Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 12-2009 - © copyright

 

MARIA TERESA DENARO

La questione del crocifisso arriva a Strasburgo. La Corte, con un’articolata sentenza, ne vieta l’esposizione nelle aule scolastiche. Le polemiche, però, non si sono sopite


1. A quasi quattro anni dalla sentenza del Consiglio di Stato che sembrava aver posto fine alla questione della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche degli istituti pubblici, irrompe sulla scena la Corte Europea dei diritti dell’uomo con una sentenza che non ha mancato di suscitare dibattiti e polemiche nel mondo politico e istituzionale italiano e, come era prevedibile, nel mondo cattolico.[1]
Dal cuore dell’Europa, che è sempre stata storicamente legata al simbolo cristiano per eccellenza, viene oggi la condanna dell’Italia a rimuovere i crocifissi dalla scuole. La Corte «estime que l’exposition obligatoire d’un symbole d’une confession donné dans l’exercice de la fonction publique relativement à des situations spécifiques relevant du contrôle guovernemental, en particulier dans les salles de classe, restreint le droit des parents d’éduquer leurs enfants selon leurs convinctions ainsi que le droit des enfants scolarisés de croire ou de ne pas croire»; considera l’esposizione della croce incompatibile con «le devoir incombant à l’Etat de respecter la neutralité dans l’exercice de la fonction publique, en particulier dans le domaine de l’éducation».[2]
I Giudici della seconda sezione, il 3 novembre hanno dichiarato recevable la richiesta della signora Soile Lautsi la quale, esaurite le vie di doglianza nazionali, nel 2006 ha fatto ricorso lamentando che «l’exposition de la croix dans les salles de classe de l’école publique fréquentée par ses enfants était une ingérence incompatibile avec la liberté de conviction et de religion ainsi qu’avec le droit à une éducation et un enseignement conformes à ses convictions religieuses et philosophiques»[3].
Ricordiamo che la questione era stata originariamente posta dalla medesima ricorrente nel 2004 dinnanzi al T.A.R. Veneto per ottenere l’annullamento della decisione assunta dal consiglio dell’Istituto, frequentato dai propri figli minori, nella parte in cui deliberava di lasciare esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi.[4]
Il Tribunale adito, con la sentenza n. 1110 del 22 marzo 2005, dopo aver ricordato il significato e l’importanza della laicità,[5] aveva tuttavia rigettato il ricorso sostenendo che l’esposizione della croce non può ritenersi lesiva di nessun principio o libertà costituzionali in quanto la stessa deve e può essere considerata quale simbolo «di un sistema di valori di libertà, uguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato … prescinde dalle libere convinzioni di ciascuno, non esclude alcuno e ovviamente non impone e non prescrive nulla a nessuno …». In tal modo il T.A.R., interpretando il sentimento della maggioranza del popolo italiano, aveva “salvato” il crocifisso dalle inevitabili conseguenze di un’applicazione rigorosa del diritto vigente. Se le nome che includono il crocifisso tra gli arredi delle scuole risalgono infatti ad un periodo in cui la religione cattolica era la religione dello Stato, uno Stato per l’appunto confessionale, con l’avvento della Repubblica Italiana, l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 e la riforma dei Patti Lateranensi con il Concordato del 1984, sarebbe stato logico escludere la vigenza della predetta normativa non più coerente con i principi di laicità, aconfessionalità e libertà religiosa vigenti.
E le medesime considerazioni già fatte dal T.A.R. le aveva riproposte nel 2006 il Consiglio di Stato con la nota sentenza n. 556 del 13 febbraio, che ha specificato che l’art. 118 del r.d. 1924, che impone il mantenimento del crocifisso nelle aule scolastiche, non viola il principio della laicità dello Stato in quanto la croce rappresenta e richiama valori civilmente rilevanti, quali la tolleranza, il rispetto reciproco, la valorizzazione della persona, l’affermazione dei suoi diritti, il rispetto della sua libertà, l’autonomia della coscienza nei confronti dell’autorità, la solidarietà umana, il rifiuto di ogni discriminazione, valori tutti che ispirano l’ordine costituzionale italiano. Il Consiglio di Stato aveva quindi sottolineato come in Italia l’esposizione del crocifisso non sia discriminatoria per i non credenti in quanto la croce è un simbolo capace di rappresentare e richiamare quei valori, civilmente rilevanti, che ispirano il nostro ordine costituzionale.
La sentenza del Consiglio di Stato aveva quindi messo in evidenza la natura polisemantica del simbolo del crocifisso così rendendo compatibile la sua affissione nelle scuole pubbliche con la indiscussa laicità della nostra Repubblica.[6]
Al di là del risultato che si sperava di ottenere, le considerazioni che si rinvengono nella sentenza meritano un ulteriore approfondimento per il metodo interpretativo delle norme che è stato utilizzato, la cui vigenza viene fatta dipendere dal significato attribuibile al crocifisso e non alla disciplina da esse dettata. Se simbolo esclusivamente religioso la sua esposizione nelle aule scolastiche, in quanto in contrasto con il principio di laicità, dovrà ritenersi in contrasto con la Costituzione; se al contrario simbolo espressivo di valori civilmente riconosciuti potrà legittimamente essere esposto. La norma che lo include tra gli arredi delle scuole pubbliche sarà di conseguenza da ritenersi abrogata nel primo caso, conforme alla Costituzione e dunque valida ed efficace nel secondo.
Il Consiglio di Stato ammette quindi che l’esposizione di un simbolo religioso in un luogo di pertinenza dello Stato, come la scuola, è incompatibile con il principio costituzionale delle laicità e che pertanto la normativa che prevedesse tale esposizione dovrebbe ritenersi non più in vigore perché superata dalla contraria disciplina costituzionale. Nel caso specifico, però, riconosciuto che il crocifisso non esprime un significato esclusivamente religioso ma anche laico, il regio decreto che lo include tra arredi delle aule può ritenersi tutt’ora in vigore perché non in contrasto con alcun principio o valore costituzionale.
Si assiste così ad un fenomeno non tipico in tema di interpretazione di una norma che, in questo modo, deriva la sua vigenza dal particolare significato riconducibile all’oggetto “crocifisso”; non quindi dal senso attribuibile alla norma stessa, secondo il significato letterale delle parole utilizzate, ma dalla particolare interpretazione di un elemento ad essa estrinseco. Nel caso particolare, poi, la aleatorietà di siffatta interpretazione dipende dal valore altamente simbolico del crocifisso che, come dimostra la questione che si tratta, per alcuni esprime solo valori religiosi, per altri anche valori laici, per altri ancora può essere un oggetto vuoto privo di significati o un oggetto dal valore esclusivamente artistico.
Il regio decreto del 1924, quindi, sarebbe in vigore non perché in assoluto le sue prescrizioni sono da ritenersi conformi al dettato costituzionale, ma perché le stesse sono interpretate alla luce di una considerazione ampia e laica del crocifisso. Se così non fosse, se cioè il crocifisso fosse da intendere esclusivamente nel suo significato religioso, allora saremmo in presenza di una norma regolamentare in contrasto con un principio supremo dell’ordinamento costituzionale, in quanto in un luogo pubblico di pertinenza dello Stato, sarebbe prevista, anzi imposta, l’esposizione del simbolo identificativo di una religione.
La sentenza del Consiglio di Stato nella veste appena illustrata può quindi idealmente accostarsi e paragonarsi alle sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale che riconoscono la validità delle norme di legge la cui legittimità è messa in dubbio, secondo la particolare interpretazione loro data dalla Corte.

2. Lo sforzo di mediazione fatto dai giudici nazionali nel tentare di salvare il crocifisso è stato ora vanificato dalla recente sentenza della Corte di Strasburgo, la quale ricostruita la “storia” delle norme italiane che includono la croce tra gli arredi della aule scolastiche, ha riscontrato, a carico dell’Italia, la violazione dell’art. 2 del protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e congiuntamente dell’art. 9 della stessa Convenzione.[7] Ha cioè ritenuto che l’affissione del crocifisso alle pareti delle aule degli istituti scolastici pubblici si pone in contrasto con il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche e con il diritto alla libertà religiosa.
Leggendo la sentenza e confrontandola con le pronunce dei giudici amministrativi è subito evidente come tutto l’argomentare che tanto spazio ha occupato delle sentenze del T.A.R. Veneto e del Consiglio di Stato, è stato solo sfiorato dai giudici di Strasburgo per arrivare alla decisione finale. Non è stata cioè tenuta in particolare considerazione l’eventualità, tanto ragionata e sostenuta dai giudici italiani, che la croce, simbolo cristiano per eccellenza, potesse, al di là e ancor prima del suo significato religioso, rappresentare la laicità dello Stato. Sul punto la sentenza è molto chiara e lapidaria: «… del l’avis de la Cour, le symbole du crucifix a une pluralità de significations parmi lesquelles la signification religieuse est prédominante»; in più i giudici non comprendono come l’esposizione nelle aule delle scuole pubbliche di un simbolo come il crocifisso che «est raisonnable d’associer au catholicisme» possa essere funzionale al pluralismo educativo e alla laicità dello Stato.
Nel corso del giudizio, al contrario, lo Stato italiano – le Gouvernement – aveva molto insistito sul punto, ribadendo quanto già affermato dai giudici nazionali in merito alla pluralità di significati del crocifisso. Continuava la difesa che in Italia la libertà religiosa è pienamente garantita: nonostante la croce sia presente nelle classi, non è domandato né agli insegnanti né agli alunni di indirizzargli alcun segno di saluto di riverenza o semplice riconoscenza e meno che meno è chiesto di recitare delle preghiere in classe, «… il ne leur est même pas demndéde prêter une quelconque attention au crucifix». L’insegnamento è totalmente laico pluralista, i programmi scolastici non contengono alcun allusione ad una religione particolare e l’istruzione religiosa è facoltativa. Secondo il Governo italiano queste considerazioni sarebbero confermate anche dalla giurisprudenza della Corte che esige un’ingerenza molto più attiva della semplice esposizione di un simbolo per riconoscere l’esistenza d limiti ai diritti e alle libertà. Quale che sia la forza evocativa del simbolo, un’immagine non è paragonabile all’impatto di un comportamento attivo.[8]
D’altro canto, come riportato dal testo della decisione, la requérant ha esposto che in Italia esiste una «question religieuse» poiché nel consentire l’esposizione del crocifisso nelle scuole «l’Etat accorde á la religion catholique une position privilégiée qui se traduirait par une ingérence étatique dans le droit á la liberté de pensée, de conscience et de religion de la requérante et de ses enfants et dans le droit de la requérante d’éduquer ses enfants conformément á ses convictions morales et religieuses, ainsi que par une forme de discrimination á l’égard des non catholiques …». La presenza della croce, la cui valenza, al di là delle altre possibili chiavi di lettura, è sicuramente religiosa, si traduce, quindi, sempre ad avviso della ricorrente, in una forma di discriminazione per i non cattolici, capace di limitare il loro diritto alla libertà di pensiero e coscienza, soprattutto data la giovane età dei soggetti coinvolti che per tale ragione sono infatti «plus vulnérables». E, proprio questo punto è stato tenuto in considerazione dalla Corte che ha posto particolare attenzione alla minore età e alla conseguente facile influenzabilità degli studenti che definisce come «esprits qui manquent ancore (selon le niveau de maturità de l’enfant) de la capacité critique permettant de prendre distance par rapport a un message décuolant d’un croix préférentiel manifesté par l’Etat en matiére religieuse», mostrando sensibilità verso i soggetti deboli coinvolti nella vicenda.[9]

3. Nel analizzare la sentenza della Corte di Strasburgo è necessario anche mettere in luce alcuni aspetti particolarmente interessanti; al di là della condanna dell’Italia alla rimozione del crocifisso, infatti, la sentenza merita attenzione per aver delineato il modo di rapportarsi tra loro dei diritti fondamentali presi in esame; per aver sottolineato l’importanza e il ruolo insostituibile dei genitori nell’educazione dei figli, prevalente su quello della scuola; per aver messo in chiaro che la particolare considerazione accordata in Italia alla Chiesa cattolica non può mai spingersi oltre lo spirito e il dettato costituzionale.
A sostegno delle sue tesi la Corte ha infatti posto, accanto al principio di laicità e di libertà religiosa (art. 9 della C.E.D.U.), il diritto all’istruzione, in particolare il diritto dei genitori a trasmettere ai figli le proprie convinzioni religiose e filosofiche (art. 2 del Protocollo addizionale), così evidenziando come i due diritti, lungi dal limitarsi a vicenda, si rafforzano. In più, nel testo della sentenza, nell’argomentare la propria decisione, la Corte invita a leggere le due prescrizioni del Protocollo n. 1 alla luce, non solo l’una dell’altra, ma anche, in particolare, degli art. 8, 9 e 10 della Convenzione. Il diritto all’istruzione, e in particolare il diritto dei genitori all’educazione dei figli secondo le personali convinzioni religiose e filosofiche, cui lo Stato deve rispetto, si collega, e dagli stessi trae forza, al diritto al rispetto della vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, coscienza e religione, alla libertà di espressione.
Queste considerazioni della Corte meritano particolare attenzione in quanto di solito il rapporto tra i diritti fondamentali genera una tensione che porta ad una limitazione reciproca per cui è necessario bilanciare di volta in volta gli opposti interessi. La libertà di manifestazione del pensiero, ad esempio, deve bilanciarsi con il diritto all’onore, alla reputazione e anche alla riservatezza dei soggetti coinvolti; il diritto alla vita del nascituro con il contrapposto diritto alla salute della madre; la libertà personale con le esigenze della giustizia; la libertà e segretezza delle corrispondenza con quelle connesse alla sicurezza sociale.[10]
Nel caso portato all’attenzione della Corte, invece, i diritti fondamentali coinvolti, anziché limitarsi reciprocamente, si rafforzano. Perché la libertà religiosa sia concretamente rispettata, è necessario che sia garantito anche il diritto dei genitori all’educazione dei figli, diritto che, a sua volta, è strettamente collegato con il diritto alla vita privata e familiare. La sfera religiosa rientra quindi nell’ambito personale, privato ed inviolabile della vita e delle scelte familiari oltre il quale non è consentita alcuna ingerenza da parte dell’autorità pubblica, a meno che l’ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.[11]
Venendo agli altri punti sopra ricordati, merita attenzione il fatto che la Corte abbia sentito la necessità di richiamare e fare leva anche sugli oneri educativi dei genitori che si affiancano e prevalgono sul concorrente ruolo della scuola. Per escludere che il crocifisso possa essere esposto nelle aule, i giudici di Strasburgo hanno messo in luce che il valore religioso dello stesso si pone in contrasto non solo con il ruolo educativo della scuola ma anche con quello dei genitori, così restituendo alla famiglia, in particolare agli esercenti la potestà, il ruolo di attori e protagonisti del processo educativo. La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’esposizione del simbolo identificativo di una confessione in un contesto pubblico, in particolare nelle aule delle scuole, limita il diritto dei genitori all’educazione dei figli secondo le proprie convinzioni come anche il diritto degli scolari di credere o di non credere.
Famiglia e scuola, quindi, si contendono, ma sarebbe più corretto dire si dividono, l’onere dell’educazione degli scolari: il diritto all’educazione che fa capo alla scuola deve essere bilanciato con lo speculare diritto dei genitori. Entrambi svolgono un ruolo fondamentale ed insostituibile ma, come emerge dalla sentenza in commento, il ruolo svolto dalla famiglia, quando viene in evidenza il diritto alla libertà religiosa e di coscienza, è prevalente su quello della scuola.[12] La scuola deve rendere possibile e non ostacolare il percorso educativo dei genitori anche non interferendo con le scelte educative.[13]
La Corte, infine, nell’argomentare la sua decisione, ha anche toccato il tema della posizione privilegiata che ha nel nostro Paese la religione cattolica. Nonostante la laicità permei il tessuto costituzionale, è proprio la Costituzione che pone la Chiesa Cattolica in una situazione, se non privilegiata, quanto meno differente, rispetto alle altre confessioni che restano, ancora oggi, di minoranza. L’art. 7 è infatti esclusivamente dedicato alla Chiesa Cattolica e ai rapporti con lo Stato, mentre l’art. 8, in via residuale, è volto alla regolamentazione dei rapporti con tutte le confessioni diverse dalla cattolica.[14]
Non si può quindi affermare che la conquistata laicità del nostro paese abbia del tutto eliminato ogni forma di privilegio e diversità di posizione della Chiesa Cattolica rispetto alle altre religioni; l’Italia, si ricorda, per lungo tempo è stata un paese confessionale, un paese cioè nel quale la religione cattolica era, non solo la religione della maggioranza del popolo, ma la religione ufficiale dello Stato. L’abbandono della confessionalità e l’avvento della laicità non potevano comportare cambiamenti netti e repentini; mutamenti di questo genere, infatti, così profondi e significativi, avvengono molto lentamente e prova ne è che, dal 1948 ad oggi, molti passi sono stati fatti per rendere concretamente operante il principio della laicità; in particolare la Corte Costituzionale è intervenuta più volte al fine di adeguare il dettato normativo alla nuova realtà costituzionale.
Come emerge dalla sentenza della Corte Europea, anche accedendo alla tesi per la quale la religione cattolica conservi una posizione di privilegio all’interno del nostro ordinamento giuridico, non si può giungere a conclusioni differenti tali da giustificare la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche. I principi supremi dell’ordinamento costituzionale, in quanto supremi, prevalgono sulle norme della stessa Costituzione; ed altresì prevalenti sono le prescrizioni contenute nella C.E.D.U. Con l’adesione alla Convenzione, infatti, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento più ampio di natura sovranazionale cedendo parte della sua sovranità, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali dalla stessa garantiti.[15] Posto quindi che tra le norme della C.E.D.U. e i principi supremi dell’Ordinamento Costituzione c’è sintonia, come quelle in tema di libertà religiosa, il risultato non poteva essere diverso.

4. La questione sulla quale la Corte Europea ha forse detto l’ultima parola ha riacceso il fuoco della polemica e ha portato vivo sconforto e preoccupazione. E non solo, come già detto, tra i cattolici praticanti ma anche tra tutti coloro che, pur non osservanti o credenti, restano tuttavia affezionati a quel simbolo che rappresenta la sintesi storica dell’Italia e anche dell’Europa che, a detta di molti, sembra dimenticare la propria origine e le proprie tradizioni.
Proprio in risposta alle critiche che hanno accompagnato la diffusione delle notizie sulla sentenza, il Governo ha espresso la volontà di presentare “ricorso” avverso la sentenza e la stampa ha dato ampia informazione di questa iniziativa.
In proposito è bene chiarire che in realtà è improbabile che siffatto “ricorso” condurrà agli esiti sperati in quanto, si ricorda, il rinvio alla Grande Camera non è un vero e proprio appello come quello che è possibile porre contro le decisioni di primo grado dei Giudici nazionali, ma una richiesta di riesame, che può essere avanzata dalle parti della controversia, soltanto «in casi eccezionali».[16] Perché la richiesta del Governo italiano sia esaminata dalla Grande Camera è necessario che superi il vaglio rappresentato da un collegio di cinque giudici, la cui funzione è proprio quella di valutare l’opportunità di rimettere le questioni alla Grande Camera. Il Collegio decide positivamente solo quando accerta che l’ «oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei Protocolli, e anche una grave questione di carattere generale».
Sussiste dunque solo una eventualità che la questione dell’esposizione dei crocifissi nelle aule degli istituti scolastici italiani, sia riesaminata dalla Corte Europea; ed in questo caso non è azzardato presumere che la stessa si pronuncerà conformemente alla decisione di primo grado. La Corte, infatti, come ha già dimostrato, lasciando da parte le speculazioni sul significato simbolico della croce, decide sulla base del diritto vigente e, proprio il diritto quale emerge dal testo della C.E.D.U., oltre che della Costituzione italiana, conduce inesorabilmente alla condanna alla rimozione di ogni simbolo religioso dalla scuola pubblica.
E’ da presumere, pertanto, che in ultimo l’Italia dovrà conformarsi al volere della Corte Europea le cui decisioni, infatti, non sono meri suggerimenti o pareri ma sentenze con efficacia vincolante che, a determinate condizioni, divengono definitive. In particolare, quelle pronunciate dalla Grande Camera lo sono sempre, tutte le altre, come quella che al momento ci occupa, lo divengono, secondo quanto previsto dall’art. 44 della C.E.D.U., quando le parti dichiarano che non richiederanno il rinvio del caso dinnanzi alla Grande Camera, automaticamente dopo tre mesi dalla data della sentenza, se non è stato richiesto il predetto rinvio, infine quando il Collegio della Grande Camera respinge la richiesta di rinvio.[17]

5. Concludendo, quindi, si potrebbe provocatoriamente ipotizzare che una o forse l’unica via precorribile al fine di rendere compatibile con l’ordinamento l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche sarebbe quella della modifica del sistema italiano di definizione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose.
Ma se la Repubblica italiana rimane uno Stato laico, che si mantiene quindi, se non indifferente, quanto meno in una posizione di equidistanza da tutte le confessioni religiose, non può consentire che in spazi di pertinenza pubblica siano esposti i simboli di riferimento di una confessione, indipendentemente dalla circostanza che la stessa sia, ancora oggi, comune alla maggioranza del popolo.[18]
Tra l’altro, il multiculturalismo che sempre più caratterizza la nostra società, arricchendola anche dal punto di vista religioso, porta con sé delle conseguenze che si traducono, come nel caso dell’esposizione dei simboli cristiani nei luoghi pubblici, nella rinuncia a tradizioni fino ad ora serenamente tollerate ma in realtà non pienamente conformi ai principi di laicità vigenti.
E’ prevedibile comunque che nessuno, o quasi nessuno, anche tra i più fervidi oppositori alla sentenza di Strasburgo, vorranno sacrificare il principio di laicità e tutti i suoi corollari, in ossequio a nostalgiche affezioni al crocifisso che, peraltro, nessun Tribunale potrà mai allontanare dalle menti e dai cuori. E valga a conforto dei credenti che la separazione tra la sfera politica e istituzionale e la sfera religiosa fu teorizzata per primo dallo stesso Cristo nella esortazione ai fedeli “date a Dio quello che è di Dio, a Cesare quello che è di Cesare”.

 

----------

 

[1] Tutti i quotidiani nazionali del 4 novembre, giorno successivo alla pubblicazione in internet del testo della sentenza, hanno dedicato la prima pagina alla notizia riportando i commenti degli esponenti del mondo politico: si vedano ad esempio la Repubblica, che titolava Via i crocifissi dalle scuole, e il Corriere della sera, La Corte europea: via i crocifissi. E’ interessante notare come le critiche mosse siano state manifestate non solo, come era prevedibile, dai cattolici e dai politici di destra ma anche dalla sinistra laica: come riportato da la Repubblica, G. Fini, presidente della Camera, ha commentato dicendo «mi auguro che la sentenza non venga salutata come giusta affermazione della laicità delle istituzioni»; F. Lombardi, portavoce del Vaticano dice «stupisce che una Corte europea intervenga in una materia legata all’identità del popolo italiano»; P.L. Bersani, segretario del partito democratico, ha ritenuto che un’antica tradizione come il crocifisso non possa essere offensiva per nessuno e ha parlato di «buon senso vittima del diritto», con un’evidente riferimento all’antico e mai superato problema del rapporto tra diritto e giustizia; R. Chieppa, su l’Avvenire, critica la sentenza ritenendo il crocifisso «fondamentale nella storia e nella cultura d’Occidente». Non sono mancati commenti più moderati e favorevoli alla sentenza. Si veda: S. Rodotà, su la Repubblica, La battaglia sul simbolo, ha evidenziato che «questa sentenza ci riporta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi».
[2] E’ prevedibile, quindi, che gli effetti di questa pronuncia non saranno limitati e circoscritti al mondo della scuola e dell’insegnamento ma coinvolgeranno anche tutti i luoghi pubblici: i luoghi di pertinenza dello Stato nei quali viene svolta una funzione pubblica.
[3] Così riporta letteralmente la sentenza.
[4] Nel corso del giudizio il T.A.R. inviò gli atti alla Corte Costituzionale sollevando la questione di legittimità in riferimento al principio della laicità dello Stato, delle norme, ancora in vigore se pur risalenti nel tempo, che includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche. In particolare riteneva costituzionalmente illegittimi, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, gli artt. 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297, come specificati rispettivamente dall’art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928 e dall’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924, e l’art. 676 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297, nella parte in cui conferma la vigenza delle suddette disposizioni. La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 389 del 2004, in luogo di pronunciarsi sul punto, dichiarava inammissibile la questione sul presupposto della natura regolamentare delle norme coinvolte. L’ordinanza si può leggere in Foro it., 2005, I, 1, 329.
[5] La sentenza, che si può leggere in Foro It., 2005, III, 439, così recita: «questo collegio non crede si possa dubitare che il valore costituzionale cui fare riferimento sia la laicità dello Stato, chiaramente sancita dalla Costituzione repubblicana … Stato laico significa altresì che nella scuola pubblica in cui si devono formare i giovani anche ai valori di libertà, democrazia e laicità dello Stato, non è lecito imporre alcun tipo di credo religioso e anzi risulta doverosa un’educazione improntata alla massima libertà e al rispetto reciproco …».
[6] S. Rodotà, nell’articolo già citato La battaglia sul simbolo, sul punto, nel commentare la sentenza di Strasburgo, sottolineava come la stessa «Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti di ispirazione cristiana».
[7] La norma richiamata del Protocollo, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, così recita: «Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche». L’art. 9 della C.E.D.U. recita: «Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[8] Si veda Affaire Folgero c. Norvegia, n. 15472/02, CEDH 2007 – VIII
[9] Un simile ragionamento è stato di recente fatto dal Tribunale spagnolo della città di Valladolid, nella sentenza del 2008.
[10] Sulle tecniche di bilanciamento di diritti fondamentali si veda G. Barone, Diritti fondamentali. Diritto a una vita serena. Il percorso della giurisprudenza, Acireale-Roma, 2008, pagg. 19 e ss.
[11] Art. 8, II comma, C.E.D.U.
[12] L’insegnamento della religione, infatti, è subordinato alla volontà dei genitori, manifestata all’atto dell’iscrizione.
[13] Sul punto si veda G. Vecchio, Autonomia privata, ordinamento scolastico, sussidiarietà e diritti di cittadinanza: il patto educativo di corresponsabilità, in Quaderni del dipartimento di studi politici, 4, 2009, Milano. Non sempre il diritto all’educazione dei genitori prevale su quello della scuola; in merito si veda Cass. Civ., sez. un., ord. n. 2656 del 05.02.2008 che compone in termini differenti il diritto fondamentale dei genitori all’educazione e alla formazione dei figli con il principio della libertà di insegnamento. La Corte prevede infatti la possibilità che i programmi e i metodi didattici scelti dalla scuola contrastino con gli indirizzi educativi della famiglia, ammettendo così che sia impartita nella scuola un’istruzione non pienamente corrispondente alla mentalità e alla convinzioni dei genitori. Ai nostri fini è interessante però notare che la Corte limiti espressamente questa possibilità «non solo nell’approccio alla materia sessuale, ma anche nell’insegnamento di specifiche discipline, come la storia, la filosofia, l’educazione civica, le scienze …» così escludendo l’ambito della religione e della coscienza.
[14] La menzione dei Patti all’interno della Costituzione ha in passato alimentato accesi dibattiti tra illustri costituzionalisti e studiosi di diritto ecclesiastico in ordine alla possibile “costituzionalizzazione” degli stessi. Sul punto si veda C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. II, Padova, 1969, pp. 1375 e ss.; F. Finocchiaro, Diritto Ecclesiastico, IX ed., Bologna, 2003, pp. 75 e ss.
[15] Si veda Corte Costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348 in Riv. Dir. Internazionale, 2008, 1, 197.
[16] L’art. 43, primo comma, della C.E.D.U., rubricato Rinvio dinnanzi alla Grande Camera, così recita: «Entro un termine di tre mesi a decorrere dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte alla controversia può, in casi eccezionali, chiedere che il caso sia rinviato dinnanzi alla Grande Camera».
[17] L’art. 46 della C.E.D.U., rubricato Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze, così recita: «Le alte Parti Contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parte. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione».
[18] In tema di diritti fondamentali, infatti, non può farsi leva sul criterio della maggioranza ai fini del bilanciamento reciproco. Il diritto fondamentale di un singolo individuo “pesa” quanto i contrapposti diritti fondamentali di altre dieci, cento, mille persone. Sul punto si veda di recente G. Barone, Locali pubblici e principio di laicità dello Stato: l’Ordine degli avvocati vuole il crocifisso, in Quaderni reg., 2009, 431-441, che, in particolare, sub nota 9, richiamando la recente giurisprudenza sul punto, sottolinea che «… l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di ogni fede senza che assuma rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione»; e G. Fiandaca, Il diritto di morire tra paternalismo e liberalismo penale, in Foro It., vol. 6, V, 227, che sostiene la necessità che si diffonda una cultura che «dovrebbe rifiutare, già in linea di principio, la possibilità di far legittimamente assurgere il mero principio maggioritario a criterio decisivo di deliberazione nelle materie eticamente controverse, nell’ambito delle quali coesistono pluralisticamente più concezioni della vita e più visioni morali».

 

(pubblicato il 10.12.2009)

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento