Giustizia Amministrativa - on line
 
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GUIDO GRECO

Che fine ha fatto la pregiudizialità amministrativa?*

 

 


 

 

1-. E così, tanto tuonò che piovve. L'azione autonoma di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, propugnata e pretesa con energia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ormai diritto vigente[1].
L'art. 30 c. 1 del nuovo Codice del processo amministrativo statuisce infatti inequivocabilmente che “l'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva o nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma”. E tra i casi indicati nel medesimo articolo compare, appunto, al comma 3 “la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi”.
Insomma risulta così codificato che azione di annullamento e azione di risarcimento sono due strumenti indipendenti di tutela dell'interesse legittimo. E così come l'interessato può scegliere di avvalersi solo del primo, o cumulativamente del primo e del secondo, può anche ritenere di suo interesse avvalersi solo del secondo, senza che tale sua scelta sia conculcata dall'ordinamento (ad esempio, e salve le precisazioni che seguono, il soggetto leso da una espropriazione illegittima, da una occupazione illegittima, da un diniego di permesso di costruire a sua volta illegittima, da una mancata aggiudicazione o da un'esclusione dalla gara, ecc., potrebbe così ben decidere di non mettere in discussione l'assetto dei rapporti venutisi a creare, ma ...limitarsi a richiedere i danni subiti per l'illegittimo esercizio del potere amministrativo).
Risultano altresì implicitamente accolti alcuni dei presupposti interpretativi della richiamata giurisprudenza della Corte di Cassazione, a cominciare dai limiti dell'inoppugnabilità. La quale renderebbe incontestabile in sede di impugnazione il provvedimento amministrativo, ma solo ai fini dell'annullamento. Mentre tale incontestabilità non sussisterebbe ad altri fini, in particolare ai fini del risarcimento del danno[2], trattandosi appunto di azione non solo autonome, ma anche indipendenti, nel senso che non vi è pure necessaria correlazione tra quella di risarcimento e quella di annullamento.
Il che avrebbe, tra l’altro, il vantaggio di non neutralizzare l'azione amministrativa, scaricando nel risarcimento ogni conseguenza derivante dalla invalidità del provvedimento (sarebbe come dire che l'Amministrazione può fare quel che vuole, purchè paghi). E la soluzione risulterebbe particolarmente appropriata, allorchè l'atto amministrativo avesse già esaurito i propri effetti, ovvero quando per altre ragioni il cittadino non potesse più conseguire il bene della vita: in tali casi, infatti, imporre una previa azione di annullamento, o, comunque, una previa sentenza di annullamento significherebbe aggravare irragionevolmente l'esercizio dell'unica tutela utile, che può essere fornita solo dal risarcimento del danno.
Tutto ciò trova riscontro in altra statuizione del medesimo codice. Infatti, “quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori” (art. 34 c. 3). Il che sicuramente si verifica, ad esempio, nel caso in cui l'occupazione si sia conclusa, ovvero nel caso in cui il permesso di costruire non può più essere accordato, per sopraggiunte modifiche del quadro pianificatorio durante il tempo necessario per giungere alla sentenza di merito.
Tale disposizione conferma, dunque, che per il risarcimento del danno non è necessario il previo annullamento dell'atto, tanto più quando quest'ultimo sia ormai di per sé inutile per il ricorrente. Mentre l'utilità strumentale -quella, cioè, di caducare l’atto e farne venire meno gli effetti per aprire la strada al risarcimento del danno- non è presa in considerazione dalla norma, che anzi implicitamente la esclude, dato che consente l'accesso diretto alla tutela risarcitoria.
La disposizione da ultimo riferita pare significativa anche sotto altri profili. Anzitutto perchè dimostra che l'accertamento (direi, “principaliter”) della illegittimità dell'atto è comunque un passaggio necessario per statuire sul risarcimento dei danni derivanti da un provvedimento amministrativo o dalla sua esecuzione. Sicchè il provvedimento, pur rappresentando in ipotesi “elemento costitutivo dell'illecito”[3], non perde perciò solo i suoi consueti parametri di valutazione come “atto” (illegittimo) e non degrada in mero “fatto” (tout court illecito)[4]. Inoltre pare consentire una pronuncia di accertamento sulla illegittimità, a sua volta autonoma rispetto non solo alla sentenza di annullamento, ma anche a quella di condanna (dato che l’interesse al risarcimento potrebbe essere soddisfatto, in un primo tempo, da una condanna generica, anche se non espressamente contemplata nell’elencazione contenuta nell’art. 34 co. 1 del Codice). Infine, perchè l'accertamento dell'illegittimità non è accompagnato da alcuna necessità (non solo di annullamento, ma anche) di disapplicazione: così avvalorando la tesi che l'illecito dell'Amministrazione, in questi casi, non sarebbe incompatibile con l'efficacia dell'atto illegittimo ed anzi scaturirebbe proprio dal fatto che l'atto illegittimo abbia esplicato (o continui ad esplicare) detta efficacia[5].
E' inutile ribadire, ancora una volta, che a mio modo di vedere tale impostazione non risulta dommaticamente condivisibile, (non in assoluto, ma) all'interno del nostro sistema di diritto amministrativo, considerato nel suo complesso[6]. Infatti, il nostro sistema non solo consente all'atto amministrativo illegittimo (ma non annullato o sospeso) di produrre i suoi effetti, ma anche ne impone l'esecuzione, autorizzando l’Amministrazione -nei casi previsti dalla legge- persino a realizzare coattivamente quanto da esso disposto. Sicchè non può il medesimo sistema -se non cadendo in palese contraddizione- considerare illecita una condotta da esso stesso consentita e protetta: in questo caso sussiste una precisa causa di giustificazione (o scriminante, che dir si voglia), che, escludendo l'antigiuridicità della condotta, ne esclude altresì ogni carattere illecito (a meno che non sia preventivamente cancellato dall’ordinamento l’atto precettivo, che esprime o autorizza detta condotta).
Infatti, è un principio generalissimo, anche di diritto penale, che “un fatto può essere o antigiuridico o lecito: è antigiuridico, se è in contrasto con l'intero ordinamento; è lecito, se anche una sola norma dell'ordinamento lo facoltizza o lo impone”[7]. Ma non è così per il nostro Codice del processo amministrativo, che, pur di introdurre un istituto considerato come un ineludibile (e ineluttabile) progresso della tutela del cittadino (anche sulla scia di valutazioni comparatistiche sovente malintese[8]), non si preoccupa delle contraddizioni dell'ordinamento nel suo complesso.
E finisce per equiparare, ai fini del risarcimento, l'atto illegittimo (ma efficace) all'atto nullo o al comportamento senza potere. Il che, dal punto di vista ricostruttivo, è un'implicazione anch'essa difficilmente giustificabile.
Il risarcimento del danno previsto dal Codice al riguardo non incontra, inoltre, limiti contenutistici di sorta. Nel senso che esso può ben consistere anche in un risarcimento in forma specifica (espressamente previsto dall'art. 30 c. 1) e, nel caso di risarcimento per equivalente, può ben raggiungere il medesimo risultato, che sarebbe derivato dall'annullamento dell'atto (ad esempio, quando si chiede un risarcimento pari alla sanzione pagata o all'indennità non riconosciuta). La codificazione dell'istituto non è stata infatti accompagnata da dette prudenziali limitazioni, che pur erano state prospettate dalla dottrina ad esso favorevole: né -una volta che tale codificazione vi è stata- pare possibile introdurle in via interpretativa.

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2-. L'effetto dirompente della realizzata codificazione dell'autonomia dell'azione di risarcimento dei danni per lesione degli interessi legittimi risulta peraltro notevolmente attenuato e, direi, ridimensionato dal termine breve di decadenza stabilito dal 4° comma dello stesso art. 30 per l'esercizio della relativa azione: un termine di decadenza di appena 120 giorni (art. 30 c. 3 C.p.A.).
Ora, che vi fosse la necessità di un termine diverso da quello di prescrizione non par dubbio. Essa scaturiva, infatti, da esigenze pratiche e dommatiche.
Sotto il primo profilo v'era l'esigenza di mettere un freno temporale alle prevedibili ondate di azioni risarcitorie (autonome) correlate a provvedimenti amministrativi illegittimi. Le quali si sarebbero verosimilmente aggiunte (anche a distanza di molto tempo) alla già diffusa prassi di proporre sistematicamente l’azione risarcitoria accanto a quella di annullamento.
Sotto il profilo dommatico l'esigenza scaturiva dall'inquadramento, che via via si è ritenuto necessario fornire alla disciplina della responsabilità dell'Amministrazione in tali casi: non più come norma primaria, sibbene come norma secondaria.
Occorre ricordare che la sentenza delle Sezioni unite n.500 del 1999, che per prima ha riconosciuto la risarcibilità generale degli interessi legittimi, ha inquadrato la fattispecie nell'ambito dell'art. 2043 cod. civ., inteso come norma primaria. Norma, cioè, che costituisce essa il diritto al risarcimento del danno, quale che sia la posizione giuridica (diritto soggettivo o interesse legittimo) che risulti lesa[9].
In tal quadro, che vedeva tra l'altro la competenza giurisdizionale in materia in capo al Giudice ordinario, proprio perchè la causa petendi risultava di diritto soggettivo, non poteva certo essere messa in discussione l'applicazione del generale termine di prescrizione. Ma, mutando il Giudice competente e, soprattutto, mutando il contesto interpretativo, non poteva non cambiare anche il termine per l'esercizio della relativa tutela.
Infatti, allorchè la legge 205 del 2000 ha attribuito la giurisdizione in materia al Giudice amministrativo, nell'ambito -si noti- della generale competenza di legittimità e non della sua competenza esclusiva, è risultato chiaro che la scelta legislativa poteva essere giustificata solo sulla base di un diverso presupposto dommatico. Sul presupposto, cioè, di considerare la disciplina sulla responsabilità come norma di tipo secondario e non primario: come norma diretta a fornire un'ulteriore tutela ad una posizione (nella specie, di interesse legittimo), già protetta dall'ordinamento (attraverso la disciplina dell’esercizio del potere[10]) e che si assume come lesa per violazione appunto della relativa disciplina.
In questo diverso contesto ricostruttivo[11] la causa petendi fatta valere per il risarcimento del danno è, appunto, l'interesse legittimo. Sicchè da un lato è risultata giustificata l'attribuzione della giurisdizione al Giudice amministrativo, nell'ambito della sua generale competenza di legittimità; d'altro lato peraltro non poteva non risultare incongrua l'applicazione del termine di prescrizione, che non riguarda più il diritto al risarcimento del danno (concezione di norma primaria), sibbene -almeno nei casi di danni correlati ad un provvedimento illegitto- l'interesse legittimo leso, di cui si chiede il risarcimento (concezione di norma secondaria).
Occorre, dunque, riconoscere che sussisteva la necessità di un diverso e più appropriato termine per quest'ultima evenienza e che il legislatore disponeva di ampia libertà di scelta in proposito, tenuto conto del particolare tipo di posizione fatta valere (l'interesse legittimo), correlata all'esercizio del potere amministrativo (a sua volta assoggettato ad una quantità e varietà di parametri normativi, che non hanno pari nei rapporti privatistici), le cui statuizioni necessitano di un rapido consolidamento per ovvie esigenze di certezza del diritto[12]. Tuttavia non si può non rilevare che la soluzione adottata (decadenza, decorsi 120 giorni dalla conoscenza del provvedimento lesivo) lascia più di una perplessità. Non già per la brevità del termine in sé considerato[13], quanto perché detto termine finisce per coincidere col termine ordinario di impugnazione del provvedimento amministrativo in sede di ricorso straordinario[14], così facendo dubitare dell'utilità dell'intera operazione. Infatti, una volta che si attesti l'inoppugnabilità al decorso dei 120 giorni, risulterebbe ricompresa in essa non solo il concetto della impossibilità di impugnazione, ma anche quello -più sostanziale- della definitiva incontestabilità dell'atto, quale che sia il fine (caducatorio o risarcitorio) di tale contestazione: sicchè verrebbe meno la risarcibilità del provvedimento inoppugnabile, che, come si è visto, è stata una delle principali ragioni portate a sostegno dell'autonomia dell'azione risarcitoria.
Si potrebbe obbiettare che così non è.
Anzitutto perchè il termine di decadenza decorre “dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo” (art. 30 c. 3 C.p.A.). E si potrebbe così pensare che sussista un diverso dies a quo, rispetto all'impugnazione dell'atto: perchè, a differenza di quest'ultima, il termine di decadenza potrebbe iniziare a decorrere dal momento dell'esecuzione dell'atto e non dalla sua emanazione, almeno in tutti i casi in cui il danno non derivi direttamente da esso.
Un'interpretazione di tal fatta è possibile. Anche se, dovendosi comunque trattare di “fatto” lesivo di interessi legittimi, la disposizione evoca piuttosto i casi di “fatti” rivelatori di un provvedimento, altrimenti non conosciuto, in quanto non comunicato.
In ogni caso, per quanto si possa dilatare la “forbice” tra termine di impugnazione e termine per l'azione risarcitoria, è chiaro che la brevità di quest'ultimo costituisce una notevole remora al suo esercizio autonomo. Infatti, dovendosi adire anche a fini solo risarcitori il Giudice amministrativo entro un breve termine di decadenza e per far valere comunque l’illegittimità dell’esercizio del potere, l'azione di impugnazione non pare costituire (anche sotto il profilo dei costi) un particolare aggravio aggiuntivo. Se si considera poi che, viceversa, l’azione risarcitoria può essere sempre proposta nel corso del giudizio di annullamento e “sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza” (art. 30 c. 5 C.p.A.)[15], si converrà che sussiste più di una ragione pratica idonea ad indurre ad utilizzare comunque il rimedio dell'impugnazione e non solo quello del risarcimento autonomo.
Ciò nondimeno, l'autonomo esercizio dell'azione di risarcimento può conservare un suo, ancorchè circoscritto, spazio di operatività, se non altro per le ipotesi in cui il termine di impugnazione sia ormai decorso (soprattutto se si considera solo quello per l’impugnazione giurisdizionale), ma non ancora quello per l’azione risarcitoria. E, inoltre, quest’ultimo termine non preclude di per sé quell'ampia facoltà di scelta tra rimedi esperibili, che si è già illustrata nel paragrafo precedente e che potrebbe indurre il ricorrente a preferire il rimedio del solo risarcimento dei danni, sia pure con una scelta da operare nell'arco ristretto dei fatidici 120 giorni.

 

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3-. Ma, come ognun sa, l'azione autonoma di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi è sottoposta ad ancora una e più penetrante limitazione. Infatti, è previsto che il Giudice, oltre a valutare il comportamento complessivo delle parti, “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti” (art. 30 c. 3, C.p.A.).
Si dirà che non si tratta certo di una grossa novità, dato che l'applicazione dei criteri dell'art.1227 cod. civ. al tema di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi è stata ampiamente ammessa anche in passato[16]. E tuttavia la riferita disposizione dell'art. 30 c. 3, che è destinata ad avere un ruolo centrale sull'intera problematica, non può essere liquidata con tale semplice considerazione.
Anche perché essa indurrebbe a ritenere, parlando di esclusione di responsabilità, che il precetto vada inquadrato nel secondo (e non nel primo) comma dell'art. 1227 cod. civ.. Dunque, non si tratterebbe di circostanze valutabili discrezionalmente dal Giudice e rilevanti in via di fatto ai fini della determinazione del danno risarcibile, nel concorso di colpa del danneggiato (art. 1227, co 1, cod. civ.), sibbene di vera e propria causa di esclusione della responsabilità (esimente), per i danni che avrebbero potuto essere evitati: l'esclusione, infatti, scaturisce dal comportamento del danneggiato e presuppone che tale comportamento sia l'unica causa efficiente dell’evento[17] (e, cioè, dei danni che si sarebbero potuti evitare), ovvero comunque che esso interrompa e limiti il nesso di causalità, rispetto al comportamento del danneggiante.
Tuttavia un qualche scostamento dal modello dell’art. 1227 co 2 del codice civile è agevolmente rilevabile. Anzitutto perché, mentre la giurisprudenza ha costantemente qualificato detta ipotesi (danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza) come un'eccezione in senso stretto, che deve dunque essere sollevata dalla parte con le modalità e i tempi prescritti[18], la norma depone in senso contrario. Infatti, la sua dizione (“il Giudice ...esclude il risarcimento...”) lascia pensare ad una preclusione ben rilevabile d'ufficio[19].
Inoltre perchè ricomprende, tra le misure di ordinaria diligenza esigibili dal soggetto leso, “l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”. Tra i quali sicuramente rientra l'impugnazione dell'atto, in sede giurisdizionale o di ricorso amministrativo, superando anche sotto questo profilo quel consolidato orientamento della giurisprudenza civile, che ha sempre escluso che la tutela giurisdizionale fosse da ricomprendere tra i comportamenti normalmente esigibili dal danneggiato, anche per i costi e i rischi che un'iniziativa di tal fatta comporta[20].
E invero trasformare il diritto alla tutela (giurisdizionale o amministrativa) in un dovere o, quanto meno, in un onere, il cui mancato esercizio sia reputato autonoma causa del danno, è una scelta legislativa che lascia più di una perplessità. Per quanto, infatti, il comportamento diligente, di cui all'art.1227, c.2 cod. civ., implichi non solo il dovere di astensione dall'aggravamento del danno, ma anche il dovere di porre in essere comportamenti positivi, diretti a ridurre il danno medesimo, e per quanto l'impugnazione dell'atto costituisca un onere aggiuntivo tutto sommato poco gravoso, rispetto alla semplice azione di responsabilità (supra, par. 2), considerare per legge il suo mancato esercizio contrario all’ordinaria diligenza[21] e, così, come causa unica ed efficiente dell'evento dannoso (che si sarebbe potuto evitare[22]), ovvero come causa di interruzione del nesso causale[23], costituisce pur sempre un'operazione ardita sul piano logico e della proporzionalità[24].
Proprio nel tentativo di superare tale incongruenza è stata prospettata la tesi che il predetto onere di diligenza potrebbe dirsi soddisfatto indipendentemente dall'impugnazione dell'atto e con un semplice invito all'Amministrazione ad esercitare i suoi poteri di autotutela. In tal caso incomberebbe sul danneggiato anche l'onere di denunciare all'Amministrazione i profili di illegittimità, di cui l'atto sarebbe inficiato[25].
Tale pur comprensibile approccio interpretativo, in linea con quanto originariamente previsto dal testo del Codice elaborato dal Consiglio di Stato[26], sembra peraltro in contrasto col tenore della norma definitivamente licenziata ed entrata in vigore. L'invito all'autotutela non costituisce, infatti, in senso tecnico uno “strumento di tutela” da parte del danneggiato[27]. Inoltre, nell'unico caso -a quanto consta- in cui è stata data ad esso rilevanza, ai fini dell'art. 1227 cod. civ (si tratta dell'art. 6 c.5 del D. Lgs. n. 53/2010, a proposito della previa comunicazione dell'intento di proporre ricorso giurisdizionale in materia di aggiudicazione di appalti pubblici)[28], detta iniziativa non esonera certo dalla successiva impugnazione degli atti della procedura, tant’è che il risarcimento del danno per mancato conseguimento del contratto è ricollegato pur sempre all’annullamento dell’aggiudicazione non seguita dalla caducazione del contratto stesso[29].
Se, dunque, il comportamento atteso dalla legge –e sicuramente idoneo a non escludere il risarcimento– è dato dall'impugnazione dell'atto, occorre chiedersi quali siano i danni da illegittimo esercizio dell'azione amministrativa, che una tempestiva impugnazione dell'atto non avrebbe potuto evitare. E qui il compito del Giudice (e dell’interprete) diventa piuttosto complicato, perché esso implica un giudizio “controfattuale” (o di causalità ipotetica[30]), come sempre avviene allorché si devono valutare le conseguenze di un’omissione.
Si può, comunque, pensare a questo proposito ai pregiudizi che si sarebbero comunque verificati nei tempi tecnici normalmente necessari per il giudizio di annullamento[31] o di adempimento[32], valorizzando così, ma su un piano di valutazione meramente ipotetica, l’aforisma “factum infectum fieri nequit”. Ma se tra i comportamenti esigibili del soggetto leso si dovesse ricomprendere anche l'azione cautelare[33], si converrà che i danni comunque risarcibili, perchè indipendenti dall'esercizio “degli strumenti di tutela previsti”, si riducono a ben poca cosa[34] (a meno che l’azione cautelare, pur esercitata, non abbia avuto esito positivo).
E allora v'è da domandarsi se la pregiudizialità amministrativa sia stata veramente eliminata, così come è formalmente statuito dall'art. 30, c. 1 del Codice, o non si sia piuttosto (sostanzialmente) rafforzata[35], per la circostanza che la necessità dell'esperimento dei mezzi di tutela (impugnatoria) è ora espressamente prevista dalla legge e non scaturisce soltanto da esigenze di sistema. La risposta sarà fornita ovviamente dall'elaborazione giurisprudenziale, che sarà probabilmente piuttosto prudente nei primi tempi: ma è forte sin d'ora l'impressione che ai fini pratici la pregiudizialità, espulsa dalla porta, risulti in gran parte rientrata dalla finestra.
E’ solo ridotto il suo campo di applicazione. Da un lato perché sono risarcibili, come si è visto, quei pregiudizi che l’impugnazione e l’annullamento non avrebbero potuto evitare[36] e, d’altro lato, perché, sussistendo ora un termine breve di decadenza dell’azione risarcitoria, l’eventuale suo superamento costituisce una questione preliminare, che esclude che venga in rilievo la diversa questione dell’impugnazione e dell’annullamento dell’atto, che costituisce, viceversa, una vera e propria questione pregiudiziale di merito (e non di rito).
Tuttavia l'operazione effettuata –frutto, com’è noto, di una soluzione di ampio compromesso- risulta deludente dal punto di vista dell'accrescimento della tutela risarcitoria e, per altro verso, non appare impeccabile dal punto di vista dommatico. E la pregiudizialità amministrativa, più che abolita o rafforzata, appare sostanzialmente travisata o, comunque, totalmente trasformata nella sua funzione.
Infatti, la soluzione accolta da un lato induce a ritenere illecito, ciò che per l'ordinamento è consentito (la produzione di effetti e la vincolatività di un atto illegittimo, ma non impugnato, né annullato) e, d'altro lato, pare concepire la mancata impugnazione come causa efficiente dei danni, che la stessa avrebbe potuto evitare: il che, oltre ad apparire illogico e contrario al principio di proporzionalità, fa insorgere non pochi scrupoli di legittimità costituzionale, tenuto conto che il diritto alla tutela giurisdizionale, consacrato nell’art. 24 della Costituzione, non pare possa essere facilmente trasformato in un obbligo o, quanto meno, in un onere, il cui mancato esercizio comporta (oltre alle normali preclusioni) persino l’aberrante conseguenza dell’addebitabilità dei danni al danneggiato e, cioè, allo stesso titolare del diritto alla tutela giurisdizionale.
E allora ci si deve chiedere se ai medesimi risultati non si possa pervenire sulla base di una diversa ricostruzione dell'intera disciplina fin qui richiamata, che tenga conto delle esigenze di sistema e delle necessità di ordine costituzionale. Il che è forse possibile svincolando l’istituto in esame dall’inquadramento nell'art. 1227 c. 2 cod. civ. (e, dunque, da ogni questione incidente sul nesso di causalità), per considerarlo viceversa come fattispecie limitativa (o come eccezione alla regola) della causa di giustificazione, pur prevista in linea generale dall'ordinamento.
Si potrebbe, in altri termini, mantenere ferma quella che credo debba essere l'impostazione di base (l'atto illegittimo, ma non impugnato, né annullato, è lecito, in quanto la sua operatività è consentita dall'ordinamento), salvo a limitarla (con un’interpretazione “a contrariis” dell’art. 30 co 3) per i casi dei danni che non potrebbero essere evitati utilizzando i normali rimedi impugnatori. In quest’ultima ipotesi la causa di giustificazione non opera e l’atto illegittimo può essere qualificato illecito –con conseguente risarcimento dei danni, ove ricorrano tutti gli altri presupposti della responsabilità, ivi compresa la colpevolezza–, perché il nuovo codice consente espressamente che si possa prescindere dalla impugnazione, ove questa non fornisca un’utilità diretta in termini di pregiudizio evitato (cfr. supra, par. 1), così come esclude la necessità dell’annullamento, se, nel corso del giudizio impugnatorio, esso “non risulta più utile per il ricorrente” (art. 34 c. 3)[37].
In tutti gli altri casi, viceversa, la pregiudizialità amministrativa continua ad operare pienamente[38]. E l'impugnazione dell'atto illegittimo risulta necessaria ai fini del risarcimento non già per ragioni di imputabilità dei danni (che scaturiscono sempre e soltanto dall'atto illegittimo e non dal comportamento processuale del danneggiato), sibbene per ragioni afferenti alla illiceità della condotta, che, in linea di principio e per le ragioni più volte esposte, può scaturire soltanto dall'atto nullo o dall'atto annullato e non dall'atto illegittimo, ma efficace e vincolante per i suoi destinatari[39].

 

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* Contributo destinato agli Studi in onore del Prof. Alberto Romano.
[1] Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, pag.189 e ss.
[2] Cfr. Cass. Sez. Un. Ordinanza 13 giugno 2006 n. 13659.
[3] Cass., Sez. Unite, 23 dicembre 2008, n. 30254, che si può leggere in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, pag. 460 e ss.
[4] Contrariamente a quanto si legge nella già citata ordinanza della Cass. Sez. Un. 13 giugno 2006 n. 13659.
E così, se si chiede ad esempio il risarcimento per i danni causati dal provvedimento di espropriazione (e dalla sua esecuzione), non basta certo far valere la lesione del diritto di proprietà. Occorrerà, viceversa, dedurre precisi vizi di legittimità dell’atto, perché solo da questi potrà scaturire l’antigiuridicità della condotta, trattandosi comunque di un atto (e non di un fatto), autorizzato dall’ordinamento a produrre effetti nella sfera giuridica altrui: sicchè il neminem leadere non può prescindere da detta connotazione della condotta.
[5] Cfr. Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2003 vol. I, pag. 558, che precisa: “non si tratta di considerare l'atto come non avesse prodotto alcun effetto, ma, all'inverso, di verificare nell'analisi “principaliter” degli elementi costitutivi dell'illecito, che esso ha prodotto un effetto nefasto, la cui perniciosità si intende elidere sul piano risarcitorio”.
[6] Consentitemi un richiamo a “Inoppuganbilità e disapplicazione dell'atto amministrativo nel quadro comunitario e nazionale (note a difesa della c.d. pregiudizialità amministrativa)”, in Riv. It. dir. pubbl. com., 2006 pag. 513 e ss., nonché a “La Cassazione conferma il risarcimento autonomo dell'interesse legittimo: progresso o regresso del sistema?” in Dir. proc. amm., 2009, pag. 480 e ss.
[7] Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, III ed., Milano 2009, pag. 222. Con l'ulteriore precisazione che “l'unità dell'ordinamento, che è alla base dell'istituto delle cause di giustificazione, comporta non solo che le cause di giustificazione possano essere previste in qualsiasi luogo dell'ordinamento, ma anche che la loro efficacia sia 'universale': il fatto, cioè, sarà lecito in qualsiasi settore dell'ordinamento, e quindi non potrà essere assoggettato a nessun tipo di sanzione (penale, civile, amministrativa, ecc.)”: ivi, pag. 223.
[8] Mi riferisco, in particolare, alla giurisprudenza della Corte di giustizia, sovente travisata. Cfr. in proposito quanto sostenuto in “La cassazione conferma il risarcimento autonomo”, cit. pag. 483 e ss. e ivi ulteriori richiami alla giurisprudenza comunitaria.
Ricordo solo che l’autonomia dell’azione risarcitoria è stata predicata dalla Corte di Giustizia essenzialmente ai casi in cui il singolo non avrebbe potuto impugnare l’atto lesivo, per i limiti di legittimazione previsti dall’ordinamento comunitario in ordine agli atti normativi.
[9] Si legge infatti in detta sentenza che “Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui.
In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquilana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante”.
[10] Correlata peraltro (non lo si deve dimenticare) al regime della illegittimità/annullabilità e non a quello della inefficacia e della nullità.
[11] Fatto sostanzialmente proprio anche dalla Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 204 del 2004.
[12] Tali esigenze risultano ribadite in Cons. Stato, sez. Vi 3 febbraio 2009, n. 578, in Foro amm., 2010, 1, 170.
[13] Del resto il medesimo codice civile prevede più di un caso in cui la tutela risarcitoria è assoggettata a termini ancor più ristretti.
[14] Anche se il ricorso straordinario non è più un rimedio generale, dato che non è ammesso in particolare in tema di procedure di affidamento di appalti (cfr. art. 120, c. 1 Codice del processo amministrativo).
[15] Quest’ultima norma si espone anch’essa ad un qualche rilievo critico, perché non distingue tra annullamento degli atti correlati ad interessi legittimi pretensivi e annullamento degli atti correlati ad interessi oppositivi.
In quest’ultimo caso si può sempre dire –conformemente alla tradizionale ricostruzione della fattispecie- che riemerga il diritto soggettivo e che il risarcimento riguardi proprio quest’ultima posizione. Per la quale, dunque, dovrebbe trovare applicazione il termine quinquennale di prescrizione e non il termine di decadenza di cui all’art. 30 co 3.
[16] Cfr., ad esempio, Cons. Giust. Amm. Sicilia, 18 maggio 2007, n. 386.
[17] Cfr. Cass., III, 15 marzo 1989, n. 1306. Contra, Cass., sez. lav., 3 marzo 1983, n. 1594.
[18] Cfr. Cass., sez. III, 25 maggio 2010, n. 12714; Cass., sez. lav., 14 maggio 2010, n. 11737; Cass., III, 27 giugno 2007, n. 14853; Cass., II, 19 dicembre 2006, n. 27123; ecc.
[19] In tal senso, peraltro, aveva già concluso Cons. Stato, sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183.
[20] Cfr. da ultimo Cass., sez. I, 5 maggio 2010, n. 10895; Cass., sez. III, 25 maggio 2010, n. 12714; Cass., se. III, 29 settembre 2005, n. 19139. Giurisprudenza costante.
Cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 19 maggio 2009, n. 3066, Foro amm. 2009, 1281)
[21] Prima del nuovo Codice, l’impugnazione dell’atto è stata giudicata rilevante ai sensi dell’art. 1227, c. 2, da Cons. Stato, sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183, mentre Cons. Stato, sez. V, 19 maggio 2009, n. 3066 ha così giudicato: “la mancata impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti non integra un comportamento rilevante ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., secondo cui il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
Il dovere di correttezza imposto al danneggiato dall’art. 1227, c.c., presuppone un’attività che avrebbe avuto il risultato sicuro di evitare o ridurre il danno, senza implicare l’obbligo d’iniziare un’azione giudiziaria, non essendo il creditore tenuto ad un’attività gravosa o implicante rischi e spese”.
[22] Secondo le logiche tipiche dell’illecito prodotto da omissione, ex art. 40, c. 2 del codice penale (“non impedire l’evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”).
[23] Secondo le logiche tipiche della teoria condizionalistica (o dei suoi noti correttivi), che trovano codificazione nell’art. 41 c. 2 del codice penale (“le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”). Cfr., sul punto, Cass., sez. III, 7 aprile 1988, n. 2737, cit..
[24] E’ stato, infatti, di recente giudicato che “L’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, ma solo quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737)” (Cass., sez. III, 30 aprile 2010, n. 10607). Cfr. anche Cass., sez. III, 15 ottobre 2010, n. 21328; Cass., sez. III, 8 luglio 1998, n. 6640).
E francamente pare difficile attribuire tali connotati alla mancata impugnazione dell’atto lesivo.
[25] Così Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, punto 3.4.
[26] Cfr. Chieppa, Il codice del processo amministrativo, cit., pag.191.
[27] Anche perché la fattispecie dell’art. 1227 co 2 pare riferirsi a comportamenti del solo danneggiato e che prescindano, comunque, da quelli che coinvolgono anche il danneggiante.
Inoltre, se anche l’invito all’autotutela fosse uno “strumento di tutela”, non sarebbe certo l’unico, dato che sussisterebbe pur sempre la possibilità di impugnazione dell’atto. E quest’ultimo potrebbe essere considerato comunque esigibile, dato che la norma impone di qualificare come di “ordinaria diligenza” … “l’esperimento degli strumenti di tutela”.
[28] Il citato art. 6 c. 5 statuisce che “l'omissione della comunicazione di cui al comma 1 [e, cioè, dell'informativa in ordine al proposito di proporre ricorso giurisdizionale] e l'inerzia della stazione appaltante [equiparata espressamente al diniego di autotutela] costituiscono comportamenti valutabili...ai sensi dell'art. 1227 cod. civ.”. Dato il tenore della norma sembra che la stessa si riferisca al c. 1, più che al secondo comma, dell’art. 1227, dato che non comporta “tout court “ esclusione di responsabilità.
[29] L’art. 124 c. 1 del Codice del processo amministrativo dispone che “L’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”. Dunque, tale fattispecie risarcitoria è subordinata anzitutto all’annullamento dell’aggiudicazione, di cui all’art. 121, comma 1, e 122, nonché alla mancata dichiarazione di inefficacia del contratto.
Il secondo comma dell’art. 124 a sua volta prescrive che “la condotta processuale della parte, che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di [conseguire l'aggiudicazione e il contratto, n.d.r.] o non si è reso disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal Giudice ai sensi dell'art. 1227 del codice civile”. Anche in questo caso, come in quello preso in considerazione nella nota precedente, il tenore della norma convince per l'inquadrabilità nel primo e non nel secondo comma dell'art. 1227 cod. civ.
[30] Parla di causalità giuridica –da contrapporre a quella materiale- Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; cfr., pure, Cass., sez. III, 7 aprile 1988, n. 2737.
[31] Esempi in Chieppa, Il codice del processo amministrativo cit., pag. 199.
[32] Ove quest’ultimo si reputi, come ormai non dovrebbe essere dubbio, ammissibile in linea generale e non solo nel caso del silenzio dell’Amministrazione.
[33] Contra Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751, cit., e, in dottrina, Chieppa, op. cit., pag. 199. Ma vedi a pag. 591, la diversa opinione espressa dallo stesso Autore a proposito della domanda cautelare in materia di illegittimo affidamento degli appalti.
[34] E la nuova disciplina finirebbe così per discostarsi da quella richiesta dalla tradizionale pregiudizialità amministrativa solo perchè esonera il danneggiato dall'esperimento di impugnazioni (per lui) non direttamente utili.
[35] Secondo Chieppa, op. cit. pag. 192 e ss. la scelta legislativa non sarebbe a favore della pregiudizialità della azione di annullamento, né a favore della sua assoluta indifferenza ai fini risarcitori. Sarebbe stata viceversa accolta al tesi della “rilevanza” della previa impugnazione dell'atto ai fini dell'esame della domanda risarcitoria.
Tutto ciò è condivisibile in linea generale. Ma, con riferimento ai “danni che si sarebbero potuti evitare” si converrà che la pregiudizialità amministrativa (nel caso di mancata impugnazione dell'atto) conserva pressochè immutata la sua funzione preclusiva del risarcimento del danno.
[36] Rientra in tali casi, come si è visto, quanto disposto dall’art. 34, co. 3 del medesimo Codice, a proposito dell’annullamento che nel corso del giudizio non risulti più utile.
[37] In tali limitate fattispecie opera dunque l'eccezione, prevista dall'art. 34 c. 2, rispetto al principio che “il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento”.
[38] Ovviamente, se è rispettato il termine di decadenza per l’azione risarcitoria.
[39] Deve essere chiara la differenza tra la linea interpretativa proposta e quella che scaturisce dall’inquadramento nell’art. 1227 c. 2 cod. civ.
In questo secondo caso, come si è accennato, il provvedimento illegittimo (ma efficace) è di per sé anche illecito (cioè presenta un’antigiuridicità, che consente di inquadrarlo “tout court” nell’ambito del “neminem laedere”), con tutte le conseguenze del caso in ordine al risarcimento del danno. Tuttavia, per ragioni attinenti al nesso di causalità ed espressamente codificate nell’art. 30 co. 3, non sono risarcibili quei pregiudizi, che l’impugnazione dell’atto avrebbe potuto evitare.
Nel primo caso, viceversa, il provvedimento illegittimo (ma efficace) è di per sé lecito, in quanto opera la scriminante più volte ricordata. Dunque l’annullamento dell’atto è un passaggio logico-giuridico necessario per eliminare tale causa di giustificazione. Tuttavia, poiché l’art. 30 c. 3 esonera il danneggiato dalla previa impugnazione, nei casi e per i danni che questa non avrebbe potuto evitare, la scriminante risulta per ciò solo in tali casi inoperante, con ogni conseguenza in ordine alla qualificazione dell’atto illegittimo come illecito: e lo scostamento dalla regola può trovare una qualche giustificazione nel bilanciamento delle esigenze di sistema (che depongono per la scriminante) con l'esigenza, manifestata dal nuovo codice (cfr. anche art. 34 c. 3), di circoscrivere l'onere e l'interesse all'impugnazione ai casi di utilità diretta (in termini di danni da evitare) dell'impugnazione medesima.

 

(pubblicato il 22.12.2010)

 

 

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