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n. 11-2009 - © copyright

 

PAOLO CARPENTIERI

Due domande in tema di “diritto” di accesso


1. Il “diritto” di accesso: vecchie e nuove questioni. 2. La prima domanda: la natura giuridica. 3. Una (conseguente) rilettura sistematica dell’art. 24. 4. La seconda questione: la “strumentalizzazione” dell’accesso a fini di precostituzione di prova civile.

1. Il “diritto” di accesso: vecchie e nuove questioni.

Il capo V della legge n. 241 del 1990, di recente riscritto dalla legge n. 15 del 2005, offre numerose ragioni di studio e di approfondimento: dal principio di pubblicità-trasparenza (è un’endiadi unitaria o sono due distinti termini-concetto?[1]), al tema dell’estensione interpretativa della lettera m) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione[2], fino a quello della (nuova?) nozione “sostanziale” di controinteressato[3]. Sono tutte tematiche appassionanti per i cultori della materia, perché implicano declinazioni applicative di concetti generali del diritto amministrativo, fornendo per essi, in un certo senso, un interessante banco di prova.
Qui si desidera richiamare l’attenzione su due questioni in particolare. Una, “vecchia” e molto generale, ma pregiudiziale e sempre attuale per i corollari che ne derivano su tutta una pluralità di altri profili, sistematici e applicativi: la natura giuridica del così detto “diritto” di accesso. L’altra, più nuova e specifica (e peraltro comunque legata alla soluzione della prima), riguardante una prassi, sempre più diffusa (e, in parte, avallata, forse acriticamente, dalla giurisprudenza amministrativa), che vede una strumentalizzazione del capo V della legge n. 241 del 1990 a fini – del tutto “altri” rispetto alla funzione propria dell’istituto – di precostituzione della prova documentale da spendere, poi, contro l’amministrazione, in un successivo giudizio (di regola dinanzi al Giudice ordinario).
La prima questione, come è noto, dopo due pronunce dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato[4], resta in larga parte irrisolta (nonostante l’uso, nient’affatto risolutivo, della locuzione “diritto”, nel nuovo testo del 2005 dell’art. 22 della legge n. 241). La soluzione che qui si propone conduce a dire che il “diritto” di accesso” è e resta, nella gran parte dei casi, un interesse legittimo (ogni qual volta si frappongano ostacoli significativi all’accoglimento immediato della domanda), mentre si presenta con i connotati del diritto soggettivo solo quando, in sostanza, la pretesa sia palesemente fondata e non ci siano posizioni apprezzabili di controinteresse (o, comunque, di riservatezza) che meritino un previo vaglio amministrativo (fatalmente caratterizzato, come vedremo, da margini più o meno ampi di discrezionalità, sia essa amministrativa, o solo tecnica o ermeneutica, di interpretazione integrativa del precetto generico e indeterminato della norma). Da questa impostazione potranno derivarsi interessanti conseguenze sul trattamento dei casi di esclusione di cui al comma 6 dell’art. 24 della legge (art. 8 del regolamento del 1992, in parte qua tuttora in vigore), con un’interpretazione “riduttiva” del comma 7, primo periodo, dello stesso articolo (circa la ivi affermata “prevalenza” comunque della pretesa di accesso se relativa a “documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”).
La seconda questione può condurre a una migliore perimetrazione dell’istituto dell’accesso, che deve essere riportato alla sua funzione logico-giuridica propria, secondo un principio di tipicità dei rimedi giuridici, da ricercare entro la sua sedes materiae, ossia entro la cornice logica della legge generale sul procedimento amministrativo, così evitando innaturali strumentalizzazioni che vorrebbero fare del procedimento di accesso (e del giudizio avverso il diniego) una sorta di “istruttoria” anticipata di un successivo processo civile di accertamento (di un diritto) e di condanna dell’amministrazione (a un pagamento).

2. La prima domanda: la natura giuridica.

Il primo tema è indubbiamente molto vecchio[5]. Ma resta strategico e pregiudiziale, per una corretta comprensione e applicazione dell’istituto. Certo, l’ultima pronuncia della plenaria (n. 6 del 2006) ha chiarito che la legittimazione è una questione che si pone “a monte” rispetto a quella di quale sia la consistenza della pretesa di accesso (che è configurata come una posizione di vantaggio protetta dall’ordinamento, in chiave strumentale di tutela ulteriore di una situazione legittimante di base, sia essa di diritto soggettivo o di interesse legittimo); ma non ha preso posizione su quest’ultima questione, che è quella che qui interessa, di quale sia, cioè, la natura giuridica, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, di tale pretesa protetta (strumentale, sì, ma logicamente e giuridicamente autonoma). A tal fine non basta dire che la pretesa di accesso è strumentale e servente alla tutela di una preesistente situazione soggettiva legittimante di base [corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso, come dice l’art. 22, comma 1, lettera b) della legge n. 241], poiché nulla vieta (anzi, come vedremo, sovente accade) che alla situazione legittimante di base di diritto soggettivo (ad es., il diritto soggettivo patrimoniale del debitore della prestazione assicurativa assistenziale) corrisponda una pretesa strumentale di accesso avente consistenza (in sé) di interesse legittimo (in raffronto con la tutela della privacy del lavoratore la cui cartella clinica costituisca il documento cui si domanda di accedere). In altri termini, non c’è proprietà transitiva tra la situazione soggettiva legittimante di base e la pretesa strumentale di accesso; non è vera e non può essere affermata l’equazione per cui, ad es., ad una situazione soggettiva di base avente natura di diritto soggettivo debba sempre corrispondere per ciò solo la natura di diritto soggettivo della pretesa di accesso. La natura giuridica della situazione soggettiva legittimante di base non trasmette i suoi caratteri a quella – ancorché strumentale – di accesso, che invece deriva la sua consistenza da altri parametri e criteri.
Tanto chiarito (sul fatto che la “plenaria” n. 6 del 2006 ha “dribblato” il problema, ma non l’ha risolto) e venendo alla questione di quale sia questa natura giuridica della pretesa di accesso, deve dirsi, come già anticipato nella premessa, che a tale domanda non è possibile dare una risposta unica e assoluta. Nel senso che tale natura giuridica dipende dalle circostanze e varia a seconda della fattispecie concreta. Vi saranno dei casi in cui il “diritto” di accesso potrà essere “devirgolettato”, potendo essere riconosciuto come diritto soggettivo in senso proprio; vi saranno, invece, altri (e più numerosi) casi in cui esso dovrà conservare le virgolette perché avrà sostanza di interesse legittimo.
E’ ovvio che in questa sede si assumono (in via stipulativa) le nozioni più semplici e condivise di “diritto soggettivo” e di “interesse legittimo” (qui pretensivo). Per “diritto soggettivo” si intenderà, in questa sede, la situazione giuridica di vantaggio riconosciuta e protetta in via immediata dalla legge, senza intermediazioni “permissive” di previ controlli amministrativi (a tutela di interessi “altri”, pubblici e privati). Per “interesse legittimo (pretensivo)” si intenderà, all’opposto, la situazione soggettiva di vantaggio riconosciuta e protetta dall’ordinamento, ma solo mediatamente a un previo esercizio “favorevole” di un potere amministrativo (in funzione di controllo, etc.).
Ora, è evidente che in tutti i casi in cui l’accesso ai documenti potrà essere senz’altro esercitato in via informale (art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006) la consistenza della pretesa sarà di diritto soggettivo. Così anche in tutti i casi in cui, pur dovendosi accedere al procedimento di accesso formale (art. 6 d.P.R. n. 184 cit.), l’esito di tale verifica di ammissibilità dell’accesso si presenti come interamente vincolata. In quest’ultimo caso, infatti, l’atto dell’amministrazione di accoglimento della domanda (formale) di accesso avrà natura di atto meramente dichiarativo (del diritto), senza effetti costitutivi[6].
In tutti gli altri casi, invece, il “diritto” sarà un “falso” “diritto” e avrà sostanza di interesse legittimo, poiché il “permesso” dell’amministrazione avrà natura di provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario (costitutivo, di ammissione, come specie della funzione autorizzativa), come tale condizionante il “diritto” (sino ad allora solo in potenza, non in atto), in funzione di sua compatibilizzazione con altri interessi, pubblici e/o privati, ritenuti dall’ordinamento meritevoli di pari o superiore tutela.
Che la natura giuridica della pretesa di accesso “dipenda” dalle caratteristiche della fattispecie concreta e possa variare a seconda della sussistenza di controinteressi rilevanti (in relazione, essenzialmente, al tipo di informazioni e atti rappresentati dai documenti cui ci si riferisce), è un fatto che trova un riscontro e una conferma ulteriori nella prometeica configurazione giuridica della stessa azione speciale data dall’art. 25 della legge n. 241 del 1990, azione che, non a caso, “nasce” coma azione di annullamento (con onere decadenziale breve di impugnazione dell’atto, tacito o espresso, di diniego), si svolge attraverso una cognizione di accertamento della fondatezza della pretesa di accesso, per culminare (in caso di accoglimento) in una pronuncia di condanna dell’amministrazione all’esibizione dei documenti.
Questa ricostruzione porta a dire che ogni qual volta abbiano ingresso nel procedimento di accesso posizioni giuridiche (pubbliche o private) potenzialmente ostative, allora si avrà a che fare con un interesse legittimo pretensivo di accesso, che dovrà essere mediato e compatibilizzato con tali posizioni soggettive “altre” da un’attività di funzione pubblica (di esercizio di un potere) con finalità di controllo (in senso lato) ed esito autorizzativo di ammissione (o di diniego; oppure, ovviamente, di accoglimento parziale, o di differimento, che è, in definitiva, un parziale diniego). Da questa tesi segue l’implicazione per cui, nell’art. 24 della legge, il punto centrale è costituito dall’esercizio del potere di mediazione e di controllo (con caratteri di discrezionalità interpretativa, in relazione ai concetti giuridici indeterminati usati dal legislatore per indicare i casi di possibile esclusione dell’accesso), mentre l’enunciato del comma 7, primo periodo, che sembra porsi, nella sua lettera, in distonia con questa ricostruzione, esige un’interpretazione logica e sistematica che lo renda omogeneo con il sistema.

3. Una (conseguente) rilettura sistematica dell’art. 24.

Può essere utile, per una più diretta ed efficace comprensione del tema, partire da due casi pratici di recente risolti dal Consiglio di Stato nel senso della prevalenza vincolata della disposizione contenuta nel comma 7, ultimo periodo, dell’art. 24.
Cons. Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2975 ha ammesso l’accesso di una società farmaceutica “ai documenti relativi ai procedimenti all’esito dei quali . . . l’A.I.FA. ha rilasciato n. 38 autorizzazioni alla commercializzazione di medicinali considerati equivalenti” (si trattava, in particolare, degli studi e dei test di biodiversità, di descrizione dei metodi di controllo utilizzati, di analisi qualitativa e quantitativa dei componenti, nonché dei risultati delle prove fisico-chimiche, biologiche e microbiologiche, farmacologiche e tossicologiche), e ciò “in ossequio alle coordinate giurisprudenziali” secondo le quali “il diritto di accesso ai documenti amministrativi prevale sull’esigenza di riservatezza del terzo ogni qualvolta, come nella specie, l’accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente in quanto titolare di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata dall’ordinamento come meritevole di tutela”. Gli stessi principi sono espressi anche da Cons. Stato, sez. V, 27 maggio 2008, n. 2511, che ha ammesso l’accesso ai documenti del creditore di un lavoratore dipendente al modello c/2 storico rilasciato dai Centri per l’impiego finalizzato al pignoramento presso terzi ex art. 545 c.p.c. (questa sentenza rileverà anche ai fini del successivo par. 3).
Il punto chiave nella sentenza in esame è il seguente: “il diritto di accesso ai documenti amministrativi prevale sull’esigenza di riservatezza del terzo ogni qualvolta, come nella specie, l’accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente in quanto titolare di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata dall’ordinamento come meritevole di tutela”.
In realtà, contrariamente a quanto sembra essere postulato dalle sentenze da ultimo richiamate, non vi è nessun automatismo vincolante quando siano in gioco le ragioni di esclusione dall’accesso di cui all’art. 24, comma 6, della legge, nemmeno quando sia invocato il comma 7, primo periodo.
E’ utile muovere dalla lettura delle norme di riferimento, in particolare i commi 6 e 7 dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990, nel testo introdotto dalla legge n. 15 del 2005. Il comma 6 individua cinque aree o insiemi di interessi che possono impedire l'accesso di documenti amministrativi (previa previsione regolamentare: ma continua a essere in vigore per tale parte l’art. 8 del d.P.R. n. 352 del 1992: cfr. art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 184 del 2006). E’ da notare che il legislatore (non diversamente da quanto fatto dal Governo nel citato d.P.R. del 1992) definisce le suddette aree di interessi potenzialmente ostativi all’accesso facendo ampio uso (come non avrebbe potuto essere altrimenti) di concetti giuridici indeterminati. Di particolare interesse, per la sua pervasiva ampiezza e per la sua notevole genericità, è la lettera d) - che contempla “casi di sottrazione all'accesso” ove “i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”. Il successivo comma 7, primo periodo, come ripetuto, introduce la regola finale secondo cui “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Ora, non v’è dubbio che in base alla lettera del comma 7, primo periodo, dell’art. 24, ora riportata, sembrerebbe comunque e in ogni caso dovuto l’accesso che si assuma necessario “per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. Ma questa tesi non appare condivisibile. Essa propone una lettura dell’istituto dell’accesso tutta sbilanciata verso una sua aprioristica costruzione in termini di diritto soggettivo [sulla base del nuovo dato lettera dell’art. 22, lettera a) della legge n. 241 del 1990, come riscritto nel 2005], in funzione puramente defensionale precontenziosa. Secondo questa impostazione dovrebbe assicurarsi un’automatica prevalenza al primo periodo del comma 7 (sul comma 6), mentre uno spazio di mediazione discrezionale sarebbe consentito all’amministrazione solo nel caso, espressamente contemplato dallo stesso comma 7, ulteriori periodi (a mo’ di eccezione alla regola) dei dati sensibili e giudiziari e, soprattutto, dei dati cd. “supersensibili” (essendo previsto, per i primi, che l'accesso è consentito solo nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, per i secondi, nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196).
La tesi in esame non è convincente perché nega il fatto che il processo logico che l’amministrazione è chiamata a operare è lo stesso in tutti i casi in cui si frappongano ragioni ostative (serie e ragionevoli) alla domanda di accesso, sia ove vengano in rilievo le ragioni impeditive di cui all’elenco del comma 6, sia ove vengano in rilievo dati sensibili e giudiziari o attinenti alla vita sessuale e alla salute della persona (art. 24, comma 7, ultima parte). La circostanza che molti degli interessi ostativi all’accesso previsti dal comma 6 possano poi considerarsi anche come “dati sensibili”, non esclude la rilevanza della questione qui esaminata (l’interesse ostativo “sensibile”, infatti, a termini del comma 7, non potrebbe, secondo la tesi qui criticata, mai escludere l’accesso, ma solo imporre un criterio “stretto” di proporzionalità).
In realtà quel bilanciamento (in concreto) degli interessi in conflitto – “diritto” (recte: pretesa tutelata) di accesso e diritto alla riservatezza – che è esemplato nel testo dell’art. 60 del codice di tutela dei dati personali, richiamato dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, vale identicamente, nella sua struttura logica essenziale, in tutti i casi in cui l’amministrazione procedente, in presenza di una domanda di accesso, rilevi l’esistenza di posizioni rilevanti di controinteresse [che, come bene chiarisce l’art. 22, lettera c), della legge n. 241, “dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”), in relazione alla sussistenza di interessi di riservatezza considerati dal legislatore potenzialmente ostativi all’accesso (nel comma 6 del ripetuto art. 24).
Sostenere – come pure fa molta giurisprudenza – che il bilanciamento degli interessi, in tali casi (diversi da quelli coinvolgenti dati supersensibili) sarebbe già stato operato “a monte” dal legislatore, con esito vincolato “ a valle” per l’amministrazione, nel senso della prevalenza in ogni caso del diritto dei “richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, significa svuotare di ogni contenuto sensato l’intera previsione del comma 6 dell’art. 24 medesimo: ed infatti, è evidente che la locuzione “richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, adoperata dal comma 7, si pone come semanticamente equivalente (in quanto denotante lo stesso ambito di fenomeni, avente, in altri termini, lo stesso riferimento fattuale) alla stessa definizione del soggetto interessato all’accesso, come fornita dalla lettera b) del comma 1 dell’art. 22 [b) per «interessati», (si intende) tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso]. Cos’altro è questo “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” se non un interesse volto a “curare o . . . difendere i propri interessi giuridici” (legittimanti di base)? L’unico modo per differenziare il significato delle due locuzioni consisterebbe nel sostenere che quella di cui al comma 7 dell’art. 24 intenderebbe riferirsi alla cura e difesa “in giudizio” dei propri interessi. Ma è noto (e non abbisogna qui di essere ulteriormente chiarito) che l’interesse all’accesso non equivale affatto al (solo) interesse ad agire in giudizio avverso gli atti rappresentanti dai documenti, poiché il “diritto” di accesso è un quid pluris, rappresenta un cerchio più ampio nella denotazione della situazioni soggettive, rispetto a quello dell’interesse ad agire in giudizio (non foss’altro per il fatto che l’interesse all’accesso non include il requisito della lesione concreta e attuale, che è invece pregiudiziale alla proponibilità dell’azione). Inoltre, la soluzione, qui criticata, tendente a dare assoluta preminenza al primo periodo del comma 7 dell’art. 24, urta con la lettera della legge (il comma 7 non dice, infatti, questo) e condurrebbe alla conclusione inaccettabile di far dipendere l’esito del confronto tra pretesa di accesso e diritto di riservatezza dei terzi dalla dichiarata volontà del soggetto agente per l’accesso di volersene avvalere in un futuro giudizio. Il che non pare ragionevole, né equo.
Concludendo sul punto, è emerso che il significato letterale dell’ultimo periodo del comma 7 dell’art. 24, se non armonizzato nel contesto e interpretato in chiave logico-sistematica, rischia di portare in un vicolo cieco, di condurre a un loop interpretativo, poiché dire che deve sempre “ex lege” prevalere (senza una previa verifica mediatrice dell’amministrazione da condurre nel caso concreto) la pretesa di accesso dei “richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” significa, né più, né meno, dire che qualunque “interessato” (ossia qualunque soggetto legittimato e portatore di un interesso concreto e attuale all’accesso) ha “diritto” (in questo caso e in questo senso si potrà parlare di “diritto” in senso proprio) ad accedere ai documenti, a nulla rilevando in contrario la sussistenza di casi di sottrazione all'accesso ai sensi del comma 6 dell’art. 24. Il che, quod erat demonstrandum, significa che – aderendo alla tesi della predefinizione legale vincolata del rapporto tra i commi 7 e 6 - l’art. 24, comma 6, non avrebbe alcun senso utile, poiché qualunque “interessato” all’accesso (interessato per una ragione di cura e difesa, in senso lato e non giudiziario, di proprie situazioni legittimanti sottostanti) avrebbe per ciò solo “diritto” ad accedere, ad onta del diritto alla riservatezza di terzi controinteressati in relazione a dati personali che non siano sensibili, giudiziari o supersensibili (terzi che, tra l’altro, non si capirebbe a questo punto perché mai dovrebbero esser chiamati a interloquire come nel procedimento e nel processo).
Molto più ragionevole e condivisibile appare dunque la posizione di altra giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2007, n. 4999) che afferma invece la necessità in ogni caso della ricerca di un punto di equilibrio, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, ogni qual volta il diritto di accesso, ancorché (dichiaratamente) azionato per far valere la difesa di un interesse giuridico, si contrapponga al diritto alla riservatezza di un terzo.
Volendo svolgere alcune considerazioni sistematiche sull’impianto complessivo della norma sui limiti al “diritto” di accesso, può osservarsi come la struttura logica della disciplina dei casi di esclusione appare configurata in chiave binaria: vi è una prima casistica di ipotesi di esclusione (in senso stretto e proprio, quali casi di inammissibilità della domanda o di diniego sostanzialmente vincolato), contenuta nel commi 1 ss. dell’art. 24; vi è poi una seconda casistica, enunciata nel comma 6, imperniata attorno a una pluralità di aree – piuttosto genericamente indicate – di interessi meritevoli di riservatezza potenzialmente contrastanti con il diritto di accesso (donde l’affidamento della relativa decisione nella singola fattispecie concreta applicativa a un provvedimento di discrezionalità tecnico/interpretativa dell’amministrazione). L’art. 24 dunque distingue un primo “binario”, comprendente i casi (vincolati) di esclusione dal diritto di accesso (commi 1 e ss.), e un secondo “binario” comprendente i casi (discrezionali) di possibile sottrazione all’accesso (art. 24, comma 6, della legge e art. 8 d.P.R. n. 352 del 1992, in parte qua ancora vigente). La differenza qualitativa dei presupposti escludenti considerati negli uni (commi 1 e ss.) e negli altri casi (comma 6), si riverbera sul tipo di potere esercitato dall’amministrazione: un’attività interamente vincolata, legata al rilievo di profili di esito manifesto di inammissibilità, nel primo caso; un vaglio discrezionale comparativo di controinteressi di riservatezza potenzialmente impeditivi dell’accesso, nel secondo (con le esaminate ricadute di questa distinzione sulla consistenza delle rispettive posizioni di pretesa, nell’un caso aventi natura di diritto soggettivo, nell’altro di mero interesse legittimo).
E’ interessante infine notare come questa impostazione logica binaria trovi riscontro anche nell’art. 5 (commi 1 e 2) del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, in tema di accesso alle informazioni ambientali (che recepisce la direttiva 2003/4/CE). E’ ciò nonostante la maggiore ampiezza della legittimazione attiva all’accesso alle informazioni ambientali, che prescinde da un interesse particolare del richiedente (in obbedienza alla Convenzione di Aarhus, che non prevede il filtro dell’interesse qualificato e differenziato). Il che dimostra come questa configurazione logica coglie ed esprime un elemento di invarianza strutturale interna all’istituto.

4. La seconda questione: la “strumentalizzazione” dell’accesso a fini di precostituzione di prova civile.

Accade di frequente nei Tribunali amministrativi di assistere a domande di accesso (ricorsi avverso dinieghi, taciti o espressi) proposte da dipendenti dell’amministrazione per l’acquisizione di documenti idonei a comprovare pretese retributive (ad es., i tabulati e/o i registri di rilevazione delle presenze al fine di rivendicare il pagamento di straordinari), o da soggetti creditori per l’acquisizione di documenti elaborati dagli enti previdenziali relativi al trattamento economico del debitore al fine di verificarne la capienza per un’eventuale, successivo pignoramento presso terzi. La giurisprudenza, a quel che consta, non si pone particolari problemi nell’accogliere queste domande e nell’offrire tutela a siffatte pretese (ad es., Cons. Stato, sez. V, 27 maggio 2008, n. 2511, ammette l’accesso ai documenti del creditore di un lavoratore dipendente al modello c/2 storico rilasciato dai Centri per l’impiego, finalizzato al pignoramento presso terzi ex art. 545 c.p.c.; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 19 marzo 2008, n. 290, Tar Lombardia, Brescia, 21 maggio 2008, n. 556 e Tar Marche, sez. I, 12 novembre 2008, n. 1880, ammettono l’accesso ai documenti della società Poste italiane anche relativamente agli atti di gestione del personale, giudicando bastevole all’uopo l’interesse a coltivare una controversia di lavoro, con l’argomento per cui sono accessibili tutti i documenti di Poste Italiane s.p.a. relativi alle due aree di attività qualificabili come servizi pubblici - servizio postale universale e raccolta del risparmio postale – e ciò sia per quel che riguarda l’attività esterna, che per quel che riguarda l’attività interna strumentale e accessoria di carattere organizzativo; CGA, 4 luglio 2007, n. 558 ammette a sua volta l’accesso a documenti relativi ad atti costituenti esercizio delle funzioni direttive del privato datore di lavoro, nel rapporto di lavoro “pubblico” privatizzato, in una fattispecie relativa a domanda di accesso della r.s.u. ai tabulati per la verifica dell’erogazione del fondo incentivante e dello straordinario).
Ora, a fronte di queste problematiche sorge spontanea la domanda: è a questo che doveva servire l’accesso ai documenti amministrativi; rientra tra le finalità dell’istituto quella di “anticipare” la fase istruttoria della controversia lavoristica dinanzi al Giudice del lavoro o quella di accelerare il pignoramento presso terzi e di semplificare il lavoro degli avvocati che si occupano di recuperi crediti? O non si tratta piuttosto di una distorsione funzionale dell’istituto, interpretato in chiave “troppo” processualistica defensionale (l’istituto dell’accesso ai documenti rinverrebbe il suo cuore, secondo questa impostazione, proprio nel più volte ripetuto primo periodo del comma 7 dell’art. 24 della legge n. 241)?
In realtà è lecito dubitare dell’ammissibilità di domande di accesso del tipo di quelle ora richiamate negli esempi proposti, e ciò per due ordini concorrenti di ragioni ostative, inerenti la stessa ratio funzionale dell’istituto dell’accesso, in relazione alla nozione di documento amministrativo passibile di accesso ai sensi del capo V della legge n. 241 (ragioni, dunque, deve subito dirsi, che operano “a monte” rispetto all’eventuale eccezione della riservatezza del terzo debitore, nel caso dell’esempio dell’accesso ai documenti previdenziali, che pure potrebbe assumere rilievo in fattispecie di questo tipo).
Un primo profilo ostativo all’accesso in casi del genere attiene al riferimento dei documenti richiesti a un rapporto contrattuale intercorrente jure privatorum tra le parti (il rapporto d’impiego privatizzato tra il soggetto richiedente e l’amministrazione). Ora, se è vero, da un lato, che la giurisprudenza ha ammesso l’accesso a documenti solo soggettivamente amministrativi, ma relativi ad attività privatistiche della p.a.[7], è altresì vero che questa stessa giurisprudenza ha di solito preteso che questi documenti – riferiti ad attività jure privatorum – presentassero pur sempre una qualche attinenza con la funzione o l’organizzazione del servizio[8]. Ed invero, in proposito non deve dimenticarsi che lo stesso art. 22, comma 1, lettera e), della legge n. 241 del 1990, nel testo vigente, introdotto nel 2005, considera “documento amministrativo” – così delimitando l’oggetto possibile della domanda di accesso -, ogni rappresentazione . . . del contenuto di atti . . . detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse. La specificazione concernenti attività di pubblico interesse assume – come è ovvio – un rilievo, per l’appunto, specificativo e delimitativo dell’ambito oggettuale applicativo dell’accesso: non tutti gli atti posti in essere dall’amministrazione, anche quelli puramente privatistici e privi di ogni addentellato rilevante e apprezzabile con il pubblico interesse, sono dunque passibili di accesso ai sensi del capo V. La specificazione in parola, dunque, stabilisce la necessità della presenza di un qualche legame – per quanto minimo, ma apprezzabile – tra l’atto rappresentato dal documento cui si chiede di accedere e l’interesse generale curato dall’amministrazione (o dal soggetto formalmente privatistico ad essa equiparato). Pertanto, in mancanza di qualsivoglia, per quanto tenue, legame del genere, ciò che manca nella fattispecie e rende inammissibile l’accesso è proprio il suo stesso oggetto, ossia il documento amministrativo. In base a questo criterio interpretativo dovrebbe dunque essere agevole escludere senz’altro l’ammissibilità di un accesso del creditore alla situazione pensionistica del debitore per verificare se v’è ancora spazio per un pignoramento del quinto presso il terzo debitor debitoris.
Il secondo concorrente profilo ostativo attiene, come detto, al più ampio e generale profilo della ratio giustificatrice e della funzione stessa dell’istituto dell’accesso. In estrema sintesi, il punto critico è costituito dal rilievo per cui l’accesso ai documenti amministrativi di cui al Capo V della legge n. 241 del 1990, se “piegato” a fini di precostituzione della prova per una successiva lite giudiziaria con l’amministrazione, finisce per subire un vero e proprio snaturamento rispetto alla sua originaria ragion d’essere. Per comprendere appieno questo ragionamento è necessario tenere conto dell’evoluzione dell’istituto dell’accesso ai documenti. La originaria formula dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990 riconosceva il diritto di accesso “a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, “al fine di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale”; l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi, dunque, era nato come attuazione dei principi di pubblicità e trasparenza della pubblica funzione, nell’ottica della “casa di vetro”, in un’ottica, cioè, di pubblica controllabilità democratica della correttezza e del buon andamento della funzione amministrativa, da parte di tutti i cittadini che vi avessero un interesse serio (non emulativo o dettato da gratuita curiosità) e meritevole di tutela. Successivamente l’istituto è stato ricondotto dalla giurisprudenza amministrativa e dal regolamento attuativo n. 352 del 1992 entro lo stampo limitativo della tutela di preesistenti posizioni soggettive legittimanti, sull’esempio dell’azione (riconduzione ora completata con la legge n. 15 del 2005 e il nuovo regolamento di cui al d.P.R. n. 184 del 2006). Si è passati, dunque, da un’idea di rimedio attivabile uti civis, a un’idea più processualistica di azione esperibile uti singulus. Ma questa riconfigurazione della fisionomia dell’istituto non può essere sospinta fino al punto da disancorare definitivamente la sua funzione dalla originaria missione di strumento di verifica (pubblicità – trasparenza) della correttezza e del buon andamento della funzione pubblica, per renderlo un puro e semplice mezzo “precontenzioso” preparatorio di una successiva controversia con l’amministrazione.
Osta, infine, all’ammissibilità di un’impostazione “larga”, quale quella assunta dalla giurisprudenza sopra richiamata, una considerazione di ordine pratico (ma non solo), che pure svolge un suo rilevante ruolo in questa discussione: l’amministrazione, quando intrattenga rapporti contrattuali usando del diritto privato (come avviene nel caso del rapporto di pubblico impiego “privatizzato”), non può essere deprivata degli ordinari mezzi di difesa propri dei privati, sol perché tenuta ad agire in modo corretto e imparziale (essendole preclusa l’azione strategica o egoistica), sì da esser posta in una condizione di diminuita tutela. Sarebbe tra l’altro causa di ingiusta disparità di trattamento il fatto di consentire al dipendente pubblico “privatizzato” (che è, da questo punto di vista, uguale a tutti gli altri lavoratori dipendenti) il “privilegio” di poter precostituire la prova documentale del credito (ad es., per le ferie non godute o per gli straordinari prestati), attraverso l’accesso ai documenti amministrativi, per ottenere senz’altro il decreto ingiuntivo dal Giudice del lavoro, lì dove, invece, il lavoratore dipendente dell’azienda privata – al quale certo non è consentito di domandare l’accesso ai documenti del datore di lavoro privato – si vede costretto ad agire per il recupero del suo credito con ordinaria azione di accertamento e di condanna, dovendosi in quella sede assumere l’onere della prova in giudizio.
Sotto quest’ultimo profilo mette conto di evidenziare che la tesi ampliativa dell’ambito applicativo del diritto di accesso urta anche con un altro principio generale dell’ordinamento giuridico, ossia con il principio di tipicità dei rimedi apprestati dal diritto, nel senso che, in linea generale, nel caso in cui l’ordinamento predisponga e offra strumenti remediali appositi, occorre che i soggetti si avvalgano di tali rimedi appropriati per conseguire i relativi fini di tutela, dovendosi di contro escludere la possibilità di “piegare” (distorcere) rimedi tipici, pensati dal legislatore per fini determinati, per il perseguimento di obiettivi e risultati di tutela “altri” e diversi da quelli originariamente voluti dal sistema. E’, dunque, anche per ragioni di tipo logico-sistematico che non persuade la tesi ampliativa, che intende consentire l’accesso ai documenti amministrativi sempre e comunque, sol che si invochi il sovrano fine di curare o difendere i propri interessi giuridici, senza considerare se di documenti amministrativi in senso tecnico realmente si tratti e senza considerare che l’obiettivo di tutela – ad es., il recupero del credito – rinviene nell’ordinamento altri suoi propri strumenti tipici di tutela (pignoramento presso terzi, domande istruttorie al Giudice del lavoro etc.).

 

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[1] La trasparenza è attributo predicabile dell’agire amministrativo – capo III della legge n. 241: procedimento e motivazione del provvedimento – o dell’accesso ai documenti: capo V? Sembrerebbe, per la verità, più logica la prima idea; l’attributo della pubblicità non pare, infatti, utilmente predicabile dell’azione, ma piuttosto dei documenti, anche se il dato normativo sembrerebbe condurre alla soluzione opposta; ma è probabile che pubblicità/trasparenza siano le due facce della stessa medaglia.
[2] Dapprima usata per uniformare su tutto il territorio nazionale la disciplina dell’accesso, “bypassando” il rischio della molteplicità eterogenea delle discipline regionali, poi (legge n. 69 del 2009) per affermare l’idea della dotazione minima di diritti “pubblici” di cittadinanza europea, sull’abbrivio della Dichiarazione europea dei diritti dell’uomo di Nizza del dicembre 2000, ormai in via di incorporazione nel Trattato UE (cfr. Trattato di Lisbona del 2007, non ancora esecutivo).
[3] Tar Veneto, sez. III, 12 dicembre 2008, n. 3840 che ha escluso la qualifica processuale di controinteressati per i partecipanti al concorso pubblico autori dei temi oggetto di domanda di accesso, e ciò in una logica “sostanziale” della nozione di controinteressato. Si veda anche Tar Campania, Napoli, sez. V, 4 gennaio 2007, n. 39. Tutte le sentenze del G.A. citate in questo scritto sono reperibili al sito http://www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Cons. St., ad. plen., 24 giugno 1999, n. 16 e 20 aprile 2006, n. 6.
[5] Il tema è tanto “vecchio” che non ci si può esimere dal richiamare, in proposito P. Carpentieri, La legittimazione all'accesso: una questione non ancora chiarita, in Foro amm., n. 6 del 1995, 1359 ss.
[6] Né può sostenersi che anche in questi casi “più semplici”, in cui non sorge alcuna discussione o contestazione sull’accessibilità e la pretesa è recta via realizzata in base al riconoscimento di legge, occorrerebbe comunque e pur sempre un atto di ammissione dell’amministrazione (almeno per regolare l’esercizio dell’accesso, circa il luogo, il tempo e le modalità concrete per prendere visione ed estrarre copia del documento). E’ evidente che una cosa è l’atto regolativo della modalità di esercizio del diritto (che svolge una funzione in senso lato organizzatoria), altra e tutt’affatto diversa cosa è il provvedimento che, interpretando la legge, riempiendone le lacune dovute all’uso di concetti giuridici indeterminati, o, addirittura, comparando beni-interessi contrapposti – quali la pubblicità e ostensibilità dei documenti, da un lato, e la tutela della riservatezza, dall’altro -, attualizza la pretesa, la rende cioè attualmente esercitabile, avendola giudicata conforme a legge. E’ la stessa differenza che passa, per intendersi, tra la domanda che l’utente della biblioteca deve comunque presentare allo sportello per ottenere in visione un libro, e il conseguente atto di assenso del bibliotecario – che attengono alle modalità organizzativo-gestionali di un servizio pubblico nel rapporto con l’utente finale – e l’autorizzazione di cui ci si deve dotare l’utente della biblioteca per poter consultare un antico manoscritto sottoposto a tutela come bene librario (autorizzazione che richiede, dunque, una valutazione tecnico-discrezionale, riservata all’amministrazione, in ordine alla compatibilità dell’uso individuale con le superiori esigenze pubbliche di tutela del bene culturale). Nel caso dell’accesso informale, dunque, così come nel caso dell’accesso “vincolato”, l’intermediazione dell’amministrazione attiene soltanto all’organizzazione e alla gestione del servizio al pubblico, non all’esercizio di un preventivo potere di controllo conformativo della stessa pretesa sostanziale fatta valere.
[7] Cons. St., ad. plen., 22 aprile 1999, n. 4.
[8] Cons. St., sez. VI, 2 marzo 1999, n. 246 e sez. IV, 15 gennaio 1998, n. 14, ad esempio, hanno negato l’accesso a documenti relativi ad attività esclusivamente privatistica del tutto disancorata dall’interesse pubblico di settore istituzionalmente rimesso alle cure dell’apparato amministrativo (si trattava di casi di attività contrattuale civilistica). Cons. Stato, sez. IV, 5 settembre 2007, n. 4645 ha ammesso l’accesso a documenti inerenti l’attività esecutiva di un contratto di appalto, ma con la precisazione che trattavasi di documentazione che, pur afferente a rapporti inter alios e formalmente privatistici, attenevano al contratto e all’esecuzione dei lavori e quindi ad un ambito di rilevanza pubblicistica, giacché attraverso l’esecuzione delle opere l’amministrazione mira essenzialmente a perseguire le proprie finalità istituzionali.

 

(pubblicato il 4.11.2009)

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