Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 6 -2010 - © copyright

 

ROBERTO CARANTA

La tutela risarcitoria*


1-. La legge delega.

Un certo numero di previsioni della legge delega riguardano, se non specificamente almeno nella loro portata generale, la tematica del risarcimento del danno. Al proposito meritano di essere menzionate a livello generale l’esigenza “di assicurare la concentrazione delle tutele” (art. 44, comma 1), nonché, per quanto riguarda i criteri di delega, il richiamo “concentrazione ed effettività della tutela” (comma 2, lett. a). Più specificamente la tutela risarcitoria è chiamata in causa nell’àmbito della più generale riforma delle “azioni e le funzioni del giudice” (comma 2, lett. b), e segnatamente nei criteri di cui al n. 3 “disciplinando, ed eventualmente riducendo, i termini di decadenza o prescrizione delle azioni esperibili e la tipologia dei provvedimenti del giudice”, e al n. 4 “prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”.

2-. L’articolato proposto.

Organizzando logicamente le problematiche legate alla tutela risarcitoria quali emergono dall’articolato proposto, si possono distinguere le questioni a) attinenti alla giurisdizione; b) ai rapporti tra azione costitutiva (di annullamento) o dichiarativa (sul silenzio) e azione risarcitoria; c) al termine per la proposizione dell’azione; d) alla disciplina sostanziale dell’illecito; e) all’applicazione dell’art. 2058 cod. civ. e alla determinazione dell’ammontare del danno; f) alla disciplina legata ad un particolare settore (i contratti pubblici); alcune altre questioni che diremmo miscellanee meritano altresì di essere brevemente affrontate sub g).

2.a) Questioni attinenti alla giurisdizione.

In relazione alla giurisdizione viene in rilievo l’art. 7. La disposizione definisce in modo molto ampio la giurisdizione del giudice amministrativo (comma 1: “le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”).
Sia che si tratti di giurisdizione di legittimità, sia che si tratti di giurisdizione esclusiva, la giurisdizione include la cognizione delle controversie “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma” (comma 4; si veda anche il comma 5 “Nelle materie di giurisdizione esclusiva […] il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”).
In modo del tutto condivisibile, il legislatore, in ossequio a ragioni di concentrazione di tutela richiamate nel comma 7, include nella giurisdizione i profili risarcitori. D’altra parte, la stessa Corte costituzionale aveva chiarito che le controversie risarcitorie non attengono a diritti soggettivi, ma completano la tutela predisposta dall’ordinamento a favore di diritti soggettivi come di interessi legittimi: «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione»[1].
Coerentemente, l’art. 30, comma 6, dell’articolato, dispone che “Dell’azione di condanna di cui al presente articolo conosce esclusivamente il giudice amministrativo”. La disposizione intende escludere la possibilità di proporre autonomamente un’azione per il risarcimento di fronte al giudice ordinario, possibilità lasciata eccezionalmente aperta da talune decisioni della Corte di cassazione[2], ma poi negata in arresti più recenti[3].

2.b) Questioni attinenti ai rapporti tra azione costitutiva (di annullamento) o dichiarativa (sul silenzio) e azione risarcitoria.

L’articolato pare – il dubbio è dettato da una formulazione non particolarmente chiara dell’art. 30 – risolvere finalmente la questione dei rapporti tra azione costitutiva (di annullamento) o dichiarativa (sul silenzio) e azione risarcitoria che aveva diviso aspramente la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato, dedicatosi ad azioni di retroguardia degne di miglior causa.
Il limite, appunto, è la scarsa chiarezza della norma. Secondo il 1° comma, “1. L'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma”. Secondo la relazione, “Il codice detta un’articolata disciplina per l’azione di condanna quando risulti necessaria, dopo l’annullamento, una tutela in forma specifica del ricorrente mediante la modificazione della realtà materiale (condanna ad un facere) o sia rimasta inadempiuta un’obbligazione di pagamento o debba comunque provvedersi mediante l’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva”. Peraltro, sarebbe parso, ma non è questo oggetto di attenzione in questa sede, che poteri nei sensi indicati fossero già dati al giudice di ottemperanza (si veda, in particolare, l’art. 112, comma 3). Non si capisce se, invece, il legislatore abbia voluto prevedere una secondo azione di cognizione, dopo quella di annullamento, e prima del giudizio di ottemperanza (con effetti sui principi di effettività e concentrazione che ognuno può indicare). Probabilmente, in un intento restauratore evidente in altre parti del codice (si pensi all’art. 31, comma 3, in materia di poteri del giudice nell’azione avverso il silenzio, ma anche all’art. 34, comma 2, di esclusione di un’azione di accertamento autonomo della legittimità dell’atto amministrativo), la preoccupazione era quella di escludere l’esistenza di un’azione generale di condanna. Ancora la relazione insiste nel senso che “Il carattere residuale della condanna atipica (“all’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva”) è esplicitato dalla previsione secondo cui deve trattarsi di una misura “non conseguibile con il tempestivo esercizio delle altre azioni””.
Il problema, per quando riguarda la tutela risarcitoria, è che l’autonomia dell’azione per il risarcimento dovrebbe desumersi dalla previsione secondo la quale l’azione di condanna sarebbe esperibile autonomamente anche nei casi di cui allo stesso articolo 30 (e i commi successivi sono dedicati proprio all’azione risarcitoria). Nel senso dell’autonomia depone poi l’architettura dei commi 2 e ss. Tali disposizioni, prevedono una diversa decorrenza del termine a seconda che l’azione per i danni sia esperita (andando a ritroso nel testo normativo), dopo l’azione di annullamento, ovvero in relazione all’inosservanza del termine per esperire l’azione, ovvero, si deve autonomamente. Nello stesso senso è invocabile l’art. 34, comma, 2, a tenore del quale “Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento”. L’intentio legis è comunque resa palese sin dalle linee guida disegnate dalla relazione di accompagnamento, la quale, delineando le linee del compromesso raggiunto, dichiara che “si è optato per l’autonoma esperibilità della tutela risarcitoria per la lesione delle posizioni di interesse legittimo, prevedendo per l’esercizio di tale azione un termine di decadenza di quattro mesi – sul presupposto che la previsione di termini decadenziali non è estranea alla tutela risarcitoria, vieppiù a fronte di evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione – e affermando l’applicazione di principi analoghi a quelli espressi dall’art. 1227 cod. civ. per quanto riguarda i danni che avrebbero potuto essere evitati mediante il tempestivo esperimento dell’azione di annullamento”.
Tuttavia, parrebbe a chi scrive più elegante dedicare un separato articolo all’azione risarcitoria, secondo lo schema che si proporrà in seguito.
Inoltre, non pare armonico il diverso trattamento riservato al caso dell’inadempimento. Combinando quanto disposto dall’art. 30, comma 4, e dall’art. 31, comma 2, si desume che l’azione avverso il silenzio si esaurisce in un anno dalla scadenza del termine del procedimento (ferma la possibilità di riproporre l’istanza). Posto, però, che l’inadempimento non si esaurisce (la relazione rileva che “l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento costituisce un illecito di carattere permanente”), l’azione risarcitoria sarebbe sempre esperibile sempre (o, almeno, fino a quando l’amministrazione non si attivi). In questo caso, dunque, l’onere per l’interessato di attivarsi non pare sussistere.

2.c) Questioni attinenti al termine per la proposizione dell’azione.

La soluzione compromissoria faticosamente trovata alla controversa questione relativa ai rapporti tra azione costitutiva (di annullamento) o dichiarativa (sul silenzio) e azione risarcitoria scolora immediatamente sulla disciplina del termine per ricorrere.
Come già accennato, il termine è fissato in 120 giorni. In modo condivisibile la relazione rileva la compatibilità di un termine di decadenza con i principi di effettività rilevanti a livello non solo costituzionale ma, aggiungiamo, europeo. Il problema è quello della decorrenza del termine di 120 giorno, fissato:
• nel caso di azione risarcitoria autonoma, “dal giorno in cui il fatto [dannoso] si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”;
• per il risarcimento dell’eventuale danno conseguente all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, alla scadenza dell’inadempimento (“il termine non decorre fintanto che perdura l’inadempimento”); la proposizione congiunta del rimedio contro il silenzio e di quello risarcitorio non esclude il rispetto del rito ordinario per la seconda domanda (art. 117, comma 6);
• nel caso sia stata proposta azione di annullamento, dal passaggio in giudicato della sentenza che chiude tale giudizio (lo svantaggio di tale opzione, e che il giudizio dell’ottemperanza si trasformerà secondo le modalità del giudizio di ottemperanza a norma dell’art. 11, comma 4, dell’articolato).
L’articolazione descritta risponde alle esigenze del compromesso, e manca di tenuta sul piano teorico. Logicamente, se il termine è di decadenza, non può essere interrotto, neppure dalla proposizione del ricorso impugnatorio. Il termine, dice il comma 3, decorre “dal giorno in cui il fatto [dannoso] si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento”, giorno evidentemente anteriore a quello di proposizione del ricorso in annullamento. Ma si fa finta che non sia mai decorso … Il legislatore, pur di premiare la proposizione del ricorso in annullamento, non si preoccupa delle esigenze di coerenza. La conclusione è dimostrata anche dall’art. 34, comma 3, il quale dispone: “Quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se c’è interesse ai fini risarcitori”. Alla fine si ammette che, magari nel frattempo l’atto impugnato essendo stato eseguito, o avendo esaurito i suoi effetti, il giudizio impugnatorio non è quella specie di elisir che si pretende sia. Ma tant’è.

2.d) Questioni attinenti alla disciplina sostanziale dell’illecito

La soluzione compromissoria faticosamente trovata alla controversa questione dei rapporti tra azione costitutiva (di annullamento) o dichiarativa (sul silenzio) e azione risarcitoria incide anche sulla scarna disciplina sostanziale dettata dal proposto articolato.
Da questo punto di vista, è innanzitutto da ritenere poco elegante il riferimento, nel comma 2, all’attività obbligatoria. Il mancato esercizio di un’attività non obbligatoria non sarà illegittimo, né illecito.
Accettata l’autonomia delle azioni, l’articolato incentiva fortemente la tempestiva proposizione dell’azione di annullamento stabilendo che “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’impugnazione, nel termine di decadenza, degli atti lesivi illegittimi”. Come già accennato, la relazione ricorda che si sono qui voluti esprimere principi analoghi a quelli di cui all’art. 1227 cod. civ., per quanto riguarda i danni che avrebbero potuto essere evitati mediante il tempestivo esperimento dell’azione di annullamento. Dal punto di vista sistematico, non si comprende perché la disposizione codicistica non sia stata espressamente richiamata, come fa, invece, in materia di contratti pubblici, l’art. 124, comma 4, dell’articolato.
Per il resto, si tratta di una scelta politica, discutibile, di addossare un onere di azione a chi subisca l’illecito comportamento della pubblica amministrazione. Sarebbe stato forse più opportuno, come si dirà, addossare analogo onere proprio alla parte responsabile dell’illecito.

2.e) Questioni attinenti all’applicazione dell’art. 2058 cod. civ. e alla determinazione dell’ammontare del danno.

L’art. 30, comma 2, si chiude con la previsione secondo la quale “Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”. Secondo la relazione, si chiarisce che, “nel caso in cui sussistano i presupposti dell’art. 2058 cod.civ. (ossia qualora tale reintegrazione sia possibile e non eccessivamente onerosa per il debitore) può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”.
La disposizione è benvenuta in quanto definitivamente attesta che, contrariamente a quanto affermato pervicacemente da una parte della giurisprudenza amministrativa, l’annullamento non è risarcimento in forma specifica, e il giudice può concederlo, sussistendone gli altri presupposti, solo su istanza di parte. La relazione, in coerenza con quanto affermato in linea generale in tema di azione di condanna, conclude pertanto che “Ciò costituisce il definitivo chiarimento del fatto che con la previsione di questo istituto nel processo amministrativo, già avvenuta ad opera del d.lgs. n. 80 del 1998, non si è introdotta un’azione diretta ad ottenere la condanna del debitore all’adempimento di una obbligazione, né un rimedio in forma specifica per l'attuazione coercitiva del diritto, ma si è inteso estendere al processo amministrativo lo stesso rimedio, di natura risarcitoria, di cui all’art. 2058 cod.civ., al fine di ottenere la diretta rimozione delle conseguenze derivanti dall'evento lesivo attraverso la produzione di una situazione materiale corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno”.
L’art. 34, comma 4, sostanzialmente riprende la disciplina, che sembra aver dato buona prova di sé, introdotto a suo tempo dall’art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, in materia di prefissazione dei criteri di quantificazione del danno, dando però il diritto (anche) al danneggiato di pretendere una condanna non solo sull’an ma anche sul quantum.

2.f) Questioni attinenti alla disciplina legata ad un particolare settore (i contratti pubblici).

Gravissime perplessità, anche dal punto di vista delle azioni risarcitorie, desta la disciplina di cui agli artt. 120 ss., relativa ai contratti pubblici. Come noto, la materia è stata appena oggetto di novellazione da parte del d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d'aggiudicazione degli appalti pubblici. Tale disciplina, come risulta dalla relazione, è stata con poche modifiche, che non interessano in questa sede, inclusa nel codice. Il problema che si discuterà sta, dunque, a monte, nell’inadeguatezza a dare attuazione alle disposizioni europee del d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, ed in particolare ma non solo del suo art. 12.
L’art. 124 dell’articolato, che riprende l’art. 12 appena richiamato, dispone: “1. L’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121 e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone, su domanda e a favore del solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione, il risarcimento per equivalente del danno da questi subito e provato. 2. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile”.
La disposizione presenta numerosi difetti. Il comma primo parla di una domanda di conseguire l’aggiudicazione che, salvo errore, non è menzionata negli articoli precedenti (i quali si limitano a dire che se il giudice annulla l’aggiudicazione, può, a certe condizioni, dichiarare l’inefficacia del contratto). Se si tratta di un potere da esercitare in base al principio della domanda, questo dovrebbe essere chiarito nell’art. 120. Se è un potere d’ufficio, come sembrerebbe dagli artt. 120 (“il giudice dichiara”) e 121 (“il giudice stabilisce”), innestato su un’azioen di annullamento, parlare di domanda di dichiarazione di inefficacia, e sanzionare la mancata domanda, non ha senso. Forse, la confusa disposizione cerca maldestramente di adattare la regola dell’autonomia “temperata” dell’azione risarcitoria alla particolare materia dei contratti pubblici. Ma se questo è il caso, posto che una pronuncia di inefficacia del contratto e successiva aggiudicazione non può prescindere dall’azione impugnatoria, non si vede la necessità di una disposizione specifica. Basta l’art. 30, norma generale, la cui applicazione è resa necessaria dal principio europeo di equivalenza.
In più, la disposizione specifica, crea non pochi ulteriori problemi. Innanzitutto, si dispone che il risarcimento sia dovuto “a favore del solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione”. E’ una violazione clamorosa della disposizione, non incisa dalla novella portata dalla direttiva 2007/66/CE, di cui all’art. 2, comma 7, della direttiva 1992/13/CEE, a tenore del quale “Qualora venga presentata una richiesta di risarcimento danni in relazione ai costi di preparazione di un’offerta o di partecipazione ad una procedura di aggiudicazione, la persona che avanza tale richiesta è tenuta a provare solamente che vi è violazione del diritto comunitario in materia di appalti o delle norme nazionali che recepiscono tale diritto e che aveva una possibilità concreta di ottenere l’aggiudicazione dell’appalto, possibilità che, in seguito a tale violazione, è stata compromessa”. La disposizione, ritenuta applicabile a tutti i contratti pubblici sottoposti alla disciplina europea, esclude la possibilità di limitare il risarcimento al caso di raggiungimento della prova della spettanza dell’aggiudicazione.
Infine, l’ultimo inciso del comma 1 (“subito e provato”), è pleonastico, essendo evidente che non si risarcisce un danno che tale non sia.
Insomma, per essere una disposizione ormai inutile, assorbita dall’art. 30, presenta una valanga di difetti e controindicazioni.

2.g) Questioni miscellanee.

L’art. 26 dell’articolato tratta delle spese di giudizio. Il 1° comma richiama il codice di procedura civile, in linea con uno dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega. Il comma secondo detta una disciplina innovativa della lite temeraria, disponendo “Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”.
La previsione si discosta dalla disciplina dettata dall’art. 96 c.p.c., pure tra quelli richiamati al primo comma, in quanto la condanna può avvenire d’ufficio e la temerarietà della lite viene tra l’altro parametrata, secondo un orientamento tendente a rafforzare l’efficacia del precedente nel nostro ordinamento (si veda anche l’art. 88, comma 1, lett. d), all’esistenza di consolidati orientamenti[4].
Probabilmente l’effettività e tempestività della tutela giurisdizionale sarebbe meglio servita ribadendo con maggior forza che solo eccezionalmente, ed in virtù di un onere motivazionale rafforzato, le spese non seguono la soccombenza.
L’art. 114, comma 4, lett. e) sembra voler introdurre un sistema di astreints, diretto ad evitare la ripetizione delle violazioni. La formula, tuttavia, è ridondante, in particolare per l’inedito riferimento all’iniquità, superfluo dato il riferimento a “ragioni ostative”.

3-. Conclusioni.

Riserve sono legittime sulla volontà di mantenere una situazione di privilegio alla pubblica amministrazione, i cui illeciti sono tenuti il più possibile al riparo dal naturale rimedio del risarcimento[5]. Se tali riserve fossero condivise, in uno spirito di modernizzazione della giustizia amministrativa, intere parti dell’articolato andrebbero riviste, cosa che è evidentemente impossibile in questa sede.
Anche tenendo ferma la voluntas legis, tuttavia, l’articolato pare suscettibile di miglioramento in un’ottica di maggior chiarezza.

 

----------

 

* Presentazione al Seminario su “Il progetto di codice del processo amministrativo”, tenuto su iniziativa dell’Università di Firenze il 24 maggio 2010.
[1] Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Resp. civ. prev., 2004, 1018, con nota di A. Angeletti, A proposito della sentenza della Corte costituzionale sulla giurisdizione esclusiva; in Giust. civ., 2004, I, 2207, con nota di P. Sandulli, L’analisi «critica» della Corte costituzionale sulla giurisdizione esclusiva, e di C. Delle Donne, Passato e futuro della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella sentenza della Consulta n. 204 del 2004: il ritorno al «nodo gordiano» diritti-interessi; in Dir. proc. amm., 2004, 799, con note di V. Cerulli Irelli, Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 (osservazioni a primissima lettura), e di R. Villata, Leggendo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale; si vedano anche Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191, in Foro it., 2006, I, 1625, con note di A. Travi, Principi costituzionali sulla giurisdizione esclusiva ed occupazioni senza titolo dell’amministrazione, e di G De Marzo, Occupazioni illegittime e giurisdizione: le incertezze della Consulta, con la quale la Corte rileva che il legislatore ha istituito «un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione», e, più recentemente, Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140, in Foro it., 2008, I, 435, con nota di G. Verde, E’ ancora in vita l’art. 103, 1° comma, Cost.?, e in Giust. civ., 2007, I, 1815, con nota di G. Finocchiaro, Brevi osservazioni circa l’applicabilità dell’art. 5 c.p.c. alla domanda cautelare ante causam, in relazione ad un’ipotesi particolare di giurisdizione esclusiva estesa al risarcimento del danno, ha ritenuto che «legittimamente la norma censurata [abbia] riconosciuto esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche una tutela risarcitoria, per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamene sofferto».
[2] Ad es. Cass., Sez. un., 25 gennaio 2006, n. 1373 (Ord.), secondo la quale, salva restando l'attribuzione al giudice ordinario della cognizione incidentale sull'atto amministrativo e del potere di disapplicazione dell'atto illegittimo nei casi in cui esso venga in rilievo non già come causa della lesione del diritto soggettivo dedotto in giudizio, ma solo come mero antecedente sicché la questione venga a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico, resta esclusa dalla giurisdizione del giudizio ordinario l'azione risarcitoria avente a oggetto il pregiudizio derivante da un atto amministrativo definitivo per difetto di tempestiva impugnazione, essendogli precluso il sindacato in via principale sull'atto o sul provvedimento amministrativo. Qualora, invece, non venga in contestazione il legittimo esercizio dell'attività amministrativa - come avviene nei casi in cui l'atto amministrativo sia stato annullato o revocato dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di autotutela, ovvero sia stato rimosso a seguito di pronuncia definitiva del giudice amministrativo, ovvero ancora abbia esaurito i suoi effetti per il decorso del termine di efficacia ad esso assegnato dalla legge - l'azione risarcitoria rientra nella giurisdizione generale del giudice ordinario, non operando, in tal caso, la connessione legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria, la quale resta subordinata all'iniziativa del ricorrente, essendo questi libero di esercitare in un unico contesto entrambe le azioni, ovvero di riservarsi l'esercizio separato dell’azione risarcitoria dopo aver ottenuto l'annullamento dell'atto o del provvedimento illegittimo, proponendo la sua domanda al giudice ordinario, cui compete in via generale la cognizione sulle posizioni di diritto soggettivo.
[3] Cass., Sez. un., 13 giugno 2006, n. 13659, in Foro it., 2007, I, 3181.
[4] Peraltro, il contrasto con precedenti consolidati orientamenti giurisprudenziali era già stato valorizzato nella giurisprudenza: nel senso che è qualificato da colpa grave, e perciò fonte di responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c., il comportamento della parte che deduca il difetto di giurisdizione dell'adito giudice ordinario fondando tale eccezione su un presupposto di fatto inesistente e si opponga ad una domanda in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale già formatosi al riguardo, si veda Cass. civ. Sez. lavoro, 17/02/1993, n. 1953; per C. Conti, Toscana, Sez. giurisdiz., 14 gennaio 2005, n. 22, deve essere condannato per responsabilità aggravata - ai sensi dell'art. 96 c.p.c. – l’istituto previdenziale che abbia resistito pervicacemente in giudizio chiedendo il rigetto di un ricorso in materia pensionistica, pur in presenza di un chiaro dettato normativo e di un conforme e consolidato orientamento giurisprudenziale favorevole alle pretese attoree.
[5] Si rinvia a R. Caranta, Attività amministrativa ed illecito aquiliano. La responsabilità della p.a. dopo la l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano, Giuffré, 2001.

 

(pubblicato il 7.6.2010)

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento