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n. 2-2011 - © copyright

 

ANTONIO D'ALOIA

Sostenibilità: un nuovo concetto tra etica, diritto, politica *


1. “Sostenibilità”, “sostenibile”, riferiti ad una molteplicità di ambiti tematici (principalmente l’ambiente [Fracchia, 2010, 5], ma anche sviluppo economico, turismo, architettura, finanza, agricoltura, finanche la democrazia), appaiono ormai vere e proprie parole-chiave di un nuovo vocabolario, che attraversa –e le costringe ad integrarsi- le dimensioni e i linguaggi della scienza, della tecnica, della filosofia, dell’economia, e (last but not least) del diritto e della politica.

2. Sul piano giuridico e politico, l’emersione del concetto di sviluppo sostenibile risale al rapporto della Commissione Bruntland del 1987 (una Commissione delle N.U.), significativamente intitolato “Our Common Future”. Si legge in questo documento: “Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Nel 1992, con la Dichiarazione di Rio de Janeiro, lo human being viene a collocarsi al centro delle proiezioni applicative del principio dello sviluppo sostenibile.
Da questa definizione, intrinsecamente proiettata verso una pluralità di settori e questioni, ha preso le mosse una gigantesca operazione culturale, che ha però progressivamente conquistato uno spazio che non più è solo teorico o ideologico, ma produce effetti sul terreno delle scelte politiche e delle decisioni normative.
Decine di leggi, regolamenti, sentenze, norme internazionali, fanno ormai riferimento al concetto di sviluppo sostenibile. Siamo di fronte ad una categoria giuridica, ancora imperfetta nei contenuti e nella capacità vincolativa, ma sempre più orientata a diventare una sorta di principio generale del diritto internazionale, con evidenti ricadute sul piano della evoluzione e della conformazione degli ordinamenti giuridici ‘nazionali’.
Un principio, è stato detto, ‘olistico’, cioè ‘trasversale a tutte le grandi aree tematiche (dall’ambiente allo sviluppo economico, alla coesione sociale, alla pace e alla sicurezza, fino alle grandi questioni della diseguaglianza tra aree del mondo) ; ma soprattutto, un ‘pensiero’ piuttosto che semplicemente una nozione, più o meno indeterminata. Dietro l’idea dello sviluppo sostenibile, dentro questa contaminazione tra saperi e linguaggi diversi, si coglie una rinnovata visione del mondo e dei suoi problemi, un ripensamento dei modi dell’agire della nostra civiltà, sul piano sociale, economico, e ovviamente giuridico.
Parlare di sviluppo sostenibile significa porsi una domanda sul senso del progresso, chiedersi ‘come’ e ‘verso cosa’, prendere atto che le decisioni e i comportamenti di oggi avranno una influenza sul futuro, adottare una prospettiva che non schiacci tutto sul presente, che recuperi la dimensione del tempo, della continuità, di un’umanità che, per dirla alla Jonas, non è fatta solo di coetanei, perché in ogni momento presente convivono riflessi del passato e anticipazioni del futuro, con la conseguenza che “esistiamo ogni volta già con una parte di futuro, e una parte di futuro esiste con noi”.
Come scrive J. Attali, “è oggi che si decide cosa sarà il mondo nel 2050 e si prepara quello che sarà nel 2100”.
L’uso di un bene o di una risorsa è sostenibile quando non consuma irreversibilmente il suo ‘oggetto’, ne rispetta la capacità di riproduzione/rinnovazione, ne consente la trasmissione alle generazioni future.
La prospettiva dello sviluppo sostenibile incrocia il problema della finitezza delle risorse e quello dei limiti allo sviluppo: le cose non sono immutabili, vanno ‘meritate’ quotidianamente, e del resto non lo sono nemmeno quei concetti che noi giuristi di questa fase della storia pensiamo siano scontati, come lo Stato, la democrazia, l’eguaglianza, la giustizia.

3. Appare chiaro, allora, che il compito del giurista, quando si confronta con queste parole ‘nuove’ e prova ad attribuire ad esse un posto e un significato nell’esperienza giuridica, è davvero terribile, e al tempo stesso fondamentale [di “salvaciòn por el derecho”, parla Mateo, 2003, 31].
Bisogna costruire una nuova razionalità giuridica, interpretare e accompagnare la penetrazione del concetto di sviluppo sostenibile nell’ambito delle strutture giuridiche e politiche. Ed è un’operazione molto complicata, perché si scontra con un limite ontologico delle strutture moderne della democrazia, che sono costruite per guardare all’oggi, ai bisogni di chi vota e promuove i suoi interessi, a misurare ‘qui’ e ‘ora’ gli effetti delle sue decisioni.
In questo senso, è molto netta la polemica di Denis Thompson, quando dice: “la democrazia mostra una certa parzialità nei confronti del presente […] queste caratteristiche della democrazia portano a ciò che chiamerò presentismo –un favore pregiudiziale accordato alle generazioni presenti, a discapito di quelle future…”.
Le generazioni future, che sono i soggetti principali (certo non gli unici; si pensi all’ambiente, alla natura alle cose ‘inanimate’) della tutela che deriva dalla nozione di sviluppo sostenibile, non hanno voce nei processi politico-decisionali; la loro condizione è per certi versi assimilabile a quella di ‘minoranze’ [E. Resta, 2008], ma se possibile ancora più deboli e svantaggiate. In questo caso, infatti, l’«altro» è troppo lontano, non riesce ad interrogarci, a far scattare la risposta morale di cui parlava Levinas; e talvolta è persino difficile capirne i bisogni, valutarli alla luce dei contesti e delle situazioni che verranno a determinarsi [cfr. il paradosso evidenziato da M. Luciani, 2008].
Da un diverso punto di vista, la questione ecologica, issue centrale del discorso della sostenibilità, taglia i confini della sovranità e del diritto statali. Il diritto dello sviluppo sostenibile è chiamato a confrontarsi con tematiche che sono contemporaneamente ‘a-croniche’ e ‘sin-croniche’, attraverso il tempo e oltre lo spazio [Tarantino, 1993; Corasaniti, 1991].

4. Il diritto costituzionale, in realtà, non appare estraneo a queste logiche dello sviluppo sostenibile.
Nel linguaggio costituzionale è presente l’idea dell’eredità da trasmettere, e dunque il senso della continuità temporale, che è –come si è visto- decisivo nella comprensione e nel consolidamento della prospettiva della sostenibilità.
Le Costituzioni vivono ‘in avanti’, hanno l’ambizione di preparare il tempo futuro, anche di interpretarne le esigenze mentre operano sull’attualità delle questioni e dei bisogni individuali e sociali. La Costituzione stessa ha bisogno di ‘stabilità’ [Zagrebelsky, 2005, 25], e in questo senso trovano giustificazione i limiti e i vincoli posti alla modificabilità delle norme costituzionali, che in alcuni casi sono ‘assoluti’, inderogabili, perché corrispondono a contenuti essenziali e indeclinabili rispetto alla identità costituzionale.
In sostanza, lo schema della intertemporalità, che è intrinseco alla nozione di sostenibilità, si adatta perfettamente al linguaggio costituzionale. Se alcuni valori fondamentali non possono essere modificati ‘al ribasso’, o privati del loro nucleo minimale di significati sostanziali, significa ‘in positivo’ che devono essere conservati, trasmessi, protetti nei confronti di lesioni o scelte che possono pregiudicare irreversibilmente il bene-risorsa considerato fondamentale.
Le norme costituzionali sono al centro di un andamento complesso, ‘bidirezionale’. Identificano un patrimonio che –almeno nei suoli livelli essenziali o minimi- viene ereditato e che, al tempo stesso, deve essere mantenuto per la possibilità delle altre ‘successioni’. E’ una memoria dinamica, che ‘riceve’ e ‘conferisce’, rispetto alla quale l’atteggiamento dei ‘contemporanei’ deve essere un atteggiamento non ‘esclusivo’ o tale da mettere a rischio la possibilità della ‘trasmissione’.
La fisionomia del vincolo costituzionale non è più quella unidirezionale (o madisoniana) del debito delle generazioni attuali e future nei confronti di quelle precedenti, bensì quella reciproca e solidaristica del processo relazionale tra generazioni che si succedono mantenendosi leali ai presupposti ineludibili del potere costituente, in cui l’impegno delle generazioni successive di rispettare e mantenere alcuni equilibri fondamentali (soprattutto sul terreno dei diritti inviolabili) è ‘compensato’ dall’impegno di quelle precedenti e attuali di conservare (almeno) un minimo di condizioni di praticabilità effettiva di quei principi e valori.
Analogamente, nelle Costituzioni contemporanee, soprattutto di quelle del secondo dopoguerra, è decisivo anche un altro connotato che in varia misura si ricollega alla prospettiva della sostenibilità: quello dell’apertura all’ordinamento internazionale, della cooperazione con gli altri popoli e Nazioni, della promozione di condizioni di pace e giustizia anche ‘oltre’ la dimensione territoriale nazionale.
Lo sviluppo sostenibile è infatti per definizione un tema globale, sotto diversi profili.
In primo luogo, è certamente “in-sostenibile” (e dunque deve essere corretto) l’enorme scandalo delle diseguaglianze economiche tra le diverse aree del mondo, o tra segmenti diversi nell’ambito degli stessi contesti sociali più evoluti.
Sviluppo sostenibile significa allora ricerca e costruzione di un ordine sociale, dentro e fuori dei confini nazionali (anche perché i grandi principi costituzionali o sono ‘universali’ o “non sono”), in cui (almeno) i bisogni elementari dell’esistenza umana siano soddisfatti, e in cui l’accesso alle risorse fondamentali per una vita dignitosa sia il più possibile effettivo e diffuso.
Anche perché, come è stato attentamente notato [Spitz, 2002, 167], la povertà e la mobilità delle persone alla ricerca di condizioni di sopravvivenza incide negativamente sulla sensibilità per gli interessi ambientali e per la stabilità democratica. Il concetto di sviluppo sostenibile contiene insomma, nel suo orizzonte, tutte le grandi questioni del mondo contemporaneo: la questione economica, la questione ecologica, il destino della democrazia, come ideale e come esperienza molteplice.
5. La Costituzione italiana, diversamente da altre Costituzioni, non usa direttamente il concetto di sviluppo sostenibile, né richiama in modo diretto o espresso il principio intergenerazionale.
Tuttavia, non sono poche le disposizioni costituzionali che, nella loro proiezione interpretativa, appaiono in diversa misura rappresentative di esigenze e logiche della sostenibilità (e, parallelamente, della intergenerazionalità).
Posso solo fermare qualche immagine di questo complesso materiale.
La norma sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9); il collegamento tra diritto-dovere al lavoro e “progresso” materiale e spirituale della società (art. 4, co. 2);, la difesa della ‘Patria’ (art. 54), come condensato di elementi reali (il territorio) e ideali (la cultura, i beni immateriali, l’idea stessa delle continuità); i limiti costituzionali (utilità sociale, sicurezza, dignità umana) all’iniziativa e all’attività economica privata (art. 41, co. 2), oggi sottoposti ad una incomprensibile e ‘diversiva’ proposta di riforma costituzionale, come se i problemi della eccessiva burocratizzazione della vita economica discendessero dalla norma costituzionale; l’obiettivo del ‘razionale sfruttamento del suolo’ di cui parla l’art. 44. Tutte queste norme, prese singolarmente, possono essere altrettanti frammenti della irruzione della sostenibilità sul terreno del diritto e dei rapporti sociali concreti.
Il riferimento alla continuità della società e della Nazione (o della ‘Patria’), il valore – fine della protezione dei beni ambientali e paesaggistici e del patrimonio ‘immateriale’ (arte, cultura, storia, e, per fare un collegamento al tema della Food Valley, tradizioni, usi alimentari, costumi popolari), la ricerca di una dimensione ‘sociale’ ed ‘ecologica’ della economia di mercato (sostenibilità ambientale degli insediamenti produttivi, rispetto delle peculiarità fisico-culturali dei contesti territoriali, rilevanza ‘universalistica’ di alcuni prodotti industriali) (su cui, v. in generale Häberle, 2001, 40), fanno certamente parte integrante del pensiero e della pratica dello sviluppo sostenibile.
Ancora di più, mi sembrano coerenti con la prospettiva di tener conto della ‘sostenibilità’ nel tempo delle decisioni e dei comportamenti attuali, norme come quelle che introducono limiti al debito pubblico, che è storicamente (oltre che nella fase attuale) una delle grandi questioni irrisolte nell’ambito dell’equilibrio costituzionale tra presente e futuro (si pensi agli artt. 81, co. 4, e 119, co. 6, Cost.).
Ma sono soprattutto due grandi principi di struttura del diritto costituzionale (non solo) italiano ad avvalorare una ricostruzione che evidenzia le connessioni sistematiche tra livello normativo costituzionale e principio di sostenibilità.
Il primo è il principio personalista. Diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà sono due facce della stessa medaglia. I diritti sono anche doveri, o almeno la loro materia è caratterizzata anche da elementi deontici, dalla prospettiva della responsabilità verso gli altri, ‘di oggi’ e ‘nel tempo’, dalla consapevolezza delle implicazioni di ciò che si fa o si rivendica. A questa stregua, il personalismo, proprio in questa sintesi di diritti e doveri, di libertà e responsabilità (solidarietà), “di tutti e di ciascuno nei confronti di tutto e di tutti” [Sirimarco, 2000, 117], rappresenta l’alternativa all’individualismo e al presentismo, che sono le premesse della ‘in-sostenibilità’.
Sullo sfondo di questa lettura c’è altresì il principio di ragionevolezza, sempre più decisivo nel linguaggio costituzionale. I diritti costituzionali non possono che essere ‘ragionevoli’, cioè attenti ai diritti degli altri, alla rinnovabilità dell’uso dei beni sottostanti. Viceversa, l’uso irragionevole dei diritti e delle risorse compromette la sostenibilità dei medesimi beni, e la loro disponibilità per gli altri e nel futuro.
Per completare questa descrizione del ‘posto’ che il concetto di sviluppo sostenibile occupa ormai nell’ordinamento giuridico, non si possono non ricordare le numerose leggi statali (in tema di protezione dell’ambiente, risorse idriche, parchi naturali), leggi (o statuti) regionali, decisioni del Giudice costituzionale o amministrativo che richiamano il principio della sostenibilità o l’istanza della responsabilità intergenerazionale, ovvero si avvalgono dei suoi strumenti realizzativi , primo fra tutti il principio di precauzione [D’Aloia – Bifulco, 2008, XXI ss.].
E soprattutto, che il principio dello sviluppo sostenibile ha conquistato ormai anche il livello normativo sovranazionale e internazionale (e questo rafforza ulteriormente il peso costituzionale di questo principio, alla luce del dovere di conformazione delle leggi statali e regionali agli obblighi internazionali e ai vincoli comunitari, ribadito oggi più direttamente anche dall’art. 117, co. 1, Cost.), attraverso (per il secondo versante) le leggi che hanno dato esecuzione ai numerosi trattati internazionali che lo prevedono, e (per il primo versante) le varie tappe evolutive del processo di integrazione europea (penso in particolare al Trattato di Amsterdam, dove compare espressamente il riferimento all’obiettivo dello sviluppo armonioso, e sostenibile, e più recentemente alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ora peraltro divenuta parametro normativo vincolante, e alla Strategia sullo sviluppo sostenibile adottata a Goteborg nel 2001 [Fracchia, 2010, 15]).

6. Riassumendo, allora: lo sviluppo sostenibile appartiene ormai, o almeno tende a penetrare (sebbene ci siano ancora imperfezioni e limiti nella conformazione e nell’effettività dei meccanismi di tutela e di implementazione) nel mondo del diritto (‘multilevel’), delle decisioni politiche, normative, amministrative, giurisdizionali (cfr. anche Corte Cost., sent. 12 del 2009 in tema di risorse idriche). Non è più solo un’idea, una costruzione teorica utile ad orientare il dibattito culturale, ma un principio capace di esprimere una sua forza normativa, per quanto variabile (a seconda dei settori e dei temi).
Ma come deve essere questo diritto dello sviluppo sostenibile, quali sono le sue caratteristiche, le sue risorse anche metodologiche?
Innanzitutto, è un diritto che deve confrontarsi inevitabilmente con i dati e le acquisizioni scientifiche. La ricerca della sostenibilità (ambientale, economica, sociale) richiede complessi bilanciamenti tra interessi la cui conformazione dipende da elementi tecnico-scientifici, che legislatori, amministratori, giudici devono inserire nei loro procedimenti decisionali. Come ha detto la Corte Costituzionale in alcune sentenze relative al settore biomedico, il legislatore non può decidere sulla base di valutazioni fondate solo sulla “discrezionalità politica pura” (sent. 282/02 in tema di terapie psico-chirurgiche; sent. 151/09, in tema di procreazione medicalmente assistita): deve appunto dialogare con il sapere scientifico, assumere decisioni che non siano contraddittorie con lo stato delle acquisizioni scientifiche in quel settore.
In secondo luogo, se è vero che lo sviluppo sostenibile è un’impresa “collettiva”, le decisioni che riguardano questo principio hanno bisogno di partecipazione, di condivisione pubblica. Bisogna stimolare il coinvolgimento delle comunità e dei soggetti, consentire un pieno accesso alle (e diffusione delle) informazioni che riguardano l’ambiente, e le attività che incidono sui contenuti che costituiscono quel patrimonio ‘immateriale’ di beni, risorse, valori che si riconnettono alla nozione di sviluppo sostenibile.
“Fare” lo sviluppo sostenibile deve essere un ‘apprendimento’, piuttosto che semplicemente l’esito di procedure tecnico-istituzionali, proprio perché deve raccordarsi reciprocamente con uno ‘scopo morale comune’ [A. Gore, 2007, 195].
Per altro verso, decisioni partecipate, preparate attraverso un serio confronto pubblico, sono forse più idonee ad assorbire e a razionalizzare il dissenso sociale, a condurre il dibattito oltre le contrapposizioni spesso fondate sulla paura o sulla ignoranza delle questioni di volta in volta affrontate. Occorre inoltre pensare a strumenti o ad organismi che sappiano rappresentare efficacemente gli interessi intertemporali che stanno dentro la nozione di sviluppo sostenibile.
Le generazioni future sono afone nei processi decisionali moderni. Bisogna trovare il modo di dare ad esse voce e possibilità di influenza.
Un diritto orientato alla ‘sostenibilità’ deve aggiornare anche i suoi strumenti. I meccanismi tradizionali dell’obbligo, o del divieto (sanzionato), che pure sono la ‘struttura profonda del diritto’ [come ricorda da ultimo Corradini, 2009, 375-376] appaiono troppo rigidi, e possono risultare, in diversi contesti, insufficienti [M.R. Ferrarese, 2006, 41]. Ci vogliono misure non autoritarie, norme premiali, incentivi, meccanismi fiscali e tariffari che rendano conveniente l’uso sostenibile delle risorse naturali e dei beni collettivi (penso alle risorse idriche, a quelle energetiche) [D. Grimm, 1996, 149-150].
E’ il momento ora di dare concretezza a questo movimento teorico e culturale, occorrono azioni che producano conseguenze. Anche iniziative culturali come questa possono aiutare a costituire quella massa critica che poi, ad un certo punto, non si accontenta più semplicemente di parlare di un problema, ma prova ad affrontarlo.

 
 

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*Il presente scritto riproduce, con poche variazioni –essenzialmente bibliografiche-, l’intervento svolto nell’ambito del “First Parma Food Valley Symposium”, tenutosi a Parma, il 19-20 ottobre 2010.

** Prof. Antonio D’Aloia: Ordinario di Diritto Costituzionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Parma.

 

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(pubblicato il 17.2.2011)

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