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n. 4-2009 - © copyright

 

 

ANTONIO CARRATTA

Rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione e uso improprio del «giudicato implicito».


1. Intervenendo sull’art. 37 c.p.c. e sul profilo della rilevabilità d’ufficio («in ogni stato e grado del processo») del difetto di giurisdizione le Sezioni Unite, con la sent. n. 24883 del 2008, pervengono ad una conclusione interpretativa (successivamente ribadita con la sent. n. 26019) [1], che – riecheggiando iter argomentativi propri della Interessenjurisprudenz – finisce sostanzialmente per riscrivere la disposizione del codice di rito ed in parte per abrogarla. E così operando fa sorgere non pochi dubbi di conformità della soluzione avanzata sia con alcuni principi del sistema processuale ordinario, sia con altre garanzie processuali costituzionalmente rilevanti.
Ed infatti, ritenere che l’art. 37, 1° co., c.p.c., laddove consente che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della Pubblica Amministrazione o dei giudici speciali possa essere «rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo», non possa essere ricompresso fra le disposizioni «che assicurano la ragionevole durata del processo e, quindi, va interpretata utilizzando i riferimenti sistematici e costituzionali che consentano di contenerne la portata» altro non significa, nella sostanza, che fare del principio della ragionevole durata un grimaldello attraverso il quale far dire alle norme ciò che si vorrebbe dicessero, anche se questo è esattamente l’opposto di ciò che agevolmente si ricava dalla formulazione letterale della stessa norma.
A riprova di ciò basti considerare la conclusione alla quale pervengono le Sezioni Unite, e cioè che – siccome per come formulato l’art. 37 c.p.c. non pare in linea con il principio della ragionevole durata – esso va «interpretato» non «nel senso fatto palese dalle parole» (art. 12 preleggi), e dunque ammettendo la rilevabilità del difetto di giurisdizione sia ad istanza di parte che d’ufficio «in qualunque stato e grado del processo», bensì nel senso che «il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti o rilevato d’ufficio dal giudice fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado ovvero può essere fatto valere mediante impugnazione del relativo capo della sentenza di primo grado, in assenza della quale si determina il passaggio in giudicato della relativa questione», e dunque la stessa non solo non può più essere riproposta dalle parti nel successivo grado di impugnazione (davanti alla Cassazione), ma neppure rilevata d’ufficio dal giudice.
In effetti, il processo di «erosione» del contenuto precettivo dell’art. 37 c.p.c. con riferimento al regime di rilevabilità del difetto di giurisdizione, è in corso da tempo; ma è indubbio che le ultime pronunce delle Sezioni unite qui prese in considerazione lo accelerano notevolmente.

2. Anzitutto, da tempo ormai la giurisprudenza della Cassazione sembra essersi assestata sul necessario coordinamento fra il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione, pure espressamente previsto dall’art. 37 c.p.c., ed i meccanismi di formazione del giudicato c.d. interno connessi al mancato esercizio del potere di impugnazione delle parti legittimate a farlo. In effetti, sembra ragionevole escludere la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione – così come degli altri presupposti processuali – una volta che sugli stessi vi sia stata un’esplicita pronuncia del giudice di primo grado non sottoposta ad impugnazione davanti al giudice d’appello. In tal caso, infatti, il potere di rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione cede il passo al prevalente principio per cui sul “capo” o “parte” della sentenza dedicata alla pronuncia sul presunto vizio scende il giudicato, ove la parte legittimata a farlo non abbia avanzato la relativa impugnazione (neanche in via “incidentale condizionata”).
Una simile conclusione, tuttavia, ben si concilia con la formulazione dell’art. 37 c.p.c. e con le altre disposizioni che riconoscono il potere di rilievo ufficioso «in qualsiasi stato e grado del processo» di una determinata questione di rito, se la si correla alla prevalente esigenza di salvaguardare il giudicato che si sia formato sul “capo” o “parte” di sentenza impugnata e che scaturisce dall’«acquiescenza parziale» dell’art. 329, 2° co., c.p.c. La parte della sentenza contenente una statuizione su tale questione acquista forza di «giudicato interno» (distinto dal giudicato sostanziale dell’art. 2909 c.c.) [2], in caso di mancata impugnazione, con la conseguenza di precludere: a) la sua rilevabilità d’ufficio ad opera del giudice d’appello o di cassazione; b) la denuncia di tale vizio in Cassazione ad opera della parte che, rimasta inerte in appello, ne sia uscita soccombente [3].
E’ affermazione pacifica, cioè, che nel passaggio dal giudizio di primo grado a quello d’appello e, successivamente, da questo al ricorso per cassazione l’oggetto del giudizio di impugnazione vada “calibrato” proprio su quella parte della sentenza che è sottoposta al mezzo di impugnazione e sui soli motivi specifici esplicitati nell’atto di impugnazione [4]. «Se – come osservava Virgilio Andrioli – la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi d’impugnazione (art. 161, comma 1, c.p.c.), e se questo principio, che l’illustre Mortara definì nel senso che le nullità della sentenza si convertono in motivi di gravame, si applica pur alle nullità, che, per derivare da vizi relativi alla costituzione del giudice, sono insanabili e debbono essere rilevate d’ufficio dal giudice (art. 158, che fa espressamente salvo l’art. 161), è agevole constatare che la insanabilità del vizio cede il passo all’irrevocabilità della parte della pronuncia, che il soccombente ha omesso di impugnare» [5].
D’altro canto, anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato sembra essersi assestata sulla medesima lunghezza d’onda dell’orientamento finora seguito dalla Cassazione con riferimento al coordinamento fra rilevabilità d’ufficio del vizio di giurisdizione e formazione del giudicato c.d. interno. In particolare, affrontando di recente la questione, i giudici amministrativi d’appello hanno concluso nel senso che, ai sensi dell’art. 30 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, lo stesso Consiglio di Stato può sempre conoscere d’ufficio la questione di giurisdizione, se su di essa il Tribunale amministrativo regionale di primo grado non si sia pronunciato espressamente [6]. In pratica, respingendo l’idea che possa rilevare nel caso di specie il c.d. giudicato implicito, ritenuto rilevante, invece, da un orientamento minoritario della stessa giurisprudenza amministrativa [7].

3. E tuttavia, anche una conclusione come questa – fondata sull’idea che si formi il giudicato c.d. interno, ove la pronuncia espressa sulla questione di giurisdizione del giudice di primo grado non sia stata sottoposta autonomamente ad appello – in tanto può essere condivisa in quanto si ammetta che la pronuncia sulla questione di giurisdizione (così come su altro presupposto processuale) possa essere autonomizzata dalla decisione di merito.
Essa, infatti, presuppone evidentemente che si ammetta l’idoneità della decisione sulla questione di giurisdizione (come di altre eventuali questioni di rito) a formare oggetto di un autonomo capo della pronuncia di primo grado, assumendo un concetto di «parte» o «capo» di sentenza comprensivo anche delle decisioni di ogni questione – nel merito o nel rito – che sia antecedente logico della statuizione finale [8]. In proposito, in effetti, l’orientamento accolto dalla giurisprudenza è proprio nel senso che «costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente» [9].
Laddove, invece, - più coerentemente, anche con riferimento all’art. 2909 c.c. - si dovesse correlare la nozione di «capo» o «parte» di sentenza alla domanda (o porzione della stessa) o alle domande avanzate in giudizio, ricollegando l’art. 329, 2° co., c.p.c. alla sola pronuncia o parte della stessa idonea a passare in giudicato sostanziale ed a divenire intangibile ove non impugnata, in quanto «decisione su un autonomo oggetto del processo, sia che decida sulla sua ammissibilità, sia che decida sulla sua fondatezza» [10], parimenti si dovrebbe escludere che la soluzione esplicita della questione di giurisdizione possa formare oggetto di autonomo «capo» o «parte» di sentenza e sia, di conseguenza, idonea a passare in giudicato «poiché qui non vi è neppure alcun capo decisorio al cui riguardo possa davvero attagliarsi l’art. 329, co. 1» [11]. Con la conseguenza di ritenere che, mentre l’indiscutibilità della questione di rito certamente si genera allorché passi in giudicato una decisione di merito, in quanto l’attribuzione del «bene della vita» che tale pronuncia fa non è scalfibile con la contestazione di alcuno dei presupposti processuali, la sola impugnazione della decisione sul merito senza l’impugnazione anche del profilo attinente alla giurisdizione, espressamente o implicitamente considerato dal giudice di primo grado, non possa comportare alcun effetto di incontrovertibilità su quest’ultimo (e possa, quindi, ancora essere rilevato d’ufficio dal giudice d’appello) [12].
Ed in effetti, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato – proprio richiamando la formulazione dell’art. 30, 1° co., l. n. 1034 del 1971 e dell’art. 37 c.p.c. – nel passato ha prevalentemente ammesso la possibilità per il giudice d’appello di pronunciarsi sempre d’ufficio sulla giurisdizione, anche se la questione fosse stata oggetto di statuizione espressa nella sentenza del T.A.R., sul presupposto della sola impugnazione della pronuncia di merito [13].

4. D’altra parte, anche non dando il dovuto rilievo a queste considerazioni, va osservato quanto impropriamente venga richiamato (ed applicato) il principio del c.d. giudicato implicito dalle sentenze qui pese in considerazione, al fine di escludere la rilevabilità ufficiosa del giudice d’appello (o della Cassazione) del vizio di giurisdizione.
Siccome il c.d. giudicato implicito indica l’incontrovertibilità dei presupposti logico-giuridici della decisione di merito già passata in giudicato, è evidente che per aversi giudicato implicito su una questione pregiudiziale di rito (come, appunto, la sussistenza della giurisdizione), è necessario che almeno su un punto della decisione di merito si sia formato il giudicato esplicito [14]. Ma se si ha l’impugnazione in toto della decisione di merito – come nei casi presi in esame dalle sentt. n. 24883 e 26019 del 2008 delle Sezioni Unite - non solo è da escludere la formazione di un qualche giudicato esplicito, ma conseguentemente è da escludere anche la formazione del c.d. giudicato implicito [15]. E dunque, non essendosi formato il giudicato esplicito, parimenti è da escludere che il giudice d’appello e la Cassazione possano continuare ad esercitare il potere di rilevare d’ufficio il vizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 37 c.p.c. «non potendosi formare giudicato implicito quando il capo della sentenza che comporta, con decisione di merito, la definizione implicita di questioni pregiudiziali o preliminari rilevabili dal giudice, sia investito dalla impugnazione, ancorché limitatamente alla pronuncia di merito suddetta» [16].
Alla luce di queste considerazioni, del resto, è stato tradizionalmente applicato il principio del c.d. giudicato implicito con riferimento alle sentenze non definitive di merito pronunciate nel corso del giudizio e non impugnate [17]. Ed infatti, se – come rilevava Enrico Allorio - «la teoria della cosa giudicata implicita si può intendere in due modi: o con riferimento alla cosa giudicata sostanziale, risultante da una sentenza definitiva di merito; oppure con riguardo alla cosa giudicata formale, all’efficacia che dispiega, entro il processo, una sentenza interlocutoria», occorre pure aggiungere che, nel primo significato, essa «non ha molta utilità», in quanto non sarebbe altro che l’esplicitazione del principio secondo cui il giudicato sostanziale copre il dedotto ed il deducibile, mentre solo nel secondo significato essa è più esatta [18].
Sebbene anche in questo caso sia stato osservato come sia difficilmente ammissibile la configurabilità del giudicato implicito in relazione ad una sentenza non definitiva (di merito o di rito), in quanto l’inesistenza nel processo vigente di una struttura articolata in fasi e di una distinzione del momento della trattazione dei requisiti processuali rispetto al merito impediscono di riconoscere alle pronunce non definitive l’implicita decisione positiva sull’esistenza dei presupposti processuali: «l’attività processuale diretta al controllo delle condizioni per la decisione del merito s’intreccia con l’attività che si rivolge all’esame del merito» [19]. Considerazione, questa, che dovrebbe indurre a dubitare seriamente della stessa possibilità di richiamare la nozione di giudicato c.d. implicito sulla questione di giurisdizione (o su altri presupposti processuali) anche quando si abbia a che fare con una sentenza non definitiva di merito già passata in giudicato. In effetti, non tanto di giudicato c.d. implicito in questo caso si tratta, quanto della necessità che – al fine di salvaguardare l’incontrovertibilità della sentenza non definitiva di merito passata in giudicato – si impedisca di ridiscutere nel prosieguo del giudizio i presupposti processuali sulla cui sussistenza quest’ultima fonda la sua stabilità.
Ma evidentemente è proprio in ciò l’equivoco di fondo alla base della soluzione oggi prospettata dalle Sezioni Unite: se con riferimento alla sentenza non definitiva di merito passata in giudicato si parla (sia pure impropriamente, come detto) di giudicato c.d. implicito sulla giurisdizione (e sugli altri presupposti processuali), ciò vuol dire che, comunque, nella sentenza di merito (definitiva o non definitiva) è individuale un «capo implicito» nel quale il giudice ha ammesso la sua giurisdizione. «Capo implicito» che, ove non prontamente impugnato è destinato a passare in giudicato, ed a precludere il potere del giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, anche se per il capo sul merito la stessa sentenza è stata sottoposta ad impugnazione. In realtà, - come evidenziava già Emilio Betti oltre ottant’anni fa - «è inutile presumere una pronuncia “implicita” o “tacita” colà dove non c’è bisogno di apposita pronuncia» e «sarebbe grave errore … credere che il fenomeno sia della stessa natura di quello che si ha nella cosa giudicata sostanziale» [20].
Se si considera che, nel caso della sentenza non definitiva di merito passata in giudicato – come detto – non si è affatto in presenza di un giudicato c.d. implicito anche sulla giurisdizione (e dunque, di un «capo» autonomo sia pure «implicito» su questa questione), bensì più semplicemente in presenza di una preclusione a ridiscutere i presupposti processuali su cui si basa il giudicato sostanziale scaturito dalla non definitiva di merito, è evidente che è fuor di luogo parlare di giudicato c.d. implicito o di «capo implicito», sia con riferimento alla sentenza non definitiva nel merito passata in giudicato, sia con riferimento alla sentenza definitiva sottoposta ad impugnazione solo per il merito e non anche per i presupposti processuali.
Sgombrato il campo dall’equivoco, emerge con nitidezza che qui «non si tratta di statuire la preclusione di una questione costituente l’antecedente logico della decisione», quanto «per contro, di ammettere una preclusione che deriva come conseguenza della cosa giudicata sostanziale, dato che a questa si voglia, come pur si deve, riconoscere pieno vigore pratico» [21]. E se così è, la preclusione, in quanto conseguenza del giudicato sostanziale, non può prodursi fino a quando questo non sia conseguito (per effetto del giudicato formale della sentenza non definitiva o definitiva di merito).

5. Proprio alla luce di un simile (equivoco) argomentare si comprende il tentativo delle Sezioni Unite, emergente dalla motivazione della sent. n. 24483, di giustificare l’esistenza di un «capo implicito» sulla giurisdizione, sia quando affermano che la verifica circa la sussistenza della potestas judicandi da parte del giudice «in assenza di formale eccezione o questione sollevata d’ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente)» ed è destinata ad acquistare «“visibilità” soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice adito venga negata», sia quando ipotizzano – argomentando dall’art. 276 c.p.c. – l’esistenza di un obbligo del giudice «di decidere prima ("gradatamente") le questioni pregiudiziali (logiche o tecniche) e poi ("quindi") il merito», in quanto «la regola della decisione per gradi appartiene alla natura stessa del processo».
In realtà, da un lato, non si comprende su quali basi normative venga fondata la distinzione, con riferimento alla potestas judicandi, fra valutazione «visibile» o «esplicita» (nel caso sia negata) e valutazione «de plano» o «implicita» (nel caso sia ammessa). Se il dubbio sulla sussistenza della giurisdizione è divenuto «questione» (per effetto dell’eccezione di parte o del rilievo ufficioso), la valutazione compiuta dal giudice ha da essere «esplicita» o «visibile» (a prescindere che venga negata o ammessa) sia perché, in caso contrario, si configura il vizio di omissione di pronuncia, sia perché la decisione sulla questione deve essere sorretta da idonea motivazione (art. 111, 6° co., Cost.), proprio al fine di consentire alla parte che non condivida la pronuncia di esercitare compiutamente il proprio diritto all’impugnazione.
Dall’altro lato, con riferimento all’esistenza di un presunto obbligo del giudice di decidere prima le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e dopo il merito, non si può non rilevare che di esso non v’è traccia nell’art. 276 c.p.c. [22]. E non v’è traccia proprio perché – come da tempo rilevato – a differenza dei modelli processuali del passato «il nostro diritto positivo ripugna dalla partizione del processo in fasi a successione rigida, separate dalla barriera della preclusione; in particolare, ignora il distacco della trattazione dei requisiti processuali dalla trattazione del merito» [23].
Piuttosto, quel che sembra emergere dall’art. 276 c.p.c. è la sollecitazione al giudice, per ragioni di convenienza, a far precedere la decisione «graduata» sulle questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevate d’ufficio alla decisione sul merito: ma questo evidentemente sul presupposto che il «dubbio» sia divenuto «questione» attraverso l’eccezione di parte o il rilievo d’ufficio. Da questo a sostenere che qualsiasi decisione nel merito implichi automaticamente che tutti i possibili profili sui presupposti processuali siano divenuti «questioni» e queste siano state (implicitamente) decise nel senso dell’insussistenza il salto (logico ancor prima che giuridico) è troppo lungo per essere colmato con il richiamo al principio della ragionevole durata del processo.
Ed in effetti, sollecitare il giudice – così come fa l’art. 276 c.p.c. - a procedere «gradatamente» nella decisione delle «questioni» pregiudiziali e poi di quelle di merito non equivale affatto – come sembrano presupporre le Sezioni Unite – imporgli di valutare sempre e comunque la sussistenza dei presupposti processuali, anche quando non siano sorte «questioni» su di esse, prima di decidere nel merito. Così argomentando si finisce per equiparare impropriamente il semplice silenzio del giudice sulla valutazione di sussistenza/insussistenza dei presupposti processuali, di per sé neutro, al rilievo ufficioso delle «questioni» a questi attinenti (tutti) e, di conseguenza, ad un’implicita decisione nel senso della loro sussistenza.

6. Appare, dunque, in tutta la sua criticità la giustificazione che le Sezioni Unite tentano di dare per limitare il rilievo ufficioso del vizio di giurisdizione da parte del giudice dell’impugnazione, implicitamente abrogando una parte dell’art. 37 c.p.c. («il difetto di giurisdizione … è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque … grado del processo»). D’altro canto, le criticità aumentano se si confronta la conclusione alla quale pervengono le Sezioni Unite con tutta una serie di elementi normativi che non possono essere trascurati con il mero riferimento al principio della ragionevole durata del processo. A questo proposito mi pare si debba distinguere la posizione della parti da quella del giudice.
Con riferimento alle parti, infatti, l’accostamento che fanno le Sezioni Unite fra l’art. 37 c.p.c. ed il successivo art. 38 c.p.c. per i profili di incompetenza «forti» finisce per introdurre a carico della parte un onere di contestazione della giurisdizione in maniera surrettizia («fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado»). Questo, se può essere comprensibile in prospettiva de iure condendo nell’ottica di limitare il più possibile alle fasi preliminari il rilievo di questioni litis ingressum impedientes, si scontra con il principio generale dell’art. 152 c.p.c. per cui i termini perentori a carico delle parti debbono essere espressamente previsti dal legislatore e non possono – di conseguenza – essere ricavati in via interpretativa (neanche in via di interpretazione sistematica).
Né si può prescindere da ciò limitandosi ad affermare che, siccome «la pronuncia declinatoria della competenza presuppone, come antecedente logico giuridico, la positiva affermazione, ancorché implicita, della giurisdizione, avendo ad oggetto un accertamento subordinato, rispetto al quesito pregiudiziale relativo all'esistenza della potestas iudicandi del giudice adito …, non si vede poi come la giurisdizione possa essere rimessa in discussione sine die», stante che – dopo le riforme del 1990 - «la competenza del giudice adito (che implica la sussistenza della giurisdizione) non può più essere messa in discussione dopo il termine fissato dall'art. 38 c.p.c.» [24].
Alla base di un simile modo di argomentare, infatti, c’è ancora una volta l’indimostrata (e dunque, inaccettabile) equiparazione fra pronuncia «implicita» e pronuncia «espressa». Ammesso e, alla luce delle considerazioni svolte (retro, §§ 4 e 5), non concesso [25] che – come afferma la stessa Cassazione – la pronuncia declinatoria della competenza implichi l’implicita valutazione di sussistenza della potestas iudicandi, ciò non giustifica affatto la conclusione secondo cui non sarebbe accettabile una diversa disciplina preclusiva della questione di competenza e di quella di giurisdizione, sia perché il mancato rilievo dell’eccezione di incompetenza non può essere assimilato sul piano processuale al rilievo della stessa e alla decisione in senso ostativo da parte del giudice, sia perché rientra nella piena discrezionalità del legislatore graduare in maniera differente la preclusione del rilievo (ad eccezione di parte o anche d’ufficio) dei diversi vizi processuali, a seconda della loro rilevanza, sia perché aver rinunciato a rilevare un determinato vizio processuale non può automaticamente implicare rinuncia a rilevare altro vizio ancora rilevabile.
Peraltro, proprio la lettura coordinata delle due disposizioni – art. 37 e art. 38 c.p.c. – potrebbe portare a conclusioni esattamente opposte a quelle alle quali pervengono le Sezioni Unite. Se il legislatore è intervenuto con le riforme del 1990 sull’art. 38, introducendo un limite preclusivo per il rilievo del vizio di competenza, e non anche sull’art. 37 è evidente che ha inteso dare molto più peso alla questione del difetto di giurisdizione rispetto a quella del difetto di competenza. Ed è difficile pervenire ad una diversa soluzione, che consenta la rilevabilità del difetto di giurisdizione ad istanza di parte nel corso del giudizio di primo grado solo «fino a quando la causa non sia decisa nel merito», rispetto a quella voluta dal legislatore (rilevabilità del difetto di giurisdizione «in qualunque stato … del processo») semplicemente (e semplicisticamente) richiamando il principio della ragionevole durata del processo. Come più volte sottolineato dalla stessa Corte costituzionale, tale principio non può avere la prevalenza rispetto ad altri principi di rilevanza costituzionale in materia processuale. Nel caso di specie, invece, seguendo il ragionamento delle Sezioni Unite si darebbe la prevalenza alla ragionevole durata del processo a scapito del principio di «riserva di legge» in materia di disciplina processuale che lo stesso art. 111 Cost., al 1° comma, pone fra le garanzie del c.d. giusto processo.

7. Un problema di questa natura, peraltro, emerge anche con riferimento al potere del giudice di rilevabilità ufficiosa della questione. Il principio affermato dall’art. 37 c.p.c., in base al quale il difetto di giurisdizione è rilevabile anche d’ufficio «in qualunque stato e grado del processo» andrebbe coordinato – seguendo il ragionamento delle Sezioni Unite – con il sistema delle impugnazioni. In altri termini, la rilevabilità della questione di giurisdizione andrebbe ammessa liberamente solo quando non esista una precedente statuizione anche implicita; se, invece, vi è stata una decisione anche implicita sulla questione è necessario che proprio la decisione (anche implicita) sulla giurisdizione sia stata oggetto di espressa impugnazione ad opera delle parti, in assenza della quale al giudice dell’impugnazione sarebbe inibito l’esercizio del potere di rilevare d’ufficio la stessa questione.
Sennonché, così argomentando, si arriva ad una sostanziale abrogazione della previsione dell’art. 37 c.p.c. circa la rilevabilità anche d’ufficio della questione «in qualsiasi grado del processo», essendo evidente che tutte le volte in cui si abbia a che fare con il giudice dell’impugnazione vi è già stata la pronuncia di una sentenza e, di conseguenza, quanto meno una pronuncia implicita sulla questione. E dunque, subordinare l’esercizio del potere del giudice di rilievo ufficioso del vizio di giurisdizione all’esplicita impugnazione del «capo» relativo all’implicita decisione sulla giurisdizione significa di fatto eliminare l’esercizio del potere di rilievo ufficioso da parte del giudice. Se vi deve essere l’impugnazione della parte con riferimento all’implicita decisione sulla giurisdizione, per evitare che si formi il c.d. giudicato implicito, diventa un nonsense la prevista rilevabilità d’ufficio dell’art. 37 c.p.c.: il giudice dell’impugnazione potrebbe rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione soltanto laddove la parte abbia fatto della questione motivo di impugnazione. In realtà, ove la parte abbia fatto della questione di giurisdizione esplicito motivo di impugnazione (e questo è costretta a fare per impedire il formarsi del c.d. giudicato implicito), il rilievo d’ufficio della medesima questione non ha più alcuna utilità. E dunque, se il legislatore avesse voluto effettivamente escludere il rilievo ufficioso del difetto di giurisdizione da parte del giudice dell’impugnazione in presenza del c.d. giudicato implicito, non avrebbe previsto la rilevabilità d’ufficio anche «in qualsiasi grado» del processo. L’impressione è che – anche per questo profilo – si pervenga ad un’interpretazione dell’art. 37 c.p.c. che, in nome del principio della ragionevole durata, va contro la riserva di legge posta dal 1° co. dell’art. 111 Cost.

8. Non convince, poi, la duplex interpretatio che pure le Sezioni Unite – nella sent. n. 26019/2008 - offrono delle questioni processuali per le quali il legislatore preveda la rilevabilità in qualsiasi stato e grado del processo, distinguendo la questione di giurisdizione, per la quale rileverebbe la formazione del c.d. giudicato implicito, dalle altre questioni pregiudiziali (come, ad es., quella sulla legitimatio ad causam, quella inerente il rispetto di un termine di decadenza sostanziale, o il mancato esperimento della domanda amministrativa di prestazione previdenziale, o la violazione del divieto dello ius novorum in appello, o il frazionamento di crediti relativi al medesimo rapporto previdenziale o assistenziale) per le quali lo stesso giudicato implicito non rileverebbe.
Secondo i giudici della Suprema Corte, infatti, in quest’ultime ipotesi la rilevabilità d’ufficio del vizio anche in sede di legittimità (salvo l’effetto preclusivo derivante dal passaggio in giudicato di una specifica pronuncia del giudice del merito sul punto non impugnata) sarebbe giustificata dalla circostanza che si tratterebbe di eliminare provvedimenti del giudice di merito «che nessun giudice poteva pronunciare difettando i presupposti o le condizioni per il giudizio» e dunque si risolverebbe in una «pronuncia, caducatoria o meramente rescindente, di cassazione senza rinvio, ai sensi dell’art. 382, secondo comma, c.p.c., perché “la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito”» [26].
Ora, così argomentando, anzitutto, si trascura di considerare che il difetto di giurisdizione, di cui l’art. 37 c.p.c. ammette la rilevabilità anche d’ufficio «in qualunque stato e grado del processo», potrebbe essere anche assoluto, in quanto «si riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di giurisdizione». Anche in questo caso – come emerge dallo stesso 2° co. dell’art. 382 c.p.c., evidentemente non tenuto in considerazione dalle Sezioni unite (senza che se ne comprenda la ragione) – la conseguenza del rilievo ufficioso del vizio (da parte del giudice della legittimità) porterebbe ad una ««pronuncia, caducatoria o meramente rescindente, di cassazione senza rinvio, ai sensi dell’art. 382, secondo comma, c.p.c.». E per quale ragione quest’ipotesi non dovrebbe essere assimilata alle altre richiamate dalla Suprema Corte nelle quali la rilevabilità ufficio del vizio «in qualunque stato e grado del processo» sarebbe giustificata dal fatto che il provvedimento impugnato non poteva essere pronunciato da alcun giudice?
Ma anche a non voler considerare ciò – sebbene sia difficile e contra legem farlo – con riferimento agli altri casi di difetto di giurisdizione, cioè i casi di difetto «relativo» della potestas iudicandi, la conclusione richiamata si rivela una petizione di principio. La scelta del legislatore di prevedere espressamente per questi vizi processuali la rilevabilità «in qualunque stato e grado del processo», a prescindere dal fatto che il provvedimento impugnato poteva essere pronunciato o meno da altro giudice, rivela la chiara voluntas legis di non ammettere la distinzione, che in via interpretativa si propone al solo fine di supportare l’idea che la mancata impugnazione della decisione sul merito comporta il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione ed impedisce il rilievo ufficioso dell’eventuale vizio da parte del giudice dell’impugnazione.
Ancora una volta mi pare si ponga un problema di salvaguardia – nell’interesse del diritto di difesa delle parti – della riserva di legge posta dal 1° co. dell’art. 111 Cost.

9. Infine, non può essere sottaciuta la circostanza che, per come impostato il problema dalle Sezioni Unite, esso finisca per incidere negativamente proprio sulla ragionevole durata del processo. Se si afferma che qualsiasi pronuncia sul merito è idonea a produrre il c.d. giudicato implicito sulla questione della giurisdizione, e anche su altre questioni processuali (senza che si sappia in realtà quali), di fatto si deve anche ritenere che la sentenza contenga un capo «implicito»; o meglio, tanti capi «impliciti» quante siano le questioni processuali teoricamente rilevanti: si dovrebbe correlativamente ritenere che la sentenza di merito si lasci scomporre e «sminuzzare» in tanti (impliciti o «non visibili») «capi» o «parti» quante sono le questioni processuali rilevanti.
In altri termini, occorre mettere in relazione il c.d. giudicato implicito con la «pronuncia implicita»: il giudicato si può implicitamente formare perché ancor prima è da ammettere la presenza di una decisione implicita, che, peraltro, nel caso di specie sarebbe adottata d’ufficio dal giudice (visto che, appunto, la questione non è stata oggetto di esplicita eccezione di parte).
Ebbene, anzitutto, l’adozione ufficiosa della «pronuncia implicita» sulla questione processuale, senza che sulla stessa sia stato preventivamente instaurato il contraddittorio fra le parti, come imporrebbe, invece, l’art. 183, 4° co., c.p.c. [27], espone ad invalidità la stessa pronuncia sul merito [28].
Se, come detto, seguendo la prevalente dottrina e giurisprudenza, per «parte» o «capo» di sentenza s’intende – carneluttianamente - ogni singola «decisione su questione», occorre necessariamente ammettere che «un potere di impugnazione sorge per ciascuna decisione» [29] e dunque che la parte pure vittoriosa nel merito in primo grado sia costretta a ricorrere all’impugnazione (incidentale condizionata) per la riproposizione della questione «implicitamente» decisa dal giudice di merito, pena la formazione del giudicato «implicito» su di essa e l’impossibilità per il giudice d’appello e per la Cassazione di rilevarla d’ufficio (nonostante il tenore letterale dell’art. 37 c.p.c.) e per la stessa parte, vittoriosa in primo grado e soccombente in appello, di farne oggetto di ricorso per cassazione. Ma, se così è, si deve pur ammettere che – una volta proposto appello dalla parte soccombente nel merito – l’appellato automaticamente sarà indotto a proporre appello incidentale su tutti i possibili capi «impliciti» aventi ad oggetto le questioni processuali: questo, per evitare che, non avanzando appello su queste questioni processuali decise «implicitamente», si veda poi preclusa la possibilità di farlo in sede di ricorso per cassazione (per effetto del formarsi del c.d. giudicato implicito). Finendo per neutralizzare gli effetti positivi in termini di durata ragionevole del processo che, in teoria, dovrebbero venire proprio dalla soluzione oggi imprudentemente avanzata dalle Sezioni Unite.

 

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[1] Nello stesso senso, in precedenza, Cass., sez. un., 7 gennaio 2008, n. 35, in Mass. Giur. it., 2008, per la quale le Sezioni unite della Cassazione hanno il potere di pronunciarsi sulla giurisdizione anche in sede di regolamento di competenza proposto contro il provvedimento di sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c., essendo la questione di giurisdizione rilevabile d’ufficio fino a quando sul punto non intervenga il giudicato, anche implicito.
Fuori luogo appare, invece, il richiamo della sent. n. 24483 effettuato dalla successiva sent. n. 26789/2008 delle stesse Sezioni Unite, pure riportata in epigrafe, per la semplice ragione che – come emerge chiaramente dalla stessa sentenza – nel caso di specie il giudice di primo grado (T.A.R.) si era espressamente pronunciato sulla questione di giurisdizione ed il relativo capo della sentenza non era stato fatto oggetto di impugnazione davanti al giudice d’appello (Consiglio di Stato). L’unica plausibile giustificazione del richiamo della sent. n. 24483 del 2008 si rinviene nell’opportunità di «eliminare ogni possibile dubbio sull’applicabilità dell’art. 37
c.p.c. anche al processo dinanzi ai giudici speciali»
[2] Sul dibattito intorno alla natura dell’efficacia del giudicato «interno» v., da ultimo, Turroni, La sentenza civile sul processo. Profili sistematici, Torino, 2006, 195.
[3] V., in proposito,Cass., sez. un., 10 marzo 2005, n. 5207, in Rep. Foro It., 2005, voce «Cosa giudicata civile», n. 29; Id., sez. un., 31 ottobre 2007, n. 23019, in Corr. Giur., 2008, 1105, con nota di Rusciano; Id., sez. un., 19 febbraio 2007, n. 3717, in Rep. Foro It., 2007, voce «Appello civile», n. 33; Id., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109, in Giur. It., 2007, 2253 e in Foro It., 2007, I, 1009, con nota di Oriani; Id., 28 marzo 2006, n. 7039, in Mass. Giur. It., 2006; Id., 8 agosto 2003, n. 12002, ivi, 2003; Id., sez. un., 14 aprile 2003, n. 5903, ibidem. Si tratta di orientamento risalente a Id., sez. un., 22 luglio 1960, n. 2084, in Giust. Civ., 1960, I, 1932, con nota di Sandulli, e a Id., 28 aprile 1976, n. 1506, in Foro It., 1976, I, 2674, le quali mutarono l’orientamento fino a quel momento prevalente secondo il quale l’impugnazione della sola statuizione sul merito era idonea ad evitare il passaggio in giudicato della questione di giurisdizione e, dunque, a consentirne il rilievo d’ufficio nei gradi successivi (v., ad es., Id., 20 aprile 1974, n. 1095, in Foro It., 1974, I, 2040; Id., 21 agosto 1972, n. 2697, in Giust. Civ., 1972, I, 1914). V. anche la rassegna di Tacchi-Venturi, I limiti oggettivi del giudicato, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1960, 1198.
[4] Così, in dottrina, Andrioli, Acquiescenza e questioni attinenti alla giurisdizione, in Cinquant’anni di dialoghi con la giurisprudenza (1931-1981), II, Milano, 2007, 785 (ma già in Foro It., 1954, I, 11 e ); Minoli, Questioni rilevabili d’ufficio ed aquiescenza, in Riv. Dir. Proc., 1955, II, 274; Roncaglia, Possibilità di acquiescenza parziale in tema di pronuncia su questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1954, V, 15; Denti, voce «Nullità degli atti processuali civili», in Nss. Dig. It., XVIII, Torino, 1965, 480; Conso, Prospettive per un inquadramento delle nullità civili, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1965, 123-124; Ferri, Note in tema di pronunce sulla giurisdizione, Pavia, 1968, 86; Chiarloni, L’impugnazione incidentale nel processo civile, Milano, 1969, 154; Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 111; Cipriani, Il regolamento di giurisdizione, Napoli, 1977, 127; Proto Pisani, In tema di giudicato interno, giudicato esterno e preclusione, in Foro It., 1986, I, 3010; Id., Note sulla struttura dell’appello civile e sui suoi riflessi sulla cassazione, ivi, 1991, I, 111; Id., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 250; Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 313; Frangini, Questioni di giurisdizione: limiti di rilevabilità e limiti di esaminabilità, in Corr. Giur., 1996, 1, 50; Bianchi, I limiti oggettivi dell’appello civile, Padova, 2000, 129; Menchini, Il giudicato civile, Torino, 2002, 294 s.; Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2007, 226, in nota 120.
Tuttavia, nel senso che l’impugnazione nel merito della sentenza valga ad evitare il formarsi del giudicato «interno» sulla questione pregiudiziale di rito, oggetto di pronuncia esplicita in primo grado, v. Balzano, Acquiescenza, parti di sentenza e questioni rilevabili d’ufficio, in Riv. Dir. Proc., 1951, II, 217; Giudiceandrea, Nullità della sentenza impugnata e poteri del giudice dell’appello e della Corte di cassazione, in Giur. It., 1953, I, 1, 358; Laserra, Il giudice dell’impugnazione e le nullità insanabili non dedotte, in Riv. Dir. Proc., 1957, I, 573; Bonsignori, Effetto devolutivo dell’appello e nullità insanabili, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1978, I, 1609; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, Padova, 1985, I, 253, in nota 207.
[5] Andrioli, Acquiescenza e questioni, cit., 786.
[6] Così Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2008, n. 4; Id., ad. plen., 30 agosto 2005, n. 4, in Foro It., 2006, III, 65, con osservazioni di Travi. Nello stesso senso, in precedenza, Id., 18 marzo 2004, n. 1424, in Rep. Foro It., 2004, voce «Giurisdizione civile», n. 247; Id., 15 dicembre 2003, n. 8212, ibidem, voce «Giustizia amministrativa», n. 185; Id., 17 febbraio 2003, n. 835, ivi, 2003, voce cit., n. 1071.
[7] Invece, nel senso che sia d’ostacolo a una pronuncia d’ufficio anche solo una statuizione sul merito, proprio in applicazione del c.d. giudicato implicito, Cons. Stato, 18 novembre 2004, n. 7554, in Foro It., 2005, III, 642; Id., 18 maggio 2004, n. 3186, in Rep. Foro it., 2004, voce «Giurisdizione civile», n. 246; Id., 14 aprile 1998, n. 621, ivi, 1998, voce «Giustizia amministrativa», n. 116; Id., 15 aprile 1997, n. 373, ivi, 1997, voce cit., n. 100; da ultimo, Id., 19 febbraio 2008, n. 544, in Foro Amm. – Cons. Stato, 2008, 414.
[8] Il riferimento, evidentemente, è a Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. Dir. Proc., 1933, 117; Id., Diritto e processo, Napoli, 1958, 273; v. anche Allorio, Gravame incidentale della parte totalmente vittoriosa?, in Giur. It., 1956, I, 541 ; Id., Critica della teoria del giudicato implicito, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1938, II, 249, in nota 1, il quale osserva che, al fine di evitare lo «sminuzzamento» e il «dissolvimento del concetto di questione», occorre distinguere «dalla questione, direttamente rilevante, il dubbio solo mediatamente rilevante»; anche perché – aggiunge - «non solo le questioni che sorgono, ma anche quelle che possono sorgere nel processo, sono in numero finito: i semplici dubbi, invece, possono essere innumerevoli»; Cerino Canova, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 124. Su questo problema v., diffusamente, Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2008, 47; Rascio, L’oggetto dell’appello, cit., 115 e 313; Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, 207; Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, II, Torino, 2008, 372 , dove anche le opportune indicazioni dottrinali e giurisprudenziali in argomento.
[9] Così Cass., 16 gennaio 2006, n. 726, in Mass. Giur. It., 2006; v. anche Id., 30 ottobre 2007, n. 22863, ivi, 2007, la quale esclude, di conseguenza, che possa formare «capo» autonomo della sentenza quello «relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata»; Id., 25 febbraio 2004, n. 3806, in Arch. Circ., 2004, 752; Id., 23 dicembre 2003, n. 19679, in Mass. Giur. It., 2003; Id., 17 maggio 2001, n. 6757, ivi, 2001.
[10] Così Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. Dir. Proc., 1964, 54 ; v. anche Id., Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 232, in nota 15, e 270, in nota 20; Calamandrei, Appunti sulla reformatio in pejus, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1929, I, 300; Andrioli, Acquiescenza e questioni, cit., 785; Montesano, Sentenze endoprocessuali nei giudizi civili di merito, in Riv. Dir. Proc., 1971, 22; E.F. Ricci, L’esame d’ufficio degli impedimenti processuali nel giudizio di cassazione, ivi, 1978, 422 ; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, 163, testo e nota 97.
[11] In questo senso, infatti, Consolo, Le impugnazioni, cit., 50; ma v. già Id., Il cumulo, cit., I, 231, dove la considerazione che, non elevandosi la questione pregiudiziale di natura processuale «a diretto oggetto di accertamento e decisione», appare «fuori luogo … se la questione processuale riguardante un dato presupposto processuale possa riprodursi tale e quale, ed in termini di sostanziale equivalenza, in un successivo processo».
Con riferimento a questa conclusione, peraltro, non può non rilevarsi che – per quanto detto nel testo – essa appare parimenti plausibile (ed a fortori, direi) anche senza dover accedere ai percorsi argomentativi della teoria del c.d. doppio oggetto del giudizio (processuale e di merito) (su cui v., anche per le indicazioni, Id., op. cit.,I, 164 , 225 e 231, riprendendo l’impostazione, da noi, di A. Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958, 124 e 255; Id., In tema di rapporti tra questioni meramente processuali e oggetto del giudizio, in Foro Amm., 1957, II, 340 e, nella dottrina tedesca, di Blomeyer, Beiträge zum Lehre vom Streitgegenstand, in Festschrift der Juristischen Fakultät der Freien Universität Berlin, Berlin, 1955, 59, che parla di «zwei untrennbar verbundenen Streitgegenständen» («dem Gegenstand der Prozessentscheidung und dem der Sachentscheidung»), e di Habscheid, Der Streitgegenstand im Zivilprozess und im Streitverfahren der freiwilligen Gerichtsbarkeit, Bielefeld, 1956, 141, che parla di «Verfahrensbehauptung und Rechtsfolgenbehauptung» come componenti di un oggetto unitario), le quali nei termini in cui sono formulate, da un lato, non sembrano essere suffragate né dalla delimitazione del «dovere decisorio» del giudice che scaturisce dall’art. 112 c.p.c. (e dal correlato art. 99 c.p.c.), né dalla distinzione che lo stesso legislatore fa fra questioni processuali di «ammissibilità» della domanda rilevabili solo su istanza di parte e questioni rilevabili anche d’ufficio e, dall’altro lato, lambiscono pericolosamente gli ambiti della «decisione implicita» (sia pure prudentemente sottratta all’idoneità del giudicato sostanziale) (v., in particolare, Id.¸ Il cumulo, cit., I, 225, in nota 172; A. Romano, In tema di rapporti, cit., 343) e che, dunque, si esporrebbero ai medesimi rilievi critici espressi nel testo (dal problema del difetto motivazionale a quello della garanzia del contraddittorio sull’«oggetto (processuale) implicito del giudizio»). Per ulteriori valutazioni critiche alla teoria del c.d. doppio oggetto del giudizio v. Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, in Comm. c.p.c., diretto da Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1060; Cerino Canova, op. cit., 167 e 173; fornaciari, Presupposti processuali e giudizio di merito, Torino, 1996, 96 e 124; Turroni, Ammissibilità della domanda e accertamento giudiziale. Contro la teoria del doppio oggetto del processo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2002, 55 ; Id., La sentenza, cit., 159. In realtà, la negazione della natura di autonomo «capo» o «parte» di sentenza alla decisione esplicita sul un presupposto processuale non scaturisce dalla configurabilità di un «doppio oggetto di giudizio», ma semplicemente dalla sua inidoneità ad essere presa in considerazione ai fini del giudicato sostanziale, e conseguentemente dell’applicabilità degli artt. 329, 2° co., e 336, 1° co., c.p.c. (v. anche la nota successiva).
[12] V. anche Consolo, Il cumulo, cit., I, 225, in nota 172, e 253, in nota 207; Id., Le impugnazioni, cit., 47.
[13] Così – dopo Cons. Stato, ad. plen. 28 ottobre 1980, n. 42, in Foro It., 1981, III, 68 - fra le più recenti, Id., 10 marzo 2004, n. 1127, in Rep. Foro it., 2004, voce «Giustizia amministrativa», n. 184; Id., 17 dicembre 2003, n. 8317, ibidem, voce «Giurisdizione civile», n. 87; Id., 6 ottobre 2003, n. 5844, ibidem, voce «Giustizia amministrativa», n. 186.
[14] Su questo v. già Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, rist., Napoli, 1960, 324 , il quale ammette come regola quella secondo cui la risoluzione giudiziale delle questioni logiche («riguardanti punti processuali o sostanziali») non sia coperta dal giudicato vero e proprio formatosi con riferimento alla pronuncia di merito (definitiva o interlocutoria), e dunque la questione potrebbe sempre essere riproposta in successivi giudizi «tutte le volte che ciò possa farsi senza attentare alla autorità della situazione delle parti fissata dal giudice rispetto al bene della vita controverso», e Betti, Se il passaggio in giudicato di una sentenza interlocutoria precluda al contumace l’eccezione di incompetenza territoriale, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1927, II, 13; ma v. anche, sia pure con approdi differenti, Allorio, Critica alla teoria del giudicato implicito, cit., 252; Cristofolini, Omissione di pronuncia, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1938, I, 99; Montesano, op. cit., 26; C. Natoli, Considerazioni sul criterio discretivo tra giudicato implicito e giudicato sul deducibile, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1979, 274; Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principî, a cura di Colesanti, Merlin e Ricci, Milano, 2002, 274; Lancellotti, Variazioni dell’implicito rispetto alla domanda, alla pronuncia ed al giudicato, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1980, 484; Consolo, Il cumulo, cit., I, 227 , in nota 172, e 255, in nota 207; Vaccarella, Giudicato esplicito sulla improponibilità della domanda ed implicito sulla legittimazione ad agire, in Riv. Arb., 1995, 85; Menchini, voce «Regiudicata civile», in Digesto Civ., XVI, Torino, 1997, 414; Rascio, op. cit., 277, in nota 232; A.A. Romano, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, in Giur. It., 2001, 1299; Ziino, Disorientamenti della Cassazione in materia di giudicato «implicito» e di rilevabilità del giudicato esterno, in Riv. Dir. Proc., 2005, 1396; Poli, op. cit., 377, in nota 654, e 380, in nota 658; Fornaciari, op. cit., 181.
[15] V., da ultimo, Cass., 18 giugno 2007, n. 14055, in Mass. Giur. It., 2007. V. anche le sentenze citate alla successiva nota.
[16] Così, espressamente, Cass., 27 maggio 2005, n. 11318, in Foro It., 2006, I, 3213, con osservazioni di Pagni; nello stesso senso Id., 29 aprile 2004, n. 8204, in Mass. Giur. It., 2004; Id., 12 dicembre 2003, n. 19060, ivi, 2003; Id., 11 aprile 2002, n. 5141, ivi, 2002; Id., 29 aprile 2003, n. 6632, ibidem; Id., 12 giugno 2001, n. 7879, in Foro It., 2002, I, 825; Id., 19 marzo 2001, n. 3929, in Mass. Giur. It., 2001; Id., 6 novembre 2001, n. 13695, ibidem.
[17] In dottrina, v. Betti, op. cit., 18; Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1987, 225; Camber, Rapporto tra competenza e merito, Padova, 1960, 290; in giurisprudenza, da ultimo, Cass., sez. un., 19 ottobre 2006, n. 22427, in Riv. Dir. Proc., 2007, 1333, con nota di Guarnieri; Id., 8 giugno 2007, n. 13513, in Mass. Giur. It., 2007; in precedenza, Id., sez. un., 6 settembre 1990, n. 9197, in Foro It., 1991, I, 102, con nota di Brilli; Id., 15 gennaio 1996, n. 285, in Giur. It., 1996, I, 1, 1216; Id., 28 novembre 1998, n. 12105, in Mass. Giur. It., 1998.
[18] Allorio, Critica, cit., 245; ma v. anche Betti, op. cit., 21; Pugliese, voce «Giudicato civile (dir. vig.)», in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 862; Heinitz, I limiti oggettivi della cosa giudicata, Padova, 1937, 200; Id., Considerazioni attuali sui limiti oggettivi del giudicato, in Giur. It., 1955, I, 1, 755; Proto Pisani, Osservazioni in tema di limiti oggettivi del giudicato, in Foro It., 1972, I, 89.
[19] Allorio, Critica, cit., 250 , il quale richiama a sostegno della sua tesi anche la teoria del «processo come situazione giuridica» di James Goldschmidt (Der Prozess als Rechtslage, Berlin, 1925, §§ 1 e ) e conclude, conseguentemente, che «la teoria della cosa giudicata implicita, così come oggi è formulata, non ha fondamento».
[20] Betti, op. cit., 21.
[21] Sono ancora parole di Betti, op. cit., 27.
[22] In proposito v. Liebman, L’ordine delle questioni e l’eccezione di prescrizione, in Riv. Dir. Proc., 1967, 539; Chiarloni, Il ricorso incidentale del resistente vittorioso: profili sistematici e rapporti con il c.d. ordine logico della pregiudizialità, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ, 1968, 497; Fornaciari, op. cit., 66; Turroni, La sentenza, cit., 112.
[23] Ancora Allorio, Critica, cit., 252.
[24] Così, in motivazione, Cass. , n. 24483/2008, richiamando Id., sez. un., 17 dicembre 2007, n. 26483, in Ma Giur. It., 2007.
[25] Non foss’altro che per la differenza, sopra evidenziata, fra dubbio e questione nell’iter decisorio del giudice, la quale, peraltro, - nel caso della pronuncia declinatoria della competenza - lo stesso legislatore tiene ben presente proprio nella formulazione dell’art. 42 c.p.c. e nella limitazione del rimedio impugnatorio della pronuncia al solo regolamento necessario di competenza. In proposito v. anche Cass., 12 dicembre 2005, n. 27373, in Giur. It., 2006, 1912, con nota di Dominici; Id., 8 febbraio 1999, n. 1079, in Foro It., 2000, I, 2307, con nota di De Santis; Id., 5 giugno 1996, n. 5229, in Giust. Civ., 1996, I, 2552; Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 162.
[26] Così, in motivazione,Cass. n. 26019/2008.
[27] Lo rileva, opportunamente, Mandrioli, op. cit., I, § 18, in nota 38.
[28] Secondo l’orientamento che si va consolidando circa la nullità della sentenza «a sorpresa»: v., da ultimo,Cass. , 9 giugno 2008, n. 15194, in Mass. Giur. It., 2008; Id., 31 ottobre 2005, n. 21108, in Corr. Giur., 2006, 508, con nota di Consolo, sulla scia di Id., 21 novembre 2001, n. 14637, in Giur It., 2002, 1363, con nota contraria di Chiarloni e favorevole di Luiso.
[29] Così Cerino Canova, op. cit., 167, in critica alla teoria c.d. del doppio oggetto del giudizio.

 

(pubblicato il 1.4.2009)

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