1. Prologo
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Chi ancora spera che il parlamento approvi la legge di principi in materia di governo del territorio ai sensi dell’art. 117 3 co. Cost. per adeguare la disciplina di conformazione dei suoli alle nuove e sopravvenienti esigenze dell’economia e della società dovrà ancora una volta rassegnarsi. Il Decreto legge n.70/2011 conv. nella l. 106 costituisce uno dei tanti esempi di decretazione d’urgenza o di disposizioni legislative “intruse” in provvedimenti normativi di tutt’altro carattere destinati a regolare disordinatamente la disciplina urbanistica e dell’edilizia: così è stato per la legge finanziaria per il 2008 - l.244/07 - che ha introdotto all’art. 1 co. 258, 259 il modello perequativo parziale o a posteriori finalizzato alla copertura in parte qua del fabbisogno abitativo da destinare all’edilizia sociale, così è accaduto per l’introduzione della DIA per opere edilizie minori con decreti legge più volte reiterati, poi recepita nella legge finanziaria per il 1997 n.662/96. Ma vi è dippiù poiché oggi una legge di principi rischierebbe di rivelarsi addirittura inopportuna a fronte di norme di dettaglio e di norme di principio già introdotte surrettiziamente che ormai pervadono i contenuti della legislazione regionale che spesso anticipa ciò che il legislatore “occasionale” prova a generalizzare su tutto il territorio nazionale.
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La ragione dello stallo risiede nel fatto che non si tratta solo di ordinare sul territorio gli interessi pubblici e privati attraverso la conformazione dei suoli, disciplina consolidatasi ormai fin dalla legge del 1942 n. 1150, ma di trovare il giusto equilibrio tra interessi pubblici e interessi privati attraverso modelli di pianificazione – specie quelli di competenza comunale – che innovino rispetto alla vigente disciplina e raggiungano obiettivi maggiormente rispondenti sia agli interessi dell’economia sia a quelli della collettività che in quei territori risiede: interessi non sempre convergenti ma spesso antagonisti poiché gli uni mirano al consumo «indiscriminato» di territorio, gli altri – almeno in linea teorica – essendo funzionalizzati a un consumo «misurato» che tenga conto delle aspettative delle generazioni future.[1]
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Non si tratta quindi di elaborare solo nuove tecniche di pianificazione ma di dare effettivo contenuto alla «funzione sociale» della proprietà di cui all’art. 42 della Costituzione e di introdurre, nell’esercizio della cura degli interessi pubblici, elementi di doverosità dell’azione amministrativa che mirino a evitare eccessive discriminazioni tra proprietari e soprattutto a soddisfare effettivamente la dotazione di beni comuni in una visione di lungo periodo.
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Ciò significa che non di sola legge di riforma dell’urbanistica (ancorchè allargata a governo del territorio) si tratta, poiché entrano in gioco la disciplina della proprietà, il suo contenuto, i nuovi rapporti tra amministrazione (specie locale) e proprietari (ma anche le imprese) dovendosi riconsiderare in chiave di maggiore efficacia le disposizioni che regolano le relazioni tra pubblico e privato in funzione perequativa e redistributiva, ma anche quelle di natura fiscale .
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Ecco allora che alla disciplina dell’urbanistica si riconnette sia quella della proprietà, specie se la prima incide sui rapporti tra privati – oggetto di riserva di legge statale ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l – sia la rivisitazione delle modalità di esercizio del potere dell’amministrazione nelle scelte di pianificazione, da più parti ritenute caratterizzate da eccessiva discrezionalità nel quid e nel quomodo. Tutto ciò comporta un intervento normativo trasversale per materie, di difficile elaborazione se confinato nel recinto della sola «urbanistica», poiché questo riguarda una visione sistemica e non settoriale dei problemi del governo del territorio. Non volendo, o non sapendo affrontare le questioni funditus, il legislatore ripiega così di continuo o accogliendo le richieste – espresse dal contesto politico-sociale – di una maggiore liberalizzazione delle attività private sul territorio o intervenendo con disposizioni finalizzate al rilancio dell’edilizia come volano della ripresa produttiva - vedi il piano casa – ma fortemente derogatorie della disciplina urbanistica.
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2. Le modifiche al procedimento per il rilascio del permesso di costruire.
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Fatte queste premesse, nell’art.5 Costruzioni private sono ricomprese alcune disposizioni d’indubbio interesse che riguardano l’edilizia, l’urbanistica, la disciplina codicistica della proprietà privata.
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La materia dell’edilizia è quella maggiormente interessata dalla legge perché viene modificato in più punti il T.U.380/2001. Le innovazioni principali riguardano l’introduzione del silenzio assenso nel procedimento di rilascio del permesso di costruire, le integrazioni alla disciplina dello sportello unico per l’edilizia per le richieste in via telematica (emendato in sede di conversione del decreto legge), l’estensione della SCIA anche agli interventi edilizi.
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Prendiamo il caso del permesso di costruire. Chi segue la materia da tempo sa che il legislatore riscrisse il procedimento di rilascio della concessione edilizia (che entrò in vigore con la l.493/1993 ma poi ulteriormente modificato dalla l.662/1996) e che poi quel procedimento è stato sostanzialmente recepito nel TU 380 (art.20) e comunque facente parte della disciplina della sportello unico per l’edilizia (art.5).
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Ora l’art. 5 della legge 106/2011 al comma 2, lett. a) n. 3) riscrive in toto l’art. 20 del TU.
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I principi ispiratori del testo riformato sono essenzialmente due: 1) la semplificazione; 2) la responsabilizzazione del privato. Il primo principio è quello che ha ispirato la previsione di cui al comma 8, dell’art. 20, che ribaltando il contenuto della previsione precedente, ha introdotto la fattispecie del silenzio assenso in sostituzione del tradizionale silenzio rigetto previsto fin dall’art.30 comma 6 della l.u. 1150 del 1942 sostituito dalla l.765/67. Il silenzio assenso si forma per il decorrere del tempo, sempre che il dirigente o il responsabile dell’ufficio non motivi nei termini il diniego, fatti salvi i casi di presenza di vincoli differenziati dai cui provvedimenti autorizzatori dipende l’esito del procedimento principale.
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Il principio di responsabilizzazione, invece, opera come contrappeso della semplificazione. Per compensare la scelta del legislatore di privilegiare, tra le esigenze in conflitto (controllo pubblico del territorio e interesse a costruire), quella alla concessione del bene della vita, collegando all’inerzia della p.a. il significato di un assenso anziché di un diniego, si è introdotta, al comma 13 dell’art. 20, una fattispecie di reato che sanziona le false attestazioni o dichiarazioni o asseverazioni contenute nell’istanza di rilascio del permesso di costruire. In ciò equiparando la disciplina con la DIA ora SCIA ove all’art.19 della legge 241 è previsto che chiunque attesti false dichiarazioni o attestazioni è soggetto a sanzione penale.
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La ratio della modifica, tuttavia, va ricercata altrove. La disposizione modificatrice contenuta nella legge 106 è, infatti, una norma “tremontiana” diretta a ridurre i carichi di spesa che il bilancio statale è costretto annualmente a sopportare per risarcire i danni da ritardo.
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L’introduzione dell’art. 2-bis della legge sul procedimento amministrativo (danno da ritardo) ed il diritto pretorio proteso ad allargare il novero dei danni risarcibili in presenza del colpevole ritardo della p.a. nel condurre e concludere i propri procedimenti (cfr. da ultimo Cons. St., V, 24 maggio 2011, n. 1271, che ha considerato risarcibile non solo il danno patrimoniale ma anche quello biologico)[2], hanno reso indifferibile l’introduzione di un meccanismo che, seppure in via indiretta, consentisse di ridurre sensibilmente le fattispecie di danno.
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Infatti, se al ritardo della p.a. (ovvero il decorrere del tempo ai fini del silenzio assenso) si assegna il valore di un permesso di costruire a tutti gli effetti, dal punto di vista del richiedente, l’eventuale condotta dilatoria o inerte dell’ufficio competente al rilascio del provvedimento non può più dar luogo ad alcun danno, mancandone il presupposto principale: la lesione dell’interesse privato.
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Il silenzio assenso nell’edilizia – già introdotto temporaneamente dal decreto Nicolazzi nel 1982 (l.94/1982) fino all’84, prorogato fino al 1991 e poi soppresso dalla l.179/92 – non ha avuto successo per la reticenza delle banche alla concessione di mutui dietro semplice presentazione della richiesta di concessione, mancando il titolo abilitativo a garanzia del finanziamento concesso.[3] Peraltro, la giurisprudenza amministrativa è largamente orientata ad escludere che nel procedimento di rilascio del permesso di costruire siano presenti profili di discrezionalità amministrativa, qualificandolo come atto dovuto nel quid e nell’an poiché si tratta solo di verificare la rispondenza del progetto alle norme del piano urbanistico e delle norme del regolamento edilizio[4]. Ma è altresì noto che i tempi del procedimento nonostante siano stati fissati dalla legge (art.20 TU) sono da considerarsi ordinatori e ciò costituisce ancor oggi un vulnus per i richiedenti esposti a possibili fenomeni di maladministration.[5]
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3. I ritocchi alla materia urbanistica.
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Di apparente minore spessore la parte relativa alla materia urbanistica che riguarda una serie di disposizioni dirette a semplificare i procedimenti di pianificazione comunale. Si tratta nell’ordine della esclusione del procedimento VAS e della verifica di assoggettabilità prevista dal D.lgsl.152/2006 e s.m.i. per i piani attuativi di piani regolatori già sottoposti valutazione ambientale strategica qualora i primi non comportino variante allo strumento urbanistico generale e quest’ultimo abbia comunque previsto l’assetto localizzativo delle previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità gli usi ammessi, i contenuti plano volumetrici tipologici e costruttivi, dettando i limiti di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste. In breve, nel caso in cui gli ambiti o le zone destinate dal PRg ad essere trasformate tramite piano attuativo contengano una sufficiente disciplina di dettaglio, si rivela inutile procedere nuovamente alla VAS se questa è già ricompresa nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico generale.
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Introdotta dal maxiemendamento di conversione del decreto-legge è la norma relativa alla questione annosa della decadenza delle previsioni dei piani particolareggiati (art.17 l.1150/42) il cui termine è di norma di dieci anni o diciotto nel caso di piano di edilizia residenziale pubblica (peep). Trattandosi di piani d’iniziativa pubblica l’acquisizione delle aree e la realizzazione dei relativi servizi è a carico dell’amministrazione comunale, il che ha prodotto spesso una parziale urbanizzazione della zona considerata, con l’apposizione di vincoli preordinati all’esproprio delle relative aree. L’art.16 co 9 della l.1150 (ora soppresso dal TU espropriazioni e trasposto negli artt. 12 e 13) prevede che l’approvazione del piano particolareggiato equivale a dichiarazione di pubblica utilità la cui efficacia non può superare la durata temporanea del vincolo espropriativo che in questi casi non ha durata quinquennale ma, come abbiamo visto, decennale ed oltre. La conseguenza è che mentre resta ferma la possibilità di edificare nei lotti privati secondo le disposizioni del piano particolareggiato rispettando gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabilite (art.17 co1), nelle aree destinate alle dotazioni territoriali si applicano le norme di salvaguardia di cui all’art. 41 quinquies della legge urbanistica (ora art.9 del Tu 380/01). Ma questo non risolve il problema della garanzia dei servizi. Su questo aspetto del problema era peraltro intervenuta già la l.10/77 che nell’introdurre il programma pluriennale di attuazione (art.13) ha previsto (la norma è ancora vigente) che questo può delimitare le zone o le aree ricomprese anche in piani particolareggiati per i quali è prevista l’attuazione delle previsioni e delle relative urbanizzazioni anche tramite comparti, nell’arco temporale variabile tra i tre ed i cinque anni (durata poi fissata dalle leggi regionali).
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Orbene, la norma introdotta prevede che – decorsi due anni dalla decadenza del piano particolareggiato e non abbia trovato applicazione la disposizione del 2 co. dell’art.17 che prevede che in caso di inerzia del comune ad adottare un nuovo piano particolareggiato, il presidente della giunta regionale può esercitare i poteri sostitutivi – il comune stesso nell’interesse improcrastinabile di dotare le aree d’infrastrutture e servizi può accogliere le proposte di formazione di comparti o sub comparti da parte dei privati titolari delle aree di un sub comparto per dare attuazione in funzione perequativa alla previsioni urbanizzative del piano particolareggiato decaduto per le parti pubbliche. Tuttavia, tale intervento d’iniziativa dei privati non può modificare le destinazioni d’uso delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduto. Vi è quindi il divieto di modifica della destinazione delle aree pubbliche (sic)[6] o fondiarie, lì dove invece è proprio lo strumento del comparto o sub comparto che legittima l’applicazione di un unico indice territoriale applicato a tutte le aree del comparto stesso, con possibilità in base al disegno urbanistico attuativo che i compartisti si danno, di localizzare le volumetrie trasferendole dalle aree destinate a funzione pubblica, o viceversa, rispettando comunque gli standards urbanistici ed edilizi. Si tratta quindi di meccanismi su base volontaria destinati a ripartire tra i proprietari gli oneri di urbanizzazione e la contemporanea cessione delle aree destinate a finalità pubbliche, nonché a riconoscere ai proprietari delle aree “pubbliche” da cedere la possibilità di trasferire le volumetrie nelle aree già dichiarate edificabili dal piano particolareggiato. In questi casi, come misura di semplificazione, i comparti sono approvati solo dal consiglio comunale.
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4. La circolazione dei diritti edificatori.
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Di particolare rilievo il co. 3 dell’art.5 che affronta il problema della rilevanza giuridica della circolazione dei diritti edificatori, tema che ha assunto particolare importanza nei casi in cui si applichino i modelli perequativi – specie quelli generalizzati o a priori – nelle scelte del piano regolatore ai fini della conformazione dei suoli. All’art. 2643 c.c. è aggiunto il seguente comma 2-bis): i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale.
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Non è qui la sede per ripercorrere le teorie perequative oggetto di recepimento in molti piani regolatori ed anche disciplinate per linee generali da molte leggi regionali destinate a ridurre la sperequazione tra proprietari circa l’edificabilità delle proprie aree ma anche a favorire maggiori chances per ottenere dai proprietari premiati aree o volumetrie a favore della costituzione della città pubblica[7]; si può qui solo dire che la cessione di volumetrie da parte del tradens a favore dell’accipiens nei casi in cui non vi sia area d’atterraggio ha creato notevoli problemi di certezza giuridica che qui ci limitiamo a riassumere.
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La cessione di cubature o volumetrie è quel contratto innominato, sorto nella prassi edilizia e ampiamente utilizzato da tempo nell’attuazione della pianificazione urbanistica specie in zona agricola, con cui un soggetto consente ad un altro di sfruttare, sul proprio fondo, la capacità edificatoria spettante al fondo di sua proprietà. A tale modulo negoziale più recentemente si è aggiunto quello, proprio del sistema perequativo, prima richiamato.
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Nella pratica negoziale suddetto contratto è stato messo a punto secondo due modalità:
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1) trasferimento di volumetrie tra due fondi, anche non finitimi, già individuati.
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2) trasferimento di volumetrie in cui è individuato il fondo cedente ma non quello su cui andranno ad atterrare le volumetrie cedute (cd. trasferimento “in volo”).
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Nel primo caso, la fattispecie traslativa del diritto è una fattispecie complessa che consta di due atti: un atto di tipo negoziale (ad effetti reali o anche ad effetti obbligatori) + un provvedimento amministrativo che autorizza l’edificazione secondo la maggior volumetria.
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Nel secondo caso, si ha solo un contratto atipico ad effetti obbligatori, costitutivo di un credito edilizio che, come tutti i diritti di credito può anche circolare normalmente o in forma accentrata, mediante creazione di un borsino dei diritti edificatori, anche gestito da un ente super partes.[8]
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In entrambe le ipotesi si è posto un problema di rilevanza esterna della cessione di cubatura: può essere fatta oggetto di pubblicità al fine di rendere nota ai terzi la limitazione edificatoria intervenuta con riguardo all’area di proprietà del cedente?
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Nel primo caso la finalità pubblicitaria è stata realizzata ammettendo la trascrivibilità del contratto ai sensi dell’art. 2643, c.c. La trascrivibilità è stata ammessa strutturando il contratto stesso come costitutivo, a carico del fondo cedente, di una servitus altius non tollendi. In alternativa a ciò, si è rilevato che l’inedificabilità dell’area asservita, che costituisce qualità obiettiva del fondo, diviene attuale con l’adozione del provvedimento. Ne consegue che detta inedificabilità è sempre opponibile ai terzi, anche a prescindere dalla trascrizione, e che l’effetto di pubblicità notizia sulle attuali potenzialità edificatorie del suolo è soddisfatto menzionando il trasferimento di volumetria nel certificato di destinazione urbanistica.
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Nel secondo caso, la mancanza di realità dell’operazione (il vincolo di natura reale, in questo caso, non sorge né dal contratto costitutivo di servitù, né dal perfezionamento della fattispecie complessa rappresentato dalla sequenza accordo-provvedimento), non consentiva né la trascrivibilità del contratto, né l’opponibilità ex se del vincolo reale sorto a carico del fondo servente a seguito dell’adozione del provvedimento abilitativo.
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In cosa innova, dunque, la l.106 che introduce una previsione ad hoc nell’art. 2643, c.c.?
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In primis, tipizza in via legislativa un contratto che prima era presente solo nella pratica degli affari o al più richiamato in alcuni piani o normative regionali.
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In secondo luogo, consente di rendere opponibili ai terzi anche quelle cessioni di cubatura “claudicanti”, strutturate cioè in modo tale da non consentire a priori l’individuazione di un’area di atterraggio delle volumetrie cedute.
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La norma è stata modificata in sede di conversione del decreto legge aggiungendo al contratto di trasferimento anche le fattispecie costitutive o modificative dei diritti edificatori ponendo per queste ultime qualche dubbio interpretativo che vale la pena di evidenziare.
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In primo luogo, la terminologia utilizzata per individuare le categorie di contratti soggetti a trascrizione, sembra descrivere tre schemi negoziali eterogenei, diversi tra loro soprattutto quanto ad ambiti di utilizzo. Più precisamente, mentre gli accordi di trasferimento di diritti edificatori regolano essenzialmente un rapporto tra privati (tra cui, è bene ricordarlo, va contemplata anche la P.A. quando agisce iure privatorum), quando l’attività contrattuale incide sull’attività di costituzione o modificazione dei diritti medesimi, il quadro di riferimento muta.
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In precedenza, la locuzione “trasferimento” di diritti edificatori, esauriva l’intera gamma dell’attività negoziale consentita ai privati in materia. Cosa si deve intendere, dunque, con costituzione o modificazione dei diritti di costruire?
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Non vi è chi non veda che l’attività di costituzione e modificazione dei diritti edificatori, comportando l’esercizio di poteri pubblicistici, spetti in via esclusiva all’ente titolare. Ciò è sufficiente ad affermare che i contratti costitutivi o modificativi di diritti edificatori siano (e possano essere) solo quelli stipulati tra un privato e la P.A. Un esempio di contratto costitutivo di diritti potrebbe essere quello concluso ai sensi dell’art. 45 t.u. espr., che nel sancire il diritto del proprietario di stipulare un atto di cessione volontaria del bene espropriando, consente di prevedere un controvalore in diritti edificatori anziché in danaro.
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In tal caso, dunque, l’accordo di cessione assolve ad una duplice funzione, di consentire il trasferimento di proprietà dell’area oggetto della pattuizione e di riconoscere in capo al proprietario volumetrie aggiuntive rispetto a quelle contemplate negli atti di pianificazione.[9]
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Una fattispecie del genere, generalmente fatta rientrare nel genus degli accordi amministrativi, a mente delle nuove disposizioni, sembrerebbe espressamente qualificata come contratto. Ciò significa che si è ormai definitivamente smarrita (quanto meno in materia urbanistica) la distinzione dogmatica tra accordi amministrativi e contratti conclusi da una P.A.? L’interrogativo resta aperto, ma la modifica all’art. 2643 rappresenta un’occasione sulla quale si aprono prospettive per maggiori approfondimenti.
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5. La questione della riqualificazione urbana.
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Veniamo ora alla riqualificazione urbana che, al pari del silenzio assenso va, a nostro avviso, considerato principio fondamentale della materia cui si applicano le disposizioni dell’art.2 del TU 380/01. Anzi il testo normativo parla addirittura di “legge nazionale quadro per la riqualificazione urbana” (art.5 co 1 lett.h).
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L’art. 5 della l.106/2011 al comma 9, al dichiarato fine di intervenire per la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e di promuovere ed agevolare la riqualificazione urbana, di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree degradate, nonché di edifici a destinazione non residenziale dimessi, sollecita le Regioni ad approvare, entro 60 giorni dall’entrata in vigore dello stesso decreto, leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione.
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A tale scopo, indica alcuni principi generali cui le disposizioni regionali dovranno attenersi. Tra questi, un rilievo determinante ha la previsione di una premialità edilizia per chi demolisce e ricostruisce l’immobile; la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; le modifiche delle destinazioni d’uso.
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Dopo la scadenza dei 60 giorni concessi all’iniziativa legislativa regionale e sino all’entrata in vigore della normativa regionale, è detto che, nel rispetto degli standard edilizi:
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1) gli interventi di riqualificazione indicati al comma 9 potranno essere realizzati in via diretta seguendo il procedimento della cd. “licenza” in deroga;
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2) il meccanismo della licenza in deroga è ammesso altresì per il mutamento delle destinazioni d’uso purché siano rispettare certe condizioni.
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Va comunque osservato che la vecchia licenza in deroga – ora art.14 del TU. destinata in origine esclusivamente per edifici o impianti pubblici o d’interesse pubblico[10] – comporta una previa deliberazione comunale come presupposto per l’avvio del procedimento del rilascio del permesso di costruire. Non si tratta a nostro avviso di una norma che semplifichi la realizzazione degl’interventi poiché irta di ostacoli derivanti dal passaggio in consiglio comunale e quindi di un aggravio del procedimento. E’ appena il caso di segnalare che con l’introduzione nell’ordinamento del Programma integrato d’intervento di cui alla l.16 della l.179/92 poi recepito in tutte le leggi regionali, la proposta dei privati può ben essere in contrasto con il piano e che qualora la PA ne riconosca l’interesse pubblico può essere oggetto di variante urbanistica spesso assistita dal meccanismo fluidificante dell’accordo di programma, il che permette senz’altro la possibilità di prospettare interventi complessi di portata più ampia di quelli ammessi con un semplice permesso di costruire in deroga. In breve, mi pare che la “montagna” qui abbia partorito il “topolino”.
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Decorsi invece 120 giorni dall’entrata in vigore della legge in commento, fermo restando il rispetto degli standard urbanistici, le disposizioni di cui al comma 9 saranno immediatamente applicabili alle Regioni che non hanno provveduto all’approvazione delle specifiche leggi regionali.
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In questo caso, cioè, i criteri direttivi per l’esercizio della potestà legislativa regionale si trasformano in previsioni direttamente applicabili a tutti i contesti regionali privi di una disciplina ad hoc. Al fine di rendere concretamente operanti tali disposizioni, la stessa legge statale si perita di fissare nella misura del 20% del volume dell’edificio (per immobili ad uso residenziale, che si riduce al 10% in caso di edifici destinati ad usi diversi) il tetto massimo di premialità edilizia assentibile.
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Ora sappiamo però che già 12 regioni a statuto ordinario su 15[11] hanno approvato all’interno delle leggi sul “piano casa” norme che permettono il 35% della volumetria premiale ed anche oltre. Si apre qui il problema della conformità delle leggi regionali ai principi indicati dalla l.106 e della eventualità di apportare modifiche.
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Quanto fin qui detto vale per le Regioni a statuto ordinario. Per le regioni a statuto speciale e le province autonome, invece, è previsto che i principi generali sulla riqualificazione indicati dalla norma, e la facoltà concessa dalla legge statale di consentire la richiesta di permessi di costruire in deroga in mancanza di apposita disciplina regionale, si applichino nei limiti di compatibilità con i rispettivi statuti di autonomia.
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Va osservato poi che la norma prevede che i piani attuativi comunque denominati conformi (nel testo originario si parlava di compatibili) con lo strumento urbanistico generale sono approvati dalla sola Giunta Comunale.
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Questa disposizione non ha valenza generale ma applicabile solo al caso della riconversione urbana.
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Questa mi pare una disposizione che supera i numerosi casi in cui tali piani pur conformi al PRg non vengono sottoposti dalla giunta all’adozione in consiglio comunale per il timore di censure. In questo caso si supera il veto del consiglio. L’innovazione non è di poco conto poiché si tratta di stabilire da parte della Giunta, sulla base di criteri oggettivi previamente identificati, il concetto di “conformità” al PRg, onde ridurre la discrezionalità della PA ed evitare di esporre l’atto giuntale di approvazione dello strumento attuativo a possibili impugnazioni avanti il giudice amministrativo. Inoltre, la questione assume maggiore complessità lì dove il PRG sia sostituito dal piano strutturale rinviando per l’attuazione degl’interventi al piano operativo. In quest’ultimo caso la flessibilità dei contenuti del piano strutturale nel determinare i contenuti del piano attuativo comporta che le prescrizioni definitive siano fissate solo nel piano attuativo (cessione di aree, oneri, volumetrie, destinazioni d’uso) rendendo difficilmente conforme il contenuto dello stesso alla semplici “condizioni” (e non “prescrizioni”) della trasformazione fissate nel piano strutturale per gli ambiti interessati. Ciò in sostanza porterebbe ad escludere che lo strumento attuativo sia oggetto di approvazione della sola Giunta comunale.
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Sulla questione dell’approvazione dei piani attuativi da parte della Giunta vi è comunque un precedente che si riferisce all’adozione dei piani di lottizzazione, ai sensi dell’art. 42, t.u.e.l., i quali furono definiti di “terzo livello” in quanto derivanti da un piano particolareggiato o comunque perché privi di reale valenza sugli assetti territoriali (in questo senso Cons. St., Adunanza generale, 21 novembre 1991). La valenza consultiva del pronunciamento del CdS ne ha, tuttavia, nel tempo ridotto l’efficacia rendendo inoperante quell’interpretazione.
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Infine, va ricordato che la l 136/99 ha previsto che l’approvazione da parte dei consigli comunali dei piani attuativi di iniziativa privata conformi al prg deve avvenire entro i 90 giorni a decorrere dalla data di presentazione dell’istanza dei promotori corredata dagli elaborati previsti. L’approvazione da parte del consiglio deve avvenire nei successivi trenta giorni dalla scadenza dei termini delle osservazioni. Stessi termini per la data di pubblicazione. L’infruttuosa decorrenza dei termini costituisce presupposto per l’intervento sostitutivo regionale su istanza del privato interessato. Anche questa norma di civiltà giuridica tuttavia ha avuto scarsissima attuazione.
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In corso di pubblicazione in Riv. giur. dell'Edilizia
[1] Sia consentito rinviare a P.Urbani Urbanistica solidale, alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà e interessi pubblici, Bolllati Boringhieri 2011.
[2] In Urb e App. n. 6/2011 con nota di M.Bassani 701.
[3] Nella regione Friuli V.Giulia il silenzio assenso in materia è previsto nella lr 19/2009.
[4] Sulla natura di atto vincolato Corte Cost.5 maggio 1983 n.127. Sul punto Urbani-Civitarese Diritto urbanistico Giappichelli IV ed. 2010, 343.
[5] Sui questi temi vedi ora F.Merloni, L.Vandelli (a cura di) La corruzione amministrativa, Passigli editore 2010. Gli effetti del ritardo in tema di responsabilità dirigenziale e disciplinare sono ora ampiamente disciplinati dalla legge. Sul piano interno le conseguenze “sanzionatorie” dell’inosservanza dei termini di conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 legge n. 241/1990 si producono direttamente nei confronti dei dirigenti pubblici:
- Art. 2, comma 9, l.n. 241/90: “la mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale”;
- Art. 7, comma 2, legge n. 69/2009: “il rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti”, di cui “si tiene conto al fine della corresponsione della retribuzione di risultato”;
- Art. 2, comma 1, d.lgs. n. 165/2001: l’osservanza dei tempi procedimentali diviene, inoltre, uno dei presupposti per disporre, ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, il mancato rinnovo dell’incarico dirigenziale, la revoca dello stesso oppure il recesso dal rapporto di lavoro.
[6] Che pubbliche non sono più poiché i vincoli sono decaduti e ad esse si applicano le norme di salvaguardia.
[7] Rinvio al mio Urbanistica solidale op. cit.
[8] Sul punto per ulteriori approfondimenti A.Gambaro Compesazione urbanisitica e mercato dei diritti edificatori in RGE 2009. A.Bartolini, Profili giuridici del cd credito di volumetria in RGU 2007 p.302 s.
[9] Esula da queste note il profilo relativo alle previsioni che lo strumento urbanistico “perequato” contempli la traslazione di tali diritti edificatori in altre aree. Si rinvia ancora al mio Urbanistica solidale op.cit. 133 s.
[10] Di qui l’utilizzo in forma impropria del permesso di costruire in deroga anche per gli insediamenti turistici (alberghi, residences etc.) poi spesso trasformati in edifici ad esclusivo uso privato.
[11] Vedi Edilizia e Territorio n.20 del 23 maggio 2011, Piano città le leggi già ci sono.
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(pubblicato il 1.8.2011)
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