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ANDREA CARBONE

Prime annotazioni sull’ammissibilità dell’azione di mero accertamento nel processo amministrativo


In margine a Cons. St., Sez. VI, n. 717 del 9 febbraio 2009



1. Azione di accertamento e giudizio amministrativo

La possibilità di esperire un’azione di mero accertamento a tutela di un interesse legittimo è questione su cui si ampiamente dibattuto e che, fino alla sentenza 9 febbraio 2009 n. 717 della VI Sezione del Consiglio di Stato, non trovava un’unanime risposta.
Il tema tocca invero punti cardine della struttura stessa del processo amministrativo, che risentiva della tradizionale impostazione di giudizio a carattere impugnatorio, un giudizio, cioè, sull’atto e non sul rapporto. Nella giurisdizione generale di legittimità, infatti, il giudice amministrativo conosce, secondo quanto dispone l’art. 103 Cost., co. 1, dell’interesse legittimo del privato “che è una situazione relazionale all’esercizio del potere e [pertanto] l’affermazione della sua esistenza non reca soddisfazione all’interesse al bene”[1], come avviene invece in caso di diritto soggettivo; “la sua soddisfazione passa necessariamente attraverso l’eliminazione degli effetti dell’azione autoritativa (interesse legittimo oppositivo) o nella produzione degli effetti dell’azione amministrativa (interesse legittimo pretensivo), non nella mera affermazione che il ricorrente è titolare dell’interesse legittimo”[2]. Ne conseguirebbe che l’esperimento di un’azione di accertamento sarebbe da escludere, salvo il caso in cui il g.a. abbia la giurisdizione esclusiva in quella particolare materia[3].
La stessa elaborazione dell’interesse legittimo quale situazione giuridica di carattere sostanziale[4], pienamente tutelata, secondo l’art. 24 Cost, al pari del diritto soggettivo, solo a fatica è riuscita a scalfire l’originaria concezione del processo amministravo quale giudizio esclusivamente a carattere impugnatorio, trovando peraltro ostacoli anche nelle espressioni utilizzate dalle poche norme in materia, quali l’art. 26 (“decidere sui ricorsi (…) contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa”) e l’art. 45 (“se accoglie il ricorso (…) annulla l’atto”) del T.U. Cons. St., nonché l’art. 26 della L. 1034/71 (“il Tribunale amministrativo regionale (…) se accoglie il ricorso (…) annulla l’atto). Come giustamente si è rilevato[5], “si tratta ora di verificare se questa origine della giurisdizione amministrativa sia tale da escludere che una volta che quel potere di annullamento è confluito nella giurisdizione detta di legittimità, questa non possa atteggiarsi altrimenti per sua intima essenza che come giurisdizione di annullamento, oppure se il sindacato interno sul modo di esercizio del potere possa essere invocato anche attraverso una domanda diversa da quella dell’annullamento di un atto amministrativo che si assuma viziato”.
Il lento e defatigante percorso verso l’adeguamento degli strumenti processuali alla piena tutela dell’interesse legittimo, di cui l’ammissibilità delle azioni dichiarative rappresenta l’ultima tappa, è tuttora in corso. Il distacco dalla natura meramente impugnatoria del giudizio iniziò in sede di giurisdizione esclusiva, quando, a partire dalla nota decisione sul caso Ricciardi[6], si iniziò a svincolare i giudizi sui rapporti paritetici[7] dal rispetto delle regole dei ricorsi d’impugnazione, limitatamente ai diritti aventi contenuto patrimoniale. Tale posizione fu poi estesa anche ai diritti a contenuto non patrimoniale dal 1979[8]. In tal modo, attraverso una giurisprudenza sviluppatasi soprattutto nell’ambito del pubblico impiego[9], si arrivò alla definitiva configurazione dell’azione dichiarativa, anche se limitatamente alle ipotesi di giurisdizione esclusiva, e, in questa sede, solo in relazione ai diritti soggettivi, escludendola invece per gli interessi legittimi[10].
Un ulteriore sviluppo del processo amministrativo si è registrato allorché la giurisprudenza ha cominciato ad ammettere la possibilità di ricorsi contro un comportamento omissivo della P.A.; in tale caso, infatti, un atto da impugnare mancava del tutto, mancava, cioè, “l’oggetto e la ragione di un’impugnazione in senso proprio, ma non per questo mancava la ragione e l’oggetto della tutela”[11]: proprio per tale motivo la giurisprudenza amministrativa si rese conto che “non avrebbe potuto garantire (…) la piena funzionalità di tale giurisdizione, ove non avesse attratto nell’ambito di tutela anche i casi in cui la lesione dell’interesse legittimo è consumata non dall’attività, cioè dall’emissione di un atto nell’esercizio di un potere discrezionale, ma dall’inerzia della P.A.”[12].
Conseguentemente, attraverso una lunga elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi con riguardo ad alcune norme legislative che prendevano in considerazione il comportamento omissivo dell’amministrazione, si è giunti a concepire un’azione avverso il silenzio (inadempimento) della P.A.; la L. n. 205 del 21 luglio 2000 ha poi introdotto, nella L. 1034/71, l’art. 21 bis, disciplinante, appunto, tale azione.
A tal proposito, però, occorre rilevare come attualmente, anche alla luce dell’interpretazione del nuovo art. 21 bis, si tende a configurare il ricorso avverso il silenzio come “un accertamento dell’obbligo di provvedere e conseguente condanna dell’amministrazione”[13] e, quindi, ad inquadrare la relativa azione tra quelle di condanna ad un facere specifico. Ne consegue che, sebbene anche la presenza di azioni di condanna vada ad intaccare la natura strettamente impugnatoria del giudizio amministrativo, rimane aperto il problema dell’ammissibilità delle azioni dichiarative nei confronti degli interessi legittimi.
E’ indubbio che le spinte al superamento del giudizio amministrativo quale meramente impugnatorio – si è parlato in proposito di una vera e propria ‘crisi’ del processo amministrativo[14] – derivino dalla sua inidoneità ad assicurare una piena garanzia delle situazioni giuridiche dei privati[15]. A questa esigenza di evoluzione degli strumenti di tutela davanti al g.a., si contrappone, però, il tradizionale assetto del giudizio amministrativo, fondato interamente sull’azione di annullamento.
Proprio la necessità di non discostarsi da questi presupposti, ha portato a tendenze contrastanti in giurisprudenza in ordine alla qualificazione degli effetti della sentenza: infatti “irretita dalla configurazione del giudizio amministrativo come giudizio che ha per oggetto la verifica della legittimità degli atti amministrativi, la giurisprudenza, quando si viene a trovare di fronte a situazioni che devono essere risolte con pronuncie di accertamento, è costretta ad utilizzare il processo di annullamento perseguendo per vie traverse l’esigenza dell’accertamento”[16].
Si è infatti notato[17] che, sebbene i giudici non ammettano la possibilità di pronuncie dichiarative ‘in via principale’, cerchino, poi, di arrivare ai medesimi risultati che tali pronunzie comporterebbero, mediante sentenze di rito: e così si è assistito a declaratorie di inammissibilità motivate dalla mancanza di ogni effetto lesivo attuale per il ricorrente[18]; ovvero dal difetto dell’atto nel caso in cui il g.a. sia adito per carenza di potere a fronte di una situazione del privato di (originario) interesse legittimo[19]. Decisioni che, nonostante si presentino come formalmente sfavorevoli per il ricorrente, nascondono, nella sostanza, statuizioni a lui favorevoli.
Pronunzie di tal genere pongono problemi in relazione ai loro effetti extraprocessuali, che in realtà non dovrebbero sussistere, essendo prodotti, appunto, da sentenze formalmente di rito. A tal proposito, però, il Consiglio di Stato ha affermato la legittimazione della P.A. ad appellare – ancorché da un punto di vista formale le sarebbe favorevole – la decisione di inammissibilità, perché in sostanza, dichiarando l’inefficacia dell’atto, non consente all’amministrazione di dare esecuzione al provvedimento; la stessa giurisprudenza ha inoltre precisato che, laddove la P.A. non provvedesse all’impugnazione, l’accertamento compiuto incidentalmente sarebbe idoneo a fare stato tra le parti, a passare, cioè, in giudicato[20].
Nel dichiarato intento di evitare una declatoria di inammissibilità, un originale indirizzo giurisprudenziale[21] ha cercato di aggirare la natura impugnatoria del giudizio amministrativo, giungendo ad un compromesso riguardo all’ammissibilità di una particolare azione di accertamento, quella di nullità: viene infatti sostenuto che anche se tale azione “è, ontologicamente, un’azione dichiarativa e la giurisdizione amministrativa di legittimità non conosce, salve residuali ipotesi (segnatamente il giudizio sul silenzio e il giudizio sull’accesso), l’azione di accertamento, deve ritenersi ammissibile innanzi al g.a. la proposizione di un’azione di nullità dell’atto, potendo in tal caso il giudice stesso emettere una statuizione di annullamento, che accerti l’inesistenza giuridica del potere. La formula di annullamento, infatti, ben si adatta all’esigenza che l’atto venga eliminato anche sul piano formale”.
La giurisprudenza esaminata ha cercato in definitiva di assicurare una tutela effettiva muovendosi all’interno delle strette maglie del processo impugnatorio, incontrando, però tutti limiti propri di una siffatta impostazione.
Anche la dottrina, del resto, sebbene non unanimemente[22], ha sottolineato la necessità di ammettere azioni dichiarative davanti al g.a., anche al di là di un’espressa previsione[23]: opinione che, in tempi recenti deve dirsi nettamente maggioritaria[24].
Tuttavia la riforma del 2000, la quale, secondo la dottrina più attenta, avrebbe posto le basi per l’unificazione delle diverse giurisdizioni nell’unico modello processuale della giurisdizione ‘piena’[25], si è completamente disinteressata dell’azione di mero accertamento nei confronti di interessi legittimi[26], così determinando una perdurante inattuazione – da questo punto di vista – dell’art. 24 Cost., che, ponendo sullo stesso piano le due diverse situazioni giuridiche, garantirebbe per entrambe anche i medesimi mezzi di tutela[27]; ma, soprattutto, del 2° co., dell’art. 113 Cost., il quale afferma che la tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A. “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”[28].
Rinnovata attenzione per questa tematica si è avuta con l’introduzione, ad opera della L. 15/05, dell’art. 21 septies L. 241/90, sulla nullità del provvedimento amministrativo. La possibilità di esperire davanti al g.a. l’azione (dichiarativa) di nullità è questione che ha riguardato anche l’ammissibilità, in via generale, della tutela di accertamento nel processo amministrativo[29]; anche se, in proposito, deve sottolinearsi come una volta che la nullità del provvedimento amministrativo sia stata espressamente prevista dal legislatore, la relativa azione dovrebbe considerarsi più correttamente un’azione tipica, senza necessità di ricorrere ad un’azione di mero accertamento ‘atipica’, la quale ha solo carattere residuale, al pari di quanto accade nel diritto civile[30].


2. Il revirement giurisprudenziale

Alle esigenze di tutela effettiva sopra evidenziate ha cercato di rispondere il Consiglio di Stato con la sentenza n. 717/09, ammettendo in via generale l’esperimento dell’azione dichiarativa davanti al g.a. Nel caso di specie, il ricorrente aveva impugnato una D.I.A. lesiva della sua sfera giuridica.
Com’è noto, tale istituto ha posto fin dalla sua introduzione, ma ancor di più a seguito delle modifiche intervenute nel 2005, problemi in ordine alla sua natura giuridica: a fronte della teoria che ritiene la D.I.A. atto soggettivamente ed oggettivamente privato, rispetto al quale il terzo avrebbe solo il potere di ricorrere alla procedura del silenzio-rifiuto avverso l’inerzia della P.A.[31], un altro orientamento, che fino alla pronuncia in esame poteva dirsi prevalente, inserisce la D.I.A. in una fattispecie complessa il cui perfezionamento avviene con il decorso del termine di trenta giorni dalla comunicazione di avvio dell’attività prevista dall’art. 19 L. 241/90: a seguito di questa, si formerebbe “un’autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata dal terzo entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla comunicazione al terzo del perfezionamento della D.I.A. o dall’avvenuta conoscenza del consenso (implicito) all’intervento oggetto di D.I.A.”[32].
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 717/09 critica questa concezione, che ben si addice, a suo parere, al silenzio-assenso, ma che non coglie, invece, “come la D.I.A. venga dal legislatore nettamente contrapposta al provvedimento amministrativo: è prevista proprio la sostituzione con una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione comunque denominata”, di talché “la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più fondata, infatti, sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema norma-potere-effetto, ma è una legittimazione ex lege, secondo lo schema norma-fatto-effetto, in forza del quale il soggetto è abilitato allo svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere autorizzatorio della P.A.”[33]. Né a contrario potrebbe invocarsi la previsione del potere di autotutela previsto dallo stesso art. 19 L. 241/90, in quanto questo dovrebbe intendersi, in ogni caso, come autotutela sui generis[34].
Il rimedio a disposizione del terzo, attesa l’impossibilità dell’impugnazione per la mancanza della natura provvedimentale della dichiarazione, non può però limitarsi al ricorso avverso il silenzio, in quanto, da un lato “questi avrebbe l’onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla P.A.” ed inoltre tale “istanza sarebbe diretta a sollecitare non il potere inibitorio di natura vincolata (che si estingue decorso il termine perentorio di trenta giorni), ma il c.d. potere di autotutela evocato tramite il richiamo agli artt. 21 quinquies e 21 nonies”; potere, tuttavia, ampiamente discrezionale, che consentirebbe al g.a. di pronunciare solo “una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare”[35].
Al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, è necessario allora ricorrere all’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice D.I.A.
Per ammettere una tale azione, il Consiglio di Stato ha però preliminarmente dovuto superare due ordini di problemi.
In primo luogo, i giudici del supremo consesso amministrativo hanno affrontato l’obiezione secondo cui il processo amministrativo sarebbe un giudizio sull’atto e non sul rapporto, cosicché non potrebbe trovarvi cittadinanza un’azione dichiarativa.
Questa teorizzazione sarebbe però ormai superata, anche alla luce dell’evoluzione degli strumenti di tutela intervenuta nell’ultimo decennio[36], e comunque non può avere riguardo a fattispecie in cui un provvedimento manchi del tutto.
La Sesta Sezione non ha però spinto fino alle estreme conseguenze tale percorso logico, sostenendo invece, più cautamente, che “il giudizio amministrativo rimane un giudizio sull’atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va inclusa quella in esame, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della P.A., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della P.A.”[37].
In secondo luogo è stata analizzata la problematica relativa alla mancanza di una norma espressa che preveda l’azione di accertamento nel processo amministrativo.
Tale circostanza non sarebbe d’ostacolo, secondo il Collegio, atteso che “sotto questo profilo ricorre nel processo amministrativo una situazione del tutto analoga a quella del processo civile, nel quale pure manca un esplicito riconoscimento normativo generale dell’azione di accertamento (specifiche azioni di accertamento sono previste nel codice civile solo per i diritti reali). Ciò nonostante, nel processo civile l’azione di accertamento è pacificamente ammessa”. Infatti “a tale pacifico riconoscimento dell’azione di accertamento nel giudizio civile si giunge partendo dalla premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto”[38].
Questa impostazione risente notevolmente dell’influenza del Chiovenda[39], il quale per primo in Italia si distaccò dalla tradizionale visione del processo con funzione prevalentemente esecutiva, sostenendo che “la funzione giurisdizionale non serve solo a tutelare (primariamente o sussidiariamente) i diritti soggettivi sostanziali, ma serve altresì al conseguimento di utilità non garantite extraprocessualmente da alcun diritto soggettivo. La funzione di mero accertamento è per l’appunto la manifestazione più importante di questo secondo modo di attuazione della legge”[40].
L’azione dichiarativa rappresenta, in effetti, la base su cui poggia tutta la ricostruzione chiovendiana della teoria dell’autonomia dell’azione: la funzione di accertamento, infatti, non si esplica per tutelare un diritto soggettivo preesistente, ma un’incertezza pregiudizievole tale da determinare uno stato di fatto contrario al diritto (si intenda, in senso oggettivo)[41]. L’azione è, pertanto, concepita come diritto a sé stante, autonomo, cioè, dal corrispondente diritto sostanziale. Tale teorizzazione potrebbe apparire come un’inutile duplicazione priva di rilevanti effetti pratici, ma è proprio la struttura dell’azione di accertamento che, invece, induce a sostenere il contrario: giacché, come si è appena osservato, essa non presuppone alcun diritto vantato dall’attore, il quale, invece “tende esclusivamente a procurarsi la certezza giuridica di fronte ad uno stato di incertezza che gli è pregiudizievole, all’uopo chiedendo che si dichiari esistente un suo diritto o inesistente il diritto altrui”[42]; è, perciò, una “mera” azione, mera appunto perché non si basa su un diritto sostanziale.
Tale azione avrebbe dovuto essere ammessa in via generale (e, dunque, come azione ‘atipica’), poiché, secondo il Chiovenda “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto a conseguire”[43], in quanto “dato un ordinamento giudiziario e processuale, con ciò stesso è autorizzata ogni domanda giudiziale, che tenda ad evitare il danno che si verificherebbe se la legge non fosse attuata, a meno che la legge non contenga limitazioni espresse. Ora il danno può derivare sia dalla mancanza di una prestazione, come dall’incertezza del diritto”[44]. L’unico problema, secondo l’illustre Autore, sarebbe stato la determinazione dell’interesse sufficiente per giustificare la proposizione dell’azione di mero accertamento, che “consiste[rebbe] in una situazione di fatto tale che l’attore senza l’accertamento giudiziale soffrirebbe un danno, di modo che la dichiarazione giudiziale si presenta come il mezzo necessario per evitare questo danno”[45]: in tal senso l’incertezza verrebbe ad essere pregiudizievole.
Questa teorizzazione ha preso ispirazione dall’opera del Wach[46] in relazione all’ordinamento processuale tedesco, il quale era però contraddistinto dalla presenza di una norma che configurava la possibilità di esperire l’azione di accertamento in via generale[47]; senza che fosse necessario richiamarsi ai principi generali dell’ordinamento processuale, come, invece, è costretto a fare il Chiovenda, non esistendo in Italia una disposizione di tal fatta[48].
Ancorché non fosse supportata dal diritto positivo, la concezione chiovendiana è riuscita a trovare una collocazione per l’azione dichiarativa e rivela la propria originalità proprio nel fondare l’atipicità della tutela di accertamento nella struttura stessa della giurisdizione; cosicché, sebbene, come è stato rilevato[49], le adesioni a tale dottrina non sono mai state veramente complete[50], quest’impostazione rimane alla base del diritto processuale italiano.
Il parallelismo con il processo civile è di tutta evidenza, atteso che anche nel giudizio amministrativo manca un’espressa previsione dell’azione dichiarativa, mentre nell’ordinamento tedesco è presente il § 43 della Legge processuale amministrativa. Sebbene in ritardo rispetto all’elaborazione civilistica, dunque, anche il g.a. è giunto alla consapevolezza che “l’ammissibilità di tale azione discende di per sé dall’esistenza della giurisdizione che implica appunto lo ius dicere”[51].
Viene così superato anche il dato testuale degli artt. 45 e 26 T.U. Cons. St. e dell’art. 26, co. 1, L. 1034/71 che individuando “come unico dispositivo di accoglimento la sentenza di annullamento rispecchiavano perfettamente (…)la visione originaria del processo amministrativo come un processo impostato sulla tutela degli interessi legittimi oppositivi ai quali corrispondeva una pretesa a un non facere in capo all’amministrazione, cioè un dovere di astensione dall’emanare il provvedimento restrittivo della sfera giuridica dell’interessato”[52].
La tutela delle posizioni giuridiche pretensive, a 10 anni dal riconoscimento della loro risarcibilità, si arricchisce ora di un altro fondamentale strumento.


3. Ulteriori profili problematici

Un ultimo punto della sentenza merita una particolare attenzione. Il Consiglio di Stato, non si è infatti limitato ad ammettere l’azione atipica di accertamento, ma ne ha delineato anche il regime applicabile.
I Giudici di Palazzo Spada muovono da una premessa: che “il terzo che si ritenga leso da una attività svolta sulla base di una D.I.A. deve avere, in linea di principio, le stesse possibilità di tutela che avrebbe avuto a fronte di un provvedimento di autorizzazione rilasciato dalla P.A.”[53].
Da ciò discenderebbe che l’azione di accertamento sarebbe sottoposta al termine di decadenza previsto per l’azione di annullamento, a decorrere dal momento in cui è venuto a conoscenza della D.I.A. e della lesività dell’intervento realizzato sulla base della stessa.
Il Consiglio di Stato, in tal modo, si fa portavoce delle esigenze di certezza dell’azione amministrativa per cui una situazione non può rimanere indefinita per un periodo di tempo eccessivamente lungo, tale da compromettere l’interesse pubblico ed il legittimo affidamento dei privati interessati. Il principio alla base di questa pronuncia è lo stesso che ispira la giurisprudenza amministrativa nel subordinare l’accoglimento della domanda risarcitoria all’impugnazione dell’atto lesivo (c.d. pregiudiziale amministrativa).
Nonostante il diverso inquadramento dell’istituto, dunque, l’introduzione di un’azione dichiarativa non comporta uno stravolgimento delle modalità di tutela, anche al fine di garantire l’affidamento del privato che ha posto in essere la D.I.A.
Occorre però soffermarsi sulla giustificazione teorica da cui muove il Consiglio di Stato per giungere ad una siffatta conclusione. Infatti il Supremo consesso amministrativo, liquidando la questione in maniera forse eccessivamente sintetica, ritiene “non applicabile un diverso termine di natura prescrizionale in quanto l’azione, ancorché di accertamento, non è diretta alla tutela di un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo”[54].
Invero è da dire come questa impostazione, che vede il termine decadenziale come proprio non dell’azione di annullamento, ma dell’interesse legittimo a prescindere dalla forma di tutela adottata, non convince del tutto.
Non convince in primo luogo in ragione del disposto dell’art. 24 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza più recente (tra cui Cass., Sez. Un., n. 30254/08).
Non convince inoltre per le possibili conseguenze che può comportare in ordine all’applicazione ad altre azioni di accertamento esperibili davanti al g.a., quale l’azione volta a far valere la nullità del provvedimento. La dottrina maggioritaria[55], insieme con la giurisprudenza[56], ha infatti fino ad ora considerato tale azione imprescrittibile, in analogia con la disciplina civilistica.
Tuttavia, parte minoritaria della dottrina aveva sostenuto l’applicabilità all’atto nullo del regime processuale proprio del giudizio amministrativo, e quindi al termine decadenziale dell’atto annullabile, laddove incida su posizioni di interesse legittimo e (quindi) venga adito il g.a.[57]. Tale teorizzazione trova ora nuovi spunti nella sentenza del Consiglio di Stato.
Non v’è però chi non veda come postulando il medesimo termine sia per la nullità che per l’annullabilità, la differenza tra queste due forme di invalidità si ridurrebbe sensibilmente, con la conseguenza di eliminare l’utilità pratica che l’azione di nullità avrebbe per il privato, costituita dalla possibilità di una tutela ulteriore rispetto alla mera illegittimità[58]; tutela ulteriore, a sua volta, giustificata dalla maggiore gravità del vizio.
Proprio in ragione di tale considerazione non si può escludere che, laddove prevalesse questo indirizzo restrittivo, maggiori adesioni potrebbe riportare quella tesi, ad oggi non seguita dalla giurisprudenza, secondo cui la giurisdizione sugli atti nulli spetterebbe in ogni caso al g.o. (salva l’ipotesi prevista dal 2° comma dell’art. 21 septies), così da sottrarre l’azione all’applicazione del termine decadenziale. Ciò potrebbe verosimilmente portare ad un nuovo conflitto di giurisdizione tra g.o. e g.a., in un ambito in cui tutto sommato non vi erano particolari incertezze[59].
Questa non è tuttavia l’unica interpretazione che può darsi alla pronuncia in esame. Infatti se si tiene presente che il Consiglio di Stato ha precisato come “l’azione di accertamento in tal caso sarà sottoposta allo stesso termine di decadenza (di sessanta giorni) previsto per l’azione di annullamento che il terzo avrebbe potuto esperire se l’Amministrazione avesse adottato un permesso di costruire” (corsivo non testuale), in quanto “il terzo che si ritenga leso da una attività svolta sulla base di una D.I.A. deve avere, in linea di principio, le stesse possibilità di tutela che avrebbe avuto a fronte di un provvedimento di autorizzazione rilasciato dalla P.A.”[60], se ne deduce che la statuizione secondo cui “l’azione, ancorché di accertamento, non è diretta alla tutela di un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo” non risulta suscettibile di generalizzazione, in quanto connaturata alle peculiari caratteristiche della D.I.A.
Invero si deve rilevare come un’azione dichiarativa, per sua natura, mal si concili con la previsione di un termine (per giunta decadenziale) entro il quale debba essere esperita. Piuttosto sembra che il Consiglio di Stato abbia cercato di trovare alla D.I.A. una collocazione più consona alla sua struttura, nel dichiarato intento di tracciare una distinzione netta con il silenzio-assenso; pur tuttavia, i giudici amministrativi si sono dovuti confrontare con le consuete esigenze di tutela dell’interesse pubblico (nonché del legittimo affidamento del privato), le quali hanno portato alla previsione di un termine analogo a quello di annullamento del provvedimento. Se, pertanto, da un punto di vista teorico, la D.I.A. può dirsi correttamente inquadrata, alla stessa conclusione non si perviene per l’azione di accertamento. Infatti, delle due l’una: o siamo di fronte ad un’azione dichiarativa, come tale sottratta al termine di impugnazione, ovvero si applica il termine decadenziale, ma allora l’azione non è di accertamento, bensì impugnatoria, come tale da esperirsi nei riguardi di un provvedimento (implicito o esplicito che sia).
Il termine decadenziale, in sostanza, è dettato dal Consiglio di Stato solo per ragioni di opportunità e non trova giustificazione nella circostanza che la situazione giuridica fatta valere in giudizio sia un interesse legittimo. Giusto infatti il rilievo di chi afferma che “la tutela impugnatoria, nel termine di decadenza, è solo una delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, la quale non può ritenersi così connaturale all’interesse legittimo stesso da imporre tale termine di decadenza anche ad azioni che hanno ad oggetto rapporti di diritto pubblico non incisi da alcun atto amministrativo annullabile, o comunque nel caso in cui non si miri all’annullamento di un atto amministrativo”[61].
Così intesa la portata della sentenza, si può concludere che, per un effettivo passo in avanti in vista della realizzazione di una piena tutela dell’interesse legittimo, l’istituto necessiti di una configurazione più consona alla sua natura, rimanendone frustrate, altrimenti, le esigenze alla base.
In tale direzione sembra ad ogni modo muoversi il legislatore, che con l’art. 44 della L. n. 69 del 18 giugno 2009 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) ha conferito al Governo la delega per il riordino delle azioni e delle funzioni del g.a., in particolare (co. 1, lett. b), n. 4) “prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”. L’adozione della disciplina delegata dovrebbe pertanto portare definitiva chiarezza sul panorama delle azioni esperibili davanti al g.a., sancendo contemporaneamente il tramonto del processo amministrativo quale giudizio (esclusivamente) impugnatorio.

 

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[1] E. Follieri, La tipologia di azioni proponibili, in Giustizia amministrativa a cura di F.G. Scoca, Torino, 2006, p. 161.
[2] E. Follieri, La tipologia di azioni proponibili, in Giustizia amministrativa, cit., p. 162.
[3] In realtà si deve ricordare come in un primo momento le regole del modello processuale impugnatorio valevano anche in sede di giurisdizione esclusiva, col risultato di comportare una deminutio di tutela per i diritti soggettivi fatti valere davanti al g.a.; successivamente, la giurisprudenza svincolò i giudizi sui rapporti paritetici dal rispetto delle regole dei ricorsi d’impugnazione (cfr. infra in questo stesso paragrafo), mentre la Corte costituzionale ha esteso i poteri cautelari e i mezzi di istruzione probatoria del giudizio civile anche al giudizio amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva (Corte Cost., n. 190 del 25 giugno 1985 e n. 146 del 23 aprile 1987). Per un’approfondita analisi dello sviluppo dell’azione di accertamento in sede di giurisdizione esclusiva, si rimanda a F. Mangano, L’azione di accertamento nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: analisi della giurisprudenza, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, II, a cura di U. Allegretti, A. Orsi Battaglini, D. Sorace, Rimini, 1987, pp. 599 ss.
Peraltro è stato rilevato da V. Caianiello, Le azioni proponibili e l’oggetto del giudizio amministrativo, in Foro amm., 1980, p. 857, come “le azioni dichiarative in sede di giurisdizione esclusiva, sembrano appartenere non al tipo delle azioni di mero accertamento, bensì al tipo delle azioni di accertamento costitutivo. Esse difatti non si limitano ad assolvere alla sola funzione di eliminare l’incertezza intorno ad un rapporto giuridico bensì a sancire l’obbligo dell’amministrazione ad un determinato adempimento”.
[4] In tal senso si noti come in Francia, dove lo sviluppo della giustizia amministrativa è stato molto simile a quello intervenuto nel nostro Paese, il giudizio si conserva come strettamente oggettivo proprio in ragione della mancata elaborazione di una situazione giuridica sostanziale che legittimi il privato a ricorrere: infatti, per adire il juge administratif occorre la mera sussistenza di un interesse (processuale).
Secondo G. Napolitano (a cura di), Diritto amministrativo comparato, in Corso di diritto amministrativo, IV, diretto da S. Cassese, Milano, 2007, p. 294, “il sistema francese si connota da sempre per l’impronta oggettiva del suo contentieux administratif. (…) L’ampiezza della legittimazione al recours pour excès de pouvoir, la sua indisponibilità da parte del ricorrente una volta promosso, l’informalità che dovrebbe caratterizzarlo, la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice di alcuni motivi di illegittimità (i moyen d’odre public), sono tutti caratteri che esprimono la valenza di un controllo oggettivo ‘del diritto’ di questo tipo di rimedio”.
Anche A. Masucci, Il processo amministrativo in Francia, Milano, 1995, p. 32, rileva che “nel ricorso per eccesso di potere il ricorrente non invoca un suo diritto (son droit), ma difende il Diritto (le Droit); ed ancora, il processo per eccesso di potere non è un processo tra parti, ma un processo fatto all’atto; al giudice non viene chiesta la condanna di qualcuno, ma l’annullamento di qualcosa. Al giudice, cioè, viene richiesto (solo) di riconoscere l’illegittimità di un atto amministrativo e di pronunciare, conseguentemente, il suo annullamento.
[5] V. Caianiello, Le azioni proponibili e l’oggetto del giudizio amministrativo, cit., p. 854.
[6] Cons. St., sez. V, n. 795 del 1 dicembre 1939, confermata poi da Cons. St., ad. plen., n. 4 del 18 dicembre 1940.
[7] Si deve intendere, per rapporti paritetici, quelli nei quali le posizioni giuridiche derivino da atti amministrativi posti in essere dalla P.A. in adempimento di obblighi determinati in maniera puntuale e compiuta da disposizioni di legge o di regolamento (atti c.d. vincolati), sempre che questi non siano espressione di poteri attinenti in maniera immediata e diretta all’organizzazione e al funzionamento dell’amministrazione (Cons. St., ad. plen., n. 25 del 26 ottobre 1979).
[8] Cons. St., ad. plen., n. 25/79.
[9] A tal proposito, si veda l’ampia ricostruzione giurisprudenziale fatta da F. Mangano, L’azione di accertamento nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, cit., pp. 607 ss. Sia consentito comunque citare, al riguardo del riconoscimento dello status di pubblico dipendente, TAR Piemonte, n. 608 del 21 dicembre 1977; Cons. St., sez. IV, n. 952 del 26 settembre 1980, la quale statuisce che “in sede di giurisdizione esclusiva sono ammissibili le domande di accertamento di diritti soggettivi (tra le quali rientra certamente anche la domanda di accertamento della esistenza di un rapporto di pubblico impiego) indipendentemente dall’impugnazione di determinati atti amministrativi, e senza termini di decadenza”; Cons. St., sez. IV, n. 257 del 15 maggio 1984; Cons. St., ad plen., n. 11 del 15 dicembre 1981; sul riconoscimento delle mansioni effettivamente svolte, TAR Puglia, sez. Lecce, n. 353 del 29 settembre 1982; TAR Piemonte, ord. n. 539 del 15 luglio 1980; TAR Emilia Romagna, sez. Parma, n. 543 del 2 dicembre 1980.
[10] Osserva S. Murgia, Crisi del processo amministrativo e azione di accertamento, in Dir. proc. amm., 1996, p. 271, che “il percorso logico che il g.a. compie ai fini dell’esame di ammissibilità dell’azione di accertamento prende le mosse immancabilmente dalla verifica sulla natura della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, e porta il g.a. a negare sistematicamente l’esperibilità del mezzo di tutela ogniqualvolta si trovi di fronte ad una controversia che coinvolga posizioni definite di interesse legittimo”.
In merito alla giurisdizione esclusiva, nota R. Caranta, L’inesistenza dell’atto amministrativo, Milano, 1990, p. 301, che “se la distinzione delle posizioni soggettive è difficile, pressoché impossibile, ai fini del riparto, non può che esserlo altrettanto anche ai fini della determinazione dei poteri del giudice, e se, istituendo la giurisdizione esclusiva i problemi di distinzione si vollero evitare, i poteri del giudice, e tutti i caratteri del giudizio in materia di competenza esclusiva, non potranno che essere sempre gli stessi”, indi per cui il potere “di pronunciare sentenze di mero accertamento, di cui dispone nell’ambito della giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo siano utilizzabili in tutte le fattispecie, quelle in cui tale giudice conosce o pare conoscere di diritti soggettivi e quelle nelle quali pare conoscere di diritti soggettivi”; in realtà lo stesso A. è poi costretto a riconoscere che tale orientamento “è in contrasto con decenni di pratica giurisprudenziale la quale costantemente, pur in materia di competenza esclusiva, applica le regole previste per il giudizio di sola legittimità quando il destinatario del provvedimento sia titolare di un semplice interesse legittimo”.
Molte sono state le pronunce volte a negare la possibilità di esperire azioni dichiarative nei confronti di interessi legittimi. Tra le altre: Cons. St., sez. IV, n. 831 del 24 ottobre 1994; Cons. St., sez. V, n. 89 del 18 gennaio 1995; Cons. St., sez. IV, n. 1155 del 15 settembre 1998. Da segnalare, inoltre, Cons. St., sez. V, n. 23 del 15 gennaio 1990, in Corriere giuridico, 1990, pp. 596 ss., con nota di R. Murra, Ancora un no all’ingresso delle azioni di mero accertamento nel processo amministrativo: nel merito il privato “aveva proposto ricorso al TAR, chiedendo, in via principale, l’accertamento della formazione del predetto silenzio-assenso ed, in subordine, l’annullamento del presunto silenzio-rifiuto serbato dall’amministrazione sulla medesima domanda di concessione. I giudici laziali hanno dichiarato l’inammissibilità del gravame sul presupposto che nella fattispecie si fosse realizzato per l’appunto il silenzio-assenso”. Il Consiglio di Stato, accogliendo l’appello “ha rammentato che l’attuale struttura del processo amministrativo configura il medesimo come un giudizio di impugnazione di atti e non già di accertamento di situazioni giuridiche soggettive (sempreché non diano luogo a veri e propri diritti)”. L’A. ha rilevato come “non può più sottacersi che l’attuale struttura del processo amministrativo sia divenuta del tutto inadeguata rispetto alle risposte che, in termini di tutela giurisdizionale, i singoli e le formazioni sociali si attendono dallo Stato. Non è chi non veda, infatti, come non sempre l’interesse del soggetto amministrato tenda all’eliminazione di un provvedimento illegittimo”.
[11] La Valle, Azione di impugnazione ed azione di adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, in Jus, 1965, I-II, p. 165.
[12] La Valle, Azione di impugnazione ed azione di adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, cit., p. 163.
[13] E. Follieri, La tipologia di azioni proponibili, in Giustizia amministrativa, cit., pp. 162 e 170.
Già A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, pp. 1387 ss., qualificando l’inerzia della P.A. non già come un non-atto, bensì come inadempimento, configurava l’azione di accertamento come strumento volto semplicemente alla dichiarazione dell’obbligo di provvedere (e non a determinare il contenuto dell’atto): a tal proposito è stato notato (S. Murgia, Crisi del processo amministrativo e azione di accertamento, cit., p. 288) che tale costruzione “dovrebbe coerentemente condurre all’individuazione di una sentenza non di accertamento, bensì di condanna a provvedere a carico dell’amministrazione, giacché ciò che potrebbe realizzare l’interesse del privato non è la semplice dichiarazione del suo diritto ad ottenere la decisione amministrativa, ma l’ordine giurisdizionale di provvedere”.
Anche E. Ferrari, La decisione giurisdizionale amministrativa: sentenza di accertamento o sentenza costitutiva?, in Dir. proc. amm., 1988, IV, p. 586 che nei giudizi sul silenzio “se la sentenza fosse di semplice accertamento, il suo effetto sarebbe che l’inadempimento dell’amministrazione sarebbe acclarato con autorità di giudicato (…) ma non par dubbio che questo non è il risultato al quale mira l’eventuale ricorrente, né quello che gli studi in materia di silenzio hanno cercato di assicurare alla relativa sentenza: anzi, se questo fosse veramente l’effetto, l’unico effetto dell’eventuale sentenza, vi sarebbero serie ragioni per dubitare della sussistenza dell’interesse a ricorrere”.
[14] Di crisi del processo amministrativo parlano, tra gli altri, S. Murgia, Crisi del processo amministrativo e azione di accertamento, cit., p. 244; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, p. 235; R. Caranta, L’inesistenza dell’atto amministrativo, cit., p. 338.
[15] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., p. 236, pone l’accento anche su condizioni sociali e culturali che hanno determinato la crisi del processo di impugnazione e l’esigenza di estendere l’oggetto del giudizio amministrativo: “da una parte, tramonta il mito dell’atto (provvedimento) amministrativo, come momento in cui si riassume ed esprime l’intera vicenda dei rapporti fra amministrazione e cittadino, fra Stato e società. L’amministrazione si pluralizza, con la conseguenza che crescono le occasioni di rapporti e quindi di controversie fra amministrazioni e, inoltre, che essa ‘si avvicina’ al cittadino; in un caso e nell’altro, l’autorità si fraziona e scolora; la responsabilità si diluisce; le controversie fra P.A. o fra cittadino e P.A. assomigliano sempre più a controversie fra privati. (…) D’altra parte, si sviluppa l’esigenza dell’effettività della tutela giurisdizionale. In un ambiente culturale e politico (si pensi solo ai principi costituzionali) che valorizza la posizione dell’individuo (anche) nei confronti dei pubblici poteri, effettività della tutela significa necessità che il processo assicuri la soddisfazione dell’interesse materiale. Il raggiungimento di traguardi formali non basta più: è essenziale che il cittadino possa conseguire, attraverso il processo, quell’utilità sostanziale che l’amministrazione gli ha illegittimamente negato”.
[16] V. Caianiello, Le azioni proponibili e l’oggetto del giudizio amministrativo, cit., p. 863 (corsivo aggiunto).
[17] V. Caianiello, Le azioni proponibili e l’oggetto del giudizio amministrativo, cit., pp. 863 ss.
[18] Tra le altre, TAR Toscana n. 108 del 24 ottobre 1974 e n. 88 del 13 febbraio 1976.
[19] Ad es., Cons. St., sez. IV, n. 23 del 28 gennaio 1949, in Riv. amm., 1949, II, p. 342; Cons. St., sez. VI, n. 581 del 13 luglio 1954, in Cons. St., 1954, I, p. 790; Cons. St., sez. IV, n. 1 del 15 gennaio 1960, in Cons. St., 1960, I, p. 11; Cons. St., sez. IV, n. 585 del 25 luglio 1970, in Foro amm., 1970, I, p. 796.
[20] Cons. St., n. 1129 del 6 dicembre 1977, secondo cui “la sentenza di primo grado contiene un giudizio sull’efficacia dell’atto impugnato (…) [per cui] la sentenza appare idonea a fare stato – qualora passi in giudicato – non solo riguardo all’inammissibilità del ricorso, ma, altresì, riguardo alla causa di tale inammissibilità e cioè riguardo all’attuale inefficacia del provvedimento (…). Per effetto di quella sentenza l’amministrazione non potrà dare esecuzione al provvedimento (…). D’altro canto, si deve riconoscere che nel giudizio amministrativo l’autorità pubblica non difende puramente e semplicemente la legittimità di un determinato provvedimento, ma difende, più precisamente, il potere di cui quello è espressione; essa dunque ha interesse ad evitare non solo le sentenze di annullamento, ma altresì quelle che, pur mantenendo in vita il provvedimento, danno di questo interpretazioni e qualificazioni riduttive e fuorvianti”.
[21] TAR Puglia, Bari, sez. III, n. 4581 del 26 ottobre 2005, secondo cui “una prima, più conservatrice, tesi suggerisce di utilizzare lo strumento della pronuncia di inammissibilità per difetto di interesse ad agire. In parole povere chi deduce la nullità di un atto è ab origine privo di interesse al suo annullamento, posto che l'atto nullo, appunto, è improduttivo di effetti e, dunque, nessuna lesione alla sua sfera giuridica può derivarne. Il giudice incidentalmente deve rilevare tale situazione, dichiarando in motivazione che l'atto è nullo, onde poter pervenire all'affermazione di difetto di interesse. La tesi, per quanto ingegnosa, è degna di sospetto. Già non si capisce perché un analogo fenomeno (la nullità) debba ricevere un così divergente trattamento qualora la relativa controversia ricada nell'una o nell'altra giurisdizione. Mentre nell'ipotesi di giurisdizione ordinaria l'interessato avrebbe piena soddisfazione attraverso la declaratoria giurisdizionale del vizio, nella giurisdizione amministrativa a tale declaratoria non si arriverebbe mai perché l'interesse, per definizione, non sussisterebbe. D'altronde, è oltremodo dubbio che la statuizione di inammissibilità possa effettivamente giovare al ricorrente. Premesso che l'accertamento sulla nullità avrebbe incidenter tantum (senza, cioè, efficacia di giudicato), la questione potrebbe riproporsi rispetto ad altri soggetti su cui il provvedimento è destinato ad incidere. Persino nello stesso rapporto tra il ricorrente e l'amministrazione la formale sopravvivenza del non demolito atto potrebbe essere fonte di fastidi, qualora ad esempio l'amministrazione lo reiterasse oppure pretendesse di portarlo ad esecuzione o di porlo a fondamento di atti conseguenziali (sempre che ciò non fosse già avvenuto) o, ancora, di sanarlo. Per non dire, poi, dell'apparenza che la persistente vigenza del pur non operativo atto creerebbe nel mondo giuridico. Inconvenienti tutti riferibili alla circostanza che il brocardo civilistico quod nullum est nullum producit effectum è poco più di un'etichetta, stante le molteplici possibilità di impiego (conversione, sanatoria, novazione, esecuzione, manipolazione) del negozio nullo, i limiti all'azione di nullità (usucapione, ripetizione d'indebito), il coordinamento con la disciplina della trascrizione. Ancor prima deve dirsi che l’interesse, inteso come bisogno di tutela giurisdizionale, c’è sempre, anche nelle azioni di mero accertamento o dichiarative, in quanto diretto a rimuovere una situazione di incertezza e di contestazione (realtà indiscutibile ove venga emesso un provvedimento della pubblica amministrazione). Su un piano più generale la tesi in esame disconosce il principio di strumentalità del processo al diritto sostanziale, negando idonea tutela ad una categoria che esprime la più grave delle figure di invalidità degli atti giuridici”.
[22] Voci contrarie si riscontrano in P. Stella Richter, Per l’introduzione dell’azione di mero accertamento nel giudizio amministrativo, in Scritti in onore di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, pp. 851 ss., il quale non ritiene esperibile il rimedio accertativo, per evitare che una tale azione possa in qualche modo incidere sull’esercizio dei poteri discrezionali della P.A.; anche se, peraltro, auspica l’introduzione in via legislativa dell’istituto. Dello stesso avviso E. Casetta, Osservazioni sull’ammissibilità di decisioni di mero accertamento da parte del giudice amministrativo, in Rass. dir. pubb., 1952, II., pp. 148 ss.
[23] G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980, pp. 213 ss., ritiene che, una volta dimostrata la natura di posizione giuridica sostanziale dell’interesse legittimo, può dirsi configurabile un processo, autonomo da quello di annullamento, l’oggetto del quale sarebbe il rapporto tra privato e P.A.; secondo S. Murgia, Crisi del processo amministrativo e azione di accertamento, cit., p. 257, però, il concetto di ‘accertamento’ sarebbe usato dal Greco quale sinonimo di giurisdizione, piuttosto che nel senso ristretto di effetto della decisione avente la funzione di eliminare uno stato di incertezza. Per la concezione dell’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale e per una prima apertura verso la possibilità di considerarlo oggetto di un accertamento giurisdizionale si tenga presente la fondamentale opera di A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II, Milano, 1962, pp. 14 ss.
V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, pp. 404 ss., afferma, invece, che il giudice avrebbe una funzione sostitutiva rispetto all’amministrazione che, una volta esercitato in maniera illegittima il proprio potere, lo consumerebbe; il g.a., pertanto, avrebbe il compito di accertare il rapporto tra autorità e privato.
[24] Tra gli altri, V. Cerulli Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica alla l. 241/90, 5, in www.giustamm.it, 2005, p. 5; A. Romano Tassone, L’azione di nullità e il giudice amministrativo, in www.giustamm.it, 2007, p. 8; M. Balloriani, Nullità del provvedimento nel rapporto giuridico pubblico tra privato e autorità: la tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche, in Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le leggi 15/05 e 80/05 a cura di F. Caringella, D. De Carolis, G. De Marzo, II, Milano, 2005 p. 901.
[25] A. Police, Le forme della giurisdizione, in Giustizia amministrativa, cit., p. 117.
[26] Come rilevato da A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, II, Padova, 2000, p. 155.
[27] Secondo A. Police, Le forme della giurisdizione, in Giustizia amministrativa, cit., p. 106, “nell’art. 24 Cost., il richiamo ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi ben può essere letto come una garanzia di totalizzazione della copertura giurisdizionale e, in questo senso, interpretato in funzione (…) di completezza ed assolutezza della tutela”.
[28] A. Zito, L’ambito della giurisdizione del g.a., in Giustizia amministrativa, cit., p. 62, sostiene che tale norma “non si può ritenere pienamente attuata: al di là del significato da attribuire all’espressione ‘particolari mezzi di impugnazione’, non si può non riconoscere che la Costituzione ha voluto assicurare, oltre alla generalità, anche la pienezza della tutela giurisdizionale. Il che comporta che, nelle controversie contro l’amministrazione, devono essere esperibili tutte le azioni che, in via generale, son esperibili nelle controversie tra privati”.
[29] Secondo F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 1966, però, “di fronte alla nullità dell’atto amministrativo, infatti, si tratta pur sempre di accertare una illegittimità dell’atto, ancorché più grave di quella che ne determina la semplice annullabilità”, cosicché l’introduzione di un’azione di accertamento in questo caso non sconvolgerebbe la struttura del processo amministrativo. In proposito si deve considerare come parte della dottrina ritenga che l’azione di nullità sia di natura costitutiva (A. Proto Pisani, Appunti sulla tutela di mero accertamento,in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, pp. 665-666; I. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale, Milano, 1998, pp. 245 ss.).
[30] In diritto civile, infatti, pur mancando una norma che prevedesse un’azione dichiarativa di carattere generale, al contrario di quanto accadeva nello ZPO tedesco, non si è mai dubitato di potere esperire l’azione di nullità perché tipizzata dal codice civile. Anche se, in effetti, la disposizione dell’art. 21 septies è di carattere sostanziale, a differenza del § 43 n. 1 della Verwaltungsgerichtsordnung tedesca del 1964 (Legge sul processo amministrativo), il quale espressamente prevede l’azione di accertamento della nullità di un atto amministrativo non sottoponendola ad alcun termine di decadenza, non si può dubitare della sua idoneità ad attribuire al g.a. (laddove ne abbia la giurisdizione) la capacità di conoscerne. L’unico problema sta nella mancanza della relativa disciplina, che andrà ricavata in via interpretativa.
Ritiene sufficiente la presenza di una norma sostanziale perché si adeguino anche i meccanismi processuali F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 1952.
[31] Cons. St., Sez. IV, n. 3916 del 22 luglio 2005.
[32] Così Cons. St., Sez. VI, n. 1550 del 5 aprile 2007. Dello stesso avviso Cons. St., Sez. IV, n. 1409 del 2007.
[33] Cons. St., n. 717/09.
[34] Cons. St., sent. n. 717/09 afferma infatti che “L’art. 19 l. n. 241/1990, che richiama gli artt. 21 quinquies e 21 nonies, e le norme del T.U. edilizia sopra citate che prevedono l’annullamento d’ufficio della D.I.A., non hanno, in realtà, voluto sancire implicitamente la natura provvedimentale di tale fattispecie. Evocando l’autotutela (e, in particolare, l’annullamento d’ufficio), il legislatore, più che prendere posizione sulla natura giuridica dell’istituto, ha voluto solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di trenta giorni per l’esercizio del potere inibitorio, la P.A. conserva un potere residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui generis, che si differenzia della consueta autotutela decisoria proprio perché non implica un’attività di secondo grado insistente su un procedente provvedimento amministrativo. Come è stato bene evidenziato in dottrina, il riferimento agli artt. 21 quinquies e 21 nonies l. n. 241/1990, contenuto nella l. n. 241/1990 consente alla P.A. di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell’amministrazione, ma che con l’autotutela classica condivide soltanto i presupposti e il procedimento. In questo senso, deve ritenersi che il richiamo agli artt. 21 quinquies e 21 nonies vada riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i poteri di inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, nell’osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti dal tali norme”.
[35] Cons. St., n. 717/09.
[36] Cons. St., n. 717/09: “citando ancora la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 30254/2008, più indici normativi testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto. Basti pensare: all’impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso (art. 21, primo comma, l. Tar, modificato dall’art. 1 l. n. 205/2000); al potere del giudice di negare l’annullamento dell’atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21 octies l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 21 bis l. n. 15/2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza dell’istanza nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto (art. 2, comma 5, l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 80/2005 in sede di conversione del d.l. n. 35/2005)”.
[37] Cons. St., n. 717/09.
[38] Cons. St., n. 717/09.
[39] Al riguardo, si rimanda soprattutto a G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1956 (rist. 2a ediz.); Id., Dell’azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, I; Id., Azioni e sentenze di mero accertamento, in Riv. Dir. proc. civ., 1933, I, pp. 2 ss.
[40] L. Lanfranchi, Contributo allo studio dell’azione di mero accertamento, Milano, 1969, p. 46, al quale si rimanda, inoltre, per un’approfondita analisi del pensiero del Chiovenda e del Satta.
[41] Cfr. L. Lanfranchi, Contributo, cit., pp. 53 ss., soprattutto p. 56, dove si afferma che “allorché si è in presenza di quello stato di fatto contrario al diritto, prodotto dalla violazione o dal non soddisfacimento del diritto, (…) si è pur sempre in un’incertezza del diritto che va rimossa in preparazione del soddisfacimento coattivo del diritto ad una prestazione rimasto extraprocessualmente inattuato. Nel mero accertamento la certezza è invece il bene autonomo attribuito in via primaria ed esclusiva alla giurisdizione, in vista degli autonomi vantaggi che ne derivano”.
A. Falzea, Accertamento (teoria generale), in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 208, ritiene che “l’incertezza giuridicamente rilevante è (…) la manifestazione o meglio ancora la traduzione sociale del dubbio, ossia un conflitto di apprezzamento tra due soggetti diversi, un conflitto intersoggettivo dal quale si badi bene, può restare esclusa ogni situazione di dubbio. (…) La incertezza è insita nella medesima contestazione, sicché la sua eliminazione richiede l’intervento di un mezzo formale, e perciò oggettivo, capace di sostituirsi con i formali attributi della certezza, alla situazione giuridicamente certa”.
[42] G. Chiovenda, Azioni e sentenze di mero accertamento, cit., p. 3.
E.F. Ricci, Accertamento giudiziale, Digesto IV (disc. priv.), sez. civile, 1987, p. 17, definisce l’accertamento come “uno degli effetti giuridici che possono derivare da una decisione giurisdizionale, e consiste nel render certa l’esistenza (o l’inesistenza) della situazione controversa, così come dichiarata dal giudice”.
Secondo E. Casetta, Osservazioni sull’ammissibilità di decisioni di mero accertamento da parte del giudice amministrativo, cit., p. 147, le sentenze dichiarative “si limitano a contenere l’accertamento della esistenza o della inesistenza di un rapporto giuridico e, in quanto son volte soltanto a dirimere un’incertezza giuridica obiettiva in ordine a quel rapporto, soddisfano così l’interesse della parte che le invoca, ed esauriscono a se stesse lo scopo del processo. Legittimato ad ottenerle è il soggetto cui lo stato di incertezza del diritto può recare pregiudizio, ed in lui tale stato di incertezza fa sorgere, di per sé, l’interesse ad agire”.
[43] G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 41.
[44] G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 191.
[45] G. Chiovenda, Azioni e sentenze di mero accertamento, cit., p. 28.
[46] Ci si riferisce ad A. Wach, Handbuch des Deursch. civ. proc. rechts, Leipzig, 1885; Id., Der Fetststellungsansprunch, Leipzig, 1889.
[47] Il § 231 dello ZPO del 1877, § 256 ZPO attuale secondo cui “può proporsi azione per l’accertamento dell’esistenza o della non esistenza d’un rapporto giuridico, per la recognizione di una scrittura o per l’accertamento della falsità della stessa, quando l’attore ha un interesse giuridico a che il rapporto giuridico o l’autenticità o la falsità della scrittura sia subito accertata con decisione giudiziale”.
[48] Per quanto concerne una ricostruzione storica e comparata della dichiarazione di mero accertamento si rimanda a G. Chiovenda, Azioni e sentenze di mero accertamento, cit., pp. 2 ss.; nonché L. Lanfranchi, Contributo, cit., pp. 101 ss. Sia consentito in questa sede riportare una breve sintesi dell’istituto: l’azione dichiarativa è presente nel diritto intermedio sotto forma dei processi provocatori (giudizi di giattanza o di diffamazione), di origine germanica, abbandonati dalla maggior parte degli ordinamenti nel corso del XIX sec. per i numerosi inconvenienti che comportavano, dovuti soprattutto alla loro origine arcaica (ad es., l’onere della prova spettava al convenuto). Proprio per questa avversione, una generale azione dichiarativa non fu prevista del Code de procédure civile, salvo poi ritenerla esistente, analogamente a quanto è avvenuto in Italia, alla luce di un’empirica utilizzazione del criterio dell’interesse ad agire. Al contrario, in Germania, si è visto come tale previsione trova accoglimento nello ZPO; anche nei paesi di common law, soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti, i quali peraltro seguono un differente iter storico, il declaratory judgment, se in un primo momento non viene accettato dalle Corti, è poi, una volta verificatane l’utilità pratica, recepito mediante vari statutes.
[49] L. Lanfranchi, Contributo, cit., p. 163 ss.
[50] Rileva S. Murgia, Crisi del processo amministrativo e azione di accertamento, cit., p. 253, che “quest’evoluzione ha portato la gran parte degli autori a distaccarsi via via dalla concezione chiovendiana – che concepiva l’azione di accertamento come mero diritto di agire, suscettibile di essere esercitato a prescindere dalla titolarità di una posizione di diritto soggettivo in capo all’attore – e ad attestarsi su posizioni che configurano l’accertamento come mezzo di tutela di situazioni giuridiche aventi natura di diritti soggettivi. Oggi la maggior parte degli autori ritiene che l’azione di accertamento possa essere esercitata soltanto in difesa di un diritto intorno al quale si sia creata una condizione di incertezza generata dall’altrui contestazione”.
Contrario all’impostazione chiovendiana è il Satta, il quale in S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, pp. 129 ss. sostiene che “autonomia dell’azione significa, come si è detto, affermazione e riconoscimento di un dualismo nel concetto di diritto soggettivo: da un lato il diritto sostanziale che un soggetto ha verso l’altro soggetto, un diritto che attende la soddisfazione dalle prestazioni dell’obbligato; dall’altro il diritto, che non attende più nulla dall’altro soggetto, ma impone a questo l’attuazione della legge, e che può liberamente concepirsi (…) come un potere verso l’altro soggetto”; secondo l’A. “appare chiaramente che il dualismo che costituisce il punto di partenza e il punto di arrivo dell’autonomia dell’azione poggia su un equivoco: e cioè su un’arbitraria nozione del diritto soggettivo, peggio ancora su una considerazione del diritto soggettivo, che è un concetto, come effettiva realtà. Ma in rerum natura non esistono diritti soggettivi, esistono interessi, che sorgono da determinati fatti, e che, in quanto la legge li riconosca e li garantisca, noi chiamiamo diritti”. Su tali basi si arriva necessariamente a negare un’azione di accertamento generale (S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1959, pp. 25 ss.), nonché a ridurre la tutela dichiarativa alle sole c.d. situazioni finali.
Considera invece la tutela di mero accertamento come forma atipica ammessa nel nostro ordinamento A. Proto Pisani, Appunti sulla tutela di mero accertamento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p. 629.
[51] Cons. St., n. 717/09.
[52] Cons. St., n. 717/09.
[53] Cons. St., n. 717/09.
[54] Cons. St., n. 717/09.
[55] Tra cui S. De Felice, Della nullità del provvedimento amministrativo, in www.giustamm.it, 2005, p. 7; R. Chieppa, Il nuovo regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo, in www.giustamm.it, 2005, p. 6; V. Cerulli Irelli, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa, in Commentario alla L. 241/90 a cura di F.G. Scoca, Torino, 2006, p. 29; A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, cit., p. 392; R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., p. 346.
[56] Così da ultimo Cons. St., sez. V, n. 2872 del 9 giugno 2008.
[57] Così S. Lessona, Nullità ed annullabilità degli atti amministrativi nella reazione giurisdizionale, in Foro pad., 1950, p. 32; E. Cannada Bartoli, Osservazioni intorno all’art. 33 della legge sul Consiglio di Stato, in Rass. dir. pubb., 1951, p. 385, nota 30; A. Lentini, Termine di impugnativa per gli atti assolutamente nulli, in Nuova rass., 1949, p. 1141. Dello stesso avviso dopo l’introduzione dell’art. 21 septies sono anche M. D’Orsogna, La nullità del provvedimento amministrativo, in La disciplina generale dell’azione amministrativa. Saggi ordinati in sistema a cura di V. Cerulli Irelli, Napoli, 2006, p. 372; G. Aiello, La nullità del provvedimento amministrativo tra dubbi e certezze, in www.giustizia-amministrativa.it, 2005, p. 6; F. Cardarelli, V. Zeno Zencovich, Osservazioni sulla ‘nullità’ del provvedimento amministrativo e sulla sua autonomia teorica e normativa dalla ‘nullità’ civilistica, in www.giustamm.it, 2007, p. 2.
P. Chirulli, Azione di nullità e riparto di giurisdizione, in www.giustamm.it, 2007, p. 2, afferma, pur con qualche dubbio, che “occorre poi dimostrare perché la disciplina dei termini normalmente previsti per agire dinanzi al giudice amministrativo non si applichi all’azione di nullità, rammentando che quando il legislatore ha inteso stabilire dei termini diversi per l’attivazione del giudizio amministrativo lo ha fatto espressamente, e per le ipotesi di nullità vi sarebbe invece una deroga implicita al termine di sessanta giorni per la proponibilità dell’azione”.
[58] La stessa P. Chirulli, Azione di nullità e riparto di giurisdizione, cit., p. 2, afferma che “se si immagina di investire il g.a. dell’azione di nullità mantenendo la proponibilità dell’azione nei termini dell’ordinaria azione di annullamento, si limitano fortemente le possibilità di tutela di fronte all’atto nullo eliminando di fatto la differenza tra i due stati invalidanti”.
[59] In proposito si veda A. Carbone, Il TAR Lombardia prende posizione in merito al riparto di giurisdizione per gli atti amministrativi nulli, Nota a sent. TAR Lombardia, Milano, sez. III, n. 5456 del 19 novembre 2008, in www.giustamm.it.
[60] Cons. St., n. 717/09.
[61] M. Balloriani, Nullità del provvedimento nel rapporto giuridico pubblico tra privato e autorità: la tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche, cit., p. 933.

 

(pubblicato il 29.7.2009)

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