque il principio di irretroattività della legge
tributaria), proprio perché attuazione di norme costituzionali,
hanno una rilevanza del tutto particolare nell’ambito della
legislazione tributaria ed una sostanziale superiorità rispetto alle
altre disposizioni vigenti in materia[10].
Sulla base del
predetto indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione ed in
considerazione di quanto siamo venuti dicendo emerge, allora, più
d’un dubbio sulla possibilità che il legislatore d’urgenza possa
derogare ai principi espressi nello Statuto del contribuente e che,
nello specifico, possano essere sacrificati i canoni della
correttezza, della buona fede e dell’affidamento, di chiara
rilevanza comunitaria e costituzionale.
Sebbene, come abbiamo
visto, il rapporto fra norme di principio e norme derogative
potrebbe già di per sé condurre alla prevalenze delle prime sulle
seconde, ciò che suscita qualche esitazione rispetto al recente
intervento del Governo è, dunque, non tanto la deroga sul piano
formale allo Statuto, quanto quella al principio di irretroattività,
diretta attuazione della Costituzione.
Sul piano della possibile
risoluzione dell’antinomia che si verrebbe a verificare quante volte
una norme di legge ordinaria speciale violasse i precetti dello
Statuto del contribuente, vi è da dire, innanzitutto che la Corte
costituzionale ha ritenuto che le disposizioni della legge n.
212/2000 non possano in alcun modo considerarsi norme interposte
idonee a rappresentare il fondamento del sindacato di legittimità
costituzionale[11].
Un giudizio di illegittimità costituzione
potrebbe però sorreggersi sulle disposizioni di cui la legge n.
212/2000 rappresenta diretta ed esplicita applicazione (artt. 3, 23,
53 e 97 Cost.). Quale sarebbe, diversamente, il significato da
attribuire al richiamo che l’art. 1 dello Statuto fa agli artt. 3,
23, 53 e 97 della Costituzione se non quello di affermare che i
principi della legge n. 212/2000 vivono e sono già cogenti in virtù
della stessa Carta fondamentale? E si osservi, poi, che tale
argomentazione è immediata espressione della volontà del
Legislatore, di colui cioè che per dettato costituzionale ha il
compito di estrapolare dalla Grundnorm i principi che devono
essere tradotti in norme concrete e specifiche. D’altronde, che i
principi esplicitati dalle norme dello Statuto fossero di già
immanenti all’ordinamento costituzionale è stato riconosciuto più
volte dalla stessa Corte di Cassazione[12].
A ciò si aggiunga,
ora, che una norma che rappresenta diretta applicazione di una
disposizione costituzionale non può essere creata e proiettata
all’interno dell’ordinamento giuridico dalla Corte costituzionale,
sin tanto che il legislatore non si sia determinato circa la misura
e le modalità di esercizio della discrezionalità che gli è propria.
Ma una volta che per il suo tramite si è data applicazione ad uno
specifico precetto costituzionale, non parrebbe più possibile
procedere alla abrogazione od alla ingiustificata deroga di un
precetto direttamente riconducibile ad uno specifico dettato
costituzionale, a meno di non doverlo ulteriormente bilanciare con
un interesse costituzionale di pari rango[13].
3. Il
fondamento costituzionale del principio di irretroattività delle
norme tributarie.
Seguendo questo ordine di
argomentazioni, la dottrina ha rinvenuto molteplici disposizioni in
grado di dare contezza del rango costituzionale del «diritto
all’affidamento nel suo rapporto con il principio di certezza» e
del relativo corollario dell’irretroattività delle leggi tributarie.
In particolare, si è fatto riferimento nell’ordine: all’art. 1 Cost.
come espressione del potere di autodeterminazione di ciascuno;
all’art. 2 ed al II comma dell’art. 3 che sanciscono rispettivamente
l’inviolabilità dei diritti afferenti la persona umana e la tutela
della libertà personale; all’art. 41 che tutela la libertà di
iniziativa e di programmazione economica; alla garanzia della
proprietà privata prevista dall’art. 42; alla tutela del risparmio
di cui all’art. 47; al principio di capacità contributiva fissato
dall’art. 53. E si è ritenuto che dalle disposizioni «che
garantiscono i singoli diritti fondamentali si possono desumere
argomenti in favore della rigorosa applicazione del diritto
d’affidamento anche in relazione alla successione delle leggi nel
tempo»[14].
Questa tematica è stata affrontata più ampiamente
con riferimento alla possibilità di trovare agganci costituzionali
che vietino la retroattività tout court di qualsiasi legge in
materia civile. E si è giunti alla condivisibile conclusione che la
retroattività delle norme di legge civili, allorché non consenta più
di guidare i comportamenti dei soggetti verso fini individualmente
programmati sulla base della normativa esistente al momento della
definizione della volontà di ciascuno, ripropone le medesime ragioni
che sorreggono il divieto costituzionale di norme retroattive in
materia penale.
La retroattività di una norma di legge, infatti,
qualsiasi sia l’ambito in cui essa produca efficacia, se incide
sulla possibilità di programmare e di prevedere ragionevolmente gli
effetti dell’agire di ciascuno, alterando il rapporto fra
determinazione della volontà individuale e capacità di avere
anticipata consapevolezza degli effetti che quella volontà e
quell’agire produrranno nell’ordinamento giuridico, avrà come
inevitabile effetto quello di conculcare la libertà individuale. Di
tal che essa non potrà che essere giudicata irrazionale,
inefficiente e, in definitiva, incostituzionale[15].
Le predette
riflessioni critiche della dottrina sembrano meritevoli di
adesione.
Su un piano squisitamente positivo ci pare colgano nel
segno i riferimenti a quelle disposizioni costituzionali che
valorizzano, in particolare, la libertà e la capacità di
autodeterminazione di ciascuno, oltre che la tutela del risparmio,
la libertà di iniziativa e di programmazione economica.
Ma ancora
più qualificante appare il riferimento all’inviolabilità del diritto
a potere fare affidamento sugli effetti giuridici favorevoli
prodottisi in seguito a fatti posti in essere proprio in ragione
delle conseguenze giuridiche che l’ordinamento aveva promesso di
riconoscere loro. Non si può disconoscere l’esattezza della
connessione individuata fra la produzione di effetti giuridici
limitativi, successiva all’efficacia retroattiva delle norme di
legge, e la violazione della libertà individuale. Se la libertà è la
capacità di scegliere consapevolmente le conseguenze della
manifestazione della propria volontà e delle azioni ad essa
connesse, si deve concludere che non vi è libertà quante volte le
conseguenze delle nostre azioni siano rimesse non già al nostro
volere, bensì all’arbitrio di chi ha il potere di mutarne la
qualificazione giuridica[16].
Che questo elementare principio di
razionalità giuridica non sia codificato o comunque desumibile dalle
norme costituzionali vigenti appare veramente difficile da
argomentare. Si potrà, al più, sostenere che esistono valori
costituzionali (ad esempio la solidarietà) per tutelare i quali
possa essere necessario limitare (ma mai sopprimere) la forza
espansiva della libertà personale.
4. Osservazioni in
merito all’orientamento della Corte costituzionale. La posizione
della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo.
La posizione della Corte
costituzionale italiana non appare, tuttavia, del tutto concorde con
quanto siamo venuti sin qui dicendo[17].
A dire il vero, alcune
affermazioni della Consulta sembrano seguire l’indirizzo
interpretativo che riconosce dignità costituzionale al principio di
irretroattività delle disposizioni di legge tributarie, nel momento
in cui si è ritenuto che «anche al di fuori della materia penale,
l’emanazione di una legge retroattiva, e in particolare di una legge
finanziaria retroattiva, può rivelarsi in contrasto con qualche
specifico principio o precetto costituzionale (sentenza n. 118/1957;
n. 81 del 1958). Quanto all’art. 53 della Costituzione, la Corte ha
affermato che una legge tributaria retroattiva non comporta per se
stessa la violazione del principio di capacità contributiva e ha
successivamente precisato che deve essere verificato di volta in
volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa, con
l’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione
passati, …abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra
imposizione e capacità contributiva e abbia così violato il precetto
costituzionale»[18].
Sempre il Giudice delle leggi, poi, ha
anche affermato che: «Né può omettersi di rilevare che
l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro
ordinamento e, se pur non elevato fuori della materia penale, a
dignità costituzionale, rappresenta pur sempre una regola essenziale
del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il
legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza
dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile
convivenza e della tranquillità dei cittadini»[19].
Ma, ad un
più attento esame, la posizione della Corte costituzionale italiana
appare meno solida di quanto possa sembrare in materia di tutela
dell’affidamento e di divieto di leggi tributarie retroattive, sol
che si consideri che ancora di recente essa ha ribadito che il
principio di irretroattività della legge assume dignità
costituzionale esclusivamente per la materia penale in virtù
dell’art. 25 Cost., mentre per gli altri ambiti, tributario
compreso, l’interesse alla retroattività deve essere confrontato e
bilanciato con il canone della ragionevolezza e con ulteriori valori
ed interessi costituzionalmente protetti[20].
Questa ultima presa
di posizione della Corte, però, sembra mal celare, in realtà, la
ritrosia a volere affermare esplicitamente ciò che comunque pare
desumibile dall’iter argomentativo della sentenza.
Il
principio di divieto di retroattività della legislazione tributaria
non assurge, secondo la Consulta, a rango costituzionale, tuttavia,
è necessario che la retroattività «trovi adeguata giustificazione
sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed
interessi costituzionalmente protetti». Ma i valori o i principi
costituzionali che non consentono alla retroattività di essere
costituzionalmente coerente, allorché questa produca l’effetto di
limitarli oltremodo, indirettamente sembrano assegnare dignità
costituzionale all’opposto principio di irretroattività della legge.
In altre parole, ciò che la Corte ha detto equivale ad
attribuire rilievo costituzionale alla irretroattività tout
court ed a riconoscere, allo stesso tempo, la possibilità che la
necessità di bilanciare la pluralità degli interessi costituzionali,
tutti egualmente degni di essere tutelati, ponga il divieto di
retroattività su un piano che può essere solo occasionalmente
recessivo. Mentre, allora, l’irretroattività in materia penale
rappresenta un principio costituzionale, per così dire, categorico, non soggetto ad alcun bilanciamento,
quella delle altre leggi ordinarie sarebbe, in questa ottica,
anch’esso un principio di rango costituzionale, soggetto, tuttavia,
ad essere adeguatamente bilanciato con altri interessi
costituzionalmente rilevanti.
Suonerebbero, così, coerenti le
affermazione del legislatore dello Statuto del contribuente che
sembrava, infatti, avere affermato che dagli articoli 3, 23, 53 e 97
della Costituzione discendessero tutta una serie di principi di
rango super-primario, fra i quali quello della irretroattività della
legge tributaria.
La necessità di collocare il principio di
irretroattività della legge, ed in particolare di quella tributaria,
al più alto livello della gerarchia delle fonti normative sembra
essere stata accolta anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea.
Da una attenta ricostruzione della giurisprudenza
comunitaria dell’ultimo ventennio emerge la tendenza della Corte ad
assegnare valore preminente tanto al diritto all’affidamento, quanto
all’irretroattività delle legge tributaria. Come sempre, però, anche
in questo caso, alle affermazioni di carattere generale che
sembrerebbero assolutizzare il valore di un principio giuridico si
accompagnano, poi, numerosi tentativi di adeguarne la forza e
l’estensione alle necessità di tenere conto, altresì, di altri e
diversi valori ritenuti anche essi di primaria importanza e che non
possono mai essere del tutto pretermessi.
E, dunque, la
legittimità della retroattività della norma tributaria è
condizionata dalla rilevanza dell’interesse pubblico (anche
contingente) che con essa si intende tutelare, dalla adeguata
motivazione con la quale si dà conto della necessità di utilizzare
la norma retroattiva come unica risorsa idonea alla tutela di
quell’interesse, dalla consistenza dei diritti che l’efficacia di
una tale norma sacrifica e dalla misura di tale
compressione[21].
Ancora una volta, è la necessità di perseguire
un ragionevole bilanciamento fra interessi che non possono che
coesistere armonicamente, a configurare, caso per caso, lo spessore
e la capacità espansiva di un principio giuridico che sembra
collocarsi, comunque, all’apice della gerarchia delle fonti.
A
voler sottolineare, tuttavia, un tratto peculiare della
giurisprudenza comunitaria nella materia che ci occupa possiamo
ricordare una categoria di sentenze della Corte del Lussemburgo che
ritengono violato dalla retroattività delle norme tributarie il
legittimo affidamento e la certezza del diritto tour
court[22].
Ne consegue che la legislazione nazionale
ordinaria che viola il precetto dell’irretroattività dell’efficacia
della norma tributaria ed il conseguente principio del legittimo
affidamento potrebbe porsi in contrasto anche con l’art. 117 Cost.,
primo comma, per violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario per come sono interpretati dalla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea.
E con riferimento ai citati vincoli
derivanti dall’ordinamento internazionale, appare opportuno fare
menzione anche dell’orientamento della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo in materia di irretroattività delle norme tributarie, per
mettere in evidenza due particolari profili[23].
Innanzitutto è
interessante il tentativo della Corte di Strasburgo di ricollegare
l’eventuale illegittimità delle norme tributarie retroattive alla
violazione dell’art. 1 del primo protocollo ed al diritto di
proprietà; v’è poi da notare, però, come anche in ambito CEDU la
retroattività sia giustificata in ragione della tutela di interessi
pubblici particolarmente rilevanti e purché essa non crei un effetto
sorpresa e non risulti una misura manifestamente sproporzionata
rispetto alla cura dell’interesse stesso.
Di tal che si è
concluso che: «Sulla base delle sentenze della Corte europea dei
Diritti dell’Uomo discussi sopra, sembra che la Corte Europea neghi
il diritto ad invocare il principio della non retroattività ogni
qualvolta non crei un effetto sorpresa»[24].
5. La
possibile dignità costituzionale del principio di irretroattività
delle norme tributarie.
Per parte nostra, riteniamo, in
definitiva, di potere affermare, per le motivazioni sopra esposte,
che il divieto di retroattività delle norme tributarie, codificato
esplicitamente dall’articolo 3 della legge n. 212/2000 (c.d. Statuto
del contribuente), non sia esso stesso una semplice norma di rango
ordinario, ma un principio avente dignità costituzionale
direttamente riconducibile agli artt. 1, 2, 3, 23, 41, 42, 47, 53,
97 e 117 Cost.
Tuttavia questa qualificazione e tale collocazione
nella gerarchia delle fonti, secondo la ricostruita interpretazione
offerta in primo luogo dalla Corte costituzionale, dovrebbero essere
precisate meglio al fine di non fraintenderne il significato e,
soprattutto, di non assolutizzarne l’efficacia.
La Consulta
ritiene che l’irretroattività delle norme tributarie rappresenti un
principio giuridico e non già una norma e, seguendo un canone
interpretativo ormai dominante nelle lettura costituzionale, ne fa
discendere il divieto di primazia assoluta. Trattandosi di un
principio, infatti, esso non dovrebbe essere pedissequamente
applicato in presenza della fattispecie che lo prevede, alla stessa
guisa di una norma, ma dovrebbe, invece investire di sé
l’ordinamento giuridico con una intensità ed un grado di efficacia
che dipendono, di volta in volta, dalla necessità di garantire la
coesistenza ad altri principi costituzionali che tutelino ulteriori
interessi giuridici[25].
È opinione del tutto dominante nella
dottrina e nella giurisprudenza costituzionale, infatti, che le
norme si applichino senza eccezione alcuna e che solo per esse si
utilizzino i criteri giuridici di risoluzione delle antinomie, primo
fra tutti quello della gerarchia. Mentre per i principi
costituzionali varrebbe il diverso canone del bilanciamento, secondo
il quale la forza espansiva e di penetrazione di ciascuno di essi
sarebbe condizionato dalle varie e contingenti necessità di
assicurare moderata prevalenza ora all’uno ora all’altro, senza,
tuttavia, comprimere oltremodo il nucleo fondamentale di alcuno. Ne
consegue, e di ciò v’è sovrabbondante conferma in giurisprudenza,
che non esiste alcuna gerarchia di principi costituzionali, ma,
soprattutto, che non è possibile ricostruire una graduazione dei
diritti fondamentali, nessuno dei quali è in definitiva
costantemente prevalente sugli altri[26].
È stato, tuttavia
autorevolmente osservato che una tale idea del costituzionalismo principialista è criticabile sotto almeno due concorrenti
punti di vista[27].
In primo luogo, offusca gravemente la linea
di demarcazione delle attribuzioni dei poteri dello Stato in
considerazione del fatto che l’esatta definizione degli ambiti di
operatività di ciascun principio e diritto costituzionale è rimesso,
in definitiva, alla valutazione discrezionale e contingente degli
organi giurisdizionali e di quelli costituzionali in particolare. È
la Consulta, infatti, che rivendica l’individuazione concreta
dell’esatto equilibrio e della composizione ragionevole fra le varie
esigenze costituzionali[28].
Gli organi rappresentativi, il
Parlamento innanzitutto, vedrebbero, così, snaturata la loro
funzione di mediazione politica attraverso la produzione legislativa
ed assisterebbero passivamente alla traslazione del baricentro della
democrazia dalla rappresentanza alla giurisdizione.
La forza
normativa della Costituzione, poi, verrebbe grandemente ridotta
perché i precetti costituzionali seguirebbero un andamento
altalenante, condizionato dalla singolarità ed unicità della
fattispecie da regolare: «un depotenziamento e virtualmente un
collasso della normatività dei principi costituzionali e una
degradazione dei diritti fondamentali in essi stabiliti a generiche
raccomandazioni di tipo etico-politico».
La
Costituzione rimarrebbe, così, priva della sua forza precettiva,
della sua capacità di conformare le norme legislative
sotto-ordinate: non sarebbe più il «dover essere» in grado di
autorizzare la dichiarazione di illegittimità delle norme invalide e
non rappresenterebbe più il principale canone per la risoluzione
delle antinomie normative[29].
Le osservazioni critiche
sommariamente descritte ci paiono mettere in evidenza alcune
questioni particolarmente interessanti che non meritano di essere
trascurate.
Tralasciando gli aspetti generali della questione,
crediamo di potere affermare, per ciò che riguarda il caso di cui ci
stiamo occupando, che al divieto di retroattività delle norme
tributarie dovrebbe essere riconosciuta una forza precettiva
pressoché cogente. Esso, cioè, seguendo gli schemi argomentativi
della dottrina costituzionale, dovrebbe essere considerato un
principio di rango costituzionale, difficilmente derogabile, poiché
la retroattività si risolve quasi sempre in una compromissione
radicale della libertà personale ed introduce un criterio di
irrazionalità e di arbitrio per lo più ingiustificabile.
E non
ci pare si possa negare la riconducibilità della retroattività delle
norme tributarie al nucleo fondamentale della libertà personale per
il solo fatto che viene in prima battuta in rilievo l’aspetto
economico di essa e non già quello strettamente attinente alla
libertà del proprio corpo, del proprio tempo, di movimento
etc.
Sarebbe sufficiente, infatti, rammentare quanto sosteneva
John Locke nel suo Trattato sul Governo e cioè che il frutto del
lavoro ed il risparmio rappresentano proprietà inviolabili della
persona perché diretta espressione della appartenenza d’essa
esclusivamente a se medesima![30]
Così come non potrebbe
disconoscersi l’origine risalente del principio di irretroattività
della legge tributaria all’antico brocardo latino «Nulla poena
sine lege previa, nullum tributum sine lege previa».
Non
sembra ridondante, così, in presenza di provvedimenti legislativi
come quelli qui in commento, ricordare che, unitamente alla materia
penale, quella tributaria rappresenta l’ambito all’interno del quale
meglio si apprezza la natura della forma di Stato, in ultimo, il
rapporto fra l’autorità e la libertà, fra il potere e l’individuo.
E, conseguentemente, non può che ribadirsi come la legislazione
tributaria incida profondamente sulla tutela dei diritti
fondamentali. Sulla libertà di autodeterminazione e sulla libertà
personale, in primo luogo, sulla capacità cioè di scegliere
consapevolmente gli effetti e le conseguenze delle proprie azioni; e
sul diritto di proprietà che subisce grave violazione quando i suoi
oggetti (beni mobili, immobili, denaro, crediti, etc.) vengono
sottratti al legittimo titolare in virtù di una disposizione
imprevista ed imprevedibile.
In definitiva, le ragioni del
dissenso sulle modalità attraverso le quali la Corte costituzionale,
la Corte del Lussemburgo e quella di Strasburgo rendono vivente il principio di irretroattività delle norme
tributarie, oltre e più che intorno alla sua collocazione
all’interno della gerarchia delle fonti, risiedono nella spazio
concesso di volta in volta ai contro-interessi pubblici che
legittimerebbero la sua deroga.
È evidente che una presa di
posizione teorica irrimediabilmente rigida rischierebbe di
compromettere del tutto le ragioni pratiche del bilanciamento
e condurrebbe alla sconsigliabile accettazione dell’altro brocardo
latino «Fiat iustitia, pereat mundus». Affinché, tuttavia,
non perisca il mondo, occorrerebbe innanzitutto che i sacrifici dei
diritti fondamentali siano richiesti solo quando esso sia in serio e
concreto pericolo.
E dunque, fuor di metafora, quando lo
spessore dell’interesse pubblico sotteso alla retroattività,
l’eccezionalità e l’imprevedibilità delle evenienze che la
giustifichino ed il rango dei diritti individuali compromessi dalla
sua assenza si facciano apprezzare, ictu oculi, in tutta la
loro dimensione e senza dubbio alcuno.
Lo scetticismo è
alimentato dalla consapevolezza dell’esistenza di più d’un
precedente giurisprudenziale in occasione del quale la Corte
costituzionale ha ritenuto costituzionalmente compatibile la
retroattività di norme tributarie con una decorrenza, ad esempio,
addirittura di tre anni precedente la data di istituzione del nuovo
tributo[31]; di tal che nei fatti la Consulta ha quasi sempre
ammesso la retroattività delle norme tributarie, con poche eccezioni
caratterizzate, per fare ancora un esempio, da una retroattività
pressoché decennale[32].
6. Considerazioni conclusive sul
contributo di solidarietà.
Volendo, tuttavia, considerare
condivisibili gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale
sopra esposti, appare opportuno verificare se la retroattività
parziale di cui all’art. 2 del decreto-legge del 13 agosto possa
ritenersi ragionevole in considerazione degli interessi che con essa
si intendono tutelare, della loro consistenza, del rango dei diritti
che essa comprime e della sua idoneità a soddisfare gli obiettivi in
vista dei quali è stata normativamente imposta.
Vogliamo,
innanzitutto, prendere le mosse dalla definizione di contributo di
solidarietà.
Come è stato notato appena alcuni giorni dopo la
pubblicazione del decreto-legge, l’utilizzo del termine contributo è improprio, in quanto a fronte del prelievo
forzoso non vi è in realtà alcuna controprestazione; questa ultima,
invece, rappresenta l’elemento qualificante per potere definire
un’imposizione tributaria nei termini utilizzati con la decretazione
d’urgenza[33].
Il richiamo, poi, alla solidarietà sembrerebbe
inscrivere l’azione del legislatore all’interno di una logica c.d. redistributiva, volta alla soddisfazione, cioè, di bisogni
primari di altri concittadini ed il sacrificio contributivo (anche
se retroattivo) sarebbe così imposto in virtù dell’adempimento degli
inderogabili doveri di solidarietà sociale.
L’invocazione della
solidarietà, tuttavia, rischia di apparire inappropriato ed
irragionevole e sembra svolgere l’unica funzione di individuare un
interesse costituzionale da opporre solo formalmente alla
compressione della libertà personale.
Ed infatti, il contributo
non viene chiesto per fare fronte ad un qualche evento (magari
imprevedibile) che ha inciso profondamente sulla situazione
economica e sociale di una ben individuata categoria di soggetti, ma
serve (sono parole del legislatore) «in considerazione della
eccezionalità della situazione economica internazionale ed in
considerazione delle esigenze prioritarie di finanza pubblica
concordate in sede europea».
Si tratta, in sostanza, di
provvedere al risanamento del bilancio statale al fine di ridurre il
debito pubblico; un obiettivo, com’è facile intuire, che è del tutto
estraneo ad una logica di solidarietà (e in special modo ad una
logica di solidarietà eccezionale) e che si inscrive, invece, in una
politica di ordinaria imposizione tributaria.
Non sembra
ragionevole, ancora, qualificare come imprevedibili tanto la
situazione economica internazionale quanto le esigenze di finanza
pubblica. Delle seconde si può sicuramente dire che sono note in
tutta la loro drammaticità da più di un decennio e che avrebbero
meritato un intervento programmato in grado di svilupparsi nel corso
degli anni, che avrebbe consentito a ciascuno di esercitare la
propria libertà sotto leggi finanziarie chiare e certe. Ed un
bilancio strutturalmente non deficitario avrebbe radicalmente
ridimensionato l’eccezionalità della situazione economica
internazionale sino a renderla del tutto ordinaria e priva di seri
pericoli[34].
Infine, non appare fondato sostenere che la misura
del contributo di solidarietà valga a soddisfare in radice le
esigenze di finanza pubblica e quindi, sotto questo punto di vista,
che sia proporzionato e ragionevole rispetto alla natura ed alle
dimensioni del problema da risolvere.
Sebbene si debba essere
consapevoli del fatto che su questo crinale ci si addentri
nell’ambito delle considerazioni di politica finanziaria e di
bilancio, che sicuramente meritano ben altro approfondimento, non si
può omettere di considerare l’evidente inidoneità di una misura
contingente e quantitativamente modesta, qual è il contributo di
solidarietà (previsto solo per il triennio 2011-2013), a risolvere
un deficit strutturale che, per giudizio unanime della
dottrina e della giurisprudenza contabile, richiederebbe modifiche
organiche di ben altra natura (si pensi alle pensioni), idonee, esse
sole, a ridisegnare radicalmente il volto del bilancio statale ed a
porre fine alle emergenze speculative ed alle esigenze di finanza
pubblica.
Anche sotto quest’ultimo profilo, dunque la norma
tributaria retroattiva si palesa irragionevole perché non adeguata
rispetto all’obiettivo che vuole raggiungere e quindi inutilmente
limitativa della libertà personale.
Rimane, invece, la
considerazione che il legislatore (almeno per ora quello
dell’urgenza ex art. 77 Cost.), dopo che sono trascorsi i due
terzi dell’anno fiscale nel corso dei quali ciascun
contribuente-cittadino ha agito e programmato le proprie attività
economiche in vista di una tassazione previamente conosciuta, ha
introdotto, per mere esigenze di cassa, un ulteriore onere
tributario retroattivo. Non possono essere trascurate le evidenti
conseguenze in termini di compromissione della libertà personale, di
affievolimento della certezza del diritto e di violazione del
diritto all’affidamento[35]; lesioni che rendono il provvedimento
del Governo difficilmente giustificabile sul piano del diritto
positivo e della razionalità giuridica.
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[1] Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico
nell’Università degli studi di Catania.
[2] Il decreto-legge è
stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 188 del 13 agosto 2011.
Nel momento in cui si scrive pare sia stato raggiunto l’accordo tra
le forze politiche di maggioranza per la parziale soppressione del
contributo di solidarietà. Così si legge nel comunicato del Governo
del 29 agosto 2011: «La riunione di maggioranza presieduta dal
Presidente Silvio Berlusconi si è conclusa con le seguenti unanimi
determinazioni:…
- sostituzione del contributo di
solidarietà con nuove misure fiscali finalizzate a eliminare l’abuso
di intestazioni e interposizioni patrimoniali elusive nonché
riduzione delle misure di vantaggio fiscale alle società
cooperative;
- contributo di solidarietà a carico dei
membri del parlamento;» in www.governo.it.
[3] L’art.
3 della legge n. 212 del 2000 stabilisce che: «Salvo quanto
disposto dall’art. 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno
effetto retroattivo».
[4] Il comma 1 dell’art. 2 del
decreto-legge in parola statuisce che: «In considerazione della
eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto
conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi
di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 2011
e fino al 2013, in deroga all’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n.
212, sul reddito complessivo di cui all’art. 8 del testo unico delle
imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di
importo superiore a 90.000 euro lordi annui, è dovuto un contributo
di solidarietà del 5% sulla parte eccedente il predetto importo fino
a 150.000 euro, nonché del 10 per cento sulla parte eccedente
150.000 euro».
[5] G. Marongiu, Sulla legittimità
costituzionale delle norme tributarie retroattive, in Rivista
di diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pag.72. Nello
stesso senso A. Amatucci, Il divieto di retroattività in materia
tributaria. Nuovi orientamenti in ambito nazionale e comunitario.
Conclusioni, in Rivista di diritto tributario
internazionale, 2009, n. 3, pag. 201. L’Autore correttamente
ritiene che: «Una legge, che aggravi l’imposizione sul reddito e
che sia pubblicata nel corso dell’anno ma che consideri imponibile
tutto il reddito formato in quell’anno, è parzialmente retroattiva,
perché è pubblicata allorché la formazione del presupposto non si è
ancora esaurita. Infatti, una parte del reddito è stata già
prodotta, allorché il contribuente nel corso dell’anno apprende che
è modificata la legge con decorrenza dall’inizio dello stesso anno.
Anche se con intensità minore, questa forma di parziale
retroattività lede le garanzie costituzionali esaminate, in quanto
impegna comunque la parte del presupposto non ancora
realizzata».
[6] La norma richiamata dispone che:
«Non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi
tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre
categorie di soggetti». A ciò si aggiunga che perfino le norme
interpretative, secondo l’art. 1, comma 2, dello Statuto, possono
essere adottate solo in casi eccezionali e comunque con legge
ordinaria.
[7] Ancor prima della sua elaborazione si è discusso
in dottrina della necessità di assicurare ai principi fondamentali
poi introdotti con lo Statuto del contribuente il rango di norme
costituzionali per il tramite di un legge approvata ex art.
138 Cost. Per tali osservazioni si veda G. Marongiu, (Voce) Statuto del contribuente, in Dizionario di diritto
pubblico, diretto da S. Cassese, Vol. VI, Giuffrè, 2006, pagg.
5763 e ss.
[8] Si è ritenuto che «l’intervento per principi
non si traduce in un mero manifesto di buone intenzioni; essi,
infatti, devono essere letti congiuntamente con la clausola di auto
qualificazione di cui all’art. 1, comma 1, che esprime la funzione
attuativa di determinate disposizioni della Costituzione (artt. 3,
23, 53 e 97)». Con la conclusione che: «le disposizioni dello
Statuto, in quanto dichiarate principi generali, assumono una
particolare collocazione nella gerarchia delle fonti del diritto. È
ben vero che le disposizioni speciali possono derogare a quelle
generali di principio ma è altrettanto vero che la specialità della
legge derogativa dei principi deve essere in qualche modo
giustificata sulla base di esigenze particolari e che, inoltre, i
principi forniscono la chiave interpretativa delle disposizioni
speciali, le quali, per quanto possibile, devono essere conformate
ai principi» G. Marongiu, Lo statuto del contribuente e i
vincoli al legislatore, in Il fisco, 2008, 46, pagg. 8271
e ss. Si vedano anche le affermazioni di A. Amatucci, in Il divieto di retroattività in materia tributaria. Cit., pag.
202, ove si afferma che: «Lo Statuto si colloca in una posizione
di preminenza rispetto ad altre fonti del medesimo livello sul piano
gerarchico, allorché riesce ad esprimere correttamente principi
costituzionali fondamentali. Lo Statuto, in quanto estrinsecazione
di tali principi, è «rinforzato» dalla Costituzione e non dal
proprio art. 1, il quale stabilisce che lo stesso Statuto può essere
modificato solo espressamente e non con una legge speciale. Esiste
una gerarchia strutturale tra le norme, di pari livello, tra le
quali si collocano le norme di secondo grado che talvolta
disciplinano l’applicazione e la vigenza di altre leggi, prevalendo
su queste».
[9] Cass. civ., Sez. V, 10.12.2002, sentenza n.
17576, in Foro It. 2003, 1, 1104. Vedi anche Corte di
Cassazione, Sez. V, 14.04.2004, sentenza n. 7080, in Dir. e Prat.
Trib., 2004, 2, 847, con nota di De Mita.
[10] Corte di
Cassazione, Sez. V, 14.04.2004, sentenza n. 7080/2004, in Dir. e
Prat. Trib., 2004, 2, 847, con nota di De Mita.
[11] Corte
Costituzionale, sentenza 27.02.2009, n. 58, in Corriere
Trib., 2009, 14, 1102, con nota di Basilavecchia e Marongiu.
Nella sentenza si legge che «…come più volte affermato da questa
Corte, non esiste un principio di irretroattività della legge
tributaria fondato sull'evocato parametro, né hanno rango
costituzionale - neppure come norme interposte - le previsioni della
legge n. 212 del 2000 (ordinanze n. 41 del 2008, n. 180 del 2007 e
n. 428 del 2006)».
[12] Cass. civ., Sez. V, sentenza
10.12.2002, n. 17576, in Foro It. 2003, 1, 1104.
[13] Si
consideri, ad esempio, quanto la Corte costituzionale ha affermato
nella sentenza n. 80/2010 in materia di attuazione dei diritti
costituzionalmente garantiti degli alunni disabili. Com’è noto la
legge n. 104/1992 rappresenta diretta attuazione dei precetti
costituzionali che tutelano i diritti inviolabili delle persone
disabili; l’art. 40 della legge n. 449/1997 completa tale attuazione
prevedendo un’assistenza particolare per gli alunni disabili,
consentendosi all’amministrazione scolastica di assumere insegnanti
di sostegno in deroga all’ordinario rapporto docenti-alunni.
Allorché il legislatore ha introdotto, per ragioni di contenimento
della spesa pubblica, una norma che ha soppresso tale forma
ulteriore di tutela la Corte costituzionale l’ha ritenuta
incostituzionale perché la norma soppressa rappresenta diretta
attuazione di disposizioni costituzionali (nello specifico, art. 2,
3, 35 e 38 Cost.). Vedi C. Ciano, Il contenuto essenziale del
diritto all'istruzione dell'alunno disabile: cancellate le
limitazioni per gli insegnanti di sostegno, in www.
giustamm.it, aprile 2011.
[14] M. Luciani, Il
dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del
diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi
di incentivazione economica, (prima parte), in Giurisprudenza
Italiana, 2007, pag. 1825 e ss. L’autore precisa che: «La
tutela dell’affidamento deve essere ancorata alle singole previsioni
costituzionali, che tipizzano quella tutela per ogni singolo diritto
fondamentale in rapporto ai suoi limiti specifici. Una volta che si
operi tale ancoraggio, non ha più molto senso ipotizzare l’esistenza
di un diritto all’affidamento garantito in via generale
dall’ordinamento, dovendosi semmai parlare di profili di affidamento
connessi a ciascun diritto fondamentale, che esigono tutele
differenziate per misura e modo, proprio in ragione del diritto in
considerazione. In altri termini…vi sono robusti dati costituzionali
che indicano come tra le garanzie dei singoli diritto fondamentali
sia inclusa (in forme e gradi diversi) anche quella dell’affidamento
nella stabilità della situazione normativa in essere, se funzionale
al godimento di quei diritti» M. Luciani, cit., pagg.
1938-1939.
[15] «Essendo specifica funzione delle norme
qualificare fatti e così guidare comportamenti, ciascuno agendo fida
che la sua azione varrà in base alla regola di cui tiene conto, ed è
irrazionale qualificare i comportamenti pregressi secondo norme che
non hanno potuto guidarli. Si apre dunque un’alternativa: che la
norma retroattiva intervenga solo sui fatti rispetto ai quali un
comportamento deve ancora essere adottato ovvero che intervenga su
fatti rispetto ai quali un comportamento è già stato adottato. Nel
primo caso la retroattività non preclude al soggetto di determinare
il proprio comportamento sulla base della consapevolezza del suo
valore giuridico e l’applicazione della legge retroattiva conduce
pur sempre ad attribuire all’atto consapevole un valore congruente
al suo effettivo senso. Nel secondo caso invece, non avendo il
soggetto determinato il proprio comportamento sulla base della
consapevolezza del valore giuridico che ora gli si attribuisce, la
retroattività provoca un’applicazione della legge retrospettiva
incongruente al senso dell’atto che essa regola… Le conseguenze
sfavorevoli non possono trovare applicazione se non sulla base di
libere scelte consapevoli dell’interessato. Che non può vedersi
privato di un diritto o gravato di un obbligo in base a
comportamenti commissivi o omissivi che ha adottato quando non
poteva calcolare il valore giuridico che la norma retroattiva a
posteriori attribuisce loro. La norma retroattiva è dunque in parte
necessariamente difettosa; estendendo al passato il proprio vigore
si pone nelle condizioni di funzionare solo in parte. Il valore che
assume riesce a guidare efficacemente il comportamento coevo ma non
quello antecedente. Può costruire nel passato un fondamento fittizio
per legittima la realtà attuale, come quegli antichi storici
norvegesi che per legittimare la successione della nuova monarchia
inventarono risalenti genealogie di re; ma non può suscitare una
realtà corrispondente, perché non può con la valutazione di ora
guidare i comportamenti di allora, e dunque non può stabilirne
razionalmente il valore, perché non è frutto di libera scelta… La
razionalità limitata della norma retrospettiva diventa così
irragionevolezza. Ogni norma, anche retroattiva, non dispone
efficacemente che per l’avvenire. Può ricorrere al’effetto
retroattivo per aggiustare il presente. Se invece vuole qualificare
comportamenti che non ha potuto a guidare è condannata
all’inefficienza. E’ infatti inefficiente e perciò irragionevole
applicare a comportamenti precedenti alla sua entrata in vigore una
nuova disposizione, perché il presupposto della sua applicazione
razionale è che un comportamento sia adottato liberamente con la
coscienza del senso che la norma gli attribuirà. E questo ovviamente
non si da quando la norma vi sopravviene. In tal caso infatti è
conculcata una libertà» A. Gentili, Sulla
retroattività delle leggi civili, in Rivista di diritto
civile, 2007, pagg. 793-795.
[16] Riprendiamo un esempio
concreto suggerito da autorevole dottrina al fine di sperimentare
direttamente le conseguenze della norma tributaria retroattiva:
«Un venditore che il 20 aprile dell’anno 2001 stipula un
contratto di compravendita di una merce concordando la forma e il
prezzo, deve già sapere il 20 aprile 2001 e non invece il 31
dicembre 2001, l’entità dell’imposta sul reddito e dell’imposta sul
valore aggiunto che graveranno per effetto del contratto
concluso» G. Marongiu, Sulla legittimità
costituzionale delle norme tributarie retroattive, in Rivista
di diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pag. 71.
[17] Per una ricostruzione dei differenti orientamenti della
Corte di Cassazione e della Corte costituzionale in materia di
vigenza del diritto all’affidamento e del divieto di retroattività
delle leggi tributarie si veda M. Villani, Principio
dell’affidamento: tra normativa tributaria e normativa
comunitaria, in www.legali.com. Vedi anche G. Rebecca, Retroattività delle norme tributarie nella giurisprudenza della
Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, in Il
Fisco, 2007, n. 21, pagg. 3125 e ss.
[18] Corte
Costituzionale, sentenza 4 maggio 1966, n. 44; si veda anche la
sentenza n. 236 del 10 giugno 1994 ove si afferma esplicitamente che
«la retroattività di disposizioni tributarie è preclusa dall’art.
53 quando essa finisca per gravare il soggetto d’imposta per una
capacità contributiva non più esistente al momento
dell’imposizione».
[19] Corte Costituzionale, sentenza 4
aprile 1990, n. 155.
[20] Corte Costituzionale, sentenza 28
marzo 2008, n. 74, in Foro It., 2008, 9, 1, 2411, ove si
afferma «Questa Corte ha avuto modo di affermare, in più di
un’occasione (da ultimo, sentenza n. 234 del 2007), che non è
decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere
effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva) ovvero sia
innovativa con efficacia retroattiva, trattandosi in entrambi i casi
di accertare se la retroattività della legge, il cui divieto non è
stato elevato a dignità costituzionale, salvo che per la materia
penale, trovi adeguata giustificazione sul piano della
ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi
costituzionalmente protetti».
[21] Per una approfondita
ricostruzione degli orientamenti della Corte di giustizia europea in
materia di legittimo affidamento e di retroattività delle
disposizioni comunitarie e nazionali in materia tributaria si veda
S. Antoniazzi, Recenti conferme della Corte di giustizia circa la
ricostruzione di un principio fondamentale di tutela
dell’affidamento nell’ordinamento comunitario», in Rivista
Italiana di diritto pubblico comparato, 2002, pagg. 1130 e ss.
Rilevanti, ai nostri fini, appaiono le seguenti considerazioni:
«Per una significativa ricostruzione dell’affidamento, è di
importanza prioritaria la questione dell’irretroattività degli atti
normativi emanati dalle istituzioni della Comunità e delle sentenze
dei giudici comunitari, in quanto taluni soggetti interessati,
considerando l’esistenza di determinate norme e facendo affidamento
sulla loro persistenza, possono assumere impegni di carattere
economico di certo pregiudicati dal mutamento della disciplina
giuridica. L’esame della giurisprudenza comunitaria, anche
risalente, evidenzia una frequente considerazione dell’ipotesi di
modifica di rapporti sorti sulla base dell’affidamento prima
delineato, alla luce di una valutazione dei contrapposti interessi;
anche qualora prevalga la tutela dell’interesse pubblico, si
configura la tutela dell’affidamento secondo determinati
presupposti. Si prospetta in modo problematico la disciplina di
situazioni intertemporali conseguenti all’ipotesi in cui una nuova
norma, pur avendo un’efficacia ex nunc, disciplini situazioni
giuridiche ancora pendenti, ma sorte sotto il vigore della normativa
precedente; peraltro, sebbene si rilevino esigenze di tutela
dell’affidamento, si sottolinea che la Corte ha più volte affermato
che il diritto comunitario non esclude in senso assoluto
l’ammissibilità di una disciplina retroattiva. Occorre comunque
richiamare la regola, ormai consolidata a seguito di una certa
evoluzione, secondo cui le leggi modificative di una disposizione
legislativa sono applicabili, salva un’espressa deroga, agli effetti
futuri di situazioni verificatesi in vigenza della disciplina
previgente; in relazione a ciò la Corte ha più volte ribadito che il
principio dell’affidamento si pone come limite all’efficacia
immediata della normativa comunitaria» pagg. 1144-1145.
[22]
Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sezione V, sentenza 11
luglio 2002, in causa C – 62/00; Marcks & Spencer c.
Commissioners of Customs & Excise, in Rivista Italiana di
diritto pubblico comparato, 2002, pag. 1122.
[23] Per una
ricostruzione su tale argomento si veda J. Malherbe e P. Daenen, La retroattività delle norme tributarie interne e la
giurisprudenza in materia fiscale della Corte di Giustizia Europea.
La Prospettiva Belga e il contesto europeo, in Rivista di
diritto tributario internazionale, 2009, n. 3, pagg. 35 e ss.
[24] J. Malherbe e P. Daenen, La retroattività delle norme
tributarie interne e la giurisprudenza in materia fiscale della
Corte di Giustizia Europea. Cit., pag. 50.
[25]
«L’elemento decisivo su cui si basa la distinzione tra regole e
principi e che mentre le regole sono norme che possno solo essere
osservate e violate, i principi sono norme che comandano che si
realizzi qualcosa nella misura del possibile, cioè tenuto conto di
ciò che è fattualmente e giuridicamente possibile» R. Alexi, Teoria de los derechos fundamentales, par. 2, pagg. 86-87.
Nello stesso senso R. Dworkin, in I diritti presi sul serio,
a cura di G. Rebuffa, Bologna, 1982, pagg. 93-95, afferma che «La
differenza tra principi giuridici e regole è di carattere logico.
Gli uni e le altre orientano a particolari decisioni, ma
differiscono per il carattere dell’orientamento che suggeriscono. Le
regole sono applicabili nella forma del tutto o niente. Se si danno
i fatti stabiliti da una regola, allora si determinano le
conseguenze per essi predisposte. I principi, invece, esprimono una
ragione che spinge in una direzione, ma che non necessita di una
particolare decisione».
[26] E’ stato, infatti, sostenuto
che «nessun diritto è illimitato, nessun interesse è senza
peso…», R. Bin, in Capire la Costituzione, Laterza, 2008,
pag. 59.
[27] L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista
e costituzionalismo garantista, in Giurisprudenza
costituzionale, 2010, pag. 2771 e ss.
[28] «L’idea che I
principi costituzionali sono sempre oggetto di ponderazione anziché
di applicazione, o peggio che possono essere ponderati con principi
morali inventati dai giudici, genera evidentemente un pericolo, del
quale non sempre i suoi sostenitori sembrano consapevoli, per
l’indipendenza della giurisdizione e per la sua legittimazione
politica. Se infatti si sostiene che i giudici non devono limitarsi
a interpretare le norme di diritto positivo ma sono abilitati a
crearle essi stessi, sia pure attraverso il bilanciamento dei
principi, allora viene minata la separazione dei poteri. E in tempi
come gli attuali – di crescente tensione tra potere politico e
potere giudiziario e di insofferenza del primo per i controlli di
legalità esercitati dal secondo – la teorizzazione di una simile
potestà normativa dei giudici rischi di offrire un potente argomento
a sostegno della loro investitura politica, tramite la loro
elezione, o peggio la loro collocazione alle dipendenze dal potere
esecutivo» L. Ferrajoli, Costituzionalismo
principialista e costituzionalismo garantista, cit., 2806.
[29] «Il costituzionalismo principialista, non diversamente
dal realismo e dal neopandettismo, comporta dunque un
depotenziomento e virtualmente un collasso della normativa dei
principi costituzionali e una degradazione dei diritti fondamentali
in essi stabiliti a generiche raccomandazioni di tipo etico -
politico. Sovverte la gerarchia delle fonti affidando la scelta di
attuare questa anziché quella norma costituzionale al bilanciamento
legislativo e a quello giudiziario e perciò alla discrezionalità
potestativa del legislatore ordinario e dei giudici
costituzionali…Con il risultato paradossale che l’esperienza
giuridica più avanzata della modernità, rappresentata dalla
positivizzazione del «dover essere» del diritto e dalla soggezione a
limiti e a vincoli giuridici di qualunque potere, viene interpretata
come una sorta di regressione al diritto giurisprudenziale e
dottrinario premoderno» L. Ferrajoli, Costituzionalismo
principialista e costituzionalismo garantista, cit., 2816.
[30] «Benché la terra e tutte le creature inferiori siano
comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della
sua persona; su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui.
Il lavoro del suo copro e l’opera delle sue mani, possiamo dire,
sono propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato
in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro
e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria.
Togliendo quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura lo
ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che esclude il
comune diritto degli altri uomini. Tale lavoro essendo infatti
indiscutibile proprietà del lavoratore, nessun altro che lui può
aver diritti a ciò cui esso è stato incorporato, almeno là dove
avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti ed
altrettanto buoni» J. Locke, Trattato sul governo,
Editori riuniti, 1974, pag. 23.
[31] Sentenza Corte
Costituzionale n. 415/1994.
[32] Sentenza della Corte
Costituzionale n. 44 del 04.05.1966. Per una disamina dei casi
all’esame della Corte Costituzionale in materia di retroattività
delle norme tributarie si veda G. Rebecca, Retroattività delle
norme tributarie nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e
della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2007, n. 21,
pagg. 3125 e ss.
[33] Si veda P. Selicato, Il contributo di
solidarietà: profili di illegittimità e possibili correttivi, in www. Federalismi.it, agosto 2011. L’Autore sottolinea,
inoltre, come il contributo di solidarietà presenti ulteriori
profili di illegittimità con particolare riferimento alla
individuazione della capacità contributiva. Da un alto, infatti,
«la disciplina del nuovo contributo va attentamente considerata
sotto il profilo della legittimità costituzionale in rapporto al
problema dei nuclei familiari monoreddito… In questo caso,
infatti, la più intensa solidarietà richiesta a titolo straordinario
ai contribuenti più abbienti potrebbe restare priva del suo presupposto laddove si tenesse conto delle profonde differenze in
termini di capacità contributiva che esistono tra soggetti titolari
di redditi di pari ammontare ma con una diversa composizione del
nucleo familiare e con una diversa distribuzione del reddito della
famiglia tra i soggetti che la compongono». Dall’altro, «il
profilo di maggiore criticità del nuovo prelievo è senz’altro quello
attinente alla eccessiva ristrettezza dell’indice di ricchezza
assunto a base imponibile, non solo (e non tanto) sul piano
quantitativo ma anche (e soprattutto) su quello qualitativo… Pare,
invero, che per ottenere, sia pure indirettamente, il risultato
immediato di assoggettare al contributo straordinario la ricchezza
accumulata (anche) attraverso l’evasione e distribuire in modo più
equo tra i consociati il relativo onere, sarebbe oltremodo
auspicabile l’introduzione (a fianco o in sostituzione
dell’imposizione sui redditi di maggiori dimensioni) di un prelievo
straordinario sul patrimonio. Il carattere patrimoniale sarebbe, tra
l’altro, più aderente con le finalità straordinarie cui sarebbe
destinato il relativo gettito».
[34] Vogliamo qui riportare
un breve passo del discorso del Presidente della Repubblica del 21
agosto 2011 al Meeting per l’amicizia dei popoli a conferma della
odierna consapevolezza della mancata programmazione in materia di
finanza pubblica degli ultimi anni: «Nel messaggio di fine anno
2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si
propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi
- riecheggiando le famose parole del Presidente Roosvelt, appena
eletto nel 1932 - «l’unica cosa di cui aver paura è la paura
stessa». Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi,
bisogna parlare - e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai
giovani - il linguaggio della verità: perché esso «non induce al
pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza».
Abbiamo, noi qui, parlato in questi tre anni il linguaggio della
verità? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi, che abbiamo
responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei
rapporti con le giovani generazioni?... Le difficoltà sono serie,
complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno
della nostra storia unitaria e anche, più specificamente,
repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in
questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava
affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e
sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo
guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in
Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente
liberarsi da approcci angusti e strumentali. Possibile che si sia
esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la
gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e
di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la
validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni
propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea?
Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità
della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni
e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si
regge?», in www.quirinale.it.
[35] Si veda G.
Grasso, L’affidamento quale principio generale del diritto,
in www.giustamm.it, agosto 2011.
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(pubblicato il
31.8.2011)
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