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n. 12 -2010 - © copyright |
GUIDO GRECO
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Che fine ha fatto la pregiudizialità
amministrativa?*
1-. E così, tanto tuonò che piovve.
L'azione autonoma di risarcimento del danno per lesione di interessi
legittimi, propugnata e pretesa con energia dalla giurisprudenza
della Corte di Cassazione, è ormai diritto vigente[1].
L'art. 30
c. 1 del nuovo Codice del processo amministrativo statuisce infatti
inequivocabilmente che “l'azione di condanna può essere proposta
contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione
esclusiva o nei casi di cui al presente articolo, anche in via
autonoma”. E tra i casi indicati nel medesimo articolo compare,
appunto, al comma 3 “la domanda di risarcimento per lesione di
interessi legittimi”.
Insomma risulta così codificato che
azione di annullamento e azione di risarcimento sono due strumenti
indipendenti di tutela dell'interesse legittimo. E così come
l'interessato può scegliere di avvalersi solo del primo, o
cumulativamente del primo e del secondo, può anche ritenere di suo
interesse avvalersi solo del secondo, senza che tale sua scelta sia
conculcata dall'ordinamento (ad esempio, e salve le precisazioni che
seguono, il soggetto leso da una espropriazione illegittima, da una
occupazione illegittima, da un diniego di permesso di costruire a
sua volta illegittima, da una mancata aggiudicazione o da
un'esclusione dalla gara, ecc., potrebbe così ben decidere di non
mettere in discussione l'assetto dei rapporti venutisi a creare, ma
...limitarsi a richiedere i danni subiti per l'illegittimo esercizio
del potere amministrativo).
Risultano altresì implicitamente
accolti alcuni dei presupposti interpretativi della richiamata
giurisprudenza della Corte di Cassazione, a cominciare dai limiti
dell'inoppugnabilità. La quale renderebbe incontestabile in sede di
impugnazione il provvedimento amministrativo, ma solo ai fini
dell'annullamento. Mentre tale incontestabilità non sussisterebbe ad
altri fini, in particolare ai fini del risarcimento del danno[2],
trattandosi appunto di azione non solo autonome, ma anche
indipendenti, nel senso che non vi è pure necessaria correlazione
tra quella di risarcimento e quella di annullamento.
Il che
avrebbe, tra l’altro, il vantaggio di non neutralizzare l'azione
amministrativa, scaricando nel risarcimento ogni conseguenza
derivante dalla invalidità del provvedimento (sarebbe come dire che
l'Amministrazione può fare quel che vuole, purchè paghi). E la
soluzione risulterebbe particolarmente appropriata, allorchè l'atto
amministrativo avesse già esaurito i propri effetti, ovvero quando
per altre ragioni il cittadino non potesse più conseguire il bene
della vita: in tali casi, infatti, imporre una previa azione di
annullamento, o, comunque, una previa sentenza di annullamento
significherebbe aggravare irragionevolmente l'esercizio dell'unica
tutela utile, che può essere fornita solo dal risarcimento del
danno.
Tutto ciò trova riscontro in altra statuizione del
medesimo codice. Infatti, “quando, nel corso del giudizio,
l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per
il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se
sussiste l'interesse ai fini risarcitori” (art. 34 c. 3). Il che
sicuramente si verifica, ad esempio, nel caso in cui l'occupazione
si sia conclusa, ovvero nel caso in cui il permesso di costruire non
può più essere accordato, per sopraggiunte modifiche del quadro
pianificatorio durante il tempo necessario per giungere alla
sentenza di merito.
Tale disposizione conferma, dunque, che per
il risarcimento del danno non è necessario il previo annullamento
dell'atto, tanto più quando quest'ultimo sia ormai di per sé inutile
per il ricorrente. Mentre l'utilità strumentale -quella, cioè, di
caducare l’atto e farne venire meno gli effetti per aprire la strada
al risarcimento del danno- non è presa in considerazione dalla
norma, che anzi implicitamente la esclude, dato che consente
l'accesso diretto alla tutela risarcitoria.
La disposizione da
ultimo riferita pare significativa anche sotto altri profili.
Anzitutto perchè dimostra che l'accertamento (direi,
“principaliter”) della illegittimità dell'atto è comunque un
passaggio necessario per statuire sul risarcimento dei danni
derivanti da un provvedimento amministrativo o dalla sua esecuzione.
Sicchè il provvedimento, pur rappresentando in ipotesi “elemento
costitutivo dell'illecito”[3], non perde perciò solo i suoi
consueti parametri di valutazione come “atto” (illegittimo) e
non degrada in mero “fatto” (tout court illecito)[4].
Inoltre pare consentire una pronuncia di accertamento sulla
illegittimità, a sua volta autonoma rispetto non solo alla sentenza
di annullamento, ma anche a quella di condanna (dato che l’interesse
al risarcimento potrebbe essere soddisfatto, in un primo tempo, da
una condanna generica, anche se non espressamente contemplata
nell’elencazione contenuta nell’art. 34 co. 1 del Codice). Infine,
perchè l'accertamento dell'illegittimità non è accompagnato da
alcuna necessità (non solo di annullamento, ma anche) di
disapplicazione: così avvalorando la tesi che l'illecito
dell'Amministrazione, in questi casi, non sarebbe incompatibile con
l'efficacia dell'atto illegittimo ed anzi scaturirebbe proprio dal
fatto che l'atto illegittimo abbia esplicato (o continui ad
esplicare) detta efficacia[5].
E' inutile ribadire, ancora una
volta, che a mio modo di vedere tale impostazione non risulta
dommaticamente condivisibile, (non in assoluto, ma) all'interno del
nostro sistema di diritto amministrativo, considerato nel suo
complesso[6]. Infatti, il nostro sistema non solo consente all'atto
amministrativo illegittimo (ma non annullato o sospeso) di produrre
i suoi effetti, ma anche ne impone l'esecuzione, autorizzando
l’Amministrazione -nei casi previsti dalla legge- persino a
realizzare coattivamente quanto da esso disposto. Sicchè non può il
medesimo sistema -se non cadendo in palese contraddizione-
considerare illecita una condotta da esso stesso consentita e
protetta: in questo caso sussiste una precisa causa di
giustificazione (o scriminante, che dir si voglia), che, escludendo
l'antigiuridicità della condotta, ne esclude altresì ogni carattere
illecito (a meno che non sia preventivamente cancellato
dall’ordinamento l’atto precettivo, che esprime o autorizza detta
condotta).
Infatti, è un principio generalissimo, anche di
diritto penale, che “un fatto può essere o antigiuridico o
lecito: è antigiuridico, se è in contrasto con l'intero ordinamento;
è lecito, se anche una sola norma dell'ordinamento lo facoltizza o
lo impone”[7]. Ma non è così per il nostro Codice del processo
amministrativo, che, pur di introdurre un istituto considerato come
un ineludibile (e ineluttabile) progresso della tutela del cittadino
(anche sulla scia di valutazioni comparatistiche sovente
malintese[8]), non si preoccupa delle contraddizioni
dell'ordinamento nel suo complesso.
E finisce per equiparare, ai
fini del risarcimento, l'atto illegittimo (ma efficace) all'atto
nullo o al comportamento senza potere. Il che, dal punto di vista
ricostruttivo, è un'implicazione anch'essa difficilmente
giustificabile.
Il risarcimento del danno previsto dal Codice al
riguardo non incontra, inoltre, limiti contenutistici di sorta. Nel
senso che esso può ben consistere anche in un risarcimento in forma
specifica (espressamente previsto dall'art. 30 c. 1) e, nel caso di
risarcimento per equivalente, può ben raggiungere il medesimo
risultato, che sarebbe derivato dall'annullamento dell'atto (ad
esempio, quando si chiede un risarcimento pari alla sanzione pagata
o all'indennità non riconosciuta). La codificazione dell'istituto
non è stata infatti accompagnata da dette prudenziali limitazioni,
che pur erano state prospettate dalla dottrina ad esso favorevole:
né -una volta che tale codificazione vi è stata- pare possibile
introdurle in via interpretativa.
* * *
2-. L'effetto dirompente
della realizzata codificazione dell'autonomia dell'azione di
risarcimento dei danni per lesione degli interessi legittimi risulta
peraltro notevolmente attenuato e, direi, ridimensionato dal termine
breve di decadenza stabilito dal 4° comma dello stesso art. 30 per
l'esercizio della relativa azione: un termine di decadenza di appena
120 giorni (art. 30 c. 3 C.p.A.).
Ora, che vi fosse la necessità
di un termine diverso da quello di prescrizione non par dubbio. Essa
scaturiva, infatti, da esigenze pratiche e dommatiche.
Sotto il
primo profilo v'era l'esigenza di mettere un freno temporale alle
prevedibili ondate di azioni risarcitorie (autonome) correlate a
provvedimenti amministrativi illegittimi. Le quali si sarebbero
verosimilmente aggiunte (anche a distanza di molto tempo) alla già
diffusa prassi di proporre sistematicamente l’azione risarcitoria
accanto a quella di annullamento.
Sotto il profilo dommatico
l'esigenza scaturiva dall'inquadramento, che via via si è ritenuto
necessario fornire alla disciplina della responsabilità
dell'Amministrazione in tali casi: non più come norma primaria,
sibbene come norma secondaria.
Occorre ricordare che la sentenza
delle Sezioni unite n.500 del 1999, che per prima ha riconosciuto la
risarcibilità generale degli interessi legittimi, ha inquadrato la
fattispecie nell'ambito dell'art. 2043 cod. civ., inteso come norma
primaria. Norma, cioè, che costituisce essa il diritto al
risarcimento del danno, quale che sia la posizione giuridica
(diritto soggettivo o interesse legittimo) che risulti
lesa[9].
In tal quadro, che vedeva tra l'altro la
competenza giurisdizionale in materia in capo al Giudice ordinario,
proprio perchè la causa petendi risultava di diritto
soggettivo, non poteva certo essere messa in discussione
l'applicazione del generale termine di prescrizione. Ma, mutando il
Giudice competente e, soprattutto, mutando il contesto
interpretativo, non poteva non cambiare anche il termine per
l'esercizio della relativa tutela.
Infatti, allorchè la legge
205 del 2000 ha attribuito la giurisdizione in materia al Giudice
amministrativo, nell'ambito -si noti- della generale competenza di
legittimità e non della sua competenza esclusiva, è risultato chiaro
che la scelta legislativa poteva essere giustificata solo sulla base
di un diverso presupposto dommatico. Sul presupposto, cioè, di
considerare la disciplina sulla responsabilità come norma di tipo
secondario e non primario: come norma diretta a fornire un'ulteriore
tutela ad una posizione (nella specie, di interesse legittimo), già
protetta dall'ordinamento (attraverso la disciplina dell’esercizio
del potere[10]) e che si assume come lesa per violazione appunto
della relativa disciplina.
In questo diverso contesto
ricostruttivo[11] la causa petendi fatta valere per il
risarcimento del danno è, appunto, l'interesse legittimo. Sicchè da
un lato è risultata giustificata l'attribuzione della giurisdizione
al Giudice amministrativo, nell'ambito della sua generale competenza
di legittimità; d'altro lato peraltro non poteva non risultare
incongrua l'applicazione del termine di prescrizione, che non
riguarda più il diritto al risarcimento del danno (concezione di
norma primaria), sibbene -almeno nei casi di danni correlati ad un
provvedimento illegitto- l'interesse legittimo leso, di cui si
chiede il risarcimento (concezione di norma secondaria).
Occorre,
dunque, riconoscere che sussisteva la necessità di un diverso e più
appropriato termine per quest'ultima evenienza e che il legislatore
disponeva di ampia libertà di scelta in proposito, tenuto conto del
particolare tipo di posizione fatta valere (l'interesse legittimo),
correlata all'esercizio del potere amministrativo (a sua volta
assoggettato ad una quantità e varietà di parametri normativi, che
non hanno pari nei rapporti privatistici), le cui statuizioni
necessitano di un rapido consolidamento per ovvie esigenze di
certezza del diritto[12]. Tuttavia non si può non rilevare che la
soluzione adottata (decadenza, decorsi 120 giorni dalla conoscenza
del provvedimento lesivo) lascia più di una perplessità. Non già per
la brevità del termine in sé considerato[13], quanto perché detto
termine finisce per coincidere col termine ordinario di impugnazione
del provvedimento amministrativo in sede di ricorso
straordinario[14], così facendo dubitare dell'utilità dell'intera
operazione. Infatti, una volta che si attesti l'inoppugnabilità al
decorso dei 120 giorni, risulterebbe ricompresa in essa non solo il
concetto della impossibilità di impugnazione, ma anche quello -più
sostanziale- della definitiva incontestabilità dell'atto, quale che
sia il fine (caducatorio o risarcitorio) di tale contestazione:
sicchè verrebbe meno la risarcibilità del provvedimento
inoppugnabile, che, come si è visto, è stata una delle principali
ragioni portate a sostegno dell'autonomia dell'azione
risarcitoria.
Si potrebbe obbiettare che così non è.
Anzitutto perchè il termine di decadenza decorre “dal giorno
in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del
provvedimento se il danno deriva direttamente da questo” (art.
30 c. 3 C.p.A.). E si potrebbe così pensare che sussista un
diverso dies a quo, rispetto all'impugnazione dell'atto:
perchè, a differenza di quest'ultima, il termine di decadenza
potrebbe iniziare a decorrere dal momento dell'esecuzione dell'atto
e non dalla sua emanazione, almeno in tutti i casi in cui il danno
non derivi direttamente da esso.
Un'interpretazione di tal fatta
è possibile. Anche se, dovendosi comunque trattare di “fatto” lesivo
di interessi legittimi, la disposizione evoca piuttosto i casi di
“fatti” rivelatori di un provvedimento, altrimenti non conosciuto,
in quanto non comunicato.
In ogni caso, per quanto si possa
dilatare la “forbice” tra termine di impugnazione e termine per
l'azione risarcitoria, è chiaro che la brevità di quest'ultimo
costituisce una notevole remora al suo esercizio autonomo. Infatti,
dovendosi adire anche a fini solo risarcitori il Giudice
amministrativo entro un breve termine di decadenza e per far valere
comunque l’illegittimità dell’esercizio del potere, l'azione di
impugnazione non pare costituire (anche sotto il profilo dei costi)
un particolare aggravio aggiuntivo. Se si considera poi che,
viceversa, l’azione risarcitoria può essere sempre proposta nel
corso del giudizio di annullamento e “sino a centoventi giorni
dal passaggio in giudicato della relativa sentenza” (art. 30 c.
5 C.p.A.)[15], si converrà che sussiste più di una ragione pratica
idonea ad indurre ad utilizzare comunque il rimedio
dell'impugnazione e non solo quello del risarcimento autonomo.
Ciò nondimeno, l'autonomo esercizio dell'azione di
risarcimento può conservare un suo, ancorchè circoscritto, spazio di
operatività, se non altro per le ipotesi in cui il termine di
impugnazione sia ormai decorso (soprattutto se si considera solo
quello per l’impugnazione giurisdizionale), ma non ancora quello per
l’azione risarcitoria. E, inoltre, quest’ultimo termine non preclude
di per sé quell'ampia facoltà di scelta tra rimedi esperibili, che
si è già illustrata nel paragrafo precedente e che potrebbe indurre
il ricorrente a preferire il rimedio del solo risarcimento dei
danni, sia pure con una scelta da operare nell'arco ristretto dei
fatidici 120 giorni.
* * *
3-. Ma, come ognun sa, l'azione
autonoma di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi
è sottoposta ad ancora una e più penetrante limitazione. Infatti, è
previsto che il Giudice, oltre a valutare il comportamento
complessivo delle parti, “esclude il risarcimento dei danni che
si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche
attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti” (art. 30 c. 3, C.p.A.).
Si dirà che non si tratta certo di
una grossa novità, dato che l'applicazione dei criteri dell'art.1227
cod. civ. al tema di risarcimento del danno da lesione di interessi
legittimi è stata ampiamente ammessa anche in passato[16]. E
tuttavia la riferita disposizione dell'art. 30 c. 3, che è destinata
ad avere un ruolo centrale sull'intera problematica, non può essere
liquidata con tale semplice considerazione.
Anche perché essa
indurrebbe a ritenere, parlando di esclusione di
responsabilità, che il precetto vada inquadrato nel secondo (e non
nel primo) comma dell'art. 1227 cod. civ.. Dunque, non si
tratterebbe di circostanze valutabili discrezionalmente dal Giudice
e rilevanti in via di fatto ai fini della determinazione del danno
risarcibile, nel concorso di colpa del danneggiato (art. 1227, co 1,
cod. civ.), sibbene di vera e propria causa di esclusione della
responsabilità (esimente), per i danni che avrebbero potuto essere
evitati: l'esclusione, infatti, scaturisce dal comportamento del
danneggiato e presuppone che tale comportamento sia l'unica causa
efficiente dell’evento[17] (e, cioè, dei danni che si sarebbero
potuti evitare), ovvero comunque che esso interrompa e limiti il
nesso di causalità, rispetto al comportamento del
danneggiante.
Tuttavia un qualche scostamento dal modello
dell’art. 1227 co 2 del codice civile è agevolmente rilevabile.
Anzitutto perché, mentre la giurisprudenza ha costantemente
qualificato detta ipotesi (danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza) come un'eccezione in senso stretto,
che deve dunque essere sollevata dalla parte con le modalità e i
tempi prescritti[18], la norma depone in senso contrario. Infatti,
la sua dizione (“il Giudice ...esclude il
risarcimento...”) lascia pensare ad una
preclusione ben rilevabile d'ufficio[19].
Inoltre perchè
ricomprende, tra le misure di ordinaria diligenza esigibili dal soggetto leso, “l'esperimento degli
strumenti di tutela previsti”. Tra i quali sicuramente rientra
l'impugnazione dell'atto, in sede giurisdizionale o di ricorso
amministrativo, superando anche sotto questo profilo quel
consolidato orientamento della giurisprudenza civile, che ha sempre
escluso che la tutela giurisdizionale fosse da ricomprendere tra i
comportamenti normalmente esigibili dal danneggiato, anche per i
costi e i rischi che un'iniziativa di tal fatta comporta[20].
E
invero trasformare il diritto alla tutela (giurisdizionale o
amministrativa) in un dovere o, quanto meno, in un onere, il cui
mancato esercizio sia reputato autonoma causa del danno, è una
scelta legislativa che lascia più di una perplessità. Per quanto,
infatti, il comportamento diligente, di cui all'art.1227, c.2 cod.
civ., implichi non solo il dovere di astensione dall'aggravamento
del danno, ma anche il dovere di porre in essere comportamenti
positivi, diretti a ridurre il danno medesimo, e per quanto
l'impugnazione dell'atto costituisca un onere aggiuntivo tutto
sommato poco gravoso, rispetto alla semplice azione di
responsabilità (supra, par. 2), considerare per legge il suo
mancato esercizio contrario all’ordinaria diligenza[21] e, così,
come causa unica ed efficiente dell'evento dannoso (che si sarebbe
potuto evitare[22]), ovvero come causa di interruzione del nesso
causale[23], costituisce pur sempre un'operazione ardita sul piano
logico e della proporzionalità[24].
Proprio nel tentativo di
superare tale incongruenza è stata prospettata la tesi che il
predetto onere di diligenza potrebbe dirsi soddisfatto
indipendentemente dall'impugnazione dell'atto e con un semplice
invito all'Amministrazione ad esercitare i suoi poteri di
autotutela. In tal caso incomberebbe sul danneggiato anche l'onere
di denunciare all'Amministrazione i profili di illegittimità, di cui
l'atto sarebbe inficiato[25].
Tale pur comprensibile approccio
interpretativo, in linea con quanto originariamente previsto dal
testo del Codice elaborato dal Consiglio di Stato[26], sembra
peraltro in contrasto col tenore della norma definitivamente
licenziata ed entrata in vigore. L'invito all'autotutela non
costituisce, infatti, in senso tecnico uno “strumento di
tutela” da parte del danneggiato[27]. Inoltre, nell'unico caso
-a quanto consta- in cui è stata data ad esso rilevanza, ai fini
dell'art. 1227 cod. civ (si tratta dell'art. 6 c.5 del D. Lgs. n.
53/2010, a proposito della previa comunicazione dell'intento di
proporre ricorso giurisdizionale in materia di aggiudicazione di
appalti pubblici)[28], detta iniziativa non esonera certo dalla
successiva impugnazione degli atti della procedura, tant’è che il
risarcimento del danno per mancato conseguimento del contratto è
ricollegato pur sempre all’annullamento dell’aggiudicazione non
seguita dalla caducazione del contratto stesso[29].
Se, dunque,
il comportamento atteso dalla legge –e sicuramente idoneo a non
escludere il risarcimento– è dato dall'impugnazione dell'atto,
occorre chiedersi quali siano i danni da illegittimo esercizio
dell'azione amministrativa, che una tempestiva impugnazione
dell'atto non avrebbe potuto evitare. E qui il compito del Giudice
(e dell’interprete) diventa piuttosto complicato, perché esso
implica un giudizio “controfattuale” (o di causalità
ipotetica[30]), come sempre avviene allorché si devono valutare le
conseguenze di un’omissione.
Si può, comunque, pensare a questo
proposito ai pregiudizi che si sarebbero comunque verificati nei
tempi tecnici normalmente necessari per il giudizio di
annullamento[31] o di adempimento[32], valorizzando così, ma su un
piano di valutazione meramente ipotetica, l’aforisma “factum
infectum fieri nequit”. Ma se tra i comportamenti esigibili del
soggetto leso si dovesse ricomprendere anche l'azione cautelare[33],
si converrà che i danni comunque risarcibili, perchè indipendenti
dall'esercizio “degli strumenti di tutela previsti”, si
riducono a ben poca cosa[34] (a meno che l’azione cautelare, pur
esercitata, non abbia avuto esito positivo).
E allora v'è da
domandarsi se la pregiudizialità amministrativa sia stata veramente
eliminata, così come è formalmente statuito dall'art. 30, c. 1 del
Codice, o non si sia piuttosto (sostanzialmente) rafforzata[35], per
la circostanza che la necessità dell'esperimento dei mezzi di tutela
(impugnatoria) è ora espressamente prevista dalla legge e non
scaturisce soltanto da esigenze di sistema. La risposta sarà fornita
ovviamente dall'elaborazione giurisprudenziale, che sarà
probabilmente piuttosto prudente nei primi tempi: ma è forte sin
d'ora l'impressione che ai fini pratici la pregiudizialità, espulsa
dalla porta, risulti in gran parte rientrata dalla finestra.
E’
solo ridotto il suo campo di applicazione. Da un lato perché sono
risarcibili, come si è visto, quei pregiudizi che l’impugnazione e
l’annullamento non avrebbero potuto evitare[36] e, d’altro lato,
perché, sussistendo ora un termine breve di decadenza dell’azione
risarcitoria, l’eventuale suo superamento costituisce una questione
preliminare, che esclude che venga in rilievo la diversa questione
dell’impugnazione e dell’annullamento dell’atto, che costituisce,
viceversa, una vera e propria questione pregiudiziale di merito (e
non di rito).
Tuttavia l'operazione effettuata –frutto, com’è
noto, di una soluzione di ampio compromesso- risulta deludente dal
punto di vista dell'accrescimento della tutela risarcitoria e, per
altro verso, non appare impeccabile dal punto di vista dommatico. E
la pregiudizialità amministrativa, più che abolita o rafforzata,
appare sostanzialmente travisata o, comunque, totalmente trasformata
nella sua funzione.
Infatti, la soluzione accolta da un lato
induce a ritenere illecito, ciò che per l'ordinamento è consentito
(la produzione di effetti e la vincolatività di un atto illegittimo,
ma non impugnato, né annullato) e, d'altro lato, pare concepire la
mancata impugnazione come causa efficiente dei danni, che la stessa
avrebbe potuto evitare: il che, oltre ad apparire illogico e
contrario al principio di proporzionalità, fa insorgere non pochi
scrupoli di legittimità costituzionale, tenuto conto che il diritto
alla tutela giurisdizionale, consacrato nell’art. 24 della
Costituzione, non pare possa essere facilmente trasformato in un
obbligo o, quanto meno, in un onere, il cui mancato esercizio
comporta (oltre alle normali preclusioni) persino l’aberrante
conseguenza dell’addebitabilità dei danni al danneggiato e, cioè,
allo stesso titolare del diritto alla tutela giurisdizionale.
E
allora ci si deve chiedere se ai medesimi risultati non si possa
pervenire sulla base di una diversa ricostruzione dell'intera
disciplina fin qui richiamata, che tenga conto delle esigenze di
sistema e delle necessità di ordine costituzionale. Il che è forse
possibile svincolando l’istituto in esame dall’inquadramento
nell'art. 1227 c. 2 cod. civ. (e, dunque, da ogni questione
incidente sul nesso di causalità), per considerarlo viceversa come
fattispecie limitativa (o come eccezione alla regola) della causa di
giustificazione, pur prevista in linea generale
dall'ordinamento.
Si potrebbe, in altri termini, mantenere ferma
quella che credo debba essere l'impostazione di base (l'atto
illegittimo, ma non impugnato, né annullato, è lecito, in quanto la
sua operatività è consentita dall'ordinamento), salvo a limitarla
(con un’interpretazione “a contrariis” dell’art. 30 co 3) per
i casi dei danni che non potrebbero essere evitati utilizzando i
normali rimedi impugnatori. In quest’ultima ipotesi la causa di
giustificazione non opera e l’atto illegittimo può essere
qualificato illecito –con conseguente risarcimento dei danni, ove
ricorrano tutti gli altri presupposti della responsabilità, ivi
compresa la colpevolezza–, perché il nuovo codice consente
espressamente che si possa prescindere dalla impugnazione, ove
questa non fornisca un’utilità diretta in termini di pregiudizio
evitato (cfr. supra, par. 1), così come esclude la
necessità dell’annullamento, se, nel corso del giudizio
impugnatorio, esso “non risulta più utile per il ricorrente”
(art. 34 c. 3)[37].
In tutti gli altri casi, viceversa, la
pregiudizialità amministrativa continua ad operare pienamente[38]. E
l'impugnazione dell'atto illegittimo risulta necessaria ai fini del
risarcimento non già per ragioni di imputabilità dei danni (che
scaturiscono sempre e soltanto dall'atto illegittimo e non dal
comportamento processuale del danneggiato), sibbene per ragioni
afferenti alla illiceità della condotta, che, in linea di principio
e per le ragioni più volte esposte, può scaturire soltanto dall'atto
nullo o dall'atto annullato e non dall'atto illegittimo, ma efficace
e vincolante per i suoi destinatari[39].
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* Contributo destinato agli Studi in onore del
Prof. Alberto Romano.
[1] Chieppa, Il codice del
processo amministrativo, Milano, 2010, pag.189 e ss.
[2]
Cfr. Cass. Sez. Un. Ordinanza 13 giugno 2006 n. 13659.
[3]
Cass., Sez. Unite, 23 dicembre 2008, n. 30254, che si può leggere in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, pag. 460 e ss.
[4]
Contrariamente a quanto si legge nella già citata ordinanza della
Cass. Sez. Un. 13 giugno 2006 n. 13659.
E così, se si chiede ad
esempio il risarcimento per i danni causati dal provvedimento di
espropriazione (e dalla sua esecuzione), non basta certo far valere
la lesione del diritto di proprietà. Occorrerà, viceversa, dedurre
precisi vizi di legittimità dell’atto, perché solo da questi potrà
scaturire l’antigiuridicità della condotta, trattandosi comunque di
un atto (e non di un fatto), autorizzato dall’ordinamento a produrre
effetti nella sfera giuridica altrui: sicchè il neminem
leadere non può prescindere da detta connotazione della
condotta.
[5] Cfr. Caringella, Corso di diritto
amministrativo, Milano, 2003 vol. I, pag. 558, che precisa:
“non si tratta di considerare l'atto come non avesse prodotto
alcun effetto, ma, all'inverso, di verificare nell'analisi
“principaliter” degli elementi costitutivi dell'illecito, che esso
ha prodotto un effetto nefasto, la cui perniciosità si intende
elidere sul piano risarcitorio”.
[6] Consentitemi un
richiamo a “Inoppuganbilità e disapplicazione dell'atto
amministrativo nel quadro comunitario e nazionale (note a difesa
della c.d. pregiudizialità amministrativa)”, in Riv. It. dir.
pubbl. com., 2006 pag. 513 e ss., nonché a “La Cassazione
conferma il risarcimento autonomo dell'interesse legittimo:
progresso o regresso del sistema?” in Dir. proc. amm.,
2009, pag. 480 e ss.
[7] Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto
penale, parte generale, III ed., Milano 2009, pag. 222. Con
l'ulteriore precisazione che “l'unità dell'ordinamento, che è
alla base dell'istituto delle cause di giustificazione, comporta non
solo che le cause di giustificazione possano essere previste in
qualsiasi luogo dell'ordinamento, ma anche che la loro efficacia sia
'universale': il fatto, cioè, sarà lecito in qualsiasi settore
dell'ordinamento, e quindi non potrà essere assoggettato a nessun
tipo di sanzione (penale, civile, amministrativa, ecc.)”: ivi,
pag. 223.
[8] Mi riferisco, in particolare, alla giurisprudenza
della Corte di giustizia, sovente travisata. Cfr. in proposito
quanto sostenuto in “La cassazione conferma il risarcimento
autonomo”, cit. pag. 483 e ss. e ivi ulteriori richiami alla
giurisprudenza comunitaria.
Ricordo solo che l’autonomia
dell’azione risarcitoria è stata predicata dalla Corte di Giustizia
essenzialmente ai casi in cui il singolo non avrebbe potuto
impugnare l’atto lesivo, per i limiti di legittimazione previsti
dall’ordinamento comunitario in ordine agli atti normativi.
[9]
Si legge infatti in detta sentenza che “Ne consegue che la norma
sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a
sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì
norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno
ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività
altrui.
In definitiva, ai fini della configurabilità
della responsabilità aquilana non assume rilievo determinante la
qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal
soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in
relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie
autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse
giuridicamente rilevante”.
[10] Correlata peraltro (non lo
si deve dimenticare) al regime della illegittimità/annullabilità e
non a quello della inefficacia e della nullità.
[11] Fatto
sostanzialmente proprio anche dalla Corte costituzionale, nella nota
sentenza n. 204 del 2004.
[12] Tali esigenze risultano ribadite
in Cons. Stato, sez. Vi 3 febbraio 2009, n. 578, in Foro
amm., 2010, 1, 170.
[13] Del resto il medesimo codice civile
prevede più di un caso in cui la tutela risarcitoria è assoggettata
a termini ancor più ristretti.
[14] Anche se il ricorso
straordinario non è più un rimedio generale, dato che non è ammesso
in particolare in tema di procedure di affidamento di appalti (cfr.
art. 120, c. 1 Codice del processo amministrativo).
[15]
Quest’ultima norma si espone anch’essa ad un qualche rilievo
critico, perché non distingue tra annullamento degli atti correlati
ad interessi legittimi pretensivi e annullamento degli atti
correlati ad interessi oppositivi.
In quest’ultimo caso si può
sempre dire –conformemente alla tradizionale ricostruzione della
fattispecie- che riemerga il diritto soggettivo e che il
risarcimento riguardi proprio quest’ultima posizione. Per la quale,
dunque, dovrebbe trovare applicazione il termine quinquennale di
prescrizione e non il termine di decadenza di cui all’art. 30 co 3.
[16] Cfr., ad esempio, Cons. Giust. Amm. Sicilia, 18 maggio
2007, n. 386.
[17] Cfr. Cass., III, 15 marzo 1989, n. 1306.
Contra, Cass., sez. lav., 3 marzo 1983, n. 1594.
[18] Cfr.
Cass., sez. III, 25 maggio 2010, n. 12714; Cass., sez. lav., 14
maggio 2010, n. 11737; Cass., III, 27 giugno 2007, n. 14853; Cass.,
II, 19 dicembre 2006, n. 27123; ecc.
[19] In tal senso,
peraltro, aveva già concluso Cons. Stato, sez. VI, 22 ottobre 2008,
n. 5183.
[20] Cfr. da ultimo Cass., sez. I, 5 maggio 2010, n.
10895; Cass., sez. III, 25 maggio 2010, n. 12714; Cass., se. III, 29
settembre 2005, n. 19139. Giurisprudenza costante.
Cfr. anche
Cons. Stato, sez. V, 19 maggio 2009, n. 3066, Foro amm. 2009, 1281)
[21] Prima del nuovo Codice, l’impugnazione dell’atto è stata
giudicata rilevante ai sensi dell’art. 1227, c. 2, da Cons. Stato,
sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183, mentre Cons. Stato, sez. V, 19
maggio 2009, n. 3066 ha così giudicato: “la mancata impugnazione
dei provvedimenti sopravvenuti non integra un comportamento
rilevante ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., secondo cui il
risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe
potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
Il dovere di
correttezza imposto al danneggiato dall’art. 1227, c.c., presuppone
un’attività che avrebbe avuto il risultato sicuro di evitare o
ridurre il danno, senza implicare l’obbligo d’iniziare un’azione
giudiziaria, non essendo il creditore tenuto ad un’attività gravosa
o implicante rischi e spese”.
[22] Secondo le logiche
tipiche dell’illecito prodotto da omissione, ex art. 40, c. 2
del codice penale (“non impedire l’evento, che si ha l’obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”).
[23] Secondo
le logiche tipiche della teoria condizionalistica (o dei suoi noti
correttivi), che trovano codificazione nell’art. 41 c. 2 del codice
penale (“le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità
quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”).
Cfr., sul punto, Cass., sez. III, 7 aprile 1988, n. 2737, cit..
[24] E’ stato, infatti, di recente giudicato che
“L’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto
del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, ma solo
quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa
dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da
rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento
dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7
aprile 1988, n. 2737)” (Cass., sez. III, 30 aprile 2010, n.
10607). Cfr. anche Cass., sez. III, 15 ottobre 2010, n. 21328;
Cass., sez. III, 8 luglio 1998, n. 6640).
E francamente pare
difficile attribuire tali connotati alla mancata impugnazione
dell’atto lesivo.
[25] Così Gisondi, La disciplina
delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo
amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, punto
3.4.
[26] Cfr. Chieppa, Il codice del processo
amministrativo, cit., pag.191.
[27] Anche perché la
fattispecie dell’art. 1227 co 2 pare riferirsi a comportamenti del
solo danneggiato e che prescindano, comunque, da quelli che
coinvolgono anche il danneggiante.
Inoltre, se anche l’invito
all’autotutela fosse uno “strumento di tutela”, non sarebbe certo
l’unico, dato che sussisterebbe pur sempre la possibilità di
impugnazione dell’atto. E quest’ultimo potrebbe essere considerato
comunque esigibile, dato che la norma impone di qualificare come di
“ordinaria diligenza” … “l’esperimento degli strumenti di
tutela”.
[28] Il citato art. 6 c. 5 statuisce che
“l'omissione della comunicazione di cui al comma 1 [e, cioè,
dell'informativa in ordine al proposito di proporre ricorso
giurisdizionale] e l'inerzia della stazione appaltante [equiparata espressamente al diniego di autotutela] costituiscono comportamenti valutabili...ai sensi dell'art. 1227
cod. civ.”. Dato il tenore della norma sembra che la stessa si
riferisca al c. 1, più che al secondo comma, dell’art. 1227, dato
che non comporta “tout court “ esclusione di responsabilità.
[29] L’art. 124 c. 1 del Codice del processo amministrativo
dispone che “L’accoglimento della domanda di conseguire
l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla
dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli
121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del
contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito
e provato”. Dunque, tale fattispecie risarcitoria è subordinata
anzitutto all’annullamento dell’aggiudicazione, di cui all’art. 121,
comma 1, e 122, nonché alla mancata dichiarazione di inefficacia del
contratto.
Il secondo comma dell’art. 124 a sua volta prescrive
che “la condotta processuale della parte, che, senza giustificato
motivo, non ha proposto la domanda di [conseguire
l'aggiudicazione e il contratto, n.d.r.] o non si è reso
disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal Giudice ai
sensi dell'art. 1227 del codice civile”. Anche in questo caso,
come in quello preso in considerazione nella nota precedente, il
tenore della norma convince per l'inquadrabilità nel primo e non nel
secondo comma dell'art. 1227 cod. civ.
[30] Parla di causalità
giuridica –da contrapporre a quella materiale- Cons. Stato, sez. VI,
9 giugno 2008, n. 2751; cfr., pure, Cass., sez. III, 7 aprile 1988,
n. 2737.
[31] Esempi in Chieppa, Il codice del
processo amministrativo cit., pag. 199.
[32] Ove
quest’ultimo si reputi, come ormai non dovrebbe essere dubbio,
ammissibile in linea generale e non solo nel caso del silenzio
dell’Amministrazione.
[33] Contra Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno
2008, n. 2751, cit., e, in dottrina, Chieppa, op.
cit., pag. 199. Ma vedi a pag. 591, la diversa opinione espressa
dallo stesso Autore a proposito della domanda cautelare in materia
di illegittimo affidamento degli appalti.
[34] E la nuova
disciplina finirebbe così per discostarsi da quella richiesta dalla
tradizionale pregiudizialità amministrativa solo perchè esonera il
danneggiato dall'esperimento di impugnazioni (per lui) non
direttamente utili.
[35] Secondo Chieppa, op. cit. pag.
192 e ss. la scelta legislativa non sarebbe a favore della
pregiudizialità della azione di annullamento, né a favore della sua
assoluta indifferenza ai fini risarcitori. Sarebbe stata viceversa
accolta al tesi della “rilevanza” della previa impugnazione
dell'atto ai fini dell'esame della domanda risarcitoria.
Tutto
ciò è condivisibile in linea generale. Ma, con riferimento ai “danni che si sarebbero potuti evitare” si converrà che la
pregiudizialità amministrativa (nel caso di mancata impugnazione
dell'atto) conserva pressochè immutata la sua funzione preclusiva
del risarcimento del danno.
[36] Rientra in tali casi, come si è
visto, quanto disposto dall’art. 34, co. 3 del medesimo Codice, a
proposito dell’annullamento che nel corso del giudizio non risulti
più utile.
[37] In tali limitate fattispecie opera dunque
l'eccezione, prevista dall'art. 34 c. 2, rispetto al principio che
“il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il
ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di
annullamento”.
[38] Ovviamente, se è rispettato il termine
di decadenza per l’azione risarcitoria.
[39] Deve essere chiara
la differenza tra la linea interpretativa proposta e quella che
scaturisce dall’inquadramento nell’art. 1227 c. 2 cod. civ.
In
questo secondo caso, come si è accennato, il provvedimento
illegittimo (ma efficace) è di per sé anche illecito (cioè presenta
un’antigiuridicità, che consente di inquadrarlo “tout court”
nell’ambito del “neminem laedere”), con tutte le conseguenze
del caso in ordine al risarcimento del danno. Tuttavia, per ragioni
attinenti al nesso di causalità ed espressamente codificate
nell’art. 30 co. 3, non sono risarcibili quei pregiudizi, che
l’impugnazione dell’atto avrebbe potuto evitare.
Nel primo caso,
viceversa, il provvedimento illegittimo (ma efficace) è di per sé
lecito, in quanto opera la scriminante più volte ricordata. Dunque
l’annullamento dell’atto è un passaggio logico-giuridico necessario
per eliminare tale causa di giustificazione. Tuttavia, poiché l’art.
30 c. 3 esonera il danneggiato dalla previa impugnazione, nei casi e
per i danni che questa non avrebbe potuto evitare, la scriminante
risulta per ciò solo in tali casi inoperante, con ogni conseguenza
in ordine alla qualificazione dell’atto illegittimo come illecito: e
lo scostamento dalla regola può trovare una qualche giustificazione
nel bilanciamento delle esigenze di sistema (che depongono per la
scriminante) con l'esigenza, manifestata dal nuovo codice (cfr.
anche art. 34 c. 3), di circoscrivere l'onere e l'interesse
all'impugnazione ai casi di utilità diretta (in termini di danni da
evitare) dell'impugnazione medesima.
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(pubblicato il
22.12.2010)
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