(Il testo delle relazioni del Prof. Fabio Merusi e del Presidente Pier Maria Piacentini è stato trascritto a cura delle Dott. Miriam Allena e Scilla Vernile e rivisto dagli Autori; il Prof. Fabio Saitta ha invece fornito la relazione scritta)
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Prof. Fabio Merusi
Grazie di questa occasione di parlare in tempo reale di quello che sta succedendo e che succederà con riguardo al processo amministrativo.
Potrei cominciare con una battuta: nell’ultimo periodo della sua vita Massimo Severo Giannini andava ai convegni ed esordiva spesso dicendo “il titolo è sbagliato e vi spiego perché”.
Se mi permettete questo è uno dei casi in cui si potrebbe imitare il grande Maestro perché il titolo “La sistematica delle azioni nel nuovo processo amministrativo” è un titolo in questo momento sbagliato, nel senso che le azioni non esistono più, mentre potrebbe diventare un tema di attualità se succederà qualche cosa nel frattempo.
Nell’elaborazione del Codice c’è stata una battuta d’arresto grazie a una serie di mail firmata da settantacinque Professori di diritto amministrativo che si sono lamentati con la Presidenza del Consiglio del fatto che le azioni che erano presenti nel primo elaborato della Commissione costituita dal Consiglio di Stato per la redazione del Codice fossero scomparse.
Sono state per esempio tagliate alcune affermazioni di principio che c’erano all’inizio del Codice, ma soprattutto sono state eliminate due tipiche azioni, l’azione di accertamento e quella di adempimento.
Ora, l’azione di accertamento in pratica è orami accettata da quasi tutti i Tar della Penisola nel senso che, mascherato dietro un’azione di annullamento, molto spesso si ottiene l’accertamento di determinati rapporti fra il cittadino e la P.A..
L’azione di accertamento è particolarmente importante; si pensi a quanto accade in materia urbanistica dove ci sono determinate situazioni nelle quali in realtà non si annulla nulla ma si chiede semplicemente al giudice di accertare per esempio che un determinato manufatto è stato costruito in conformità alla normativa all’epoca esistente.
Ora che l’azione di accertamento (che pure non era altro che la consolidazione di qualcosa nei fatti già esistente) è venuta meno, bisognerà ancora una volta fingere di chiedere l’annullamento di un provvedimento mentre in realtà si chiede di accertare un dato rapporto giuridico.
In passato, nei libri di storia del diritto i codici venivano divisi in due tipologie: i codici di consolidazione che erano quelli in cui si accertava il diritto romano comune vigente per ragioni di certezza (e che costituivano il minimo comun denominatore dell’interpretazione dei giudici), e i codici innovativi in cui si introducevano norme nuove che dovevano sconvolgere l’ordinamento (così, il Codice Napoleonico veniva distinto di solito dal Landrecht prussiano perché il primo era innovativo e il secondo aveva operato una mera consolidazione del diritto comune esistente in Prussia).
L’elemento innovativo del nostro codice era soprattutto l’azione di adempimento, cioè la previsione (più o meno a imitazione di quello che succede nell’ordinamento tedesco ma anche in quello spagnolo) che il giudice amministrativo in determinati casi non si limita soltanto ad annullare, ma accerta e impone alla p.a. una determinata soluzione che la p.a. non ha accettato o non ha accolto.
Il limite di quest’azione deriva dal fatto che è controverso se il g.a. possa sindacare la discrezionalità dell’amministrazione. Così, si afferma per esempio che in presenza di attività vincolata il giudice possa senz’altro accertare e imporre alla p.a. un determinato comportamento; lo stesso potrebbe fare per esempio quando la pratica sia già stata istruita e ci siano tutti gli elementi per decidere, ivi compreso l’esame di alcuni elementi lasciati all’istruttoria e alla discrezione della p.a. e quest’ultima abbia tuttavia deciso di non adottare un determinato provvedimento.
L’azione di adempimento è dunque un’azione estremamente importante e utile soprattutto in progressione, cioè in funzione di quello che sta succedendo nel nostro ordinamento amministrativo.
Infatti, le Direttive comunitarie per uniformare le discipline nei singoli paesi stanno sempre più accentuando il noto fenomeno dell’atto obbligatoriamente emanabile sulla base dell’accertamento di determinati presupposti (si pensi alle autorizzazioni bancarie, alle autorizzazioni per le imprese aereoportuali e così via: in questi casi, di regola vengono predeterminati i presupposti e poi si stabilisce l’obbligatorietà del rilascio di un determinato provvedimento a seguito di un’azione di mero accertamento dei presupposti stessi).
La Comunità Europea ha per esempio stabilito che chi voglia aprire una banca debba avere un capitale minimo, un direttore, almeno due soggetti responsabili e un piano di sviluppo dell’azienda di carattere triennale o biennale sulla base di un’indagine di mercato: in presenza di questi presupposti, il cittadino può recarsi in Banca d’Italia e ha diritto di ottenere l’autorizzazione.
Sicché, se l’autorità amministrativa non rilascia l’autorizzazione l’interessato dovrà rivolgersi al giudice e dimostrare che i presupposti c’erano in modo che sia il giudice stesso a rilasciare il provvedimento richiesto accertando con una sentenza che sussiste il diritto.
Allora è evidente che il g.a., in presenza di atti a presupposto vincolato, debba accertare il diritto del richiedente a quel determinato atto e anzi possa emanare egli stesso la sentenza esecutiva del provvedimento ordinando alla p.a. di rilasciarlo alle condizioni così accertate.
Più si svilupperà questo sistema comunitario dei presupposti vincolati più ci sarà bisogno di sentenze di questo genere; in mancanza, infatti, bisognerebbe ottenere la sentenza, poi fare l’ottemperanza, nominare eventualmente un commissario ad acta: insomma, seguire tutto l’iter del procedimento esecutivo.
L’azione di adempimento dunque era solo questo, l’accertamento di una situazione già in parte esistente e derivante da un fenomeno sempre più affermato, ossia quello della previsione di provvedimenti a presupposto vincolato o semivincolato o legato soltanto all’interpretazione dei c.d. concetti giuridici indeterminati (con riferimento a questi ultimi, basti pensare a tutta la giurisprudenza in materia di antitrust, per cui oggi il giudice amministrativo può benissimo accertare cosa voglia dire per es. “abuso di posizione dominante”).
In definitiva, c’è oramai un’abbondante giurisprudenza del Consiglio di Stato che di fatto, sotto altra veste, emana delle vere e proprie sentenze di adempimento (perché, una volta che il giudice ha accertato che le cose stanno in un certo modo, magari fingendo di annullare un provvedimento o di emanare una sentenza su un silenzio rifiuto, il risultato pratico è che l’amministrazione ha il dovere di adeguarsi). Tanto vale allora dire che c’è l’azione di adempimento.
Ma quest’ultima è stata ora eliminata dal progetto di Codice e dunque ci troveremo in posizione arretrata per es. rispetto al Portogallo (che ha fatto di recente una riforma del processo amministrativo e ha previsto un’azione simile). Rimarremo probabilmente l’unica cenerentola nell’ambito dei processi amministrativi europei.
La modificazione nell’ambito delle azioni non si è limitata a questo: è stata infatti introdotta una modifica anche ad un’altra azione che era il frutto di una specie di “transazione” tra g.a. e g.o.
Uno dei problemi che il Codice avrebbe dovuto risolvere era la vexata quaestio della c.d. pregiudizialità amministrativa nelle azioni responsabilità, vale a dire il problema se la richiesta di risarcimento del danno debba essere preceduta da quella di annullamento del provvedimento ovvero se si possa chiedere il risarcimento del danno senza l’annullamento.
Nel Progetto del Codice si era trovata una soluzione di compromesso che presupponeva che non ci fosse più la pregiudiziale amministrativa, ma che il giudice competente a conoscere del risarcimento del danno fosse, per ragioni di concentrazione, il giudice amministrativo; inoltre, per evitare che nei confronti della p.a. fossero proposte azioni di responsabilità a distanza anche di molti anni si era optato per l’introduzione di una prescriptio brevis sul modello di quanto fatto di recente in materia di società commerciali.
Si trattava di una soluzione “a mezza strada” perché si consentiva di chiedere al g.a. il risarcimento dei danni per violazione di interessi legittimi senza previo annullamento dell’atto in un termine più breve di quello classico della prescrizione.
Si tenga presente, a questo riguardo, che la legge sul procedimento amministrativo aveva già previsto un termine quinquennale per chiedere il risarcimento del danno nell’ipotesi in cui l’amministrazione non provveda nei termini.
Eppure, nell’ultima versione oggi a disposizione, è previsto che il termine per proporre domanda di risarcimento sia 120 giorni: è stato cioè previsto un termine equivalente a quello fissato per la proposizione del ricorso straordinario ma che, evidentemente, è troppo breve.
Ribadisco il fatto che la legge delega prevedeva una riforma del codice fondata sulla differenziazione delle azioni, ma in questo momento c’è soltanto l’azione di annullamento e la normale azione di responsabilità connessa con l’annullamento; inoltre vi è un’azione di condanna della p.a. sganciata dall’annullamento ma sottoposta a un termine di prescrizione talmente breve che probabilmente il numero di azioni di responsabilità sganciate dalla pregiudiziale si conteranno sulle dita di una mano.
Presidente Pier Maria Piacentini
Sono grato agli organizzatori di questo incontro per aver voluto ospitare tra due illustri docenti anche un operatore del diritto.
Credo che mai, come in questi momenti la voce di un pratico sia necessaria per invitare la teoria a dare una mano a chi in una legislazione, che sembra aver perduto ogni senso di orientamento e si trova a dover faticosamente dipanare un intricato gomitolo di norme che si sovrappongono, cambiano, e si contraddicono ad ogni cambiar di vento.
Tanto più grave è il fenomeno quando - come sta accadendo - questi improvvisi (o, meglio, previsti ma immeditati) cambiamenti investono non solo il diritto materiale, ma il diritto processuale, nel quale lo jus superveniens è di immediata applicazione..
Il diritto processuale è la “macchina” mediante la quale si attua il diritto sostanziale. Se la macchina non funziona o – peggio – se ne cambia il modo di funzionamento durante il lavoro, sarà ben difficile che il prodotto finale sia quello che il cittadino si aspetta: il “giudice a Berlino”, implicato nel risolvere enigmistici problemi di procedura, finisce spesso col dimenticarsi che c’è qualcuno che aspetta, forse da tempo, che gli venga resa giustizia.
Scusate questa apertura chiaramente – e volutamente - provocatoria, ma proprio nel settore del processo amministrativo è intervenuto il legislatore che ha già pesantemente inciso in materia con il recente decreto legislativo di recepimento della cd. “direttiva ricorsi”, e oggi stiamo tutti aspettando il prossimo intervento (il cd. Codice di procedura amministrativa) che introdurrà nuove ed ulteriori regole senza (da quanto è dato capire) alcuna preoccupazione di coordinamento con il testo appena entrato in vigore.
L’intervento di autorevoli voci della dottrina potrà quindi aiutarci a muoverci con maggiore sicurezza nel complicato futuro che ci attende.
Detto questo approfitto dell’originario tema di questo incontro, e cioè le azioni nel giudizio amministrativo per svolgere alcune riflessioni sul questo tipo di processo.
Il testo attualmente in gestazione reca infatti una disposizione che indica quali siano le azioni proponibili dinanzi al giudice amministrativo.
In contrando tale disposizione, la domanda che viene spontanea è questa: “c’era proprio bisogno di una simile norma?”
Facciamo un passo indietro: forse dirò un’eresia, ma non credo che Silvio Spaventa e il legislatore del 1889 che con la legge n. 5992 del 31 marzo 1889, ha istituito la IV sezione, avessero in mente di creare un nuovo organo giurisdizionale.
Troppo forte era ancora l’influsso della necessità della divisione dei poteri e della non interferenza dell’uno con l’altro, per poter pensare ad un giudice che potesse pronunciarsi sugli atti dell’Autorità (tra l’altro ancora vista contornata dall’alone dello Stato etico di stampo hegeliano). Probabilmente, quello che si voleva costituire era un organo giustiziale, indipendente ma ancora incardinato nella Amministrazione, che correggesse gli errori procedurali e, soprattutto fornisse un rimedio per gli abusi di potere più macroscopici. Il famoso discorso di Silvio Spaventa (che tra l’altro – non dimentichiamolo – è un discorso elettorale) è, infatti, in massima parte, una elencazione di una serie di soprusi che l’Autorità commetteva sui corpi morali e sui cittadini, in particolare per quanto concerne la loro sfera pubblica; in quel famoso discorso, non si trovano certamente esempi di quelli che poi sono diventati prototipi della categoria dell’ “interesse legittimo”.
Un organo giustiziale, quindi più che giurisdizionale.
Ma i tempi passano, mutano le condizioni sociali ed economiche, emergono interessi che in precedenza non erano mai stati considerati (ricordiamo, in proposito che ciò di cui stiamo parlando si colloca alla fine del XIX Secolo, nel momento di passaggio tra la Destra e la Sinistra con tutte le conseguenze che da ciò ne sono derivate, in particolare sotto l’aspetto della crescita delle esigenze di tutela del cittadino nei riguardi dell’amministrazione) e così, a poco a poco, la prassi prima e il legislatore poi, hanno finito col trasformare il Consiglio di Stato da organo giustiziale in vero e proprio organo giurisdizionale.
Sotto tale aspetto sarebbe interessante, per esempio seguire, confrontandolo con le contemporanee vicende storiche ed economiche, l’ampliamento di contenuto che ha interessato il vizio di eccesso di potere, passato dallo sviamento, (détournement de pouvoir) puro e semplice a tutte quelle figure sintomatiche che oggi conosciamo, fino ad arrivare alla manifesta ingiustizia (la sproporzione tra l’azione dell’amministrazione e il fine).
In tal modo il Consiglio di Stato si è spinto sempre più ad indagare il merito dell’azione amministrativa ma è stato anche abilissimo nel salvare il velo del giudizio di legittimità, pur emanando sentenze che erano vere e proprie sentenze di merito.
Recentemente è caduto forse l’ultimo baluardo dell’amministrazione, la discrezionalità tecnica: a questo punto non ha importanza parlare di giudizio sul rapporto o di giudizio di merito; giudizio sul rapporto significa conoscenza piena del rapporto, però col vincolo dei motivi: ciò significa che il difensore è costretto ad arzigogolare e a presentare una serie di dati di fatto sotto il profilo della legittimità quando di legittimità non vi è nulla (e ciò comporta tra l’altro il rischio per il cliente di vedersi respingere un motivo sacrosanto perché mancava l’espressa indicazione dei vizi dell’atto).
Non meraviglia quindi il fatto che nessuno, a quel tempo, si sia posto il problema del tipo di azione che potesse essere attivata davanti al nuovo giudice, eppure, se non ricordo male erano tempi in cui Chiovenda aveva elaborato la sua teoria dell’azione qual diritto potestativo.
Forse perché non se ne sentiva il bisogno:
D’altra parte quale tipo di azione avrebbe potuto essere?
L’interessato proponeva ricorso con un determinato atto, il giudice accertava che era illegittimo e lo annullava. Punto: la palla ripassava all’amministrazione che doveva provvedere senza incorrere in quegli stessi errori che avevano inficiato l’atto originario, ma poteva anche ritirarlo, modificarlo, oppure restare del tutto inerte.
Escluso quindi che potesse parlarsi di un’azione di condanna: non c’era nessuna condanna della Amministrazione; escluso anche che si trattasse di una azione di mero accertamento, intesa come identificazione di uno status o di una situazione che deve restare immutabile tra le parti; rimaneva l’azione costitutiva: in effetti l’annullamento produce un mutamento nel mondo giuridico: l’atto annullato non c’è più. Ma, nel settore della giustizia amministrativa, l’azione costitutiva, pur se configurabile, restava comunque un’azione a portata molto limitata: l’annullamento di un contratto produce un effetto sostanziale nel mondo giuridico, l’annullamento dell’atto (o, come poi è stato più correttamente definito, del provvedimento) riportava le cose allo status quo ante, e il gioco – come si è appena detto – ricominciava da capo.
Peraltro, come ho osservato, il sistema non era sufficiente a soddisfare le esigenze di giustizia dei cittadini e questo spiega tutta l’elaborazione della tipologia dell’eccesso di potere. Allo sviamento di potere si aggiungono, a poco a poco, il difetto e la contraddittorietà della motivazione, il travisamento dei fatti, fini ad arrivare alla manifesta ingiustizia che è l’anticipazione di un vero e proprio giudizio di merito.
E il processo di trasformazione del processo è continuato fino ai giorni nostri: l’estensione dei poteri del giudice amministrativo si è andata a mano a mano estendendo; dalla caduta del muro, che sembrava invalicabile della insindacabilità della attività discrezionale tecnica, siamo arrivati a parlare di sostituzione del giudizio sull’atto con il giudizio sul rapporto che, ripeto quanto ho detto in altre occasioni dista da un vero e proprio giudizio di merito meno di quanto dista Milano da Monza.
Oggi poi con il recente decreto legislativo che ha dato attuazione alla direttiva ricorsi, e che ci consente, in alcune particolari ma importanti materie, di sostituirci all’Amministrazione, le dighe sono state frantumate. La giurisdizione amministrativa è diventata una vera e propria giurisdizione di merito.
A questo punto si può anche formulare sia pure come ipotesi, che il ricorso giurisdizionale amministrativo introduca una vera e propria azione di condanna.
Ma da questo, a ritenere necessario inserire in un codice di procedura, una norma che indichi e definisca le azioni proponibili, ci corre.
Il processo di trasformazione di cui ho parlato è una costante nel mondo del diritto. Da quando il Prætor romano all’inizio di ogni anno adeguava lo jus civile alle nuove situazioni che erano a mano a mano emerse, a quando i mercatores medioevali buttarono le basi del diritto commerciale, fino – per quanto riguarda l’Italia – al 1942 quando il codice civile dette nuove regole per trasformare una nazione agricola in una nazione industrializzata, il diritto si è sempre adeguato alla realtà, prima ad opera dei giudici che cercavano di adattare norme vecchie a contenuti nuovi, poi ad opera del legislatore che recependo i principi elaborati dalla giurisprudenza, creava le nuove regole ufficiali. “Il diritto nasce vecchio” diceva Tamassia, il grande storico del diritto.
Nessuno scandalo – come ho già detto e come tornerò a ripetere – il mondo cambia, cambiano le esigenze, cambiano le modalità dei rapporti commerciali, cambia la sensibilità dei cittadini che pretendono – ed hanno ragione – una giustizia adeguata ai tempi.
Ed è cambiato anche il diritto amministrativo: come ha giustamente fatto notare Irti, nella relazione introduttiva all’ultimo congresso di Varenna, il concetto di sovranità si sta lentamente dissolvendo di fronte ai poteri dei nuovi modelli ordinamentali che richiedono nuove forme di giustizia sostanziale e processuale e noi ci dobbiamo assecondare che ci piaccia o meno (a me personalmente non piace, ma questo è del tutto irrilevante) questo cambiamento.
Per fare questo, dobbiamo però renderci conto che non possiamo più ragionare con gli schemi che ci hanno insegnato all’Università.
Detto in altre parole, per quanto riguarda il nostro tema, che senso ha parlare ancora di giudizio di legittimità e di merito, utilizzando ancora - quanto meno in primo grado, in grado di appello il discorso può e deve essere diverso - lo schema dei motivi rigorosamente vincolati, con il rischio di parlare de arboris succisis quando si sarebbe dovuto parlare de vitis succisis, e respingere un ricorso perché il motivo proposto non denunciava con precisione il vizio dell’atto impugnato?
Probabilmente stiamo trasformandoci in giudici ordinari, allora prendiamo atto di questa trasformazione e, sotto questo punto di vista, l’identificazione delle azioni proponibili dinanzi a noi diventa un elemento essenziale per la conoscenza del processo amministrativo.
Ma evitiamo di normativizzare dottrine e teorie.
Il legislatore deve dire, non definire: dicevano gli antichi omnis definitio in jure pericolosa. Oggi si è affermata la moda di premettere ad ogni prodotto normativo una indicazione dello scopo che il legislatore intende raggiungere. È una moda che abbiamo preso dal diritto comunitario, dove le premesse tendono a spiegare come e perché quella direttiva o quel regolamento si è reso necessario; probabilmente tale modus operandi deriva dalle modalità di formazione e di organizzazione della Comunità prima e dell’Unione dopo, ma riportare le finalità della legge all’inizio della stessa è tautologico e giustifica la attuale cattiva fattura del nostro prodotto normativo. È la legge che deve esprimere la volontà del legislatore.
A prescindere dalle azioni quello che sarebbe stato allora necessario sarebbe stato parlare di domande, stabilire cioè quali siano le domande proponibili e quali siano i poteri del giudice su tali richieste: è questo il nodo fondamentale del processo amministrativo.
Nel secondo grado possiamo ammettere un giudizio di legittimità del tipo di quello che si svolge in Cassazione in cui bisogna denunciare il vizio della sentenza, ma in primo grado, con la possibilità di entrare nel merito, sia direttamente nel settore dei contratti, sia indirettamente negli altri settori in cui si arriva a sindacare la stessa discrezionalità tecnica, io non credo che ci sia più bisogno di indicare i vizi del provvedimento.
La teoria delle azioni aiuterà il giudice a capire se e dove possa spingere la sua pronuncia.
Quello su cui mi sembra opportuno riflettere è però soprattutto il futuro e la funzione del giudizio amministrativo; io credo che il giudice amministrativo anche se si sta avvicinando a un comportamento analogo a quello del giudice ordinario, sarà sempre differente perché non è chiamato a stabilire l’assetto di interessi tra Tizio e Caio, a stabilire se Caio ha adempiuto o no.
Al contrario, il giudice amministrativo è chiamato a sindacare l’interesse di un singolo e l’interesse di una comunità (per quanto la Comunità europea abbia detto di recente che l’interesse alla libera concorrenza prevale sugli interessi pubblici). Il giudice amministrativo avrà sempre a che fare con l’interesse pubblico.
Personalmente ritengo che il nuovo Codice, a prescindere dalla teoria delle azioni, dovrebbe costituire un punto di partenza per cercare di fare del processo amministrativo di primo grado un processo che dia effettivamente al cittadino la possibilità di chiedere e al giudice di attribuire, tenendo presente sempre quella parte indefinibile che è l’interesse pubblico: in sostanza, un codice di consolidamento o di compilazione, però da assumere come base per un’attività di rielaborazione di quello che dovrà essere il giudizio amministrativo degno di un paese civile.
Prof. Fabio Saitta
Dell’azione di mero accertamento che ci sarebbe potuta essere… e che si auspica ci sarà comunque, a prescindere dalla scelta dei codificatori
1. Pensato soprattutto a beneficio dei frequentanti la Scuola di specializzazione per le professioni legali delle Università Bocconi e di Pavia, l’intervento muove da una constatazione e da un (forse, troppo ottimistico) auspicio. La constatazione è connessa al titolo dell’odierno seminario, che – non me ne vogliano gli amici e colleghi organizzatori – non trova riscontro nella realtà, in quanto, dall’ultima bozza di codice oggi in circolazione, non soltanto non emerge una «sistematica delle azioni», ma nemmeno… un processo amministrativo che possa dirsi «nuovo». L’auspicio è connesso, invece, alla definitiva approvazione del c.d. codice: chissà che, all’ultimo momento, non si riesca a reintrodurre quel qualcosa di buono che troppo frettolosamente è stato espunto. Il tutto sempre muovendo dalla convinzione che, se proprio si vuole far un codice, che sia un codice che… serva a qualcosa.
Andando al tema dell’intervento, è appena il caso di rammentare che la struttura impugnatoria del processo amministrativo ha indotto la giurisprudenza ad ammettere l’azione di accertamento soltanto laddove si controverta di diritti soggettivi nell’ambito della giurisdizione esclusiva (Cons. St., Sez. V, n. 1610/2008) e ad escluderla anche in presenza di attività amministrativa vincolata (Cons. St., Sez. V, n. 1440/2006). Il caso più frequente è quello dell’azione promossa dal pubblico dipendente per l’accertamento del suo diritto all’inquadramento in una qualifica superiore a quella posseduta, azione che viene costantemente dichiarata inammissibile in quanto, per giurisprudenza unanime, «postula la titolarità di un diritto soggettivo laddove la posizione del dipendente in materia di inquadramento è quella del titolare di un interesse legittimo» (da ultimo, Cons. St., Sez. IV, n. 5404/2009).
Tale univoco atteggiamento di chiusura muove dal convincimento che, essendo l’interesse legittimo una situazione che si relaziona all’esercizio del potere, l’affermazione della sua esistenza, cioè la mera affermazione che il ricorrente è titolare dell’interesse legittimo, non soddisfi l’interesse al bene (come avviene per il diritto soggettivo), essendo all’uopo necessario eliminare gli effetti dell’azione amministrativa (interesse legittimo oppositivo) ovvero far sì che quest’ultima produca gli effetti stessi (interesse legittimo pretensivo) (E. Follieri).
2. Invero, che l’originaria concezione del processo amministrativo come giudizio esclusivamente a carattere impugnatorio, supportata dalla pur scarna legislazione in materia (si allude, in part., agli artt. 26 e 45 TUCS ed all’art. 26 l. TAR), sia tale da escludere che, nell’ambito della giurisdizione di legittimità, siano proponibili domande diverse da quella di annullamento è questione che meriterebbe quantomeno di essere sottoposta a verifica (V. Caianiello; più recentemente, M. Clarich).
E’ noto a tutti, del resto, che, nel tentativo di dare un’adeguata tutela processuale all’interesse legittimo, la giurisprudenza ha tentato di operare un graduale distacco dalla natura meramente impugnatoria del giudizio: dapprima, intorno agli anni ’40 del secolo scorso, svincolando i giudizi sui rapporti paritetici, limitatamente ai diritti aventi contenuto patrimoniale, dal rispetto delle regole dell’azione di annullamento (Cons. St., Sez. V, n. 795/1939; Ad. plen., n. 4/1940); più recentemente, ammettendo la possibilità di ricorrere contro le omissioni della pubblica amministrazione (F. La Valle). A quest’ultima acquisizione giurisprudenziale ha poi fatto seguito – com’è risaputo – l’intervento del legislatore, che, nel 2000, ha introdotto il rito speciale sul silenzio oggi disciplinato dall’art. 21-bis della l. TAR e dall’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990.
E non è da trascurare nemmeno l’azione prevista dall’art. 25 della stessa legge sul procedimento, che altro non è, in fondo, che un’azione di accertamento del diritto d’accesso, introducendo essa un giudizio «sostanzialmente inteso ad accertare la sussistenza o meno del titolo all’accesso nella specifica situazione, alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall’amministrazione per giustificare il diniego» (T.a.r. Calabria-Catanzaro, Sez. I, n. 1274/2009).
E se è vero che, a ben guardare, il ricorso avverso il silenzio viene inquadrato più tra le azioni di condanna (ad un facere specifico) che tra quelle dichiarative (E. Follieri), è anche vero che il fastidio della giurisprudenza a restare imbrigliata entro gli angusti schemi della tutela di annullamento emerge chiaramente dalla circostanza che, pur non ammettendo la possibilità di pronunce dichiarative «in via principale», essa cerca poi di pervenire al medesimo risultato di accertamento attraverso sentenze di rito: ad es., mediante pronunce di inammissibilità per mancanza di lesione attuale ovvero dello stesso provvedimento (nel caso in cui il g.a. sia adito per carenza di potere a fronte di una situazione del privato avente in origine consistenza di interesse legittimo). Decisioni, queste, che – com’è stato osservato – solo in apparenza sono sfavorevoli per il ricorrente (A. Carbone). Casi, questi, nei quali si ripropone il problema dell’idoneità delle sentenze «solo apparentemente processuali» ad acquisire autorità di giudicato, così da vincolare la successiva attività amministrativa (M. Clarich).
3. Nonostante la dottrina fosse incline a ritenere ammissibili, pur in assenza di un’espressa previsione legislativa, le azioni di mero accertamento innanzi al giudice amministrativo (tra i primi, G. Greco e V. Caianiello; dopo la riforma della l. n. 241/1990 operata nel 2005, V. Cerulli Irelli, M. Balloriani e A. Romano Tassone; da ultimo, in un contributo monografico dedicato alla d.i.a., W. Giulietti; contrari, P. Stella Richter, che peraltro auspicava che l’istituto fosse introdotto dal legislatore, e, ormai più di mezzo secolo fa, E. Casetta; in argomento, meritano attenzione anche i contributi di E. Ferrari e F. Pugliese), la legge n. 205 del 2000 si è disinteressata del tutto dell’argomento, che è quindi tornato d’attualità nel 2005 con l’introduzione dell’art. 21-septies della riformata legge n. 241 del 1990, che ha indotto tutti ad interrogarsi circa l’esperibilità, innanzi al g.a., dell’azione (dichiarativa) di nullità (anche se, essendo la nullità del provvedimento amministrativo ormai espressamente prevista dalla legge, la relativa azione dovrebbe ormai ritenersi tipizzata e non dovrebbe essere necessario ricorrere ad un’azione di mero accertamento atipica: A. Carbone).
E lo stesso art. 21-octies, comma 2, della legge sul procedimento, pure introdotto ad opera della legge n. 15 del 2005, ha aperto una nuova prospettiva, nella quale «l’accertamento di una delle violazioni di cui all’art. 26 del t.u. n. 1054 del 1924, è solo uno degli elementi del giudizio amministrativo, il quale assume, rispetto al passato, una struttura più complessa, comprendendo anche l’accertamento della sostanziale fondatezza delle ragioni giuridiche del ricorrente» (V. Cerulli Irelli).
All’inerzia del legislatore ha recentemente supplito, more solito, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che, con una pronuncia ormai nota a tutti gli addetti ai lavori, ha affermato che, per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, è necessario consentire al terzo che intenda lamentarsi dell’illegittimità di una d.i.a. lesiva della sua sfera giuridica di esperire, innanzi al g.a., un’azione di accertamento autonomo intesa a dichiarare l’insussistenza dei presupposti per lo svolgimento dell’attività dichiarata (Sez. VI, n. 717/2009). Per quanto qui interessa, nella predetta decisione si trova affermato che «il giudizio amministrativo rimane un giudizio sull’atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va inclusa quella in esame, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della p.a., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della p.a.». Sotto altro profilo, si osserva, inoltre, che la mancanza di un’espressa previsione legislativa non è d’ostacolo all’ammissibilità di un’azione di mero accertamento nel processo amministrativo, dove ricorre una situazione del tutto analoga a quella del processo civile, nel quale, pur mancando un esplicito riconoscimento normativo generale (nel codice civile, sono previste specifiche azioni di accertamento soltanto per i diritti reali), l’azione di accertamento è pacificamente ammessa «partendo dalla premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione, per cui si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto».
Tale impostazione, che risente chiaramente della teoria chiovendiana sull’autonomia dell’azione, ha sì consentito ai giudici di Palazzo Spada di superare il dato normativo, ma non può essere ritenuta risolutiva del problema, non foss’altro perché intimamente connessa alla questione (sostanziale) inerente alla natura giuridica della d.i.a., in ordine alla quale permangono notevoli incertezze presso lo stesso Consiglio di Stato (cfr., ad es., Sez. IV, n. 72/2010, che considera la d.i.a. un titolo abilitativo implicito, impugnabile mediante l’azione di annullamento).
4. Stando così le cose, non poteva che essere salutata con favore la prima scelta della Commissione incaricata di redigere il c.d. codice del processo amministrativo, la quale, recependo i princìpi e criteri direttivi contenuti nella legge delega, che invitava a disciplinare la tipologia dei provvedimenti del giudice «prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa» (art. 44, comma 2, lett. b), nn. 4) e 5), l. n. 69/2009), aveva previsto, tra l’altro, la possibilità di chiedere al g.a. «l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative» (art. 38, comma 1, della prima bozza di decreto legislativo). Secondo tale disposizione, siffatto accertamento non avrebbe potuto essere chiesto, eccezion fatta per l’azione di nullità, in due distinte ipotesi: «quando il ricorrente può o avrebbe potuto far valere i propri diritti o interessi mediante l’azione di annullamento o di adempimento» e «con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati» (art. 38, comma 3. cit.). L’estensione dell’azione di accertamento alle posizioni di interesse legittimo, «finalizzata anche a chiarire la portata della regola concretamente posta dal provvedimento amministrativo dopo l’esercizio del potere pubblico» (così nella relazione illustrativa dell’anzidetta bozza di codice), esclusa solo nel caso in cui avrebbe potuto essere esercitata «in modo da eludere il termine di decadenza previsto per l’azione di annullamento (norma simile all’art. 43, comma 2, del Verwaltungsgerichtsordnung nel sistema tedesco)» ovvero al fine di «orientare l’azione amministrativa pro futuro, con palese violazione del principio della divisione dei poteri» (così sempre nella relazione illustrativa), era apparsa anche alla comunità accademica del tutto in linea con il principio della pluralità delle azioni contenuto nella delega legislativa (oltre al parere reso dall’A.I.P.D.A. il 5 febbraio 2010, si vedano le opinioni espresse da F. Merusi, V. Domenichelli ed E. Follieri nel seminario svoltosi a Padova il 26 marzo 2010, tutte favorevoli alla codificazione dell’azione di accertamento).
A rafforzare la sensazione di trovarsi davanti ad uno schema di codice che, nel complesso, è «fondamentalmente modellato sullo schema generale della tutela di annullamento» (A. Romano Tassone) contribuisce anche la recente aggiunta di un secondo periodo al comma 5 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, operata dall’art. 9, comma 6, della stessa legge n. 69 del 2009: stabilendo che «il relativo ricorso giurisdizionale, esperibile da qualunque interessato nei termini di legge, può riguardare anche gli atti di assenso formati in virtù delle norme sul silenzio assenso previste dall’articolo 20», la novellata disposizione potrebbe, infatti, essere interpretata nel senso che, in siffatte ipotesi (nelle quali un fatto – l’inerzia – è produttivo di effetti giuridici equipollenti ad un provvedimento), la tutela del cittadino resti affidata alla tradizionale azione di annullamento, anziché – come sarebbe più opportuno – ad un’azione di mero accertamento (W. Giulietti).
Stando così le cose, ci sembrava che la previsione dell’azione di accertamento (e più ancora, in verità, dell’azione di adempimento) introducesse una salutare contaminazione dello schema tradizionale del giudizio di legittimità con elementi tipici del giudizio di spettanza.
Non erano mancate le critiche, essendo stato affermato, da un lato, che la disposizione non sarebbe stata applicabile alle controversie concernenti interessi legittimi (F. Volpe) e/o, considerati i limiti propri della giurisdizione amministrativa, avrebbe avuto comunque uno spazio di applicazione assai limitato (D. De Pretis); dall’altro, che, ove se ne fosse ammessa l’esperibilità, si sarebbe consentito al g.a. di ingerirsi in valutazioni discrezionali solitamente riservate alla pubblica amministrazione (R. Greco; L. D’Angelo).
5. Fondate o meno che fossero tali critiche (a nostro avviso, la prima, concernente in sostanza i limiti all’azione di accertamento posti dall’ultimo comma della disposizione, avrebbe potuto essere superata in sede di interpretazione giurisprudenziale, valorizzando la ratio della delega e la stessa relazione introduttiva, che – pur avendo, notoriamente, un limitato valore ermeneutico – lascia trasparire inequivocabilmente l’intenzione di estendere l’azione in esame alle controversie in materia di interessi legittimi, e/o, se del caso, riformulando la norma in modo tale da ampliare le effettive possibilità di proporre azioni di accertamento aventi ad oggetto rapporti giuridici controversi; la seconda sembra contraddetta da altri recenti interventi legislativi, che, a partire dall’azione sul silenzio e dal limite all’annullabilità dei provvedimenti illegittimi posto dall’art. 21-octies della legge sul procedimento, per finire con la giurisdizione sulle sorti del contratto prevista dal decreto legislativo n. 53 del 2010, di recepimento della direttiva ricorsi, attribuiscono al g.a. poteri sostitutivi ancor più pregnanti di quelli sottesi ad un’azione di mero accertamento), uno sforbiciatore che ormai non può più definirsi anonimo ha – come tutti sappiamo – eliminato sia l’azione di adempimento che quella di accertamento. A questo punto, coloro che hanno a cuore l’effettività della tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei pubblici poteri, oltre a sperare in un improbabile ripensamento dell’ultimora da parte del Governo, non possono far altro che verificare se – com’è stato, da ultimo, autorevolmente sostenuto – l’esperibilità di tale azione sarà in effetti comunque possibile grazie alla giurisprudenza che ne ha già riconosciuto la praticabilità: l’idea è che, se il Consiglio di Stato non cambierà indirizzo, sarà sufficiente camuffare l’azione di accertamento da azione di annullamento per ottenere lo stesso risultato (F. Merusi).
Non possiamo che auspicare che ciò si verifichi ed in tal senso appare confortante che la Sesta Sezione (stessa composizione: pres. Varrone, est. Giovagnoli) abbia recentemente confermato il proprio innovativo indirizzo, ribadendo che l’azione di accertamento (nella specie, dell’inesistenza dei presupposti della d.i.a.), sebbene non espressamente prevista, trova il suo fondamento nel principio dell’effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 della Costituzione (n. 2139/2010; nel senso che l’azione di impugnazione della d.i.a. non dev’essere inquadrata nel paradigma dell’impugnazione di un virtuale provvedimento tacito, bensì nel quadro delle azioni di accertamento, anche T.a.r. Trentino Alto Adige-Trento, Sez. I, n. 310/2009). Duole, tuttavia, dover constatare che, ancora una volta, l’effettività della tutela, ergo in definitiva l’applicazione di precetti costituzionali (artt. 24, 111 e 113), che dovrebbe essere assicurata dal legislatore, rimane affidata alla sensibilità del singolo collegio giudicante.
Peraltro, in assenza di una disciplina legislativa, la giurisprudenza avrà anche il compito di inventare il regime applicabile all’azione di mero accertamento, che, al contrario di quanto sancito dal Consiglio di Stato nella prima delle succitate decisioni sulla d.i.a. (Sez. VI, n. 717/2009), non sembra possa essere subordinata al rispetto del termine decadenziale previsto per l’azione di annullamento; termine che – com’è stato da più parti notato – mal si concilia, per sua natura, con un’azione dichiarativa e si giustifica soltanto nei casi in cui la tutela dell’interesse legittimo si realizzi attraverso l’azione di annullamento (M. Balloriani; A. Carbone; E. Scotti; contra, S. Valaguzza). In ogni caso, se le esigenze di certezza dell’azione amministrativa inducessero a ritenere inapplicabile termini prescrizionali (come quelli previsti dal codice civile per l’azione di nullità), potrebbe pure immaginarsi un termine decadenziale più ampio di quello previsto per l’azione di annullamento, com’è stato fatto, ad es., per l’azione avverso il silenzio (A. Formica). Si tratta comunque di un problema di non poco conto, se è vero – com’è stato affermato, in modo convincente, al termine di un’analisi di casi concreti – che, in relazione alla questione dell’autonoma accertabilità dell’interesse legittimo, la giurisprudenza attribuisce rilievo decisivo proprio alla regola secondo cui, nel processo amministrativo di legittimità, l’azione è soggetta, in via generale, ad un termine breve di decadenza (B. Tonoletti).
In conclusione, siamo dell’avviso che, comunque stiano le cose, anziché attendere nuovi improbabili interventi del legislatore, la giurisprudenza possa sin d’ora – affrancandosi da quella che Franco Ledda definiva «l’ipoteca degli schemi» – riconoscere l’ammissibilità di azioni di mero accertamento anche al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, semplicemente valorizzando l’art. 113 della Costituzione, ossia considerando che il riferimento, ivi contenuto, agli «atti della pubblica amministrazione» deve oggi ritenersi comprensivo – com’è pacifico – di tutte le manifestazioni, anche non provvedimentali, dei pubblici poteri (F. Saitta; per un’approfondita e convincente critica all’impostazione meramente «reattiva» della tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della p.a., si veda la bella monografia di B. Sassani sull’impugnativa dell’atto e la disciplina del rapporto, che ha il suo filo d’Arianna nell’idea di effettività della tutela e dimostra come spesso l’interesse ad agire sia più ampio di quello alla mera rimozione dell’atto, correlandosi ad un fascio di relazioni tra titolare del potere ed assoggettato, che si caratterizza per la sua durata temporale e per l’incertezza sulla liceità o meno di reciproche facoltà od obblighi). Il tutto, peraltro, nella consapevolezza che non è certo con l’azione di mero accertamento che si risolvono tutti i problemi del processo amministrativo, che, per incidere concretamente sull’esercizio del potere, non abbisogna soltanto di nuove tipologie di azioni, ma anche di una decisione che, senza operare impropri assorbimenti di motivi, produca effetti ben più incisivi del mero annullamento o di impliciti effetti preclusivi, assicurando una risposta più adeguata alla domanda di tutela del cittadino (S. Murgia).