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T.A.R. LOMBARDIA - MILANO - SEZIONE II - Sentenza 22 maggio 2008 n. 1827
Pres. M. Arosio, est. A. Di Mario
F.lli Righetto s.n.c. (Avv. R. Villata, A. Degli Esposti e M. Pisapia) c. Comune di Gorla Maggiore (avv. L. S. Salvatore) e Regione Lombardia (n.c.)


1. Procedimento amministrativo - Provvedimento sanzionatorio di sospensione immediata dell’attività di carpenteria – Non occorre la comunicazione di avvio del procedimento

 

2. Procedimento amministrativo - Provvedimento sanzionatorio di sospensione immediata dell’attività di carpenteria – Non è funzionale alla cura di un singolo specifico interesse pubblico – Superamento della correlazione tra provvedimento e specifico interesse pubblico a causa dei principi di semplicità, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa

1. Nel procedimento sanzionatorio di sospensione immediata dell’attività di carpenteria la natura vincolata del provvedimento, il carattere semplificato dell’accertamento, l’ammissione delle parti escludono la possibilità di apporti contributivi da parte del privato tali da modificare l’esito del procedimento, sicché non sussiste violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90 per mancata comunicazione di avvio del procedimento.

 

2. Se in passato la giurisprudenza riteneva che ogni singolo potere fosse attribuito all’amministrazione per la cura di uno specifico interesse pubblico, tale orientamento risulta completamente superato oramai dai principi di semplicità, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, stabiliti dalla l. n. 241/1990.


FATTO




Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti impugnano l’ordinanza del Comune di Gorla Maggiore n. 40 in data 20 giugno 2007, con la quale era stato loro imposta la sospensione immediata dell’attività di carpenteria svolta presso il capannone insistente sui mappali 3551 e 3552 nonché, ove occorra, dell’art. 33 N.T.A. nel testo definitivamente approvato con delibera consiliare 7 marzo 2003, n. 8.
Contro il suddetto atto i ricorrenti sollevano le seguenti questioni di fatto e di diritto: a) violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90 per mancata comunicazione di avvio del procedimento; b) non sussiste contrasto tra l’attività svolta e l’art. 33 N.T.A. del Comune di Gorla Maggiore in quanto la norma sarebbe applicabile solo alle attività non ancora insediate mentre il ricorrente si è limitato a trasferire in loco un’attività già esistente a poca distanza; c) illegittimità dell’art. 33 N.T.A. nella parte in cui vieta l’insediamento delle industrie insalubri di prima classe nella zona D2 e nella parte in cui la variante urbanistica alla norma sottopone l’installazione di tali industrie alla presentazione di un piano esecutivo; d) illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di istruttoria tesa a verificare la presenza di immissioni in atmosfera e per errore di fatto in quanto nel capannone oggetto dell’ordinanza si svolgono in modo continuativo solo attività insalubri di seconda classe; e) violazione degli artt. 216 e 217 del T.U. Leggi sanitarie in quanto la pericolosità dell’attività insalubre di prima classe non è stata verificata in concreto e la sospensione dell’attività è stata disposta senza aver prima prescritto idonee misure e cautele tecniche che possano valere ad eliminare le immissioni accertate o a ridurle entro i limiti della tollerabilità e senza aver verificato che tali misure risultino insufficienti.
Il Comune di Gorla Maggiore eccepisce che il provvedimento è fondato sulla concessione edilizia rilasciata a favore dei ricorrenti nel 2002, nella quale è stabilito che “le attività produttive che potranno insediarsi nella zona urbanistica D2 non soggetta a preventiva pianificazione attuativa … dovranno appartenere alla categoria di ditte insalubri di II classe ai sensi del D.M. 05.09.1994, come previsto dall’art. 33 delle N.T.A. allegate alla variante di P.R.G., adottata con delibera di C.C. n. 48 del 29.11.1992”.
In secondo luogo il Comune ricorda che la ditta ricorrente aveva già presentato nel 2005 domanda per svolgere sui mappali in questione attività di carpenteria leggera, che tale attività era stata classificata dall’ASL attività insalubre di I classe e che, di conseguenza, la richiesta veniva respinta. Tale provvedimento negativo costituisce il presupposto del provvedimento impugnato recante sospensione immediata dell’attività.
All’udienza pubblica del 9 aprile 2008, il ricorrente si è limitato ad esibire, non potendola depositare in mancanza di controparte, la nota dell’ARPA della Lombardia in data 18 marzo 2008 (come da verbale d’udienza) e la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.

DIRITTO




Il ricorso si palesa infondato per i seguenti motivi.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90 per mancata comunicazione di avvio del procedimento. Come chiarito dalla giurisprudenza, la comunicazione di avvio del procedimento è necessaria anche nel caso di ordinanze contingibili ed urgenti e può essere omessa solo in caso di urgenza qualificata ed esternata nel provvedimento, mentre il provvedimento impugnato manca di qualsiasi riferimento all’urgenza. In secondo luogo il provvedimento non potrebbe essere considerato non annullabile ex art. 21-octies della legge 241/90 in quanto la mancanza di un accertamento tecnico a base delle valutazioni complesse nel provvedimento e l’esclusione della partecipazione renderebbero impossibile la prova che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso.
Il motivo non merita accoglimento.
Secondo un primo orientamento la comunicazione di avvio del procedimento è dovuta anche nel caso di adozione di un atto vincolato (T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 1 dicembre 2006, n. 10331). Come chiarito dal TAR Campania citato, la fase procedimentale indicata non può essere omessa o compressa per il fatto che si sia in presenza di provvedimento a contenuto vincolato; deve rilevarsi in proposito che la giurisprudenza più recente afferma la sussistenza dell’obbligo di avviso dell’avvio anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (cfr. CdS sez. VI 20.4.2000, n. 2443; CdS 2953/2004; 2307/2004 e 396/2004). Invero, non è rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all’amministrazione l’inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria. In definitiva, quello che rileva è la complessità dell’accertamento da effettuare (V. CdS, sez. VI n.686 del 7.2.2002- T.A.R. Trentino Alto Adige, Bolzano, n.490 del 2.11.2002- T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, n. 332 del 14.06.2002).
A tale orientamento si contrappone altra giurisprudenza (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 30 luglio 2007, n. 7130), condivisa anche da questa sezione, secondo la quale la natura vincolata del provvedimento esclude la possibilità di apporti contributivi da parte del privato tali da modificare l’esito del procedimento, sicché i vizi procedimentali prospettati non inficiano la legittimità del provvedimento impugnato.
Nel caso in questione non solo il provvedimento finale si presentava come vincolato, in considerazione del chiaro contenuto della concessione edilizia rilasciata a favore della ditta ricorrente, ma anche l’accertamento aveva carattere semplice, in quanto si trattava di accertare l’esistenza in loco di lavorazioni di carpenteria, quali le saldature, riconducibili senza incertezze nell’alveo delle attività insalubri di prima classe, secondo il Decreto ministeriale 5 settembre 1994. Né a diversa conclusione può giungersi seguendo le argomentazioni del ricorrente, che ritiene necessari, al fine di qualificare l’attività in parola, accertamenti tecnici da parte degli organi sanitari (quali l’ASL) o di tutela ambientale (quali l’ARPA, della quale presenta in udienza un’attestazione). Tali diverse e più approfondite valutazioni sarebbero state necessarie se l’amministrazione avesse esercitato i suoi poteri di natura sanitaria. In tale ultimo caso, infatti, sarebbe stato necessario accertare non solo il semplice fatto dell’esistenza di lavorazioni non conformi al titolo edilizio, direttamente percepibili anche dagli organi di polizia urbana che hanno effettuato l’accertamento, ma sarebbe stato indispensabile effettuare una valutazione in concreto della pericolosità di tali attività, che avrebbe richiesto ben altre competenze.
Né d’altra parte sussiste incertezza in ordine al contenuto delle attività di carpenteria accertate dall’amministrazione. In senso contrario non possono, infatti, valere le considerazioni effettuate dal ricorrente nella memoria presentata in data 28 marzo 2008, secondo la quale l’attività svolta sarebbe solo di carpenteria a freddo e non a caldo, in quanto nel ricorso introduttivo il ricorrente afferma che, nel capannone oggetto del divieto, “vengono saltuariamente effettuate operazioni di saldatura di alcune parti metalliche. Ed è proprio in relazione a quest’ultima marginale attività che il Comune di Gorla Maggiore ha da ultimo notificato l’ordinanza di sospensione oggetto del presente gravame”.
Si ritiene quindi che, nel procedimento sanzionatorio attivato dall’amministrazione comunale, la natura vincolata del provvedimento, il carattere semplificato dell’accertamento, l’ammissione delle parti, esclude la possibilità di apporti contributivi da parte del privato tali da modificare l’esito del procedimento, sicché i vizi partecipativi prospettati non inficiano la legittimità del provvedimento impugnato.
Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che non sussiste contrasto tra l’attività svolta e l’art. 33 N.T.A. del Comune di Gorla Maggiore, in quanto la norma sarebbe applicabile solo alle attività non ancora insediate, mentre il ricorrente si è limitato a trasferire in loco un’attività già esistente a poca distanza.
Il motivo non è fondato.
Il trasferimento di un’attività da un luogo ad un altro, dotato di una specifica destinazione urbanistica, è infatti chiaramente equiparabile all’apertura di una nuova attività nel capannone di destinazione. Né tantomeno si può ritenere che il riconoscimento della legittimità dello svolgimento dell’attività insalubre di prima classe in un luogo limitrofo, effettuato dal giudice amministrativo, possa legittimare il suo trasferimento in altro luogo in contrasto con le specifiche destinazioni urbanistiche ed edilizie.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia illegittimità dell’art. 33 N.T.A. nella parte in cui vieta l’insediamento delle industrie insalubri di prima classe nella zona D2 e nella parte in cui la variante alla norma sottopone l’installazione di tali industrie alla presentazione di un piano esecutivo. Secondo la ricorrente, in primo luogo, nell’ambito delle zone D del territorio comunale, deputate ad ospitare impianti industriali ed assimilati, non possono essere aprioristicamente inibite particolari tipologie di insediamenti industriali; in secondo luogo la possibilità di installare industrie insalubri solo a seguito della presentazione di un piano esecutivo è del tutto incongruente con la tutela della salute pubblica.
Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, infatti, impugna una norma delle n.t.a. del p.r.g. del Comune di Gorla Maggiore sulla base della quale è stata rilasciata la concessione edilizia che disciplina il rapporto de quo.
Tale ultimo atto, però, non è stato impugnato rendendo, di conseguenza, inammissibile l’impugnazione dell’atto presupposto.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia l’illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di istruttoria tesa a verificare la presenza di immissioni in atmosfera e per errore di fatto in quanto nel capannone oggetto dell’ordinanza si svolgono in modo continuativo solo attività insalubri di seconda classe. L’amministrazione ha provveduto ad esercitare i suoi poteri inibitori su segnalazione di episodi di inquinamento atmosferico ed acustico senza effettuare alcun accertamento tecnico in tal senso e senza tenere conto che le attività insalubri di prima classe (operazioni di saldatura) sono svolte in via del tutto occasionale.
Il motivo non è fondato.
Come accertato in precedenza il provvedimento adottato dal Comune deve ritenersi condizionato da quanto in precedenza precisato nella concessione edilizia. In passato la giurisprudenza riteneva che ogni singolo potere è attribuito alla P.A. per la cura di uno specifico interesse pubblico per cui l’esercizio di ciascun singolo potere (anche se tutti appartenenti ad un’unica P.A.) resta circoscritto al relativo settore e dà luogo a procedimenti destinati ad operare singolarmente e senza possibilità di coordinamento. Tale orientamento risulta completamente superato, oramai, dai principi di semplicità, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, stabiliti dalla l. n. 241/1990. Quest’ultima disegna, infatti, un modello di procedimento nel quale vengono concentrati l’esame, il coordinamento e la gestione di una pluralità di interessi pubblici, in sé differenti, ma collegati, secondo il canone costituzionalmente rilevante della ragionevolezza, verso uno scopo unitario (C.d.S., Sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639).
Nel vigente ordinamento l’esercizio dissociato dei poteri che fanno a capo allo stesso Ente nella realizzazione di più interessi pubblici, specie se tra essi sussista un collegamento, come nel settore dei provvedimenti sanitari ed edilizi, si pone in contrasto con i fondamentali principi di ragionevolezza e di buona amministrazione. Perciò, l’autorità preposta ad adottare provvedimenti sanitari è tenuta a valutare il collegamento tra l’ambito urbanistico-edilizio e quello sanitario, con conseguente legittimità del provvedimento sanitario fondato su ragioni di ordine urbanistico.
Da ciò consegue che non era necessario un accertamento in merito alle immissioni provenienti dal capannone, né sotto il profilo dell’intensità, né sotto il profilo della frequenza. Qualsiasi attività svolta in contrasto con la concessione edilizia rilasciata costituisce, infatti, una condotta abusiva che può essere sanzionata dall’amministrazione.
Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 216 e 217 del T.U. Leggi sanitarie in quanto la pericolosità dell’attività insalubre di prima classe non è stata verificata in concreto e la sospensione dell’attività è stata disposta senza aver prima prescritto idonee misure e cautele tecniche, che possano valere ad eliminare le immissioni accertate o a ridurle entro i limiti della tollerabilità, e senza aver verificato che tali misure risultino insufficienti.
Il motivo non è fondato.
In realtà l’amministrazione non ha fatto altro che applicare un semplice sillogismo consistente nel rispetto della condizione contenuta nella più volte citata concessione. Secondo tale condizione le attività produttive abilitate ad insediarsi nella zona urbanistica D2 dovranno appartenere alla categoria delle ditte insalubri di seconda classe ai sensi del D.M. 05.09.1994. Poiché l’attività svolta dalla società ricorrente era stata classificata dall’ASL territorialmente competente come insalubre di prima classe, ne conseguiva l’impossibilità che essa potesse continuare a svolgere l’attività di carpenteria in quella zona e la necessità di una sospensione immediata. Anche sotto questo profilo, quindi, il provvedimento impugnato risulta del tutto legittimo.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.




Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sezione Seconda, così definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, in parte lo dichiara inammissibile e in parte lo respinge nei limiti di cui in motivazione.
Condanna la ricorrente al pagamento a favore della parte resistente delle spese ed onorari di causa che liquida in via forfetaria in complessivi euro 2.000,00 (duemila/00) oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Demanda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Milano, dal T.A.R. per la Lombardia, sezione II, nella Camera di Consiglio del 9 aprile 2008, con l’intervento dei signori magistrati:

MARIO AROSIO Presidente
CARMINE SPADAVECCHIA Consigliere
ALBERTO DI MARIO Ref., estensore

 

MARGHERITA RAMAJOLI

Il Tar Lombardia uccide lo sviamento di potere


In questa epoca giuridica che conosce profonde transizioni una delle poche certezze ha riguardato l’uso del potere amministrativo per una finalità diversa rispetto a quella fissata dalla norma attributiva del potere stesso. Questo poteva dirsi almeno fino alla sentenza del Tar Lombardia, sez. II, n. 1827/2008.
Come è noto, a garanzia dei destinatari dell’azione amministrativa è stato riconosciuto ai poteri dell’amministrazione carattere di specificità e di infungibilità, nel senso che ad ogni tipo di potere corrisponde un dato interesse da tutelare. Non esiste un indifferenziato potere di cura dell’interesse pubblico, ma tanti distinti poteri, ciascuno dei quali qualificato dal perseguimento di una specifica finalità.
Di conseguenza, l’utilizzo da parte della pubblica amministrazione del potere attribuitole dall’ordinamento per raggiungere un fine diverso da quello tipico del potere medesimo è illegittimo e un provvedimento adottato per uno scopo pratico divergente dal suo fine paradigmatico è viziato da eccesso di potere e in particolare da sviamento di potere [1].
In questa maniera l’eccesso di potere è divenuto lo strumento per eccellenza per controllare la discrezionalità amministrativa e per tutelare il privato da indebite, imprevedibili interferenze da parte dell’amministrazione.
Ma la presente decisione mette in discussione quanto fin qui enunciato e che pareva patrimonio acquisito, destando per ciò preoccupazione.
Infatti è un pericoloso ritorno al passato quello che si realizza con l’orientamento giurisprudenziale in esame. Punto centrale della decisione sta nel superamento della posizione in base alla quale “ogni singolo potere è attribuito alla P.A. per la cura di uno specifico interesse pubblico”, “per cui l’esercizio di ciascun singolo potere (anche se tutti appartenenti ad un’unica P.A.) resta circoscritto al relativo settore e dà luogo a procedimenti amministrativi destinati ad operare singolarmente e senza possibilità di coordinamento”.
L’abbandono dell’orientamento tradizionale che lega strettamente singoli poteri amministrativi e quindi singoli provvedimenti amministrativi alla cura di specifici interessi pubblici viene fatto discendere dai principi di economicità ed efficacia di cui al comma 1 dell’art. 1 della legge n. 241/90 (“tale orientamento risulta completamente superato, oramai, dai principi di semplicità, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, stabiliti dalla l. n. 241/1990”, dice il giudice amministrativo).
La scissione operata tra singolo provvedimento amministrativo e concreto scopo da perseguire non rimane affermazione di principio priva di ricadute pratiche, ma serve al giudice amministrativo per riconoscere la legittimità di un provvedimento sanzionatorio che stenta a trovare un inquadramento secondo le logiche consuete.
Partendo dal presupposto che “l’esercizio dissociato” dei poteri sanitari e di poteri edilizi facenti capo ad una stessa amministrazione, ossia al Comune, si ponga in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buona amministrazione, il Tar Lombardia considera legittima un’ordinanza comunale di sospensione di un’attività di carpenteria nella quale profili di tutela sanitaria e profili di tutela urbanistica paiono indistinguibili (la sentenza parla di “provvedimento sanitario fondato su ragioni di ordine urbanistico”).
L’impostazione adottata dal giudice di primo grado e l’esito ultimo cui essa conduce suggeriscono alcune brevi considerazioni.
Anzitutto, se si segue questa logica, nel caso di enti a fini generali quali sono lo Stato e le autonomie territoriali mai verrebbe a configurarsi l’ipotesi di sviamento di potere potendosi sempre realizzare concordanza tra il fine concretamente perseguito e il latissimo fine istituzionale demandato all’amministrazione [2].
Si ripiomba così in un passato caratterizzato dal conferimento all’amministrazione di poteri pressoché illimitati e da una concezione della discrezionalità amministrativa come libertà che concerne l’apprezzamento di un pubblico interesse, dimenticando in un solo momento lustri di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale nel segno dell’ampliamento della tutela giurisdizionale.
Recidendo il legame tra un dato provvedimento amministrativo e un preciso interesse pubblico da tutelare si impedisce di effettuare un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito nel contesto della medesima fattispecie.
Vero è che la regola del vincolo del fine posto all’amministrazione dalla predeterminazione normativa dell’interesse pubblico specifico sconta indubbie difficoltà di ordine pratico. L’individuazione dell’interesse pubblico da perseguire istituzionalmente può non essere agevole, perché la legge non sempre indica espressamente la caratterizzazione funzionale di un potere amministrativo.
Ma questo rilievo vale soprattutto per alcuni tipi di potere e alcuni tipi di provvedimento. Si pensi ai poteri e agli atti pianificatori o programmatori, che stanno a metà strada tra l’azione e la regolazione e il cui fine primario si articola in fini plurimi che devono coesistere.
Diverso è il discorso da condurre con riferimento agli atti puntuali e in particolare agli atti afflittivi, quali quelli sanzionatori, che vengono in considerazione nel caso in esame.
Qui la garanzia insita nell’esistenza dello sviamento di potere, nella correlazione tra fine istituzionale e fine concreto, nel principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, e, ancora più a monte, nel principio di legalità inteso in senso sostanziale non deve mai venire meno, né risultare recessiva rispetto ad altre istanze, come possono essere le istanze di efficacia dell’operare amministrativo.
A questo punto vi è un altro rilievo da svolgere. Il Tar Lombardia confonde compiti istituzionalmente demandati al legislatore e compiti propri dell’amministrazione nell’attuazione dei principi di semplicità, economicità ed efficacia.
Sostiene il giudice amministrativo che i procedimenti amministrativi non siano più destinati ad operare singolarmente e senza possibilità di coordinamento; ancora una volta a condurre a siffatto risultato è la legge n. 241/90, che “disegna … un modello di procedimento nel quale vengono concentrati l’esame, il coordinamento e la gestione di una pluralità di interessi pubblici, in sé differenti, ma collegati, secondo il canone costituzionalmente rilevante della ragionevolezza, verso uno scopo unitario”.
Difficile non condividere questo rilievo, ma per ottenere siffatto risultato occorre sempre un’interposizione normativa. Il punto è che la concreta attuazione del principio di semplificazione o di buon andamento non è affidata in modo diretto all’amministrazione, ma grava in primo luogo sul legislatore. Solo dopo che il legislatore abbia assolto il compito di dettare disposizioni che delineino procedimenti amministrativi non più destinati ad operare singolarmente, subentrerà il potere-dovere dell’amministrazione di perseguire anch’essa i principi di buona amministrazione e le esigenze di funzionalità dell’agire amministrativo ad esso riconducibili nel preciso contesto delineato dalla disciplina legislativa.
La precisazione è fondamentale e risulta evidente nell’unico precedente che il Tar Lombardia cita a suo favore e cioè nella decisione della sez. V del Consiglio di Stato, 28 giugno 2000, n. 3639. In tale precedente veniva chiesto l’annullamento del provvedimento che vietava l’attività commerciale in locali che avevano ottenuto l’agibilità solo per lo svolgimento di attività artigianale. Il giudice amministrativo di secondo grado ricorda l’orientamento consolidato secondo cui è illegittimo il diniego di autorizzazione commerciale o di ampliamento o di trasferimento dell’esercizio per ragioni di ordine urbanistico, tra le quali, in particolare, per la destinazione d’uso diversa da quella commerciale, poiché l’interesse pubblico nella materia del commercio è di diversa natura e implica, perciò, criteri valutativi differenti che non possono applicarsi al di fuori dell’ambito del settore entro il quale sono stabiliti [3].
Ma questo orientamento tradizionale è abbandonato dalla sez. V e nel contesto qui considerato assume rilevanza la ragione per cui ciò avviene: apparentemente -come traspare dall’affermazione di principio, poi testualmente ripresa dal Tar Lombardia in esame- valorizzando l’art. 1 della legge n. 241/90, che modulerebbe la portata dei principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità degli atti attribuendo dignità di criteri normativi ai concetti di economicità, semplicità, celerità, efficacia; in realtà, considerando “come il legislatore abbia provveduto ad integrare il quadro normativo in materia urbanistica nel corpo di una legge concernente il commercio, con chiare finalità di coordinamento tra le relative pianificazioni e, per altro, istituendo un rapporto di sovraordinazione della disciplina urbanistica rispetto a quella commerciale”.
Quindi solo in virtù di una interposizione legislativa il principio di buona amministrazione consente di delineare procedimenti complessi intesi a tutelare una pluralità di pubblici interessi. Come da tempo ha precisato il Consiglio di Stato, l’art. 1 della legge n. 241/90 detta un’enunciazione astratta di principio volta a riaffermare l’esigenza di buon andamento dell’azione amministrativa in coerenza con l’art. 97 Cost., i cui contenuti vanno, però, individuati, come chiarito dalla stessa disposizione, o nella medesima legge o nelle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti [4].
Questa evenienza non si è verificata nel caso in esame, in cui manca una legislazione che espressamente contempli l’accorpamento dell’esercizio altrimenti dissociato dei poteri amministrativi.
La sentenza del Tar Lombardia consente di svolgere poi un’altra considerazione. Quand’anche si intenda togliere alcun rilievo significativo al vizio di sviamento di potere, non ci si può spingere però al punto da eliminare pure il vizio del difetto di istruttoria.
Infatti, qualora si ritenga retaggio di un passato ottocentesco di impronta cavouriana la separazione degli interessi pubblici in capo ad un’unica amministrazione e si approdi alla visione di un unico potere, omnicomprensivo, che l’amministrazione, di volta in volta, sceglie come modulare, l’esercizio legittimo di tale unico potere amministrativo richiede sempre un’adeguata istruttoria calibrata su tutti gli interessi pubblici coinvolti.
Se si adotta una versione dello sviamento di potere in cui non è più necessario che il fine di interesse pubblico specifico seguito da ciascun atto debba corrispondere a quello tipico, ma è sufficiente che il provvedimento non persegua fini diversi da quelli rientranti nella competenza istituzionale dell’autorità, è a maggior ragione irrinunciabile che il generale e generico interesse pubblico demandato all’amministrazione trovi una precisa rispondenza nei fatti.
Nello specifico non si può affermare che l’autorità preposta ad adottare provvedimenti sanitari sia tenuta a valutare il collegamento tra l’ambito urbanistico-edilizio e quello sanitario e poi non reclamare un accertamento tecnico su entrambi i profili coinvolti.
Di contro, la sentenza sostiene che solo se l’amministrazione avesse esercitato i suoi poteri di natura sanitaria, “sarebbe stato necessario accertare non solo il semplice fatto dell’esistenza di lavorazioni non conformi al titolo edilizio … ma … effettuare una valutazione in concreto della pericolosità di tali attività”, mentre nell’ipotesi in esame nessuna attività di accertamento complesso sarebbe richiesta all’amministrazione.
Con la conseguenza di riconoscere come legittima l’attività dell’amministrazione che ha provveduto ad esercitare i suoi poteri inibitori senza effettuare alcun accertamento tecnico in merito alle immissioni, né sotto il profilo dell’intensità, né sotto il profilo della frequenza e di ritenere inutile e superflua la partecipazione al procedimento del privato, che non è posto nelle condizioni di dimostrare l’inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma [5].
Anzitutto suscita perplessità l’affermazione secondo cui l’amministrazione nel caso di specie non ha esercitato i suoi poteri di natura sanitaria, affermazione che collide direttamente con quella sopra vista in base alla quale verrebbe in rilievo un provvedimento sanitario, sia pure fondato su ragioni di ordine urbanistico (con il conseguente dubbio che sussista pure eccesso di potere per perplessità del potere esercitato).
Ma soprattutto reputare, come il giudice amministrativo fa, che l’accertamento tecnico indispensabile al fine di qualificare l’attività del privato muti a seconda del tipo di interesse tutelato si pone in diretto contrasto con l’impostazione generale adottata, che considera illegittimo l’esercizio dissociato dei poteri relativi ad una pluralità di interessi pubblici che fanno capo ad uno stesso ente.
Se l’interesse tutelato è indistinguibile nei suoi profili sanitari e edilizi, perché così –si afferma- vuole il principio di economicità, è giocoforza che si valorizzi al massimo grado il complessivo ruolo del procedimento amministrativo, inteso come sede per instaurare uno stretto rapporto tra attività conoscitiva dell’amministrazione e discrezionalità.
L’impostazione adottata dal Tar Lombardia è diametralmente opposta: non si richiede all’amministrazione di prendere in considerazione tutti i presupposti di fatto e di diritto in grado di influire sulla valutazione del caso concreto, non si richiede lo svolgimento di alcun tipo di istruttoria procedimentale volta a verificare in concreto la pericolosità dell’attività del privato, perché “qualsiasi attività svolta in contrasto con la concessione edilizia rilasciata costituisce … una condotta abusiva che può essere sanzionata dall’amministrazione”.
Più specificamente, secondo il giudice, l’amministrazione non avrebbe fatto altro che “applicare un semplice sillogismo consistente nel rispetto della condizione contenuta nella … concessione”. Secondo tale condizione, le attività produttive abilitate ad insediarsi nella zona urbanistica in questione avrebbero dovuto appartenere alla categoria delle industrie insalubri di seconda classe, ma, poiché l’attività svolta dall’impresa era stata classificata come insalubre di prima classe, ne discendeva l’impossibilità che la ricorrente potesse continuare a svolgere l’attività in quella zona, alla luce dell’art. 33 N.T.A. che vieta l’insediamento delle industrie insalubri di prima classe.
Ma, a parte che manca nel nostro ordinamento un’esplicita previsione normativa che sanzioni la violazione delle prescrizioni contenute nella concessione edilizia, il ragionamento seguito dal giudice di primo grado solleva in realtà un problema di fondo che riguarda ancora più in generale il ruolo da assegnare al principio di legalità nel nostro ordinamento.
È legittimo l’operare di un’amministrazione che, tramite il suo potere urbanistico, vieti in maniera assoluta delle attività industriali che la legge non proibisce in via astratta ma solo in quanto pericolose? È legittimo un piano regolatore che sia collettore di interessi pubblici speciali (come si è detto, non solo urbanistici, ma anche sanitari) e che detti per tali interessi discipline speciali non conformi al loro paradigma normativo? È legittimo che l’amministrazione adotti un sistema di tutela dell’interesse pubblico che si pone in contrasto con il sistema di tutela di tale interesse stabilito dal legislatore?
In questa prospettiva non è tanto e non è solo il singolo provvedimento amministrativo di sospensione immediata dell’attività a porsi in contrasto con il principio di legalità, ma, più in generale, è il potere di pianificazione urbanistica a trasgredire tale principio.
Infatti, l’art. 216, comma 5 del T.U. Leggi sanitarie non introduce un divieto assoluto di insediamento di taluni tipi di industrie, limitandosi a prescrivere che le industrie insalubri di prima classe debbano essere tenute lontane dalle abitazioni, salvo che non sia provato che il loro esercizio non rechi nocumento alla salute del vicinato (“una industria o manifattura la quale sia iscritta nella prima classe, può essere permessa nell’abitato, quante volte l’industriale che la esercita provi che, per l’introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato”).
Quindi, l’impostazione fatta propria dal nostro legislatore e più volte ribadita dalla giurisprudenza è che l’esercizio del potere amministrativo in materia sanitaria richieda sempre un accertamento dell’esistenza di un’effettiva situazione di pericolo o di danno per la salute pubblica, accertamento che tenga conto anche delle eventuali cautele adottabili. Ciò allo scopo di evitare, proprio in virtù di quei principi di ragionevolezza e di proporzionalità invocati in senso contrario dal giudice, un’ottica di soli interventi repressivi, che eliminino radicalmente attività produttive, privilegiando un’attività amministrativa di prevenzione che individui cautele da suggerire all’imprenditore per salvaguardare le esigenze produttive e, al tempo stesso, non provocare danni al vicinato [6].
Invece, l’art. 33 N.T.A. del p.r.g. del Comune, discostandosi visibilmente dal paradigma normativo, vieta in maniera assoluta l’insediamento delle industrie insalubri di prima classe in una determinata zona, introducendo così un modello di tutela dell’interesse pubblico che non trova fondamento legislativo, ma che è frutto di giudizi di valore precostituiti non emergenti da elementi concreti e obiettivi.
Tuttavia, il motivo diretto a censurare la legittimità dell’art. 33 N.T.A. è considerato inammissibile dal giudice amministrativo, sulla base di un’opzione interpretativa anch’essa assai penalizzante in termini di garanzia del singolo. Afferma infatti la decisione che la norma delle N.T.A. costituisce il fondamento in base al quale è stata rilasciata la concessione edilizia, e, dal momento che tale concessione non è stata impugnata, l’impugnazione dell’atto presupposto diviene inammissibile.
Così ragionando, però, si sovvertono alcuni principi cardine del nostro diritto processuale amministrativo. Da un lato, infatti, si richiede al privato di impugnare un provvedimento a lui favorevole, quale è la concessione edilizia, dall’altro, si fa retroagire l’interesse a ricorrere, imponendo al singolo di affrontare l’onere di un giudizio rispetto al quale non nutre un interesse immediato e attuale, ma che diviene tale solo in un momento successivo.
In definitiva, la convinzione che oggi sia in atto un arretramento complessivo sia del principio di legalità inteso come regola principale sull’azione amministrativa sia dei principi processuali a tutela del singolo continua a ricevere conferme.

 

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[1] Trattasi di giurisprudenza costante; cfr., tra le più recenti, Cons.Stato, sez. IV, 27 aprile 2005, n. 1947; Tar Emilia Romagna, Parma, 7 febbraio 2007, n. 39; Tar Sardegna, sez. II, 8 febbraio 2008, n. 129.
[2] Sovvertendo in questa maniera il consolidato orientamento giurisprudenziale inteso a ravvisare sviamento di potere allorché, ad esempio, il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali abbia imposto un vincolo di inedificabilità assoluta, non tanto per finalità di tutela di un bene di valore storico, artistico o archeologico, quanto per finalità ambientali e paesaggistiche, parimenti demandate alla sua tutela (Cons.Stato, sez. VI, 20 febbraio 1998, n. 188; Cons.Stato, sez. VI, 8 luglio 1998, n. 1040).
[3] Cons.Stato, sez. V, 21 aprile 1997, n. 380.
[4] Cons.Stato, sez. VI, 9 maggio 2002, n. 2518.
[5] Tra l’altro, l’avere ritenuto insussistente la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90 per mancata comunicazione di avvio del procedimento suggerirebbe alcune riflessioni relative l’atteggiamento tenuto nei confronti della legge sul procedimento amministrativo dal giudice amministrativo, propenso, da un lato, a valorizzare al massimo grado la portata vincolante dei criteri di efficienza e di economicità, che sono direttive non direttamente cogenti, dall’altro, ad erodere sempre più la portata coercitiva di disposizioni direttamente impositive di obblighi nei confronti dell’amministrazione, dequotando interi ordini di regole legislative. Ma è questo un discorso che ci condurrebbe troppo lontano.
[6] Giurisprudenza costante; cfr., da ultimo, Tar Valle d’Aosta, Aosta, 14 aprile 2003, n. 52; Tar Lazio, Latina, 20 luglio 2005, n. 621.

 

(pubblicato il 9.6.2008)

 




 

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