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n. 2-2011 - © copyright |
PIETRO QUINTO
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Il risarcimento del danno da ritardo: un passo avanti ed uno indietro
Il tema del risarcimento danni da ritardo non trova una soluzione condivisa nonostante i più recenti interventi legislativi, che, peraltro, non brillano per chiarezza, coerenza ed univocità di intenti.
Occasione per ritornare sull’argomento (1) è la sentenza del TAR Lombardia - Milano – Sez. I n. 35 del 12 gennaio 2011, che si commenta non per la soluzione adottata nella fattispecie decisa, bensì per i principi di diritto richiamati, anche in modo ultroneo nella economia del decisum.
Si legge nella motivazione che la risarcibilità di un eventuale danno da ritardo, in mancanza di espressa domanda, «resta estraneo al thema decidendum». Purtuttavia, prosegue la sentenza, rispetto alla configurabilità ipotetica di un ritardo colpevole è da escludersi in radice la configurabilità stessa della inosservanza dolosa o colposa di un termine ragionevole per la conclusione del procedimento. Due i principi affermati: a) il diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardo con il quale l’Amministrazione abbia provveduto «spetta solo ove i soggetti interessati abbiano reagito all’inerzia impugnando il silenzio-rifiuto»; b) «ciò che si risarcisce non è una aspettativa all’agere legittimo dell’Amministrazione, bensì il mancato conseguimento del bene della vita cui si ambiva al momento della proposizione dell’istanza».
La sentenza sembra quindi in linea con la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 2005, che aveva disconosciuto l’ammissibilità dell’azione risarcitoria da mero ritardo nell’azione amministrativa.
Va ricordato però che in quella decisione l’A.P. si preoccupò soprattutto di approfondire il tema della giurisdizione, all’epoca abbastanza controversa dopo la sentenza n. 204 della Corte Costituzionale. Sulla questione di merito l’A.P., dopo aver richiamato la regola della pregiudizialità, e, quindi, la definitività dei provvedimenti negativi adottati in ritardo dall’Amministrazione e la loro intangibilità per l’omessa proposizione di qualunque impugnativa, si era attestata su due postulati: il danno da mero ritardo è astrattamente ipotizzabile, ma, allo stato, non trova spazio nel nostro sistema di tutela perché non previsto dal legislatore; il ristoro per equivalente dell’attesa è ammissibile solo se collegato al conseguimento dell’utilità sostanziale richiesta alla P.A.: provvedimento vantaggioso.
Sta in fatto che anche sulla spinta delle osservazioni dell’A.P., il legislatore si è adoperato per introdurre una specifica disciplina del danno da ritardo, cercando di recuperare la mancata attuazione della delega, contenuto nella legge n. 59 del 1997, secondo cui occorreva prevedere forme di indennizzo a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento secondo il nuovo modello di adozione amministrativa, introdotto dalla legge n. 241 del 1990.
Dopo il disegno di legge Nicolais, approvato dalla Camera dei Deputati, ma decaduto per fine legislatura e ripreso dal Governo della XVI legislatura nella sua formulazione originaria, si è così pervenuti all’approvazione del testo attuale dell’art. 2 bis della legge n. 241, introdotto dalla legge n. 69 del 2009 sullo sviluppo economico e la semplificazione.. L’art. 69 ha subito però notevoli modifiche nel corso dell’iter parlamentare, con una contrazione della norma da quattro commi ai due attuali. In particolare è stato espunto l’inciso «indipendentemente dalla spettanza del beneficio derivante dal provvedimento richiamato», cioè proprio il significativo riferimento alla natura indipendente della pretesa risarcitoria rispetto al bene di vita sostanziale sotteso al provvedimento richiesto. E’ stata altresì prevista, rispetto all’autonoma indennizzabilità della violazione dei termini procedimentali, la prova del danno.
Ed è per questo che, nonostante la novella legislativa che ha positivizzato il risarcimento del danno da ritardo (come auspicato dall’A.P.) alcuni commentatori e le prime pronunce giurisprudenziali, nel cui filone si inserisce la decisione in commento del TAR Lombardia, hanno sostenuto che la norma, così come formulata, avrebbe una valenza meramente «ricognitoria» rispetto alle conclusioni della precedente giurisprudenza amministrativa, culminata nella citata decisione dell’A.P. n. 7/2005 (2).
Una siffatta interpretazione riduttiva non può essere condivisa.
Una riforma legislativa per confermare quella che era ormai una pacifica acquisizione giurisprudenziale «consolidata da un decennio» appare contro ogni logica anche perché il principio della non risarcibilità del danno da mero ritardo era fortemente ancorato proprio alla mancanza di una disposizione legislativa: «non è prevista allo stato attuale della legislazione un meccanismo riparatore dei danni causati dal ritardo procedimentale in sé e per sé considerato». Con la conseguenza che il danno da ritardo, in assenza di una disciplina positiva, non ha un’autonomia strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui scaturisce, dato che è legato inscindibilmente alla positiva finalizzazione di quest’ultima (3).
Ditalchè è agevole convenire che «il riferimento alle modifiche subite dalla norma nell’iter parlamentare non va sopravalutato» (4), nel mentre si impone un’accurata analisi esegetica della disposizione in un contesto logico e sistematico, che registra come conseguenza l’ampliamento delle garanzie per assicurare la certezza dei tempi di definizione dei rapporti tra cittadino e P.A., la celerità degli stessi e la rinnovata affermazione della imparzialità e del buon andamento nell’esercizio della funzione amministrativa.
A conferma di ciò, anche in chiave di interpretazione sistematica del dato normativo, è stato sottolineato che, con la novella in esame, il legislatore non solo ha inserito il 2 bis, ma ha riscritto l’art. 2 della legge 241/90, con termini più stringenti per la conclusione del procedimento. E’ stato infatti fissato un termine generale di 30 giorni (in luogo di 90 giorni precedenti), e, nel caso di termini diversi previsti da regolamenti e dalle Amministrazioni, è stato stabilito che il termine non può eccedere i 90 gioni o 180 in casi particolari. Il legislatore ha quindi evidenziato l’essenzialità di un termine procedimentale, ma altresi ribadito la doverosità dell’osservanza di tale termine. Con disposizione innovativa, aderente al principio posto dall’art. 2, si è altresì sancito che «il rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti», con gli ulteriori corollari che tale valutazione incide sulla corresponsione della retribuzione del risultato e che la mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale (5).
Anche di recente è stato osservato che la questione della spettanza del bene della vita ai fini del risarcimento del danno da mero ritardo è del tutto estranea alla finalità ed alla ragion d’essere dell’istituto (6). È indiscutibile infatti che il nuovo modello di azione amministrativa, introdotto dalla legge n. 241 del 1990, abbia attribuito rilevanza autonoma, rispetto all’interesse legittimo al bene della vita, a posizioni soggettive di natura strumentale, che mirano a disciplinare il procedimento amministrativo secondo criteri di correttezza, idonei ad ingenerare, con l’affidamento del privato, «un’aspettativa qualificata» al rispetto di queste regole.
In tale prospettiva è enucleabile dal novero degli interessi pretensivi, e piuttosto accanto a essi, un ambito di interessi procedimentali, così come definiti da M.S. Giannini, la cui violazione integra un titolo di responsabilità idoneo a fondare un danno risarcibile diverso e autonomo rispetto alla lesione del bene della vita.
A tale categoria di interessi procedimentali è ascrivibile il danno da ritardo, sicchè il privato ha titolo ad agire per il risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata emanazione del provvedimento richiesto nei termini previsti e indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto di tale provvedimento (7).
È difficile infatti negare – ha osservato autorevole dottrina – che la stessa disciplina del termine sia «volta a fornire una certezza temporale al richiedente in ordine ad ogni aspetto sulla sua partecipazione: l’impegno di risorse, la rinuncia ad altre opportunità, l’esigenza di avvalersi di circostanze favorevoli che non abbiano durata indefinita» (8).
Nella disciplina complessiva delle regole sul procedimento amministrativo occorre, quindi, evitare la confusione tra la natura della regola violata e gli interessi che quella regola è diretta a tutelare.
Il rispetto del termine che la legge assegna alla P.A. per la definizione di un procedimento o che la stessa Amministrazione si è assegnato è una delle manifestazioni di quella «buona amministrazione» che costituisce un vero e proprio diritto del cittadino sancito dall’art. 41 della Carta di Nizza, ed ancora prima dall’art. 97 della Costituzione, che sancisce i principi di imparzialità e di buon andamento.
Ora, indipendentemente da qualsivoglia disquisizione sulla differenza o non perfetta identità tra «buona amministrazione» e «buon andamento» dell’amministrazione, si tratta comunque di un valore giuridico, che si traduce nell’efficienza e nell’efficacia dell’azione. Sicchè è agevole concludere che, se per buon andamento si intende l’efficienza dell’azione amministrativa, una delle manifestazioni di siffatta efficienza è l’essenzialità ed il rispetto del termine del procedimento amministrativo. L’amministrazione efficiente è l’amministrazione capace di rispettare i tempi del suo agire, che è il primo risultato utile in termini di produttività e di economicità.
Dalle considerazioni sin qui svolte deriva che la cd. pregiudiziale amministrativa sia questione del tutto estranea alla fattispecie del danno da mero ritardo. Ciò perché l’unico interesse che viene in considerazione è quello procedimentale, relativo al rispetto del termine di conclusione del provvedimento, e, conseguenzialmente, il ristoro del pregiudizio derivante dal ritardo con cui l’Amministrazione ha provveduto. E’ evidente quindi che – contrariamente da quanto affermato dal TAR Lombardia – l’azione di risarcimento da mero ritardo sia del tutto sganciato da qualsivoglia formale declaratoria di illegittimità del silenzio ed in tal senso risulta normata nel nuovo codice del processo. L’azione quindi è esperibile autonomamente «senza che ciò possa essere valutato in termini di concorso di colpa ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a.» (9)
La sopravvenuta disciplina codicistica non ha peraltro inciso sull’assetto dell’istituto così come delineato nella novella della legge n. 69/2009, fatta salva la questione della prescrizione quinquennale dell’azione, originariamente prevista dal 2° comma dell’art. 2 bis.
Sotto il profilo sostanziale nel c.p.a. risulta infatti confermata e tutt’ora operante la disciplina del primo comma dell’art. 2 bis, con l’espressa previsione nel quarto comma dell’art. 30 di una autonoma azione di risarcimento danni che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Sicchè la definizione, come fattispecie autonoma, del risarcimento del danno ingiustamente cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento conferma il riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno da ritardo anche in assenza dell’accertamento della spettanza del cd. bene della vita. Con l’ulteriore conseguenza che essendo stata prevista l’azione risarcitoria per l’inosservanza del termine, come ipotesi di giurisdizione esclusiva (art. 133), si potrebbe pervenire a qualificare in termini di diritto soggettivo il diritto ad ottenere la conclusione del procedimento amministrativo, conformemente alla previsione normativa.
Più complessa è la questione del termine per proporre la domanda di risarcimento, dopo l’abrogazione del secondo comma dell’art. 2 bis per effetto dell’art. 4, n. 14, dell’all. 4 del codice e della specifica disciplina introdotta nel 4° comma dell’art. 30. Il testo definitivo della norma è il risultato di modificazioni rispetto alla formulazione originaria, ed appare «confuso e contraddittorio» (10) anche con riferimento alla stessa relazione governativa. La regola risultante da queste interpolazioni è che il termine per proporre l’azione risarcitoria è di un anno e 120 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento.
Infine, rimane aperto il tema del quantum del danno risarcibile, per la scelta del legislatore di considerare come risarcibile un danno “ingiusto”. E’ quindi superata la scelta del primo legislatore, che perseguiva l’idea di un indennizzo per il ritardo della conclusione del procedimento correlato all’idea di una sanzione o di un danno automatico. Spetterà quindi al privato, in ogni caso, dimostrare il danno derivante dalla tardiva o mancata adozione del provvedimento, in stretta correlazione con l’inosservanza dolosa o colposa addebitabile all’Amministrazione. Non può invece essere posta a carico del soggetto che subisce il ritardo la prova della responsabilità dell’Amministrazione. Per danno da ritardo deve intendersi ogni danno ingiusto derivante da un comportamento illecito dell’Amministrazione per superamento del tempo previsto per l’adozione del provvedimento. In questa prospettiva l’illiceità discende per previsione legale dalla violazione di una norma che impone un dovere all’Amministrazione. Non spetta a colui che subisce il ritardo dell’Amministrazione dimostrare che il comportamento omissivo è addebitabile a dolo o colpa. Ciò che rileva è la violazione di un precetto che assegna un termine da rispettare. Termine che le regole del procedimento consentono alla stessa Amministrazione di fissare. Ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, l’attività dell’Amministrazione è retta dal principio di legalità e una delle manifestazioni della legalità dell’agire amministrativo è appunto l’osservanza della norma (art. 2) che impone il rispetto del termine previsto dalla legge o dai regolamenti per la conclusione del procedimento: con la conseguenza che l’illegittimità del comportamento è già espressione di una violazione del principio di legalità.
Non c’è altro che il privato debba dimostrare ai fini della prova di una condotta contro ius.
L’onere probatorio che il danneggiato deve assolvere, ancorchè in uno schema astratto di responsabilità aquiliana applicata all’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, non riguarda l’elemento soggettivo, ma riguarda la produzione del danno.
Il riferimento normativo all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento serve solo ad attenuare in qualche modo l’automatismo del risarcimento, offrendo all’Amministrazione la possibilità di opporre una qualche prova che escluda l’illiceità della violazione del termine.
E’ quindi condivisibile l’affermazione che, in definitiva, la mancata emanazione del provvedimento - nel termine che la stessa Amministrazione si è dato – determina una presunzione di colpa della P.A., «ma non una presunzione assoluta», bensì solo relativa, vincibile con la prova contraria. (11)
Potranno essere invocate difficoltà interpretative della norma applicativa o contrasti giurisprudenziali, ma la P.A. non potrà addurre eventuali disfunzioni della organizzazione dei propri uffici perché, tra l’altro, incombe su di essa ai sensi del d.p.r.. n. 231 del 2001 adottare «modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire gli illeciti e, in definitiva, delle misure idonee ad evitare il danno di cui all’art. 2050 c.c.» (12)
Potrà invece l’Amministrazione cercare di escludere la proprio colpa dando la prova positiva di aver adottato modelli organizzativi e funzionali aderenti al precetto dell’art. 97 Cost., che ha trovato ulteriore attuazione, sotto il profilo funzionale, nell’art. 7 della stessa legge n. 69 del 2009, con l’introduzione della “imparzialità” nella declaratoria dell’art. 1 della legge 241 del 1990 sui principi dell’attività amministrativa.
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(1) Mi sia consentito rinviare a P. Quinto «Il Codice del processo amministrativo ed il danno da ritardo: la certezza del tempo e l’incertezza del legislatore» in Giust. Amm. 2009; P. Quinto «Danno da ritardo: osservazioni ad Adunanza Plenaria n. 7/2005», nella collana «Il nuovo processo amministrativo» Ed. Giuffrè pag. 227 e segg.
(2) TAR Sicilia, Sez. II, 20/1/2010 n. 582. La sentenza, dopo aver ricostruito l’evoluzione normativa dell’art. 2 bis con la eliminazione nel testo definitivo dell’art. 7, comma 1, lett. C) della legge n. 69 del 1969, del riferimento alla natura indipendente della pretesa risarcitoria rispetto al bene della vita, afferma che «anche la nuova previsione normativa non abbia in effetti mutato l’orientamento giurisprudenziale pregresso, non potendosi anche oggi prescindere dalla spettanza del bene della vita per poter riconoscere una tutela risarcitoria al danno da ritardo dell’azione amministrativa»
(3) Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2009 n. 1162
(4) «Il nuovo procedimento amministrativo», a cura di F. Caringella e M. Protto. Ed. Dike
(5) L. Bertonazzi, Diritto Processo Amministrativo n. 3/2009
(6) F. Patroni Griffi «Valori e principi tra procedimento amministrativo e responsabilizzazione dei poteri pubblici» in Giust. Amm., 2011
(7) M. S. Giannini definì gli interessi procedimentali come quelle posizioni soggettive che «hanno ad oggetto situazioni e vicende del procedimento» e che, perciò, «non si riferiscono direttamente a beni della vita, ma a fatti procedimentali che a loro volta investono beni della vita»
(8) M. Clarich, G. Fonderico «La risarcibilità del danno da mero ritardo» in Urbanistica e Appalti 2006.
(9) G. Domenico Comporti «La tutela risarcitoria “oltre” il Codice» in Federalismi.it, n. 24/2009
(10) R. Chieppa «Il Codice del processo amministrativo» Ed. Giuffrè
(11) «Il nuovo procedimento amministrativo», a cura di F. Caringella, cit.
(12) G. Soricelli «www.giustizia-amministrativa.it»
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(pubblicato il 16.2.2010)
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