CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE - Sentenza 9 ottobre 2008 n. 24883
Pres. Carbone – Est.Merone
Ministero Economia e Finanze (Avvocatura dello Stato) /
F.O.D.B. Onlus (Avv.ti Salvo Pettinato e Nicola Canessa) |
Giurisdizione e competenza – Difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali – Art. 37 cod. proc. civ. – Interpretazione
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L’art. 37 c.p.c. – secondo cui il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo – dev’essere interpretato nel senso che, fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti, anche dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 38 c.p.c., ed entro lo stesso termine le parti possono chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 c.p.c. La sentenza di primo grado di merito può essere sempre impugnata per difetto di giurisdizione, mentre le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione solo se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito. In ogni caso, il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione, fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito.
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MARIA ALESSANDRA SANDULLI
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Dopo la “translatio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37 c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a primissima lettura in margine a Cass. SS.UU., 24883 del 2008 e sui suoi possibili riflessi sulla doppia giurisdizione sui contratti pubblici).
Il 9 ottobre 2008 sarà ricordato come un’altra data epocale nella storia del diritto processuale italiano. Portando avanti una linea di pensiero espressa nelle pronunce (le tre decisioni gemelle del 13 e 15 giugno 2006) che hanno affermato l’autonomia dell’azione risarcitoria dalla pregiudiziale di annullamento e ulteriormente sviluppata nella ben nota sentenza del 22 febbraio 2007 sull’ammissibilità della translatio iudicii (che, nell’inerzia del legislatore, opportunamente ipotizzata dalla Consulta nella di poco successiva sentenza n. 77 dello stesso anno, costituisce a tutt’oggi l’unica fonte di disciplina dello strumento), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione propongono una interpretazione “restrittiva e residuale” dell’art. 37 c.p.c., compiendo un nuovo passo verso una sostanziale unità delle giurisdizioni.
L’occasione è stata offerta da un ricorso per difetto di giurisdizione del giudice tributario proposto dalle Amministrazioni soccombenti nel relativo giudizio (tanto in primo che in secondo grado), le quali non avevano in precedenza sollevato alcuna eccezione sotto tale profilo, che non aveva pertanto formato oggetto di esplicita pronuncia.
La sentenza in commento, ampiamente argomentata, affronta quindi (risolvendolo in senso affermativo) il tema della possibilità di formazione di un giudicato implicito sulla giurisdizione, tale per cui, indipendentemente dalla pronuncia espressa sulla giurisdizione da parte del giudice di primo grado, l’omessa contestazione di quest’ultima in sede di appello ne implica il definitivo radicamento innanzi al plesso giurisdizionale originariamente adito.
Senza pretese di approfondimento di una questione di così rilevante portata, mi limiterò a riassumere i passaggi principali del ragionamento svolto dalla Suprema Corte, per trarne alcune primissime “impressioni”. Muovendo dalla premessa che “qualsiasi decisione del merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi” e che “se la questione della giurisdizione non viene sollevata in alcun modo, significa (soltanto: parentesi mia) che non vi è nessuna necessità che il giudice . Ma, il fatto che la decisione non sia , non significa che sia inesistente”, le Sezioni Unite ne deducono che “la tesi secondo la quale soltanto in caso di dubbio espresso possa riconoscersi la forza certificatrice del giudicato appare illogica, perché esclude tale vis proprio quando la questione non presenta alcun margine di incertezza e viene decisa de plano”. La – prevedibile – critica che il giudice di primo grado potrebbe avere erroneamente trascurato di porsi la questione è anticipata e contestata attraverso il richiamo all’onere di “vigilanza delle parti”, i cui eventuali accordi di comodo, puntualizza la Corte, non sono evitabili neppure attraverso il giudicato esplicito. Dopo aver ricordato che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 37 e 276, comma 2, c.p.c. (che, come noto, rispettivamente impongono la verifica d’ufficio della potestas iudicandi e la previa disamina delle questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio rispetto alla decisione sul merito), la pronuncia afferma che “in definitiva, la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano, ma non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno dell’acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dagli artt. 329 , secondo comma, c.p.c. e dall’art. 324 c.p.c.”.
Per salvare la coerenza con lo strumento (per vero sempre meno convincente nell’odierno quadro processuale) delle decisioni in forma semplificata, la Corte precisa tuttavia, in termini sostanzialmente derogatori al principio appena affermato, che l’eccezione può essere sempre proposta, senza preclusioni, in tutti i casi in cui la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, includendovi peraltro, accanto all’ipotesi in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello dell’ammissibilità della domanda, quella – implicante la decisione sul merito della controversia – in cui “dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra motivazione (ad es. manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, superando la progressione stabilita dal legislatore, per ragioni, in questo caso, di economia processuale”. Si ripresenta, pericolosamente, il rischio dell’incertezza sui presupposti processuali che sempre più spesso attenta all’effettività della tutela.
Tornando al principio base enunciato dalla sentenza, le Sezioni Unite invocano, a sostegno e conforto della propria tesi, con il precedente costituito dalla sentenza n. 1540 del 2007, per un verso, il “dovere di lealtà e probità previsto dall’art. 88 c.p.c., il quale impone alle parti di collaborare fin dall’inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa” e, per l’altro, il “generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.”.
In particolare, quest’ultimo principio viene utilizzato per fondare una lettura “in senso restrittivo e residuale” dell’art. 37 c.p.c., tale da escludere che esso possa consentire la proposizione per la prima volta dinanzi alla Corte di cassazione di una questione di giurisdizione che le parti hanno, più o meno consapevolmente, ritenuto di non sollevare per ben due gradi di giudizio. A prima lettura, ferme le perplessità che (ora a maggior ragione) continua a mio avviso a suscitare il limite che la giurisprudenza fa derivare dal giudicato esplicito sulla giurisdizione rispetto al potere del giudice di secondo grado di verificare d’ufficio la propria potestas iudicandi (e, più in generale, l’evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione, testimoniata dall’abrogazione dell’art. 2 c.p.c., in relazione al quale la stessa sentenza in commento invoca il fenomeno del c.d. forum shopping), la chiave di lettura del sistema proposta dalle Sezioni Unite appare il logico sviluppo di detto principio: una volta che si consenta alle parti (che decidano di non impugnare il capo della sentenza che si pronuncia espressamente sulla giurisdizione) di “precludere” al giudice di appello il sindacato sulla propria potestas iudicandi, (derogando così alla regola del giudice naturale e a quella dell’effetto devolutivo dell’appello) i richiamati principi costituzionali appaiono idonei ad estendere tale possibilità anche al caso in cui il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato sulla questione. In proposito, la decisione in commento, dopo aver posto l’accento sul riferimento legislativo ad ogni “stato” (oltre che “grado”) del processo, ne deduce che “la questione, una volta che sia affiorata, non può essere sollevata poi ad libitum, ma deve essere affrontata appena emersa (omissis)…Infatti, non può considerarsi ragionevole il tempo perduto perché un’eccezione non venga tempestivamente sollevata; né la parte che non adempia a tale obbligo/onere può ritenersi penalizzata per le conseguenze che ne derivano, posto che avrebbe potuto porvi rimedio tempestivamente”.
Con un’affermazione di fortissima rilevanza ed efficacia, la Suprema Corte osserva che “l’avvento del principio della ragionevole durata del processo comporta l’obbligo di verificare la razionalità delle norme che non prevedono termini per la formulazione di eccezioni processuali per vizi che non si risolvono in una totale carenza della tutela giurisdizionale, come ad esempio i vizi attinenti al principio del contraddittorio”; e aggiunge, richiamando testualmente la sentenza n. 4636 del 2007, che la propria posizione è nel senso che “la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo imponga all’interprete una nuova sensibilità e un nuovo approccio interpretativo, per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione del detto obiettivo costituzionale”.
Il pensiero delle Sezioni Unite è ulteriormente sviluppato in un successivo passaggio della pronuncia, nel quale si rileva che “l’evoluzione del quadro legislativo, ordinario e costituzionale, mostra l’affievolimento della centralità del principio di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, accompagnata dalla simmetrica emersione dell’esigenza di burocratizzare la giustizia, non più espressione esclusiva del potere statale, ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di riferimento l’efficienza delle soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve adeguarsi alle regole della concorrenza (si parla infatti di concorrenza degli ordinamenti giuridici”. Più avanti, la medesima decisione richiama, in nome della “bontà e celerità del servizio giustizia”, la “perdita di anelasticità ed impermeabilità della giurisdizione”, invocando subito dopo la condanna inflitta dalla sentenza n. 77 del 2007 della Corte costituzionale ai tradizionali principi della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi, incompatibili con un sistema che non può sacrificare “il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al oggetto della contesa”.
Un ulteriore elemento a sostegno della propria tesi è rinvenuto dalla Suprema Corte nel nuovo regime dell’art. 38 c.p.c. (sui limiti all’eccezione di incompetenza), che, secondo la ricostruzione svolta dalla sentenza, il legislatore non avrebbe esteso all’art. 37 (atteso anche il rapporto di continenza esistente tra competenza e giurisdizione) soltanto perché anteriore alla richiamata abrogazione del principio di inderogabilità convenzionale della giurisdizione di cui all’art. 2 c.p.c.. La riduzione degli spazi applicativi dell’art. 37 c.p.c., al di là del contenuto letterale della norma, viene di contro intesa in armonia con l’odierna voluntas legis, frutto dell’evoluzione storica del sistema, in simmetria “con la portata espansiva del nuovo dettato costituzionale, che fornisce ai giudici uno strumento per verificare la tenuta e la portata delle singole norme del codice di rito e per garantirne una interpretazione costituzionalmente orientata”.
A questo punto la sentenza non può esimersi dall’affrontare il tema – affatto delicato – della compatibilità della proposta chiave di lettura con le disposizioni costituzionali sul giudice naturale (che risolve attraverso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale sui limiti all’eccepibilità del difetto di competenza), sull’impugnabilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (che ritiene superabili per le preclusioni interne) e sulla riserva di legge per l’individuazione degli organi legittimati ad annullare gli atti amministrativi (che risolve agevolmente attraverso il richiamo alla preclusione pacificamente ammessa per effetto del giudicato esplicito).
L’affermazione di maggiore interesse è però quella in cui la Corte dichiara la prevalenza del principio del giusto processo e della sua ragionevole durata rispetto alle altre prescrizioni costituzionali (sia pure, naturalmente, “nei limiti in cui gli altri principi di garanzia siano comunque assicurati”), rilevando che “nel bilanciamento tra i valori costituzionali della precostituzione del giudice naturale (artt. 25, 103 Cost.) e della ragionevole durata del processo, si deve tenere conto che una piena ed efficace realizzazione del primo ben può (e deve) ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del giudice adito possa emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio”.
L’accento così insistentemente posto sulla rilevanza e sulla prevalenza di detti principi travalica lo specifico ambito della questione affrontata nella sentenza in commento, per assumere dimensioni di più ampia portata nel quadro generale dei rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Esso appare di particolare significato soprattutto in relazione al dibattito ancora aperto su alcuni delicati profili attinenti al riparto tra i due ordini di giurisdizione: tra questi, in primis la divisione tra i due plessi giurisdizionali della tutela contro l’illegittima aggiudicazione delle commesse pubbliche, in conseguenza della rigida posizione assunta dalle stesse Sezioni Unite (nella nota sentenza n. 27169 del 2007) sulla spettanza al giudice ordinario delle controversie sulla sorte del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione. Il tema è stato ampiamente dibattuto (sul punto, affrontato anche dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 9 del 2008, si rinvia per un costante aggiornamento alle rassegne di F. PIGNATIELLO, nell’Osservatorio di giustizia amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI e M. LIPARI in Foro Amm.-TAR) e non è questa, evidentemente, la sede per riprenderlo: ci si limita pertanto a segnalare che, proprio alla luce dei principi di effettività e celerità della tutela ora invocati dalla Suprema Corte, espressamente ribaditi e rafforzati, per la specifica materia di che trattasi, dalla Direttiva n. 2007/66/CE, una lettura costituzionalmente orientata del sistema (alla stregua del combinato disposto degli artt. 11, 24, 111 e 117, 1 comma, Cost.) dovrebbe indurre ad un coerente ripensamento della questione.
La soluzione pare dovere necessariamente essere quella di riconoscere al Giudice amministrativo la giurisdizione sulle sorti del contratto. A convincere di ciò è proprio il lungo, insistito – e condivisibile – ragionamento delle Sezioni Unite che trae spunto dal principio (costituzionalizzato) del giusto processo, e del corollario che di esso è la ragionevole durata del giudizio. Si immagini, al pratico, l’impugnazione di un’aggiudicazione tramite deduzione di un’articolata serie di censure che – come assai spesso avviene – colpiscano l’aggiudicazione per motivi inerenti sia alla legittimità della partecipazione dell’aggiudicatario alla gara, sia alla distribuzione dei punteggi, sia (in subordine ulteriore) a ipotetiche illegittimità di fondo del procedimento. È chiaro che la difficoltà maggiore – e i tempi maggiori – del processo sia quella di dipanare queste questioni. Mentre la valutazione delle sorti del contratto non è che una conseguenza di quali e quante delle censure predette siano state accolte. Dunque, è realmente irragionevole – e contrario al canone del giusto processo, giustamente visto come correttivo costituzionale di verità processuali un tempo reputate inattaccabili – immaginare che l’attore vittorioso in sede giurisdizionale amministrativa debba imbarcarsi in un nuovo processo scaglionato su tre gradi per cogliere il frutto sostanziale della sua vittoria. Soprattutto, poi, quando tale soluzione si traduca in un diniego della tutela cautelare (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2008 n. 4532), che, anche alla stregua dell’ordinamento comunitario, costituisce essenziale garanzia di effettività della tutela (sul punto mi si consenta il rinvio a M.A. SANDULLI, Diritto europeo e processo amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit. fasc. 1/08 e Fonti e principi della giustizia amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it)
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(pubblicato il 13.10.2008)
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