Giustizia Amministrativa - on line
 
Articoli e Note
n. 9-2009 - © copyright

 

GIUSEPPE MANFREDI

Revoca e modelli di tutela dell’affidamento nei commi 1-bis e 1-ter dell’art.21-quinquies della legge n.241 del 1990.


Sommario



1.La vicenda legislativa che ha condotto ai commi 1-bis e 1-ter.
2.La duplice tecnica di contenimento dell’indennità di revoca impiegata nei commi 1-bis e 1-ter.
3.La dubbia costituzionalità dei commi 1-bis e 1-ter e la questione della misura della indennità di revoca.
4.Le altre possibili ricadute dei commi 1-bis e 1-ter: in particolare, in ordine alla distinzione tra annullamento e revoca.

* *




1.
La vicenda legislativa che ha condotto ai commi 1-bis e 1-ter.

1.La vicenda che ha condotto all’inserimento nell’art.21-quinquies della legge n.241 del 1990, dei commi 1-bis e 1-ter, di tenore assolutamente identico[1], si collega con quella della concessione rilasciata all’inizio degli anni novanta alla Tav s.p.a., la società istituita dalle Ferrovie dello Stato per realizzare il sistema di collegamento ferroviario ad alta velocità, e delle concessioni rilasciate a sua volta dalla Tav s.p.a. per la realizzazione delle singole tratte del sistema di collegamento a general contractor scelti a trattativa privata.
E’ noto che vari aspetti di questo intervento infrastrutturale sono stati al centro di polemiche molto accese (anche riguardo ai costi di realizzazione derivanti dall’adozione del sistema delle concessioni di cui s’è detto), e che ciò ha condotto a un orientamento legislativo altalenante.
Il Parlamento si era infatti determinato una prima volta a intervenire sulle concessioni all’inizio di questo decennio, durante la XIII Legislatura: tramite il comma 2 dell’art.131 della legge finanziaria per il 2001, la legge n.388 del 2000, si era disposta la revoca delle concessioni di cui s’è detto.
In questa disposizione si risolveva il problema del corrispettivo da versare ai general contractor destinatari della revoca ex lege prevedendo che esso consistesse nel rimborso “degli oneri relativi alle attività preliminari ai lavori di costruzione, oggetto della revoca predetta, nei limiti dei costi effettivamente sostenuti alla data di entrata in vigore della presente legge”.
In altri termini, si prevedeva di rimborsare ai concessionari il solo danno emergente: il che illo tempore non sembrava cagionare problemi di coerenza con i principi dell’ordinamento, o di costituzionalità, per la semplice ragione che non esistevano norme di diritto positivo che prevedessero in via generale l’indennizzabilità dei pregiudizi cagionati dalla revoca degli atti amministrativi[2].
Al legislatore però probabilmente era sfuggito che, secondo la dottrina prevalente, le concessioni amministrative in definitiva possono essere ricondotte agli accordi ex art.11 della legge n.241, e che per il recesso dagli accordi già il testo originario di questa disposizione prevedeva “la liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato”[3].
Durante la XIV Legislatura mutava però la maggioranza parlamentare e, di conserva, mutava anche l’orientamento sulla questione (presumibilmente perché si riteneva che il sistema delle concessioni, nonostante i suoi difetti, fosse comunque la soluzione migliore per garantire la realizzazione dell’infrastruttura).
Tramite l’art.11 della legge n.166 del 2002 veniva dunque abrogato il comma 2 dell’art.131 della legge n.388, e si prevedeva la prosecuzione “senza soluzione di continuità” delle concessioni in parola.
La questione era però ben lungi dall’essersi acquetata: durante la XV Legislatura, la nuova maggioranza parlamentare (di segno politico opposto alla precedente, e analogo a quello della maggioranza che aveva votato la legge n.388) ritornava a revocare ex lege le concessioni Tav tramite l’art.13 della legge n.40 del 2007, di conversione del d.l. n.7/2007.
Rispetto all’inizio del decennio era però cambiato ciò che – con un’espressione abbastanza brutta - potremmo definire il contesto ordinamentale.
La legge n.15 del 2005 aveva infatti introdotto nella legge n.241/1990 l’art.21-quinquies, che nel comma 1 prevede in via generale che “se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo”.
Ora, si sa che due anni fa non esistevano orientamenti giurisprudenziali o dottrinali consolidati sui parametri di commisurazione l’indennità di revoca (come non esistono neppure oggi), ma – come vedremo anche in seguito - non mancavano certo argomenti che, nel silenzio della legge, potevano condurre a commisurare questa indennità secondo gli stessi criteri impiegati per la commisurazione del risarcimento del danno, ossia tenendo conto, oltre che del danno emergente, anche del lucro cessante: e l’applicazione di questo criterio nel caso che qui interessa avrebbe condotto a un esborso di entità preoccupante anche per le casse dello Stato[4].
Se dunque il legislatore avesse tout court riprodotto nella legge n.40 la clausola sulla commisurazione dei “rimborsi” al solo danno emergente che era stata inserita nella legge n.388, avrebbe corso il rischio di incorrere in una censura di costituzionalità, dato che una clausola siffatta ben avrebbe potuto essere considerata incorente con la norma generale posta dalla legge n.241, e, quindi, contraria ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza ex art.3 Cost..
Per aggirare il problema rappresentato dalla presenza di un tertium comparationis che non prevede la commisurazione dell’indennità di revoca al solo danno emergente il legislatore ha dunque pensato bene di modificare il tertium comparationis.
Il che ovviamente costituisce un’operazione abbastanza spregiudicata, che va anche al di là dell’emanazione della solita legge-provvedimento, dato che si modifica una norma generale per risolvere un problema contingente (senza poi considerare che per evitare un esborso a favore dei general contractor della Tav non ci si perita di incidere sugli indennizzi spettanti anche al proverbiale quivis de populo): ma qui interessa soprattutto rilevare che questa operazione è stata condotta in modo decisamente maldestro.
Infatti, invece di modificare il testo già vigente dell’art.21-quinquies, il legislatore tramite il comma 8-duodevicies dell’art.13 della legge n.40 introduceva in questa disposizione un nuovo comma, che veniva rubricato come comma 1-bis in applicazione delle Raccomandazioni per la formulazione tecnica dei documenti legislativi di cui alla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 20.4.2001[5].
Talché si prevedeva una regola speciale per i casi in cui “la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali”, ossia il novero a cui sarebbe riconducibile anche la revoca delle concessioni Tav.
Sia detto incidentalmente che anche questa volta il legislatore sembrava aver ignorato le implicazioni, di cui s’è detto poco più sopra, della riconducibilità delle concessioni amministrative agli accordi ex art.11 della legge n.241.
Come che sia, avendo introdotto questa regola speciale, il legislatore si riteneva libero di prevedere, nel comma 8-septiesdecies dell’art.13 della legge n.40, che in esito alla revoca delle concessioni Tav ai concessionari spettava ancora una volta solo un rimborso “nei limiti dei soli costi effettivamente sostenuti, adeguatamente documentati”.
Ma dato che nell’odierna XVI Legislatura la maggioranza parlamentare è ancora una volta di segno politico opposto alla precedente, è mutato ancora una volta – per la quarta volta – pure l’orientamento sulle concessioni Tav.
Nel giugno 2008 è stato infatti emanato il decreto-legge n.112/2008, il cui art.12 (“abrogazione della revoca delle concessioni Tav”) fa venire meno la revoca delle concessioni, ove dispone l’abrogazione dei commi 8-septiesdecies, 8-duodevicies e 8-undevicies dell’art.13 della legge n.40/2007.
Questa abrogazione travolgeva però, unitamente alla revoca delle concessioni Tav, anche il comma 1-bis dell’art.21-quinquies, che, come s’è visto, era stato introdotto nella legge n.241 proprio dal comma 8-duodevicies dell’art.13 della legge n.40.
A questo punto ci si sarebbe potuti attendere che, essendo ormai venuto meno il rischio di dover sborsare indennizzi miliardari ai concessionari Tav, una previsione per tanti aspetti discutibile quale quella del comma 1-bis non avesse più ragion d’essere: e soprattutto, non aveva più ragion d’essere la compressione delle pretese indennitarie del solito quivis de populo che ne veniva.
Senonché nell’art.12 della legge di conversione n.133/2008 – un poco maliziosamente si potrebbe pensare: forse perché il legislatore s’era avveduto che a questa stregua si correva il rischio che da questa nuova operazione traesse vantaggio, o sollievo, il solito quivis de populo – viene eliminata l’abrogazione del comma 8-duodevicies, e, al contempo, si prevede l’inserimento nell’art.21-quinquies pure di un comma 1-ter, che, come s’è detto, è di tenore identico a quello del resuscitato comma 1-bis, precisando che esso ha efficacia sin dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n.112[6].
Talché da un punto di vista formale ora ci si trova di fronte a una disposizione in cui – caso che, a quanto consta a chi scrive, è più unico che raro - figurano due commi di tenore assolutamente identico – e sarà pur vero che repetita iuvant, ma questa singolarissima tecnica normativa non può non ricordare quella delle grida manzoniane -.

2.La duplice tecnica di contenimento dell’indennità di revoca impiegata nei commi 1-bis e 1-ter.

2.In tono semiserio si potrebbe dire che la vicenda appena riferita sta a dimostrare che durante l’ultimo decennio le maggioranze parlamentari di segno politico opposto sembrano accomunate da una certa qual insensibilità nei confronti delle pretese indennitarie del quivis de populo, dato che queste pretese vengono tranquillamente sacrificate a fronte di una contingente esigenza di salvaguardare i conti dello Stato, e poiché questo sacrificio viene bellamente perpetuato persino quando tale esigenza è ormai venuta meno.
Mettendo da parte considerazioni di politica legislativa, risulta però di maggior interesse esaminare le due tecniche di contenimento di dette pretese che sono state implementate prima nel comma 1-bis, eppoi nel comma 1-ter (per semplicità d’ora in poi ci si riferirà a essi anche indicandoli unitariamente come: la disposizione in esame, o la disposizione in parola, etc.).
Si potrebbe dire che di queste due tecniche la prima, che per la determinazione dell’indennità fa riferimento al solo danno emergente, può essere definita una tecnica vecchia, dato che in sostanza si rifà a schemi concettuali che nel nostro ordinamento sono noti già da molto tempo; mentre la seconda, che a tal fine fà invece riferimento alla “eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico” nonché allo “eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico”, può essere definita una tecnica nuova, dato che impiega schemi concettuali che per il nostro ordinamento sono inusitati.
Cominciando dalla tecnica vecchia, sembra alquanto scontato che qua il legislatore ha riutilizzato un armamentario concettuale che per il diritto italiano non è inconsueto.
Dietro alla commisurazione dell’indennità al solo danno emergente stanno infatti le vecchie concettuologie della responsabilità – o “cosiddetta” responsabilità - per atto lecito, o per atto legittimo che dir si voglia, secondo cui l’indennizzo può essere commisurato al solo “valore oggettivo” del bene inciso dall’azione della pubblica amministrazione, e ciò sull’assunto che – per riprendere le considerazioni svolte in proposito da Alessi – il fondamento ultimo di una responsabilità siffatta riposa sul “principio di equità e giustizia distributiva, per cui l’onere necessario al soddisfacimento di un interesse collettivo non deve gravare esclusivamente su di un singolo, ma deve essere distribuito equamente su tutti i componenti la collettività”, sicché “è chiaro che il dovere d’indennizzo da parte dell’amministrazione pubblica nei confronti del singolo il cui diritto sia stato sacrificato a profitto della collettività non potrà estendersi a tutto il pregiudizio subito dal singolo, ma soltanto sino al punto corrispondente al profitto effettivo andato esclusivamente a vantaggio della collettività, e cioè appunto corrispondente al valore oggettivo e attuale del bene oggetto del diritto sacrificato”[7].
E probabilmente vi sta anche il principio, che, come noto, in passato era stato elaborato dalla Corte costituzionale per giustificare gli indennizzi, “seriamente irrisori”[8], che venivano previsti a fronte dell’espropriazione per pubblica utilità, secondo cui la somma corrisposta a questo titolo al privato espropriato non deve assumere entità tale da impedire il perseguimento dei fini di interesse generale cui è finalizzata l’espropriazione, e deve quindi corrispondere tutt’al più a “il massimo di contributo e di riparazione che la pubblica amministrazione può garantire all’interesse privato”[9].
Quanto alla tecnica nuova, sembra decisamente probabile che per questo aspetto il legislatore abbia tratto ispirazione da modelli stranieri.
Con tutta probabilità il legislatore si è ispirato innanzitutto alle regole sulla tutela dell’affidamento dell’ordinamento tedesco, che, come noto, già da tempo prevede che la tutela dell’affidamento passi (anche) attraverso il risarcimento del danno cagionato dal ritiro degli atti amministrativi, e, quindi, ha avuto modo di elaborare precise tecniche di contenimento[10].
Nel comma 1 del § 48 della legge tedesca del 1976 sul procedimento amministrativo, in ordine al ritiro degli atti amministrativi illegittimi (id est all’annullamento d’ufficio), si prevede infatti che “ove venga ritirato un atto amministrativo illegittimo, che non rientra nelle previsioni del comma 2, l’autorità deve, a richiesta, risarcire il danno patrimoniale che l’interessato abbia patito come conseguenza dell’affidamento sulla sussistenza dell’atto amministrativo, nella misura in cui il suo affidamento, previa ponderazione dell’interesse pubblico al ritiro, risulti degno di tutela…”, e nel comma 2 che “il beneficiario (di un provvedimento) non si può appellare all’affidamento qualora egli 1) abbia ottenuto l’atto amministrativo mediante dolo, minaccia o corruzione; 2) abbia ottenuto l’atto amministrativo mediante dichiarazioni sostanzialmente erronee o incomplete”.
Nel § 49, in ordine alla revoca degli atti amministrativi legittimi, analogamente si prevede che “ove un atto amministrativo favorevole venga revocato nei casi indicati dal comma 2, nn. da 3 a 5, l’autorità, su richiesta, deve risarcire l’interessato del danno patrimoniale che questi ha subìto per avere fatto affidamento sulla sussistenza dell’atto amministrativo, qualora il suo affidamento sia degno di tutela”[11].
Con altrettanta probabilità, una seconda fonte di ispirazione può essere ravvisata nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale (a sua volta partendo da una rielaborazione delle regole dell’ordinamento tedesco) ha affermato il principio per cui, sia nel caso di revoca di un atto legittimo, sia nel caso di revoca di un atto illegittimo (il diritto comunitario impiega la nozione di revoca anche per indicare ciò che nel nostro ordinamento viene definito come annullamento d’ufficio[12]), l’affidamento del beneficiario dell’atto risulta meritevole di tutela solo quando il mutamento di indirizzo delle istituzioni comunitarie non risulti prevedibile, ossia quando manchi la conoscenza o la conoscibilità dell’instabilità dell’atto revocato[13].

3.La dubbia costituzionalità dei commi 1-bis e 1-ter e la questione della misura della indennità di revoca.

3.
L’operazione condotta dal legislatore nel 2007, di mutamento del tertium comparationis al fine di evitare che la misura dei rimborsi delle concessioni Tav andasse incontro a censure di incostituzionalità, oltre a essere, come s’è detto, alquanto spregiudicata, risultava pure alquanto maldestra.
A ben vedere, infatti, non vi sono ragioni che possano giustificare un trattamento deteriore, rispetto a quello dei soggetti beneficiari di un atto amministrativo, dei soggetti che, oltre a essere beneficiari di un atto amministrativo, con l’amministrazione abbiano anche stipulato un contratto: ché, anzi, l’affidamento dei soggetti che rientrano in questa seconda categoria sembra decisamente meritevole di maggior tutela[14].
Talché vi sono buone probabilità che sia la disposizione in esame a risultare illegittima per violazione dell’art.3 Cost. in relazione al tertium comparationis costituito dal comma 1 dell’art.21-quinquies[15].
Ma non solo: com’è stato prontamente rilevato in dottrina[16], a questa stregua la disposizione in parola si presta anche a fungere da conferma a contrario (senz’altro del tutto inintenzionale) del fatto che, in generale, per la commisurazione della indennità di revoca non possono trovare applicazioni le due tecniche di contenimento di cui s’è appena detto: e, quindi, che, in assenza di diversi parametri legislativi, questa indennità va senz’altro quantificata secondo i criteri del risarcimento del danno illecito[17].
Per evitare queste due implicazioni della previsione in discorso, bisognerebbe infatti sostenere che essa in realtà si è limitata a esplicitare dei principi che valgono in via generale anche nel silenzio della legge, e, quindi, anche per le ipotesi di revoca non incidenti su “rapporti negoziali”, di cui al comma 1.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare di primo acchito, la tenuta di un ragionamento siffatto forse non troverebbe ostacolo nella previsione nei due commi in questione della seconda delle due tecniche di contenimento di cui s’è detto, ossia nella tecnica nuova.
Poco più sopra s’è proposto di definirla come una tecnica nuova proprio perché per il nostro ordinamento risulta del tutto inusitata: talché essa, proprio per tale ragione, sempre di primo acchito non parrebbe potersi ritenere espressiva di principi siffatti.
Se però è vero che essa può considerarsi ispirata a modelli di tutela dell’affidamento (anche) comunitari, potrebbe inferirsene che questa tecnica costituisce l’esplicitazione di uno dei “principi dell’ordinamento comunitario” che sono stati recepiti nel nostro ordinamento interno in particolare mercé il comma 1 dell’art.1 della legge n.241 novellato dalla legge n.15/2005[18].
Pare invece da escludersi che possa considerarsi espressiva di un qualche principio generale vigente nel nostro ordinamento la tecnica vecchia: e ciò, nonostante che essa, come s’è detto più sopra, si rifaccia a schemi concettuali già noti, e che vengono puntualmente ripresi da ampi settori della dottrina e della giurisprudenza a fronte di previsioni indennitarie prive di criteri espressi di quantificazione.
S’è visto infatti che, in relazione all’indennità per il recesso dagli accordi di cui all’art.11 della legge n.241 non mancava chi sosteneva che, nel silenzio della legge, le indennità vanno commisurate al solo danno emergente; e analoga opinione è stata sostenuta pure in ordine alla indennità di revoca di cui al comma 1 dell’art.21-quinquies, supportandola con argomenti di vario tipo[19].
In realtà, ad oggi vi sono numerose ragioni che inducono a ritenere che la vecchia tecnica di contenimento non è coerente (o, comunque, non è più coerente) con i principi dell’ordinamento.
E ciò, come chi scrive ha avuto modo di sostenere più diffusamente in altra sede[20], sia perché non pare ammissibile riproporre in generale per tutte le indennità ragionamenti validi (in passato) per una sola species di indennità, l’indennità di espropriazione[21], sia, soprattutto, perché indennità e risarcimento possono ormai considerarsi accomunati da una analoga ratio rimediale, dopo che il risarcimento per lo più ha perso le originarie finalità punitive, sicché non vi sono ostacoli ad affermare che in via generale la misura dell’una e dell’altro possono coincidere.
A ciò poi si aggiunga che, dopo i numerosi interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di indennità di espropriazione, e dopo la notissima sent. n.348 del 2007 della Corte costituzionale - e la legge n.244/2007 che ha svolto i principi sanciti dalla Corte -, non sembra comunque più possibile riproporre gli schemi concettuali che in passato avevano condotto a ritenere che le indennità in sostanza fossero riducibili ad libitum.

4.Le altre possibili ricadute dei commi 1-bis e 1-ter: in particolare, in ordine alla distinzione tra annullamento e revoca.

4.Se poi non verranno rapidamente espunte dall’ordinamento mercé una qualche pronunzia di incostituzionalità, le clausole che costituiscono la tecnica di contenimento nuova sembrerebbero anche suscettibili di avere ricadute sistematiche non prive di rilievo.
Ovviamente occorre evitare la tentazione di incorrere in una qualche enfatizzazione, dato che qui, lo si è visto, ci troviamo di fronte agli esiti inintenzionali di una vicenda legislativa tutt’altro che esemplare, e, per di più, come già s’è visto, e come vedremo anche fra poco, abbastanza maldestra.
Nondimeno, si sa che le regole dell’interpretazione sistematica implicano che, quando è stata emanata, una disposizione talora si presti per così dire a vivere di vita propria, e, quindi, a essere letta anche prescindendo dalle intenzioni del legislatore.
Se poi è vera l’ipotesi che queste clausole rappresentano l’esito del recepimento di modelli stranieri, parrebbe dedursene che esse sembrano destinate ad assumere almeno in parte significati diversi da quelli originari: ma è noto anche che questa evenienza è tutt’altro che inconsueta nella circolazione dei modelli giuridici[22].
Queste ricadute sembrano possibili perché, a ben vedere, le clausole in parola vengono a collocarsi al crocevia tra problematiche i cui termini o non sono consolidati, o magari sono in rapido mutamento, sicché queste formule possono fungere come una sorta di catalizzatore per orientare in un senso o nell’altro la soluzione di alcune di tali problematiche[23].
Le ricadute più immediate potrebbero riguardare la sistemazione dei diversi poteri di autotutela, e, in particolare, ciò che già negli anni trenta del secolo scorso veniva considerato “uno dei punti più incerti e controversi della dottrina amministrativa”[24], ossia il rapporto tra revoca e annullamento d’ufficio.
E’ noto che nei primi decenni del novecento la distinzione tra i due istituti era stata resa difficoltosa dalle tesi sulla configurabilità della nozione di vizio di merito, e dalla nozione di annullamento d’ufficio per vizi di merito[25] che ne veniva fatta discendere – perché, come ricordava Sandulli, “abituata, com’era, a configurare come annullamento la caducazione degli atti invalidi, la dottrina…non (aveva) saputo resistere al fascino della logicità sistematica di classificare nella categoria dell’annullamento tutte le forme di ritiro degli atti invalidi”[26] -.
La questione a una gran parte della dottrina era poi sembrata superata sulla base delle argomentazioni di Alessi, che aveva rilevato che “la inopportunità di un provvedimento si risolve necessariamente nella inopportunità dei suoi effetti, sì che il vizio di merito del provvedimento si risolve necessariamente in una opportunità di modificare ulteriormente il rapporto”[27], sicché la revoca, a differenza dell’annullamento, “costituisce estrinsecazione di un potere diretto a modificare un rapporto”[28].
Questo distinguo era stato recepito anche nel comma 1 dell’art.21-quinquies, in particolare nell’inciso ove si precisa che “la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti” - nel che peraltro molti avevano visto la conferma dell’afferenza del potere di revoca ai poteri di amministrazione attiva, anziché ai poteri di autotutela[29] -.
Ma nei commi 1-bis e 1-ter il legislatore, evidentemente preso dall’ansia di trovare sistemi per contenere le pretese indennitarie, almeno con il riferimento all’ipotesi “dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico” sembra aver voluto innestare nella revoca un istituto che nell’ordinamento tedesco è invece tipico dell’annullamento, dato che richiama i contenuti del § 48, anziché quelli del § 49 della legge sul procedimento del 1976; e che, comunque, per stare alle categorie consuete del diritto amministrativo italiano, non può non evocare il ricordo di una delle vecchie figure sintomatiche di eccesso di potere, l’eccesso di potere per dolo, che secondo una nota definizione si riscontra “allorché (l’atto) sia stato adottato in seguito al raggiro esperito dal privato nei confronti dell’amministrazione”[30].
Se a questo si aggiunge il riferimento a “la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea”, si comprende perché le formule impiegate nella disposizione in esame possono far riemergere all’orizzonte delle spiegazioni e delle sistemazioni possibili la contrastata nozione del vizio di merito, e anche un’assimilazione tra revoca e annullamento.
Parte degli interpreti di questa disposizione non a caso ha parlato di “una via di mezzo tra illegittimità e merito”[31], o di “una situazione intermedia tra legittimità e merito”[32], e ha rilevato che il legislatore sembra aver voluto disciplinare “un caso in cui l’amministrazione non elimina soltanto gli effetti dell’atto, ma l’atto stesso, ponendone in discussione, ab origine, l’opportunità: configurata come rimedio ad uno stato patologico del provvedimento, piuttosto che come riesercizio della funzione…”[33].
Va detto che queste clausole potrebbero prestarsi (pur con qualche forzatura) anche a letture diverse.
Ad esempio, la formula sulla conoscenza o conoscibilità della contrarietà dell'atto amministrativo all'interesse pubblico, e quella sull’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità dell’atto con l'interesse pubblico, potrebbero considerarsi riferite alla sola meritevolezza dell’affidamento, anziché (anche) alla presenza o meno di un vizio invalidante dell’atto: d’altro canto s’è visto che sia l’ordinamento comunitario, sia l’ordinamento tedesco ammettono la possibilità che l’affidamento sia immeritevole di tutela anche a fronte del ritiro di atti legittimi.
E la formula sull’efficacia durevole o istantanea dell’atto amministrativo incidente su rapporti negoziali potrebbe essere spiegata, anziché in termini di retroattività, o, se si preferisce, di efficacia ex tunc della revoca, con la considerazione che, nell’ottica (senz’altro discutibile) adottata dal legislatore nella disposizione in esame, l’atto amministrativo incidente su rapporti negoziali in essere sembrerebbe considerato dotato di un’efficacia perdurante per tutto il corso dei detti rapporti.
In realtà, l’idea che la revoca-jus poenitendi (ossia l’unica forma di revoca considerata nei commi 1-bis e 1-ter, ché da essi evidentemente esula la revoca per sopravvenienza, ossia l’abrogazione di benvenutiana memoria) tenda ad assimilarsi all’annullamento d’ufficio, sub specie di annullamento per motivi di merito, oltre a risultare astrattamente ammissibile alla luce del consueto criterio esegetico per cui le definizioni legislative non vincolano l’interprete, risulta in definitiva intimamente coerente con ciò che di recente Romano Tassone ha definito le vicende del concetto di merito[34].
D’altra parte già durante lo scorso decennio Benvenuti aveva rilevato la tendenza dei vizi di merito a risolversi in una categoria dei vizi di legittimità, per violazione dei principi costituzionali di efficienza ed economicità[35].
Ciò avviene perché le tendenze ordinamentali degli ultimi decenni – e, in particolare, l’affermazione della concezione intersoggettiva del procedimento amministrativo[36] nella legge n.241/1990, che ha consentito anche ai privati di divenire partecipi delle scelte della pubblica amministrazione – convergono nel senso di rendere ormai inattuale l’idea di una sfera di merito riservata alle valutazioni, soggettive e insindacabili, dell’amministrazione[37].
Il che, a sua volta, intuibilmente si presta a una serie di ricadute sistematiche di raggio ben più ampio di quelle che si sono appena viste (basti solo considerare che da quando l’ordinamento richiede ai privati l’onere non solo della valutazione dell’originaria opportunità del provvedimento, ma anche della valutazione prognostica[38] della stabilità del provvedimento in sede di riesame, e, quindi, delle future valutazioni di opportunità della pubblica amministrazione, non dovrebbe più potersi opporre alle pretese risarcitorie degli interessi pretensivi dei medesimi privati l’inammissibilità del giudizio prognostico sull’esito dell’attività discrezionale da parte di un operatore qualificato qual’è il giudice amministrativo).
Ma, dato che il discorso ci porterebbe sin troppo lontano[39], per restare al rapporto tra revoca e annullamento d’ufficio va segnalato anche che la tendenza alla assimilazione tra quest’ultimo e la revoca-jus poenitendi potrebbe produrre una sorta di effetto di feedback sullo stesso annullamento.
A questa stregua, infatti, appare ingiustificato che non si preveda nessuna compensazione indennitaria dell’affidamento incolpevole leso dall’annullamento d’ufficio.
E da altro punto di vista potrebbe anche dirsi che, se il nostro ordinamento si ispira ai modelli tedesco e comunitario di tutela dell’affidamento al fine rinvenire sistemi atti a contenere le pretese indennitarie, dovrebbe recepire in toto detti modelli, anziché riprenderne solo gli aspetti che sembrano consoni a qualche esigenza meramente contingente.

 

_________________________________

 

[1] Entrambi i commi recitano: “Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico”.
[2] In realtà non mancavano proposte dottrinali nel senso dell’affermazione di tale principio: alcune, abbastanza remote, basate sulle teoriche della responsabilità per atto lecito - v., ad es., R. ALESSI, La revoca degli atti amministrativi, Milano, II^ ed., 1956, 143 e ss., che a sostegno della indennizzabilità dei pregiudizi cagionati dalla revoca richiamava espressamente le conclusione a cui era giunto in proposito in La responsabilità della pubblica amministrazione, Milano, 1955, 115 e ss. in ordine alla configurabilità di un generale principio di responsabilità per atti legittimi; e D. RESTA, La revoca degli atti amministrativi, Roma, II^ ed., 1972 (la prima edizione risale però al 1935), 191 e ss., che partiva da analoghe concezioni -, altre, più recenti, basate sull’assimilabilità della revoca al recesso dagli accordi ex art.11 della legge n.241 - v., in particolare, M. IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Napoli, 1999, passim -: ma esse non avevano trovato seguito in giurisprudenza.
[3] Cfr., ad es., A. PIOGGIA, La concessione di pubblico servizio come provvedimento a contenuto convenzionalmente determinato: un nuovo modello per uno strumento antico, in Dir. pubbl., 1995, 567 e ss., E. BRUTI LIBERATI, Le vicende del rapporto di concessione di pubblico servizio e i poteri unilaterali dell’amministrazione. La decadenza e la revoca della concessione, in G. PERICU, A. ROMANO, V. SPAGNUOLO VIGORITA (a cura di), La concessione di pubblico servizio, Milano, 1995, spec. 180 e ss. Ma va detto che in dottrina comunque prevaleva l’opinione che questo indennizzo dovesse essere commisurato al solo danno emergente: v., ad es., E. STICCHI DAMIANI, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992, 69.
[4] Secondo la stampa finanziaria, oltre due miliardi di euro: v. A. ARONA, Rischio di risarcimenti da 2,2 miliardi, in Il Sole-24 ore del 14.7.2007.
[5] Nel punto 10 della Circolare si prevede infatti che i nuovi commi aggiunti tramite una novella nel testo di un articolo di legge vigente vengono “contrassegnati con lo stesso numero cardinale del comma dopo il quale sono collocati, integrato con l’avverbio numerale latino bis, ter, quater, e via dicendo”.
[6] In altri termini qui ci troviamo di fronte a un caso di - per usare una definizione di A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge. La decretazione d’urgenza dopo la sentenza n. 360/1996 della Corte Costituzionale, Milano, 2003, 324 e ss. - “conversione mascherata” di un decreto-legge, analogo ad esempio a quello censurato dalla Corte costituzionale nella sent. n.128/2008 – commentata per gli aspetti che qui interessano da D. CHINNI, Un passo avanti (con salto dell’ostacolo) nel sindacato della Corte costituzionale sui presupposti della decretazione d’urgenza, in associazionedeicostituzionalisti.it -.
[7] R. ALESSI, La responsabilità, cit., 137 ss. Su queste concettuologie sia permesso il rinvio al ns. Indennità e principio indennitario in diritto amministrativo, Torino, 2002, passim.
[8] Secondo la nota definizione di F. G. SCOCA, in L’espropriazione: l’indennizzo seriamente irrisorio, in Dir. amm., 1994, 423 ss.
[9] L’espressione riportata nel testo si rinviene ad es. in Corte cost. n.22/1965, in Riv. giur. ed., 1965, I^, 453 ss.
[10] Quasi scontato in proposito il riferimento a F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, Milano, 2001.
[11] Viene qui ripresa la traduzione di D.U. GALETTA, La legge tedesca sul procedimento amministrativo (verwaltungsverfahrensgesetz), Milano, 2002. Corsivi nostri.
[12] Come ricorda M. GIGANTE, Mutamenti nella regolazione dei rapporti giuridici e legittimo affidamento. Tra diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2008, 103, nt.1.
[13] E’ una delle conclusioni cui perviene il citato studio di M. GIGANTE, Mutamenti nella regolazione, cit., 150.
[14] Cfr., in questo senso, R. CHIEPPA, Provvedimenti di secondo grado, voce in Enc. dir. Annali, Milano, 2008, II, 925.
[15] Dato che la legge n.133/2008 ha fatto venir meno le previsioni della legge n.40/2007 sulla revoca delle concessioni Tav, deve invece considerarsi superata la questione della coerenza di detta revoca ex lege con le norme del Trattato CE che era stata posta dal T.A.R. Lazio tramite l’ordinanza n.880 del 2007 della I^ Sezione, nel cui contesto si era interrogata la Corte di Giustizia anche della legittimità della revoca ex lege “nella parte in cui limita l’indennizzo riconoscibile in favore di questi ultimi secondo quanto stabilito dal comma 8-duodevicies”, ossia dal comma 1-bis dell’art.21-quinquies (sulla vicenda v., per tutti, C. VOLPE, Il sistema dell’alta velocità ferroviaria in Italia innanzi alla Corte di giustizia. Ovvero la criticità del sistema assume rilievo comunitario, in giustizia-amministrativa.it).
[16] In particolare da F. VOLPE, Prime riflessioni sulla riforma dell’art.21-quinquies della legge sul procedimento amministrativo, in lexitalia.it.
[17] E’ la tesi sostenuta da chi scrive in Le indennità di autotutela, in Dir. amm., 2008, 163 e ss., cui si rinvia.
[18] Sul recepimento dei principi comunitari in tema di tutela dell’affidamento cfr. A. MASSERA, I principi generali, in M. P. CHITI, G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo – Parte generale, Milano, 2007, spec. 329 e ss.
[19] Che si è cercato di confutare nel ns. Le indennità di autotutela, cit.
[20] Nei ns. Indennità e principio indennitario in diritto amministrativo, cit., e Le indennità di autotutela, cit., a cui, pertanto, ancora una volta si rinvia.
[21] Peraltro la fondatezza di questi ragionamenti anche in ordine all’indennità di espropriazione già in passato era stata revocata in dubbio dalla migliore dottrina, e, in particolare, da D. SORACE, Gli indennizzi espropriativi nella Costituzione: fra tutela dell’affidamento, esigenze risarcitorie e problemi della rendita urbana, in Riv. crit. dir. priv., 1989, 405 e ss.
[22] E l’attribuzione nel nuovo contesto di significati affatto diversi da quelli originari è evenienza tutt’altro che inconsueta nella circolazione dei modelli giuridici: cfr., in proposito, almeno R. SACCO, Circolazione e mutazione dei modelli giuridici, voce in Dig. disc. priv., Torino, 1988, II, 365 e ss.
[23] In altri termini, è per questa ragione che esse probabilmente non corrono il rischio di subire quella compressione entro schemi sistematici consolidati e, quindi, difficilmente scalfibili, di cui parla A. ROMANO TASSONE in Metodo giuridico e ricostruzione del sistema, in Dir. amm., 2002, 11 e ss.
[24] V. M. ROMANELLI, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 68.
[25] V., in particolare, S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo, 265. Per ulteriori riferimenti alle vicende dottrinali della figura v. S. TARULLO, Il riesercizio del potere amministrativo, in G. CLEMENTE DI SAN LUCA (a cura di), La nuova disciplina dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, Torino, 2005, 247 e ss., e, in precedenza, F. PAPARELLA, Revoca (dir. amm.), voce in Enc. dir., XL, 1989, 204 e ss.
[26] A. M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Milano, III^ ed., 1964, 387.
[27] R. ALESSI, La revoca, cit., 55. Corsivi dell’a.
[28] E. FERRARI, Revoca e abrogazione del provvedimento amministrativo, voce in Dig. disc. pubbl., Torino, 1997, XIII, 327.
[29] Ad es., M. IMMORDINO, Commento all’art.21-quinquies, in N. PAOLANTONIO, A. POLICE, A. ZITO (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n.241/1990 riformata dalle leggi n.15/2005 e n.80/2005, Torino, 2005, 485 e ss., vi vede la conferma delle note tesi esposte da A. CONTIERI ne Il riesame del provvedimento amministrativo, Napoli, 1991, passim. Orientato nello stesso senso (seppur partendo da diverso angolo visuale) è anche B. G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 1223 e ss.
[30] P. VIRGA, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1968, 461.
[31] B. G. MATTARELLA, Il principio di legalità, cit., 1230.
[32] F. SAITTA, L’amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamenti e revoche a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, relazione al Seminario svoltosi a Firenze il 29 maggio 2009, dattiloscritto.
[33] F. SAITTA, L’amministrazione, cit.
[34] Così F. SAITTA, L’amministrazione, cit., che riprende e svolge alcune delle conclusioni cui perviene A. ROMANO TASSONE in Sulle vicende del concetto di «merito», in Dir. amm., 2008, 517 ss.
[35] F. BENVENUTI, Disegno dell’amministrazione italiana. Linee positive e prospettive, Padova, 1996, 207 e ss.
[36] V. G. PASTORI, Le trasformazioni del procedimento amministrativo, in Dir. e società, 1996, 486.
[37] A. ROMANO TASSONE, Sulle vicende, cit., passim. Sulla tendenza del nostro ordinamento a restringere gli spazi di insindacabilità dell’azione amministrativa cfr. almeno anche E. CODINI, Scelte amministrative e sindacato giurisdizionale. Per una ridefinizione della discrezionalità, Napoli, 2008.
[38] L’espressione è di M. SINISI, Il di revoca, in Dir. amm., 2007, 650.
[39] Per cui in proposito si preferisce rinviare alle interessanti considerazioni di F. ROMOLI, Funzione amministrativa, interesse pubblico e responsabilità nella riforma dell’indennità di revoca, in corso di stampa in Dir. amm. Riguardo poi al problema dell’incidenza della revoca sui rapporti negoziali, v., per tutti, S. FANTINI, La revoca dei provvedimenti incidenti su atti negoziali, in Dir. proc. amm., 2009, 1 e ss.

 

(pubblicato il 2.9.2009)

Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico Stampa il documento