Giustizia Amministrativa - on line
 
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n. 11-2009 - © copyright

 

GIANCARLO MONTEDORO

Prime brevi riflessioni in margine all’Administrative Law di T. Endicott: l’importanza della considerazione dei limiti del giudiziario


La lettura di un interessante e recente libro oxoniense (T. Endicott Administrative law, Oxford University Press, 2009) suggerisce alcune riflessioni in chiave comparatistica fra il nostro diritto amministrativo ed il diritto amministrativo britannico.
In primo luogo appare chiaro che i sistemi giuridici si stanno avvicinando, nel 2008 in Gran Bretagna è stato inaugurato un nuovo sistema di “tribunals”, con appelli ad un “Upper Tribunal” che assume così un ruolo decisivo nello sviluppo del diritto amministrativo.
Le tecniche non giudiziarie di controllo del potere centrali nell’esperienza britannica - come gli ombudsmen, le audizioni parlamentari, il diritto di critica e manifestazione del pensiero - sono ormai accompagnate dal diritto di appello alle corti ( diritto di judicial review dell’azione amministrativa).
Nello stesso tempo si manifesta anche in Gran Bretagna il fenomeno della creazione di pubbliche amministrazioni molteplici e proteiformi e si elabora un diritto privato speciale che prevede l’uso degli istituti della law of contracts e della law of torts alle pubbliche amministrazioni ma con speciale considerazione della loro posizione.
Prevale anche in Gran Bretagna l’idea che il diritto amministrativo moderno si caratterizzi per la sua complessità e per il suo essere un diritto di principi.
La genesi ed il contenuto di tali principi in Gran Bretagna è di grande interesse anche per il giurista continentale.
Nell’esposizione sistematica si parte dall’habeas corpus inteso come la regola, vigente sin dal 1300 nel diritto inglese, per cui il giudice può disporre che un soggetto accusato produca in giudizio il proprio corpo.
Produrre il proprio corpo in giudizio significa essere tradotto innanzi al giudice ( per ordine di quest’ultimo) e dunque essere sottratto all’arbitrio (alla detenzione arbitraria) da parte del potere esecutivo.
E’ significativo che tale regola costituzionale antichissima possa intendersi altresì come principio fondativo del diritto amministrativo inglese, che, sin dall’origine, si connota come il diritto che difende - prima i corpi poi altri diritti dei cittadini - dall’abuso del potere grazie all’intervento del giudice.
Questo sviluppo – si spiega – è stato possibile perché i giudici inglesi potevano agire nel nome del Re (occorre indagare a fondo su questo nesso originario fra iurisdictio e gubernaculum da parte dei detrattori dei modelli a Consiglio di Stato perché tracce di questo intreccio sono al fondo di tutte le esperienze giuridiche).
Naturalmente questo creava problemi quando la detenzione fosse ordinata dallo stesso Re (Daniel’s case, 1627, 3 Howell State Trials I).
Ma a ciò pose rimedio un act of Parliament del 1640 che autorizzò l’habeas corpus anche quando la detenzione fosse stata ordinata dal Re (ed i giudici regi non ebbero timidezza alcuna nell’esercitare il potere relativo).
E’ evidente – scherza l’arguto Endicott – che i giudici inglesi non hanno – in conseguenza di questa gloriosa storia - mai affrontato (e nemmeno concepito di potere affrontare) una situazione come quella di Guantanamo Bay.
I giudici sono padroni della giurisdizione sull’habeas corpus tanto che possono decidere che sussista anche per spazi al di fuori della ordinaria giurisdizione delle Corti (Lord Mansfield sosteneva che dovesse evitarsi, in molti importanti casi, il fallimento del processo e, quindi, della giustizia ed applicava la regola dell’habeas corpus alle detenzioni in territori d’oltremare) (cfr. R v. Cowle caso del 1759 2 Burr, 834,860).
Risale al 1611 la regola posta da Lord Coke secondo la quale “The King has no prerogative, but that which the law of the land allows him”.
Il diritto amministrativo si configura così – in termini di principio, nel diritto costituzionale britannico - come il diritto che protegge dal governo arbitrario.
Una decisione è arbitraria quando l’autorità che decide non è capace di rispondere dando ragioni al perché abbia adottato una decisione al posto di un’altra.
Alcune decisioni arbitrarie possono essere giuste ; come in una lotteria, le tecniche per decidere i numeri vincenti sono arbitrarie ma funzionano.
Non ci sono ragioni particolari perché il numero preso dal cesto sia quello vincente.
Ed anche il voto democratico non è razionale.
Nessun cittadino deve spiegare le ragioni del voto, sicché può votare come va allo stadio a tifare (ciò che è fonte di non pochi problemi nella gestione della cosa pubblica nelle società democratiche) e nessuno può chiedere conto di tale comportamento eventualmente poco razionale.
Il problema che si sente il bisogno di impostare alla luce di tali considerazioni è quello di quando ed in quale misura sia giusto permettere il controllo dell’esercizio del potere sotto il profilo della sua arbitrarietà (noi diremmo ragionevolezza) da parte di altre istituzioni (nella specie le istituzioni giudiziarie).
Si tratta di un tema immenso : la identificazione di ciò che è giustiziabile e di ciò che non lo è; di ciò che spetta alla politica (allo schmittiano stato di eccezione) e di ciò che spetta alla giurisdizione.
In Italia il tema è caldo : non solo per il contrasto diuturno e stucchevole fra politica e giustizia ma per la consolidata tendenza ad interpretare la Costituzione e l’art. 24 in tema di diritto di difesa come una norma che legittima un intervento giudiziario a tutto campo (che erode la tradizionale teorica dell’insindacabilità dell’atto politico) e che non ammette bilanciamenti di sorta con altre posizioni giuridiche ed altri valori costituzionali (purché si faccia questione di una supposta arbitrarietà del potere).
Eppure la patria dell’habeas corpus non ha timore di impostare ogni discorso di principio sul diritto amministrativo come discorso sulle questioni giustiziabili e su quelle che giustiziabili non sono (sul presupposto che ci siano ampie aree del pubblico potere che possano – perché ciò è socialmente desiderabile - non essere sottoposte alla regola del governo responsabile che è il governo non arbitrario).
Si riporta il caso di Feroz Abbasi un cittadino britannico detenuto a Guantanamo, che chiese ad una Corte inglese di affermare il dovere del Segretario di Stato di chiedere al Governo degli Stati Uniti di rilasciarlo, adottando le pronunce conseguenti.
Il giudice di Corte d’Appello in Gran Bretagna si dichiarò certo sul fatto che la detenzione di Abbasi fosse arbitraria.
Ma, con franchezza, il giudice rifiutò di condannare il Segretario di Stato a dire o non dire qualcosa al Governo americano.
La Corte può dire se il Segretario di Stato sta detenendo illegalmente qualcuno ma non può determinare se il Segretario di Stato debba muoversi in un certo modo o in un altro nella sfera dei rapporti internazionali.
Ci sono molte considerazioni rilevanti per decidere un caso del genere ma non sono definite dalla legge.
Il caso, a veder bene, dice molto anche a noi, non per il merito ma per il metodo, specie a fronte della delega alla codificazione del processo amministrativo, che aumenta i poteri del giudice ed introduce nel processo amministrativo le azioni esistenti nel processo civile.
Non è difficile immaginare che in futuro al giudice amministrativo italiano (al di là della scelta sul mantenimento della regola di insindacabilità dell’atto politico) potrebbe porsi l’interrogativo sulla (astratta) giustiziabilità di alcune posizioni giuridiche, sulla persistenza della regola dell’insindacabilità del merito amministrativo (su cui già si è soffermato G. Caruso in un recente scritto su Lexitalia.it) e che la risposta ipotizzabile condurrà ad una rilettura dell’art. 24 Cost. che potrebbe far emergere esigenze di bilanciamento, come avviene nel sistema inglese, fra diritto di accesso alla giustizia ed altri interessi e valori costituzionalmente rilevanti.
Qui mi fermo per ora con l’intento di riprendere il discorso in altro intervento.

 

(pubblicato il 16.11.2009)

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