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n. 12-2008 - © copyright

 

ANTONIO LAMORGESE

Dall’art. 37 CPC alla sentenza delle Sezioni unite n. 24883 del 2008



1) Il progressivo contenimento dell’art. 37 co. 1 c.p.c. nella giurisprudenza.
2)
Evoluzione del quadro concettuale di riferimento.
3) Le Sezioni Unite n. 24883 del 2008.



1) L’evoluzione della giurisprudenza verso il contenimento dell’art. 37 co. 1 c.p.c.

Ai sensi dell’art. 37 co. 1 c.p.c. il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione e dei giudici speciali può essere “rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”. La formulazione della norma sembra favorire una interpretazione nel senso che l’esame della questione di giurisdizione sia sempre possibile, su impulso di parte o per rilievo officioso del giudice presso il quale il processo penda, finché questo non sia terminato con una sentenza che lo chiuda definitivamente. Una tale conclusione è, però, smentita da una lunga elaborazione giurisprudenziale che, nel tempo, ha rimodellato il senso normativo della predetta disposizione, sino a modificarne quello originario. E’ opportuna una sintetica rassegna riepilogativa delle principali tappe che hanno condotto la giurisprudenza in questo lento ma inarrestabile processo di contenimento dell’art. 37 co. 1 c.p.c.[1].

1.1) Nell’ipotesi che la questione di giurisdizione abbia costituito unico oggetto di una pronuncia, non impugnata, emessa dal giudice di merito, ai sensi degli artt. 187, comma 3, e 279, comma 2, c.p.c., è successivamente precluso il riesame della questione di giurisdizione sia da parte del medesimo giudice che abbia prima dichiarato la propria giurisdizione con sentenza non definitiva passata in giudicato [2] sia da parte del giudice del grado superiore attraverso l’impugnazione della sentenza definitiva [3] sia da parte della Cassazione nella sede del (non più proponibile) regolamento preventivo di giurisdizione [4]. Non è necessario affrontare in questa sede il complesso tema dell’eventuale efficacia esterna o extraprocessuale che tale giudicato è idoneo a produrre in giudizi diversi. E’ sufficiente constatare che, nel sopra ricordato orientamento, l’efficacia preclusiva (endoprocessuale) all’ulteriore esame della questione di giurisdizione nelle successive fasi del giudizio è ottenuta utilizzando la tecnica del “giudicato” formatosi sulla medesima questione, in quanto decisa espressamente dal giudice. Questa soluzione rappresenta una prima messa in discussione della teoria di Chiovenda [5] secondo il quale di giudicato potrebbe parlarsi solo in senso sostanziale, cioè con riguardo alle statuizioni che affermino una volontà concreta di legge che riconosca o disconosca un bene della vita, e non a quelle aventi ad oggetto soltanto questioni pregiudiziali di rito.

1.2) Più complesso è il caso in cui la sentenza del giudice di merito abbia giudicato espressamente sia sulla questione di giurisdizione sia sul merito (in tutto o in parte) e venga impugnata soltanto sul merito e non con specifico riguardo alla questione di giurisdizione.
In epoca risalente, si riteneva che non potesse ravvisarsi alcuna preclusione alla proposizione dell’eccezione di parte per la prima volta in Cassazione ed al rilievo d’ufficio della questione in grado di appello, in mancanza di un giudicato in senso formale (posto che la sentenza è comunque impugnata, seppur solo sul merito), e ciò neppure come conseguenza di una impugnazione ipotizzata come parziale, agli effetti dell’art. 329, comma 2, c.p.c.: “perché non trattasi di capi autonomi della sentenza, il processo resta aperto anche sulla questione di competenza [rectius: giurisdizione], ed è consentito quindi il riesame di ufficio della questione stessa, come disposto dall’art. 37” [6]. Evidente era l’influenza delle tesi chiovendiane: finché il rapporto sostanziale non è definito con sentenza passata in giudicato (artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c.), nessuna preclusione potrebbe sorgere all’esame delle questioni pregiudiziali (e di quelle di giurisdizione ex art. 37 c.p.c.) “in qualunque stato e grado del processo”, posto che nessun giudicato formale (sul merito) si sarebbe formato. Il giudice, dal canto suo, sarebbe autorizzato a rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione (in appello e in Cassazione) anche quando, in presenza di una decisione espressa sulla giurisdizione (e contestualmente sul merito), la parte non avesse censurato la sentenza direttamente sul capo relativo alla giurisdizione [7]. Dopo alcune pronunce in tal senso anche negli anni ‘70 [8] − secondo le quali, nel caso in cui il giudice affermi espressamente la giurisdizione e decida nel merito ma la parte impugni solo su quest’ultimo profilo, l’eccezione ovvero il rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione sarebbero possibili per la prima volta in Cassazione, in mancanza di un giudicato formale sul merito (e, di conseguenza, sulla giurisdizione) − la successiva giurisprudenza è mutata.
A partire da Cass. sez. un. 28.4.1976 n. 1506 [9] si è consolidato il principio secondo cui, qualora il giudice decida espressamente sia sulla giurisdizione sia sul merito e la parte impugni solo sul merito, è precluso al giudice di appello e alla Cassazione il rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione e alla parte interessata non è consentito introdurla in sede di legittimità se non l’abbia proposta anche in appello, essendosi formato il giudicato interno sulla questione [10]. Tale giudicato interno, secondo numerose pronunce [11], si forma per effetto di un fenomeno di acquiescenza, ai sensi dell’art. 329 comma 2 c.p.c.; altre volte, pur approdandosi alla medesima conclusione, l’art. 329 comma 2 non è menzionato; secondo una pronuncia, “la statuizione sul presupposto processuale della giurisdizione, configura un distinto capo della sentenza, suscettibile di acquistare autorità di giudicato formale per effetto di mancata impugnazione nei prescritti termini. Pertanto, qualora una sentenza sia stata impugnata solo con riguardo a capi diversi da quello relativo alla giurisdizione, il riesame della questione di giurisdizione resta precluso nei successivi gradi e fasi del processo, non in conseguenza di acquiescenza derivante da impugnazione parziale (la cui operatività, a norma dell'art. 329 cod. proc. civ., è circoscritta ai diritti disponibili e non può estendersi ai presupposti processuali), ma a causa della formazione del giudicato formale sulla giurisdizione stessa” [12].
Il principio secondo cui, in presenza di una decisione espressa sulla giurisdizione del giudice di primo grado che decida anche sul merito, la successiva rilevazione d’ufficio del difetto di giurisdizione è preclusa, vale anche nell’ambito del giudizio per regolamento facoltativo di competenza [13]; nell’ambito dei giudizi amministrativi, la mancata riproposizione in appello della questione di giurisdizione decisa positivamente dal Tar preclude al Consiglio di Stato la rilevazione d’ufficio del difetto di giurisdizione [14]; altra pronuncia [15] è nel senso che la statuizione espressa del Tar sulla giurisdizione non precluda al giudice amministrativo di appello la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, in quanto il rapporto processuale resterebbe pendente sino a che non sia intervenuta una sentenza della Cassazione come giudice della giurisdizione.

1.3) Altra importante tappa nel processo di progressivo contenimento dell’art. 37 c.p.c. verso esiti interpretativi più consoni ai principi di effettività della tutela e di ragionevole durata del processo, è segnata dalla elaborata sentenza delle Sezioni Unite 5.2.1999 n. 34. In quel caso la parte aveva eccepito il difetto di giurisdizione in entrambi i gradi di merito, il giudice di appello (contrariamente al primo giudice) aveva deciso esclusivamente sul merito senza emettere alcuna statuizione sulla questione di giurisdizione pur sollevata e, nel giudizio di cassazione (riguardante solo il merito), nessuna parte (pur potendolo fare) aveva sollevato la questione di giurisdizione: le Sezioni Unite hanno escluso la possibilità di riesaminare d’ufficio la questione di giurisdizione, ritenendo che, qualsiasi soluzione interpretativa si volesse seguire a proposito del valore giuridico da assegnare alla decisione sul merito assunta dal giudice di appello - implicita pronuncia di rigetto dell’eccezione di difetto di giurisdizione con conseguente acquiescenza ex art. 329 co. 2 c.p.c. ovvero omessa pronuncia con conseguente nullità e passaggio in giudicato della sentenza per mancata impugnazione specifica ex art. 161 co. 1 c.p.c. -, l’esame d’ufficio della questione di giurisdizione fosse ormai precluso in Cassazione.
Pertanto, la preclusione al riesame della suddetta questione nell’ambito dei gradi successivi di giudizio consegue non soltanto all’omessa impugnazione della decisione con cui il giudice di merito risolve espressamente la questione di giurisdizione, ma anche all’omessa impugnazione del “capo” sulla giurisdizione − sia esso ritenuto implicito o mancante − della sentenza che pure abbia deciso solo sul merito[16].
Diversa è la situazione qualora né la parte abbia eccepito né il giudice abbia rilevato d’ufficio il difetto di giurisdizione nei gradi di merito. Occorre qui distinguere due diverse situazioni che possono verificarsi.

1.4) Quella in cui almeno un capo di merito della decisione sia passato in giudicato per mancanza di specifica impugnazione, quando questa verta su altri capi di merito: secondo consolidata giurisprudenza, il passaggio in giudicato formale su un capo di merito determina la formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione anche relativamente agli altri capi [17]. Si è sostenuto che, una volta che siano state proposte più domande o più capi di un’unica domanda attinenti al medesimo rapporto, qualora il giudice di merito abbia pronunciato su alcune domande relative "a determinati profili" del rapporto sottoposto al suo esame e tale decisione non sia stata impugnata, "si forma il giudicato implicito sulla giurisdizione dello stesso giudice, che non può essere più contestata riguardo agli ulteriori profili del medesimo rapporto con l'impugnazione che investe gli altri capi della sentenza" [18]. Inoltre, perché si verifichi la preclusione derivante dal giudicato implicito sulla giurisdizione, è necessario che i capi non espressamente impugnati, pur essendo fondati sul medesimo titolo, abbiano tuttavia una loro autonoma rilevanza e non siano in stretta correlazione conseguenziale con i capi che hanno formato oggetto di specifico gravame, giacché, nel caso contrario, non può ipotizzarsi l’esistenza del giudicato sulla giurisdizione [19].
Di tutti i principi enunciati in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione è stata fatta applicazione in una fattispecie particolare, nella quale le plurime domande, sempre relative ad un unico rapporto, erano state proposte, le une, in via principale e, le altre, in via riconvenzionale: è stato affermato che la formazione del giudicato sulla pronuncia di rigetto della domanda riconvenzionale preclude al convenuto, in sede di impugnazione del solo capo della sentenza relativo all’accoglimento della domanda principale, la possibilità di eccepire il difetto di giurisdizione del giudice a quo [20].
In tal senso è la giurisprudenza del Consiglio di Stato con riguardo ai giudizi amministrativi [21].
In conclusione, in tutte le predette situazioni, il difetto di giurisdizione – nonostante la lettera dell’art. 37 co. 1 c.p.c. – non può essere eccepito o rilevato d’ufficio per la prima volta in Cassazione. La ragione è ravvisata nella formazione di un giudicato esplicito (su almeno un capo di merito) che giustifica la formazione di un giudicato implicito sulla questione pregiudiziale.
Parte della dottrina [22], peraltro, ha ritenuto che il giudicato inteso come “cosa giudicata materiale” è autosufficiente, e non v’è bisogno di immaginare un autonomo giudicato implicito, al fine di precludere il riesame della questione di giurisdizione, dal momento che l’autorità del giudicato esplicito (sul merito) copre il dedotto e il deducibile.

1.5) Diversa è la situazione quando nessun capo o nessuna parte della sentenza relativa al merito sia passata in giudicato, perché l’unico o tutti i capi di merito siano investiti da impugnazione: consolidata giurisprudenza riteneva che, sebbene la parte non avesse eccepito ed il giudice non avesse rilevato d’ufficio il difetto di giurisdizione nei gradi di merito, la parte poteva proporre l’eccezione per la prima volta nel giudizio di legittimità, così come la questione di giurisdizione poteva essere rilevata d’ufficio dalla Cassazione [23]. La spiegazione immediata di ciò era offerta dal rilievo che, finché vi sia una controversia pendente sul merito, ciascuna parte può sempre eccepire il difetto di giurisdizione del giudice e, quindi, anche per la prima volta in Cassazione, la quale può (e deve) verificare d’ufficio la ricorrenza di tutte le condizioni (o i presupposti) processuali da cui dipende l’esistenza del potere giurisdizionale di decidere sul merito [24]. Tale conclusione era esclusa solo dall’esistenza di un vero giudicato che si riteneva potesse formarsi soltanto nei casi ed alle condizioni sopra viste; in mancanza, una questione di giurisdizione poteva emergere per la prima volta anche nel giudizio di rinvio [25].
Analogo orientamento vale con riguardo ad altre questioni pregiudiziali: ad es., in tema di legittimazione ad agire, “il giudicato implicito sulla questione pregiudiziale della legittimazione ad agire non può dirsi formato qualora la questione non sia stata discussa nei precedenti gradi del giudizio ed il giudice si sia limitato a decidere nel merito, restando in tal caso la formazione del giudicato sulla pregiudiziale impedita dall'impugnazione del capo della sentenza relativa al merito, dal che consegue che, in tale ipotesi, non è precluso alla Corte di cassazione di procedere, d’ufficio, alla verifica della legittimazione ad agire” [26], “dal che consegue che, in tale ipotesi, non è precluso al giudice del gravame di rilevare d’ufficio il difetto della legittimazione ad agire” [27].

2) Evoluzione del quadro concettuale di riferimento.

E’ necessario interrogarsi più a fondo sulle ragioni che sono al fondo della predetta soluzione al di là della semplice constatazione che la proponibilità dell’eccezione e la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione “in qualunque stato e grado del processo” sono sancite dall’art. 37 c.p.c. e che il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione è espressamente consentito dagli artt. 360 n. 1, 362 co. 1 c.p.c. e 111, co. 8, Cost.
Si è già anticipato che tali ragioni affondano lontane radici nella tesi chiovendiana, come rilevato criticamente dalla dottrina [28], secondo cui il giudicato si formerebbe soltanto sulle sentenze che decidono il merito, le quali riconoscono o disconoscono un bene della vita a una delle parti (art. 2909 c.c.), mentre le questioni pregiudiziali – tranne che non costituiscano oggetto di un processo autonomo (dando luogo ad un accertamento incidentale ex art. 34 c.p.c.) – sarebbero oggetto di mera cognitio e non di vero judicium, cioè non sarebbero (e non potrebbero essere) oggetto di una autonoma controversia o di decisione su una vera e propria domanda, sicché la loro soluzione avrebbe natura meramente logica[29], con la conseguenza che soltanto il passaggio in giudicato della decisione sul merito ex art. 324 c.p.c. determinerebbe il consolidamento degli effetti della presupposta decisione sulla giurisdizione.
La dottrina moderna ha in parte superato questa impostazione, evidenziando che “l’accertamento che l’art. 2909 rende vincolante comprende anche quello che decide questioni attinenti al processo (art. 279, 2° co. nn. 2 e 4, c.p.c.), anch’esso costituisce un risultato vantaggioso conseguito dalla parte, un’utilità sia pure strumentale sul cammino della decisione della lite, superando una tappa verso la definizione del processo (oppure chiudendo un processo male impostato); anch’esso è un effetto che deve divenire stabile, in modo che non possa riproporsi controversia su ciò che fu deciso”[30]. Per altro verso, la giurisprudenza (nei casi di decisione espressa sulla sola giurisdizione o anche sul merito) ha dimostrato il superamento della tesi chiovendiana, se è vero che l’efficacia preclusiva o vincolante della decisione sulla giurisdizione, (quantomeno) nell’ulteriore corso del processo, non è sempre conseguenza di un giudicato sostanziale sul merito. Risulta corretta, allora, la tesi secondo cui “la pronuncia sulla giurisdizione costituisce, in ogni caso, capo di sentenza, perché si tratta di statuizione autonoma ed imperativa sull’oggetto del processo, suscettibile di passare in giudicato. Infatti, una sentenza, con la quale il giudice accerta la propria giurisdizione e giudica nel merito, è composta di due capi, uno che dichiara l’ammissibilità del giudizio di merito e l’altro che contiene quel giudizio medesimo” [31]. Autorevole dottrina, dopo aver ricordato criticamente “l’opinione tradizionale [che] muoveva dal presupposto che solo la decisione di questioni configurabili già ab inizio come ‘cause’ o ‘controversie’ (come tali idonee a costituire oggetto di un giudizio di merito) potesse definirsi ‘parte’ o ‘capo’ di sentenza”, ha chiarito che “a) perché la decisione di una questione pregiudiziale possa considerarsi ‘capo’ di sentenza non occorre che la questione sia idonea a costituire un giudizio autonomo; b) il giudicato può formarsi sulla decisione di ogni questione (sia o non sia idonea a costituire oggetto di un giudizio autonomo) che presenti […] il carattere di pregiudizialità consistente nella sua potenziale idoneità a definire il giudizio” [32] e a costituire oggetto di una delle pronunce contemplate nell’art. 279, n. 2 e 4, c.p.c. [33].
Ne consegue che la preclusione alla proposizione (o alla rilevazione d’ufficio) della questione di giurisdizione per la prima volta in Cassazione trova agevole spiegazione nel rilievo che la parte interessata non ha esercitato i mezzi di gravame previsti di volta in volta dall’ordinamento (appello o ricorso per cassazione ex artt. 360 n. 1 e 362 co. 1 c.p.c.) avverso la decisione relativa alla medesima questione (a prescindere dal passaggio in giudicato del capo relativo propriamente al merito). Ciò è possibile a condizione di ritenere esistente nella sentenza un “capo” o una “parte” concernente la (decisione sulla) giurisdizione. La giurisprudenza − è importante considerare − lo ha ammesso non solo nei casi di decisione espressa sulla sola giurisdizione o sulla giurisdizione e sul merito, ma anche nel caso di decisione solo sul merito quando sia possibile presupporre che questa contenga in sé un implicito rigetto dell’eccezione di parte. In tale ultimo caso, alla Cassazione è precluso il rilievo d’ufficio della questione (v. Cass. n. 34/1999) perché la parte avrebbe dovuto proporre nel ricorso per cassazione il motivo specifico attinente alla giurisdizione: in mancanza, quel “capo” di decisione diventa definitivo. Tale conclusione è in linea con la dottrina [34] secondo la quale “è certo che, sempre ed in ogni caso, decidere il merito significa disattendere - implicitamente o esplicitamente - ogni eccezione processuale espressamente proposta. Né sorgono problemi in ordine al rimedio possibile, apparendo l’impugnazione della sentenza l’unica soluzione”; “si potrà parlare dell’impugnazione del ‘capo’ sul merito a motivo della sua inammissibilità, ovvero di una impugnazione dell’implicito rigetto dell’eccezione impediente concepito come ‘capo’ autonomo, destinata a ripercuotersi sul capo relativo al merito per derivationem. Ma la conclusione non cambia in ordine alla necessità del gravame come unico rimedio possibile”.
Alla decisione sulla giurisdizione, espressa o implicita/omessa, non impugnata, da tempo si riconosce l’idoneità a produrre effetti vincolanti all’interno (cioè, in senso lato, nell’ambito o in fasi successive) del processo, precludendo il successivo esame o riesame della questione. Quando, invece, almeno un capo di merito della decisione sia passato in giudicato per mancanza di specifica impugnazione, l’effetto preclusivo alla proponibilità dell’eccezione per la prima volta in Cassazione si giustifica per essersi formato, in mancanza di gravame, un vero e proprio giudicato sostanziale esplicito (quantomeno) su un capo di merito, con la peculiare conseguenza che mentre, prima della formazione di tale giudicato, nessuna forma di preclusione è realizzabile nemmeno interna al processo (il che consente, infatti, di introdurre la questione di giurisdizione per la prima volta in Cassazione), la preclusione che si forma dopo (con il passaggio in giudicato del o di parte del merito) è quella massima, essendo idonea a vincolare anche i giudici di un diverso processo nel quale l’identica domanda venga proposta, in quanto dotata di un’efficacia extraprocessuale parificabile a quella riconosciuta alle sentenze delle Sezioni Unite della Suprema Corte [35].
Va però tenuto presente che il problema cui si deve rispondere non riguarda l’ambito dell’efficacia extraprocessuale delle decisioni sulla giurisdizione, ma esclusivamente l’esistenza di una preclusione a far valere la questione all’interno del processo (e precisamente per la prima volta in Cassazione), pur in mancanza di (ed a prescindere da un) qualsiasi giudicato su un capo di merito. A questo riguardo, si deve anche considerare che, come rilevato dalla dottrina [36], il giudicato interno ha una portata più ampia del giudicato esterno: infatti, oggetto del primo (e della relativa preclusione endoprocessuale) possono essere non solo statuizioni relative a diritti (aventi tradizionalmente attitudine ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale ex art. 2909 c.c.), ma anche statuizioni relative a mere questioni di rito che pure, normalmente, sono prive di efficacia nei successivi processi in cui sia riproposta la medesima questione. Il problema, quindi, è di verificare se quantomeno un tale effetto preclusivo endoprocessuale (sotto forma, in ipotesi, di giudicato interno o implicito o di preclusione atipica) possa riconoscersi nella sentenza del giudice di appello che abbia deciso la causa solo sul merito, senza che nessun soggetto processuale abbia mai sollevato la questione di giurisdizione (su questo aspetto si tornerà più avanti).
La giurisprudenza e la dottrina, le quali (come detto) danno risposta negativa, probabilmente ritengono tale situazione non assimilabile ad altra (quella ricordata sub 1.3) con la quale pure presenta qualche affinità: in entrambe, nella sentenza del giudice di appello (che è oggetto di ricorso) manca una decisione espressa sulla giurisdizione e, allo stesso tempo, nessun capo di merito è passato in giudicato ex art. 324 (e 329 co. 2) c.p.c., sebbene (e qui sta la diversità tra le due situazioni) nell’una sia in discussione la proponibilità dell’eccezione di parte, mentre nell’altra la rilevabilità d’ufficio della questione di giurisdizione in Cassazione. La ragione della ritenuta non assimilabilità delle due situazioni si può intravedere nella circostanza che, solo nel caso sub 1.3), la questione di giurisdizione ha costituito oggetto di una eccezione di parte che (al pari del rilievo d’ufficio) farebbe sorgere una questione pregiudiziale che il giudice è tenuto a decidere (v., ad es., gli artt. 112, 187 co. 3, 277 co. 1 c.p.c.) perché entrata a far parte dell’oggetto del processo, con possibilità di trasferimento dello stesso oggetto nei gradi successivi di giudizio con gli strumenti di gravame previsti dall’ordinamento e conseguente possibilità di un giudicato. E’ a tale situazione che si riferisce la dottrina [37] quando ravvisa un “capo” autonomo di sentenza nella decisione con cui il giudice si dichiari (seppure implicitamente [38]) competente o fornito di giurisdizione, ecc., così rendendo ammissibile il giudizio di merito. In altri termini, quando manchi (come appunto nel caso sub 1.5) la possibilità di ravvisare un giudicato esplicito sul merito (dal quale desumerne uno interno o implicito sulla questione pregiudiziale), nessuna preclusione si riteneva che potesse sussistere alla proponibilità dell’eccezione (o alla rilevabilità d’ufficio) del difetto di giurisdizione per la prima volta in Cassazione [39].
Si è visto che l’interpretazione dell’art. 37 co. 1 (e, quindi, dei predetti artt. 360 n. 1 e 362 co. 1 c.p.c., quanto all’ambito di operatività del ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione) è andata modellandosi, nel diritto vivente, nel senso di ridurre sempre più la possibilità dell’emersione tardiva delle questioni di giurisdizione, secondo un indirizzo di graduale e costante condizionamento o contenimento della predetta disposizione [40]. Peraltro, una ulteriore interpretazione evolutiva in tal senso, sotto l’impulso del principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), doveva fare i conti con la lettera dell’art. 37 co. 1 c.p.c. e con la necessità di lasciare uno spazio operativo, sia pure residuale, alla possibilità di proporre e rilevare la questione di giurisdizione in ogni stato e grado. In mancanza, si sarebbe raggiunto, di fatto, un risultato - non consentito - di sostanziale abrogazione della norma (alla tesi, sostenuta in dottrina [41], dell’avvenuta abrogazione implicita della suddetta disposizione per incompatibilità con il sistema ex art. 15 delle preleggi, si poteva obiettare che il legislatore, pur essendo più volte intervenuto a modificare il capo I del titolo I del libro I del codice, non era mai intervenuto sull’art. 37 co. 1).
Si è già detto che da tempo, nel nostro ordinamento, si è acquisita la consapevolezza che anche le pronunce di rito partecipano a pieno titolo al fenomeno generale dell’accertamento giudiziale (che attiene, in modo del tutto unitario e omogeneo, così al diritto sostanziale che a quello processuale, creando certezza rispetto agli effetti giuridici rispettivamente previsti in capo alle parti ed al giudice, dunque fuori del processo come, innanzitutto, al suo interno) [42]; che l’accertamento giurisdizionale può avere oggetti diversi ed anche mere questioni o di rito o di merito, perché differenti sono le volontà di legge che il giudice può dichiarare con la sentenza [43]; che anche la decisione su questioni processuali è idonea ad attribuire alla parte un concreto bene della vita [44], e ciò vale soprattutto per le questioni di giurisdizione, anche perché la tutela sostanziale cui la parte può concretamente aspirare è diversa a seconda di quale sia il giudice (ordinario o speciale) individuato come competente. Indicativa in tal senso è anche l’interpretazione del limite previsto dall’art. 41 co. 1 c.p.c. (“finché la causa non sia decisa nel merito”) alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, che (a partire da Cass. sez. un. 22.3.1996 n. 2466) viene riferito anche alle decisioni sulla sola giurisdizione (pur non passate in giudicato formale).
L’intuizione di quella autorevole dottrina, secondo la quale “la risoluzione delle questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza non si nasconde tra le pieghe del provvedimento, ma ha una sua propria autonomia, la quale, quante volte […] di risoluzioni di merito si tratti, assume la dignità di parte o capo della sentenza, cui non può, in linea di massima, non applicarsi l’art. 329, 2° comma, cod. proc. civile” [45], assume così un valore di notevole rilievo al fine di orientare l’interpretazione del 1° comma dell’art. 37, ciò anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo che impone che la questione di giurisdizione sia decisa in limine litis o, quantomeno, in tempi ragionevoli, in ogni caso evitando l’emersione della stessa dopo l’avvenuta decisione della causa nel merito e la conseguente regressione del processo.
L’opinione [46], secondo la quale dovrebbe escludersi l’autonoma rilevanza della decisione sulle questioni pregiudiziali in caso di decisione sul merito (nella quale le prime, oggetto di mera cognizione incidentale, rimarrebbero assorbite), invero, sembra contraddetta dalla giurisprudenza che riconosce tale autonomia non solo alla decisione espressa sulla giurisdizione insieme al merito, ma anche alla decisione (sulla giurisdizione) implicita/omessa: infatti, in entrambe il giudicato sulla questione di giurisdizione è destinato a formarsi in conseguenza della mancata impugnazione del relativo “capo” della sentenza (sia esso esplicito od implicito).
La dottrina, da un lato, ammette, come del resto è pacifico, che “la sentenza che decide direttamente sul merito della causa implica affermazione della giurisdizione, poiché in difetto il giudice non avrebbe potuto decidere il merito della causa: la giurisdizione è conditio sine qua non della decisione sul merito” [47]; dall’altro, obietta che “la preclusione della conoscibilità del presupposto processuale non avviene in ragione del passaggio in giudicato della decisione implicita, quanto in virtù del passaggio in giudicato della pronuncia sulla situazione sostanziale, che assorbe tutti i problemi relativi alla regolare instaurazione del rapporto processuale” [48]. Si può, però, replicare che tale effetto preclusivo può avere luogo proprio perché la parte non propone impugnazione contro il “capo” implicito della decisione sulla giurisdizione.
Si deve quindi ammettere che se la massima efficacia prevista dall’ordinamento è riconosciuta alle sentenze che decidano implicitamente sulla giurisdizione – come pacificamente sono considerate quelle che decidano sul merito – ad esse deve riconoscersi anche la minore efficacia endoprocessuale di precludere l’esame della medesima questione nel successivo corso del processo in mancanza di specifica impugnazione: la mancata impugnazione in appello della decisione sulla giurisdizione, pur se implicita, dovrebbe precludere la proponibilità dell’eccezione per la prima volta in Cassazione.
A questa conclusione può opporsi che, nel caso sub 1.5), una decisione implicita sulla giurisdizione non potrebbe agevolmente desumersi dalla decisione sul merito, posto che la relativa questione non è stata mai introdotta nel processo come oggetto della materia del contendere: ciò distinguerebbe, in radice, questo caso dagli altri esaminati e sarebbe di ostacolo alla conclusione indicata. Peraltro, si può replicare che per il giudice l’indicazione (ex art. 183 co. 4 c.p.c.) delle questioni rilevabili d’ufficio costituisce oggetto di un vero e proprio dovere [49] e che in capo alla parte interessata a contestare la spettanza del potere del giudice di jus dicere (cioè di somministrare quella particolare tutela richiesta dalla controparte) dovrebbe ravvisarsi un onere di formulare specifica eccezione, essendo essa tenuta a collaborare concretamente ai fini dell’attuazione del principio di economia processuale. La giurisprudenza ha affermato che “Il principio costituzionale di ragionevole durata del processo […] si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi” [50].
Pertanto, si può seriamente sostenere che la questione di giurisdizione è tema che appartiene naturalmente all’oggetto del contendere, sicché nella sentenza che decide solo sul merito deve ravvisarsi sempre una affermazione implicita di sussistenza della giurisdizione in capo al giudice, pur in mancanza di una specifica eccezione di parte.
Ad analoga conclusione dovrebbe pervenirsi se si considera che, nonostante le affermazioni di principio della giurisprudenza, la preclusione all’esame della questione non si verifica necessariamente in conseguenza di un giudicato in senso proprio. Numerose, infatti, sono le pronunce che desumono l’esistenza di un ulteriore limite per la proposizione e rilevazione delle questioni di giurisdizione (o di altre pregiudiziali) dal principio di consumazione del potere giurisdizionale (potestas decidendi) in capo al giudice, al quale non è consentito (ad es. nella sentenza definitiva) modificare la precedente decisione assunta con sentenza non definitiva, seppur non passata in giudicato, in cui ha affermato la propria giurisdizione (o deciso altre questioni pregiudiziali) [51]. Una dottrina ha osservato che, ai fini di tale preclusione, non è necessario invocare il carattere di immutabilità che assiste il giudicato formale, ma è sufficiente il richiamo alla teoria della consumazione del potere del giudice di jus dicere in quanto già esercitato con riferimento alla medesima domanda [52].
Secondo altra dottrina [53] la teoria del giudicato implicito è, comunque, sufficientemente flessibile e può includere sia situazioni riconducibili tradizionalmente al cosiddetto “dedotto e deducibile” (come effetto di un giudicato esplicito) sia statuizioni ritenute ugualmente derivanti dalla sentenza medesima, in quanto risolvano, pur implicitamente, questioni processuali e/o di merito considerate come antecedente logico necessario ed imprescindibile di quelle espressamente decise, cui si intendono legate da un nesso di dipendenza indissolubile. Tale opinione sembra, in effetti, confermata dalla giurisprudenza che richiama il giudicato implicito per giustificare la non riesaminabilità delle questioni pregiudiziali pure nelle situazioni in cui manchi un giudicato esplicito (v. sub 1.3).
In dottrina [54] si è anche osservato, in generale, che il fenomeno della preclusione al compimento di attività processuali è provocato dal “compimento di un atto incompatibile con quello che ne forma oggetto”: si può ritenere che la trattazione (e la decisione) della causa nel merito in due gradi di giudizio costituisca situazione incompatibile con la proposizione dell’eccezione di giurisdizione per la prima volta in Cassazione. E’ vero che il medesimo Autore richiama ipotesi di preclusioni previste dalla legge, ma ciò non dovrebbe costituire ostacolo alla possibilità di creare nuove preclusioni idonee ad essere riconosciute come tali dal diritto vivente.
Sia che nell’inosservanza del potere-dovere del giudice di provvedere sulla questione di giurisdizione si ravvisi una ipotesi di pronuncia implicita di riconoscimento della sussistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice, sia che si ravvisi un’ipotesi di omessa pronuncia e si segua la dottrina [55] che ipotizza, in tal caso, un vizio di nullità della sentenza, la conseguenza (cui sostanzialmente aderisce Cass. n. 34/1999 cit.) è che “l’insanabilità del vizio cede il passo alla irrevocabilità della parte della pronuncia che il soccombente ha omesso di impugnare” [56].
Qualora si propenda per la tesi della nullità si deve fare riferimento alla teoria generale delle nullità degli atti processuali e, in particolare, a quella dottrina [57] la quale ne riferisce il significato ai poteri del giudice e ne fa oggetto di decisione come “questione pregiudiziale attinente al processo”, secondo la formula dell’art. 279 n. 2 e 4 c.p.c., da intendersi come “ostacolo all’esercizio del potere del giudice di decidere nel merito”.
Secondo la medesima dottrina, “altro è rilevare d’ufficio la nullità ed altro estendere la propria cognizione ad una questione di nullità decisa dal giudice di primo grado e non riproposta dalle parti in sede di impugnazione. In tale ipotesi, il giudice dell’impugnazione incontra necessariamente il limite della irrevocabilità della precedente pronuncia”; “necessariamente, quindi, occorre distinguere tra nullità che hanno formato oggetto di esame e di decisione da parte del giudice (come questioni pregiudiziali attinenti al processo) e nullità non rilevate. Nel primo caso, sia che la questione abbia costituito oggetto di sentenza parziale, sia che la decisione relativa costituisca ‘parte’ della sentenza definitiva, la mancata impugnazione preclude l’esame della nullità da parte del giudice superiore: diversamente si avrebbe, non un rilievo d’ufficio della nullità, bensì un riesame d’ufficio della sentenza (o della parte di sentenza) non impugnata”: ne consegue che al giudice è consentito sì il rilievo delle nullità verificatesi nel processo, “ma non il riesame, in iudicando, delle questioni decise dal primo giudice, in difetto di impugnazione delle parti” [58]. Sulla stessa linea, più di recente, altra dottrina ha dimostrato che: “a) le nullità [anche insanabili] previste dall’art. 158 c.p.c. sono rilevabili d’ufficio solo all’interno del grado in cui si sono verificate e che, una volta pronunciata la sentenza, sono lasciate alla piena disponibilità di soggetti doversi dal giudice; b) che pertanto il giudice dell’impugnazione può rilevare e pronunciare le nullità in discorso solo se dedotte specificamente come motivo di impugnazione; c) che tali nullità restano definitivamente sanate se non dedotte come specifico motivo d’impugnazione; d) che il principio della conversione delle ragioni di nullità in motivi di impugnazione, enunciato dall’art. 161, comma 1, c.p.c., incide sia sul regime di sanabilità, prima ed a prescindere dal passaggio in giudicato della sentenza, ovvero nel momento in cui la parte non ha fatto valere la ragione di nullità con il motivo di impugnazione; sia sul regime del rilievo (e quindi sui poteri del giudice), perché a seguito della emanazione della sentenza sottrae all’ufficio la disponibilità delle nullità verificatesi nel grado inferiore del giudizio” [59]; ancor più chiaramente, “a) le questioni, o comunque i presupposti di fatto e di diritto delle domande e/o delle eccezioni, oggetto di decisione, eventualmente anche implicita – a sfavore della parte soccombente come a sfavore della parte vittoriosa nel merito – rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 329, comma 2°, c.p.c. e possono essere riesaminate solo previa proposizione di specifico motivo di impugnazione – incidentale per la parte vittoriosa nel merito – diretto avverso le corrispondenti parti di sentenza ex artt. 342 e 343 c.p.c.; b) le questioni, o comunque i presupposti di fatto e di diritto delle domande e/o delle eccezioni, illegittimamente pretermessi nella sentenza che chiude il grado inferiore, possono essere esaminate nelle successive fasi solo previa proposizione di specifico motivo di nullità della sentenza per omessa pronuncia su questione, ex artt. 112 e 161, comma 1°, c.p.c.” [60].
Queste affermazioni, riferite a tutte le nullità della sentenza, sia originarie o derivate, formali o extraformali [61], sono in linea sia con il principio generale secondo cui il potere-dovere del giudice di conoscere d’ufficio di determinate questioni “non determina la completa elisione del principio dispositivo, ma si coordina con esso e, in particolare, con la sua tipica manifestazione, costituita dalla disciplina dell’acquiescenza e della formazione del giudicato, di guisa che il suddetto potere viene meno quante volte sulla questione sia intervenuta una pronuncia, ancorché soltanto implicita, della quale la parte soccombente non si sia in alcun modo doluta” [62], sia con l’attuale configurazione del giudizio di appello come “impugnazione fondata sulla denunzia di specifici ‘vizi’ di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata” [63], nel quale l’ambito della cognizione è rigidamente delimitato dai motivi fatti valere con l’atto introduttivo [64]. La teoria tradizionale del cosiddetto effetto devolutivo dell’appello risulta non più consona con l’attuale assetto normativo [65], atteso che sia il giudizio di appello sia quello di cassazione “hanno ad oggetto immediato e diretto la sentenza impugnata ed in particolare le singole parti investite dei motivi di censura” [66].
Ci si deve ora chiedere se quanto sin qui detto a proposito dei limiti alla rilevabilità delle nullità processuali (pur insanabili), possa essere riferito anche a quella particolare ipotesi di nullità che, come appunto il difetto di giurisdizione (e, in passato, l’incompetenza ex art. 38), può essere rilevata “in qualunque stato e grado del processo”, sempre che sia corretto l’inquadramento di tale vizio della sentenza nella categoria della nullità.
La dottrina tradizionale [67] che ammette l’effetto devolutivo dell’appello, non condivide né i predetti limiti posti alla rilevazione delle nullità né, di conseguenza, la contraria opinione che invece valorizza l’autonomia del capo di sentenza affetto, in ipotesi, da nullità (tale capo, in mancanza di specifico gravame, non potrebbe cadere né a seguito di rilevazione d’ufficio da parte del giudice di appello né − per quanto qui interessa − ipotizzando un inammissibile ricorso in cassazione per saltum, atteso che, come detto, l’insanabilità del vizio dovrebbe cedere il passo all’irrevocabilità del capo non impugnato). In ogni caso, sia che nell’omessa decisione della questione di giurisdizione da parte del giudice che decida solo sul merito si voglia ipotizzare una omissione di pronuncia, sia che si voglia ravvisare un implicito riconoscimento della sussistenza della propria giurisdizione [68], per la giurisprudenza (cfr. la citata Cass. sez. un. n. 34/1999) la conseguenza non cambia, essendovi a carico della parte l’onere di proporre specifico gravame avverso la decisione o, comunque, di riproporre la questione nei gradi successivi al primo. La soluzione non cambia a seguito della precisazione che una eventuale nullità della sentenza non conseguirebbe direttamente all’omessa pronuncia sulla questione pregiudiziale – atteso che il vizio di omessa pronuncia attiene solo al mancato esame delle domande ed eccezioni di merito [69] – ma alla violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., cioè all’errore di giudizio nella soluzione implicitamente data alla questione di giurisdizione. Interessa qui (ed è sufficiente) rilevare che il trattamento di un tal genere di nullità – pur causato dalla mancanza di un presupposto processuale eccepibile e rilevabile “in qualunque stato e grado del processo” – risulta analogo a quello riservato alle altre nullità processuali (pur insanabili e rilevabili d’ufficio ex artt. 158 e 161, co. 1, c.p.c. ) delle quali, come s’è visto, la dottrina con convincenti argomenti ha dimostrato la relatività.
Si può obiettare che queste conclusioni potrebbero valere nei casi (sub 1.1, 1.2, 1.3, 1.4) già risolti dalla giurisprudenza nel senso del condizionamento o contenimento del citato art. 37 co. 1, non già nel caso sub 1.5. Peraltro, se di nullità o di errore di giudizio si tratta, per ragioni di coerenza sistematica, il trattamento processuale dovrebbe essere lo stesso, cioè quelle conclusioni dovrebbero valere anche nel caso in cui la questione di giurisdizione non sia mai stata sollevata nei gradi di merito.
Come ostacolo alla possibilità di ravvisare una decisione implicita affermativa della giurisdizione nella sentenza che decida sul merito, si adduce la circostanza che (solo nel caso sub 1.5) la relativa questione non è stata mai introdotta nel processo come oggetto della materia del contendere: ciò distinguerebbe questo caso dagli altri esaminati e sarebbe sufficiente ad escludere la possibilità di onerare la parte dell’impugnazione della sentenza sul “capo” concernente la decisione implicita sulla giurisdizione. La premessa in discorso si spiega considerando che il nostro ordinamento è ispirato alla tesi chiovendiana secondo cui gli antecedenti logici della decisione finale (c.d. punti pregiudiziali) sono suscettibili di diventare questioni pregiudiziali solo se controversi e ciò presuppone che siano stati (dalle parti o dal giudice) formalmente introdotti nel processo come tema della discussione, in mancanza potrebbero essere oggetto, al più, di mera cognizione incidentale priva di una decisorietà con rilevanza esterna. Un diverso approccio al tema potrebbe essere oggi favorito dalla acquisita consapevolezza che – come s’è detto – l’accertamento giurisdizionale può avere ad oggetto non solo questioni di merito ma anche mere questioni di rito e che la sussistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice (nonché la ricorrenza degli altri presupposti processuali) è tema che appartiene naturalmente all’oggetto dell’accertamento giurisdizionale. La rilevazione delle questioni pregiudiziali da parte del giudice come oggetto di un dovere e la proposizione della relativa eccezione da parte degli altri soggetti processuali come oggetto di un onere consentirebbero di giustificare la conclusione secondo cui nella sentenza che decide (solo) nel merito dovrebbe ravvisarsi sempre una affermazione implicita di sussistenza della giurisdizione e degli altri presupposti processuali. A favore di tale conclusione potrebbe essere sufficiente considerare che nella giurisprudenza esaminata nei casi sub 1.4 è pacifico che la sentenza sul merito contiene inequivocabilmente, seppur implicitamente, l’affermazione della sussistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice [70].
Sussistono anche numerosi riscontri normativi ed ermeneutici che favoriscono tale conclusione.
Innanzitutto, la stessa dottrina che pure non condivide che una decisione sulla giurisdizione possa essere implicita in quella di merito, riconosce che è “espressione di un conforme principio immanente alla legge processuale” [71] l’esistenza di un preciso ordine rito/merito, nel senso che la trattazione e, a maggior ragione, la decisione nel merito presuppone il previo doveroso accertamento della sussistenza dei relativi presupposti processuali [72]. Diverse disposizioni del codice stabiliscono un ordine nella trattazione delle questioni e chiaramente antepongono al merito quelle pregiudiziali: a norma dell’art. 276 co. 2 c.p.c. il giudice “decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa”; a norma degli artt. 279, co. 2, n. 1 e 2, e 187, co. 2 e 3, c.p.c., il giudice è tenuto a decidere immediatamente con sentenza sulle questioni pregiudiziali (giurisdizione, competenza, altre attinenti al processo) quando siano idonee a definire il giudizio, altrimenti può disporre che siano decise unitamente al merito, ma in tale possibilità non sembra che possa ravvisarsi una negazione del riferito ordine rito/merito, dal momento che il giudice potrebbe (o dovrebbe) avvalersi di tale possibilità solo se e quando abbia già formulato un giudizio, seppur implicito, di infondatezza/insussistenza della questione stessa (indicazioni in tal senso vengono anche dalla prassi). Una interpretazione delle predette disposizioni del codice di rito nel senso di consentire al giudice di dare ingresso alla trattazione (e, a maggior ragione, alla decisione) della causa nel merito, senza avere prima deciso le questioni logicamente pregiudiziali attinenti al processo, invertendo così l’ordine e la logica del processo, è stata fortemente criticata da autorevole dottrina [73] che ha ravvisato in tale potere del giudice istruttore il portato di una concezione autoritaria e poliziesca del processo, in netto contrasto con i valori costituzionali.
Se un ordine rito/merito è, quindi, ravvisabile nell’esame delle questioni, sono poste le premesse per individuare in ogni processo “due distinti e non confondibili oggetti di giudizio, l’uno (processuale) concernente la sussistenza del dovere del giudice di decidere il merito della causa, l’altro (sostanziale) relativo alla fondatezza della domanda proposta” [74].
Questo orientamento è stato anticipato da quella dottrina [75] che ha elaborato la nota teoria del cosiddetto doppio oggetto processuale: l’uno, riguardante la cosiddetta ammissibilità della domanda, che impone al giudice di verificare l’esistenza o meno del suo potere-dovere di provvedere alla trattazione e decisione del merito, valutando preliminarmente le eventuali questioni processuali impedienti; l’altro, riguardante la fondatezza della domanda nel merito, che rappresenta il fine ultimo del processo ed al quale il primo è strumentalmente connesso. Si conferma quanto già detto a proposito dell’esistenza di un vero e proprio dovere del giudice di valutare l’ammissibilità dell’esercizio della funzione giurisdizionale di merito, anche sotto il profilo della sussistenza dei presupposti processuali che ne condizionano il valido esercizio. Ne risulta consequenziale l’affermazione secondo cui “nessuna ragione dogmatica impedisce di ritenere che un tale accertamento riassuntivo di rito sia implicitamente contenuto nella sentenza che decida, definendolo, il merito della causa e che così, proprio per il fatto di esercitare ed esaurire il potere decisorio ‘qualificato’, deve implicare una previa decisione affermativa relativamente all’ammissibilità di questo comportamento dell’organo giurisdizionale” [76].

3) Le Sezioni Unite n. 24883 del 2008.

La sentenza n. 24883/2008 raccoglie il frutto dell’evoluzione interpretativa dell’art. 37 c.p.c. e del quadro concettuale di riferimento, alla luce del principio costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Le S.U. osservano che anche quando "i giudici di merito non hanno dedicato un capo della sentenza alla questione della giurisdizione", cioè quando non sia stata sollevata una autonoma questione pregiudiziale oggetto di specifico contraddittorio tra le parti, "non per questo si può ritenere che la questione non sia stata affrontata e decisa": infatti "qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi" che, "in assenza di formale eccezione o questione sollevata di ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente) e acquista ‘visibilità’ soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice adito venga negata", ma "il fatto che la decisione non sia “visibile” non significa che sia inesistente. Il giudice che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere".
Esiste, infatti, un preciso obbligo di legge del giudice (desumibile dall’art. 276, comma 2, c.p.c., richiamato per i giudizi di appello e di cassazione dagli artt. 131 e 141 disp. att. c.p.c.) di decidere prima le questioni pregiudiziali (logiche o tecniche) e poi il merito. Il principio di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., porta con sé anche il dovere di tutti i soggetti del rapporto processuale (e, quindi, anche delle parti) di collaborare responsabilmente per contenere i tempi del processo, controllando il corretto esercizio della potestas iudicandi sin dalle prime battute processuali (in tal senso il riferimento alla rilevabilità della questione in ogni "stato" va inteso nel senso che "deve essere subito affrontata, quale che sia appunto lo stato del processo"). Ne consegue che, di regola, il silenzio del giudice sulla giurisdizione "equivale ad una pronuncia positiva, così come il silenzio delle parti vale acquiescenza (art. 329 c.p.c.)": "con la pronuncia di merito, se l’eccezione non viene nemmeno sollevata con i motivi di impugnazione, la stessa non può più essere sollevata". Infatti, "colui che si limita a chiedere la riforma della decisione di merito non rimette affatto in discussione anche la giurisdizione ma, al contrario, con il suo comportamento la riconosce, aderendo e/o prestando acquiescenza alla pronuncia implicita su di essa"; per altro verso, "l’accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo che è pienamente capace di passare in giudicato anche nel caso in cui il giudice si sia pronunciato solo implicitamente sul punto".
Quanto alla rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione direttamente nel giudizio di cassazione, le S.U. evidenziano ulteriormente che la terminologia dell’art. 37 c.p.c. (in ogni "stato e grado del processo") "non si attaglia al giudizio di legittimità, che non può essere definito un grado del processo, ma semmai un momento di verifica della legittimità dell’intero giudizio di merito, nei limiti dei motivi dedotti", poiché "il giudizio di cassazione è tendenzialmente limitato alle sole questioni prospettate dalle parti (oggi nei ristretti limiti del quesito di diritto), con la sola eccezione dei casi in cui la Corte intenda esercitare di ufficio la funzione di nomofilachia e delle questioni rilevabili d’ufficio ma relative al ricorso". "L’avvento del principio della ragionevole durata del processo − le S.U. avvertono − comporta l’obbligo di verificare la razionalità delle norme che non prevedono termini per la formulazione di eccezioni processuali per vizi che non si risolvono in una totale carenza della tutela giurisdizionale, come ad esempio i vizi attinenti al principio del contraddittorio".
Poiché il trattamento processuale delle questioni di giurisdizione risulta così assimilato a quello delle invalidità processuali, la regola del loro assorbimento nella decisione sul merito è suscettibile di vasta applicazione, fatto salvo il limite del rispetto del principio del contraddittorio. A questo riguardo la giurisprudenza sarà chiamata a individuare quali siano i vizi processuali incidenti sul contraddittorio per i quali il potere di controllo è esercitabile in sede di legittimità mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione, conformemente al canone del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione [77].
Tenuto conto del principio costituzionale di ragionevole durata del processo, che impone all’interprete un nuovo approccio interpretativo e di verificare le soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello tradizionale della coerenza logico-sistematica, la portata precettiva dell’art. 37 cod. proc. civ. dev’essere pertanto contenuta "in senso restrittivo e residuale" rispetto a quello autorizzato dalla lettera della disposizione, poiché "il contenuto letterale della norma deve cedere il passo alla odierna intenzione del legislatore (voluntas legis) frutto della evoluzione storica del sistema (art. 12, primo comma, preleggi) che impone termini perentori per la verifica della potestas iudicandi". Del resto, poiché "l’erosione dell’area semantica dell’art. 37 c.p.c. deriva dal riconoscimento, ormai consolidato in giurisprudenza, della efficacia del giudicato interno sulla giurisdizione", "non rileva poi che tecnicamente si tratti di giudicato espresso o implicito, trattandosi di qualificazione che attiene alla fenomenologia del giudicato e non ai suoi effetti": di conseguenza, il tenore letterale dell’art. 37 cod. proc. civ. resta integro nei casi di decisioni sulla sola ammissibilità della domanda o dal cui tenore si debba comunque escludere qualsiasi forma di implicita delibazione sulla giurisdizione.
Le Sezioni Unite seguono, quindi, la teoria del doppio oggetto che risulta funzionale, da un lato, ad una concezione del processo come sviluppo progressivo ed ordinato di attività [78]; dall’altro, soprattutto, è funzionale al principio della non regressione del procedimento, del quale costituisce un corollario la regola secondo la quale la questione di giurisdizione dev’essere decisa sulla base della domanda e non può confondersi con la decisione sul merito né può essere determinata “secundum eventum litis” [79]. Si deve anche considerare che, altrimenti, la decisione sulla giurisdizione, a seguito dell’emersione della questione per la prima volta nel giudizio di legittimità, sarebbe adottata dalla Cassazione in unico grado, mentre al principio del doppio grado di tutela giurisdizionale fa eccezione soltanto la decisione adottata dalla S.C. in sede di regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c. [80].
Le S.U. evidenziano, inoltre, il progressivo "affievolimento della centralità del principio di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale" "insensibile ai comportamenti e alla volontà degli utenti della giustizia", prevalendo oggi l’idea di giurisdizione intesa come "servizio per la collettività" avente "come parametro di riferimento l’efficienza delle soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza": questa evoluzione è testimoniata dalla constatazione che "con il tempo, i vari ordini dei giudici esistenti in Italia hanno visto sempre più sfumare il loro iniziale carattere di mondi autonomi e separati, non comunicanti tra loro ed ispirati a meccanismi su cui le parti non potevano influire".
Numerose sono le indicazioni legislative dell’evoluzione del principio di giurisdizione in senso dispositivo, nel mutato contesto caratterizzato dal superamento del principio di inderogabilità delle regole sulla potestas iudicandi: ne costituisce esempio, tra i tanti, l’art. 38 c.p.c., sostituito dall’art. 4 della legge n. 353 del 1990, che ha introdotto un termine perentorio "non oltre la prima udienza di trattazione" per la eccezione e rilevazione della incompetenza per materia, per territorio inderogabile e per valore (ed è significativo che la verifica della competenza implichi quella della giurisdizione), a dimostrazione che "i criteri di ripartizione della competenza, anche quando siano dettati da ragioni di ordine pubblico, devono essere conciliati con le esigenze di celerità del processo". Il principio della translatio iudicii, introdotto dalle sentenze della Cass. S.U. n. 4109 del 2007, e della Corte cost. n. 77 del 2007, ha accelerato il processo di forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza.
Il problema della compatibilità tra la nuova lettura dell’art. 37 c.p.c. e l’ordine costituzionale (dei criteri di riparto) delle giurisdizioni, dal momento che "la riduzione degli spazi processuali per eccepire il difetto di giurisdizione potrebbe confliggere con il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, Cost.)", è risolto attraverso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale sui limiti all’eccepibilità del difetto di competenza e, soprattutto, con l’importante affermazione della prevalenza del principio del giusto processo e della sua ragionevole durata rispetto alle altre prescrizioni costituzionali (sia pure "nei limiti in cui gli altri principi di garanzia siano comunque assicurati"), rilevando che "nel bilanciamento tra i valori costituzionali della precostituzione del giudice naturale (artt. 25, 103 Cost.) e della ragionevole durata del processo, si deve tenere conto che una piena ed efficace realizzazione del primo ben può (e deve) ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del giudice adito possa emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio", con la conseguente "regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito".
Il problema della compatibilità con la prevista impugnabilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, è superato sulla base della considerazione che l’art. 111, co. 8, Cost. non riguarda la disciplina delle preclusioni interne al processo; inoltre, quello della compatibilità con la previsione costituzionale della riserva di legge per l’individuazione degli organi legittimati ad annullare gli atti amministrativi (art. 113, co. 3, Cost.) è risolto dalle S.U. richiamando la preclusione pacificamente ammessa per effetto del giudicato esplicito.
Pertanto, all’esito della nuova interpretazione dell’art. 37, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato (esplicito o implicito).
Del nuovo principio, incentrato sull’assimilazione del giudicato implicito a quello esplicito, è stata fatta applicazione in tema di ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione avverso sentenza del giudice amministrativo: le S.U. (nella recente sentenza n. 28545/2008) hanno anche precisato che il limite dell’efficacia retroattiva propria delle pronunce di incostituzionalità di norme sulla giurisdizione, tradizionalmente ed esclusivamente ravvisato nel giudicato (oltre che nel decorso dei termini di prescrizione o decadenza stabiliti per l’esercizio di determinati diritti), sussiste anche nel caso del giudicato implicito sulla giurisdizione.
In particolare, con riguardo ai giudizi dinanzi al giudice amministrativo, una parte della dottrina [81] aveva già sostenuto che l’art. 30 della legge n. 1034/1971 – disposizione sempre considerata del tutto “analoga” all’art. 37 c.p.c. – prevede sì la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione ma non in ogni grado del processo, con la conseguenza che il Consiglio di Stato potrebbe pronunciare sulla giurisdizione solo se vi è appello diretto contro il relativo capo della sentenza del Tar.
Tornando alla sentenza n. 24883, le S.U. riconoscono, in sostanza, l’esistenza nell’ordinamento del diritto delle parti "ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa" (in tal senso già Corte cost. n. 77 del 2007). Questo diritto, però, può risultare seriamente compromesso in un sistema, come il nostro, nel quale il criterio di riparto della giurisdizione è particolarmente complesso e articolato. Ciò incide negativamente sulla effettività della tutela giurisdizionale di cui è espressione il diritto della parte che intenda agire in giudizio di individuare con facilità e immediatezza il giudice che è in grado di rendere la tutela richiesta nel merito: la pluralità delle giurisdizioni, infatti, "non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale" (Corte cost. n. 77/2007).
Il nuovo principio, secondo cui la pronuncia sul merito implica e presuppone quella sulla giurisdizione, potrà influire sull’interpretazione dell’art. 386 c.p.c., che predica (secondo il tradizionale criterio della causa petendi) la possibilità o la necessità di accertare sostanzialmente il merito (ma senza quella completa attività istruttoria che sarebbe indispensabile per l’emersione dei diritti azionati nel processo) al solo scopo di individuare il giudice competente a pronunciare nel merito.
Il sopra ricordato diritto ad ottenere una risposta giurisdizionale nel merito (positiva o negativa), nelle controversie con la pubblica amministrazione, si riferisce precisamente alla domanda di tutela per come proposta dalla parte nel processo, a fronte della qualificazione del proprio interesse sostanziale in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo [82] (cui rimane ancorato il nostro criterio di riparto della giurisdizione: v. Corte cost. n. 204/2004). Una tale evoluzione, perfettamente coerente con l’unità funzionale delle giurisdizioni che caratterizza il nostro ordinamento, consentirebbe di dare piena attuazione al principio costituzionale della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione, contribuendo alla realizzazione di un assetto delle tutele che valorizzi la scelta della parte degli strumenti processuali più idonei a soddisfare i propri interessi, coerentemente con il principio di atipicità delle azioni.
Si è sostenuto in dottrina che, secondo una lettura del sistema della pluralità dei giudici in linea con i principi di effettività e certezza della tutela, quando viene chiesta una tutela che entrambi i giudici possono fornire, la scelta del giudice dev’essere rimessa alla volontà di almeno una delle parti in causa e che questa si possa orientare, secondo il suo interesse pratico, verso quel giudice che sia in grado di dare una tutela maggiore e più immediata [83]. Un’alternatività nell’accesso alle giurisdizioni, del resto, è già ammessa come conseguenza della scelta di portare ad esecuzione la sentenza del g.a., in determinati casi, nelle forme del giudizio di ottemperanza o del giudizio di esecuzione civile [84]; se ne ha conferma nella nota vicenda dell’annullamento dell’aggiudicazione della gara dove, ferma la competenza del g.o. ad individuare (con statuizione idonea a passare in giudicato) le conseguenze prodotte sul contratto dalla sentenza amministrativa [85], il privato può agire nella forma dell’ottemperanza davanti al g.a. per l’eventuale adozione dei provvedimenti reintegratori (in forma specifica) necessari a dare esecuzione al giudicato di annullamento e a ripristinare (eventualmente) le ragioni del ricorrente vittorioso [86].

 

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[1] Si veda, sul tema, la efficace ricostruzione di Amirante, La giurisdizione e la sua verifica in Cassazione, in Giurisprudenza sistematica di dir. proc. civ., 1998, 731 ss.
[2] V. Cass. sez. un. 15.1.1981 n. 339
[3] V. v. Cass. sez. un. 9.6.2004 n. 10946.
[4] V., tra le più antiche, Cass. sez. un. 28.6.1948 n. 1018. Secondo Cass. sez. un. 22.3.1996 n. 2466, il regolamento preventivo è inammissibile in presenza di sentenza sulla giurisdizione anche non passata in giudicato.
[5] Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, 1935, 338 ss.
[6] V. Cass. sez. un. 7.10.1953 n. 3183; Cass. sez. un. 22.6.1951 n. 1666, in Foro it., 1951, I, 849 (entrambe criticate da Andrioli nella nota a Cass. n. 3183/1953).
[7] V., in tal senso, Cass. n. 1666/1951 cit..
[8] V. Cass. sez. un. 21.8.1972 n. 2697; sez. un. 20.4.1974 n. 1095.
[9] Ma v. già Cass. sez. 1, 8.9.1970 n. 1298, sulle orme di Cass. sez. un. 22.7.1960 n. 2084, in Giustizia civ., 1960, 193.
[10] V., tra le tante, Cass. sez. un. 28.3.2006 n. 7039; sez. L. 8.8.2003 n. 12002; sez. un. 9.7.1997 n. 6229.
[11] V., ad es., Cass. sez. un. 8.8.2001 n. 10961; sez. L. 12.4.1984 n. 2377; sez. un. 24.2.1982 n. 1151; sez. un. 17.11.1978 n. 5330; sez. un. n. 1506/1976 cit. Favorevole a tale impostazione è Andrioli, Acquiescenza, cit.
[12] V., in tal senso, Cass. sez. un. 23.6.1983 n. 4295, che aderisce, in sostanza, alla tesi di R.Sandulli, In tema di giudicato sulla giurisdizione, in Giustizia civ., 1960, 1940, secondo cui non di acquiescenza si tratterebbe, ma di preclusione resa operativa dalla mancata impugnazione del capo di sentenza sulla giurisdizione.
[13] V. Cass. sez. un. 23.6.1995 n. 7086.
[14] V. Cass. sez. un. 22.2.2007 n. 4109; sez. un. 19.1.1987 n. 411; Cons. St., ad. pl., 30.8.2005 n. 4.
[15] V. Cons. St., sez. IV, 21.1.2005 n. 99.
[16] V., in genere, sui limiti alla rilevazione d’ufficio delle questioni pregiudiziali sollevate dalla parte e non decise dal giudice, Cass. sez. 1, 4.3.1998 n. 2388.
[17] V., tra le tante, Cass. sez. un. n. 7039/2006 cit.; sez. un. 14.4.2003 n. 5903; sez. un. 11.10.1997 n. 7482; sez. un. 5.8.1994 n. 7268; sez. un. 7.8.1989 n. 3602; sez. un. 14.2.1980 n. 1054.
[18] V. Cass. sez. un. n. 1054/1980 cit. (in motiv.); cfr. Cass. sez. un. 15.9.1978 n. 4141.
[19] Ad es., secondo Cass. sez. un. n. 3602/1989 cit., rv. 463555, se la decisione ha avuto per oggetto una pluralità di domande tutte presupponenti il carattere subordinato del rapporto di lavoro con un ente pubblico, la censura, formulata con l’atto di appello, sulla esistenza dell’elemento della subordinazione con riguardo ad una di tali domande, esclude la configurabilità di un giudicato sull'esistenza del rapporto di lavoro subordinato privato.
[20] V. Cass. sez. un. 15.7.1998 n. 6904.
[21] V, ad es., Cons. St. sez. IV, 16.3.2004 n. 3186.
[22] Ziino, Disorientamenti della Cassazione in materia di giudicato implicito e di rilevabilità del giudicato esterno, in Riv. dir. proc., 2005, 1392 ss. In tal senso, in sostanza, anche Romano, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, in Giur. it., 2001, 1299, e Turroni, La sentenza civile sul processo, 2006, 126, secondo il quale, in tal modo, il giudicato implicito si ridurrebbe a mera appendice di quello esplicito.
[23] V., tra le tantissime, Cass. sez. un. 17.12.1998 n. 12618.
[24] Anche la dottrina era costante in tal senso: v., recentemente, Turroni, La sentenza, cit., 144.
[25] V. Cass. sez. un. n. 5903/2003 cit.
[26] V., tra le tante, Cass. sez. I, 17.4.2003 n. 6169.
[27] V. Cass. sez. III, 6.11.2001 n. 13695. Con riguardo all’interesse ad agire, v. Cass. sez. I, 23.11.1994 n. 9888; in tema di proponibilità della domanda, v. Cass. sez. I, 12.6.2001 n. 7879.
[28] V., tra gli altri, Pugliese, Il giudicato civ. (dir. vigente), in Enc. del dir., 1969, 840; Taruffo, “Collateral estoppel” e giudicato sulle questioni, in Riv. dir. proc., 1972, 286.
[29] Chiovenda, Istituzioni, cit., 350 ss.
[30] In tal senso Liebman, Giudicato (dir. proc. civ.), in Enc. giur. Treccani, 1989, 9.
[31] In tal senso Ferri, Note in tema di pronunce sulla giurisdizione, 1968, 94. V. anche Liebman, “Parte o capo di sentenza, in Riv. dir. proc., 1964, 54 ss.; Ricci, L’esame d’ufficio degli impedimenti processuali nel giudizio di Cassazione, Riv. dir. proc., 1978, 422 ss.
[32] In tal senso Taruffo, cit., 285 ss. V. anche Denti, Questioni pregiudiziali (dir. proc. civ.), Nov. dig. it., XIV, 1967, 677 ss.
[33] In tal senso Denti, Questioni pregiudiziali, cit., 678.
[34] Lasagno, Premesse per uno studio sull’omissione di pronuncia nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1990, 462 ss.
[35] V., tra le tante, Cass. sez. un. 10.8.2005 n. 16779; sez. un. 19.11.1999 n. 802; sez. un. 5.2.1999 n. 45.
[36] Proto Pisani, La sentenza, passata in giudicato, con cui il Tar abbia declinato la giurisdizione non vincola il giudice ordinario innanzi al quale sia stata riproposta la domanda, in Foro it., 1986, I, 3010.
[37] Liebman, “Parte o capo di sentenza, cit., 54 ss.
[38] Lasagno, Premesse, cit.; Ricci, L’esame d’ufficio, cit.
[39] Nel senso che non vi sarebbe, in tal caso, un capo decisorio cui attagliare l’art. 329 co. 2 c.p.c., è Consolo, Il riparto fra le giurisdizioni, l’anacronismo della “severità” ispiratrice dell’art. 37 c.p.c. sul rilievo officioso “in ogni grado” e il gatto del cheshire, in Corriere giur., 2005, 1579.
[40] In tal senso Verde, Profili del processo civile, 1999, I, 54. Una evoluzione del sistema processuale nel senso di evitare agli utenti della giustizia la sorpresa del difetto di giurisdizione dopo tre gradi di giudizio, è auspicata da Franchi, Giurisdizione civile, in Enciclopedia giuridica, XV, 1989, 15.
[41] In tal senso, dubitativamente, Morcavallo, Nullità processuali e potere di controllo della Cassazione nella prospettiva del giusto processo, in Giust. civ., 2004, 232.
[42] In tal senso Consolo, Il cumulo condizionale di domande, 1985, I, 238.
[43] V., in tal senso, Menchini, Il giudicato civile, 2002, 46, secondo il quale nessuna indicazione in senso contrario può essere tratta dall’art. 2909 c.c.
[44] In tal senso Ferri, Note, cit., 126.
[45] In tal senso Andrioli, Acquiescenza, cit. V. anche gli Autori citati in nota 31. Nel senso che per capo di sentenza dovesse intendersi la decisione sulle questioni v. già Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, 117.
[46] In tal senso Chizzini, La sentenza nel dir. proc. civ., in Digesto disc. priv., 1998, 264, e, nella sostanza, Cerino Canova, Acquiescenza (dir. proc. civ.), in Encicl. giur. Treccani, 1988, 4.
[47] In tal senso Romano, Contributo, cit.,1295.
[48] In tal senso Romano, Contributo, cit., 1299.
[49] Si veda la relazione di Di Iasi, I poteri d’ufficio del giudice alla luce dei principi di efficienza e del giusto processo, nell’ambito del convegno sul tema svoltosi presso la Corte di Cassazione il 5.3.2008.
[50] V. Cass. sez. V, 24.1.2007 n. 1540; v. anche Cass. sez. V, 13.6.2005 n. 12636
[51] V. Cass. sez. L., 4.2.2005 n. 2237; sez. un. 22.6.1990 n. 6311; sez. 1, 25.2.1986 n. 1196; sez. II, 30.1.1985 n. 546.
[52] In tal senso Gasperini, Il sindacato della Cassazione sulla giurisdizione e sul merito, 2002, 311 ss.
[53] Lancellotti, Variazioni dell’implicito rispetto alla domanda, alla pronuncia ed al giudicato, in Riv. dir. proc., 1980, 477 ss.
[54] In tal senso Andrioli, Preclusione, in Nov. digesto italiano, 1957, 570.
[55] In tal senso Grasso, Dei poteri del giudice, Comment. Allorio al c.p.c., 1973, 1274 ss., anche con riferimento alle questioni di giurisdizione e competenza.
[56] In tal senso Andrioli, Acquiescenza, cit.
[57] In tal senso Denti, Questioni pregiudiziali, cit., 677 ss., nonché Nullità degli atti processuali civili, in Nov. digesto italiano, 1965, 472. La questione pregiudiziale di rito è considerata dal medesimo Autore, in Nullità, cit., 472, come oggetto di “eccezione, si intende, non nel senso restrittivo di esercizio di un potere processuale di difesa spettante unicamente alla parte, bensì come attività, di parte o d’ufficio (nel caso di nullità rilevabili d’ufficio) idonea a porre ad oggetto della decisione una questione pregiudiziale”.
[58] In tal senso Denti, Nullità, cit., 480 ss. In particolare, con riguardo all’appello, le questioni pregiudiziali in genere “rientrano nell’ambito dei poteri del giudice dell’impugnazione se non sono state esaminate in prime cure; se, invece, di esse si è occupato il giudice di primo grado, la regola della rilevabilità d’ufficio perde valore di fronte a quella del giudicato, sicché, ove la questione non venga riproposta al giudice di appello, questi non potrà occuparsene, in quanto su di essa si è formato il giudicato”: in tal senso Denti, Appello nel dir. proc. civ., in Digesto disc. privatistiche, 1987, 368. V. anche Luiso, Diritto processuale civile, 2000, I, 71 ss.
[59] In tal senso Poli, Sulle nullità per vizi relativi alla costituzione del giudice e all’intervento del Pubblico Ministero, in Riv. dir. proc., 1993, 194 ss.
[60] In tal senso Poli, La devoluzione di domande e questioni in appello nell’interesse della parte vittoriosa nel merito, in Riv. dir. proc., 2004, 347.
[61] Le nullità extraformali sono quelle causate dalla mancanza dei presupposti o delle condizioni processuali per la trattazione e/o decisione della causa nel merito.
[62] V., ad es., Cass. sez. L., 26.1.1995 n. 912.
[63] In tal senso Poli, L’oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2006, 1398 ss. e 1407 ss. Del medesimo Autore v. anche I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, 2002, 300 ss. e 363 ss.
[64] V. Cass. sez. un. 23.12.2005 n. 28498; sez. un. 29.1.2000 n. 16.
[65] Si veda Poli, La devoluzione, cit., 343 ss. e, del medesimo Autore, gli altri scritti citati.
[66] In tal senso Poli, L’oggetto, cit., 1407; v. anche Ricci, L’esame d’ufficio, cit., 426.
[67] In tal senso Bonsignori, Effetto devolutivo dell’appello e nullità insanabili, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, cit., 1604 ss., secondo il quale il fenomeno dell’acquiescenza impropria ex art. 329, co. 2, c.p.c. è riferibile soltanto ai capi di sentenza diversi e indipendenti da quello impugnato, situazione che non sarebbe ravvisabile con riguardo ai singoli presupposti o alle singole questioni (es. pregiudiziali) che sarebbero destinate ad essere riassorbite nel capo di merito oggetto del processo.
[68] In tal senso Lasagno, Premesse, cit., 476, seppur solo nel caso in cui la questione di giurisdizione sia stata sollevata nel processo. In senso contrario Turroni, La sentenza, cit., 123 ss. e 169 in nota 21.
[69] V. Cass. sez. II, 28.4.2004 n. 8141; sez. I, 25.6.2003 n. 10073; sez I, 21.11.2001 n. 14670.
[70] Nella sent. n. 6938 del 25.7.1994, le Sezioni Unite hanno ravvisato una pronuncia implicita sulla giurisdizione anche nella sentenza non definitiva con cui il tribunale aveva dichiarato cessata la materia del contendere.
[71] In tal senso Turroni, La sentenza, cit., 116.
[72] V., anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, Turroni, La sentenza, cit., 59 ss. e in note 94-100.
[73] In tal senso Cipriani, Autoritarismo e garantismo nel processo civile (a proposito dell’art. 187, 3º comma, c.p.c.), 1994, 24 ss. Nel senso che il giudice ha l’obbligo e non la facoltà di pronunciarsi sulle questioni pregiudiziali prima di aprire l’istruttoria sul merito, v. Cipriani-Civinini-Proto Pisani, Una strategia per la giustizia civile nella XIV legislatura, in Foro it., 2001, V, 82, allo scopo di favorire “in tal modo il formarsi di preclusioni semplificanti all’interno del processo”.
[74] V., in tal senso, in motiv., Cass. sez. un. 10.5.2002 n. 6737.
[75] Consolo, Il cumulo, cit., alla cui teoria aderisce Recchioni, La teoria della pregiudizialità-dipendenza nel processo civile di cognizione, 1996, 93 ss.
[76] In tal senso Consolo, Il cumulo, cit., 234; v. anche p. 227 e nota 172.
[77] Si veda Cass. sez. un. n. 26019 del 30.10.2008.
[78] Numerose sono le indicazioni normative, a partire dalle riforme degli anni ’90, nel senso di una più chiara scansione delle diverse fasi processuali: ad esempio, di quella destinata alla delimitazione del thema decidendum rispetto al thema probandum.
[79] V. Cass. sez. un. 1.8.2006 n. 17461; sez. III, 14.6.2001 n. 8057.
[80] Questo argomento acquisterebbe peso se si ritiene che il principio del doppio grado di giurisdizione abbia ricevuto, seppur implicitamente, una limitata costituzionalizzazione a seguito del nuovo art. 125 Cost. che ha previsto l’istituzione di organi di giustizia amministrativa “di primo grado”.
[81] Cacciavillani, Translatio iudicii tra Corte di Cassazione e Corte costituzionale, in Dir. proc. amm., 2007, 1039.
[82] Si veda A. Lamorgese, Riparto della giurisdizione e petitum sostanziale: riflessioni dopo Corte costituzionale n. 204 del 2004, in Giur. it., 2005, 2224 ss.
[83] V. in tal senso, seppur fatta eccezione per le materie di giurisdizione esclusiva, A. Scognamiglio, Corte di cassazione e Corte costituzionale a favore di una pluralità dei giudici compatibile con effettività e certezza della tutela, in www.judicium.it. La giurisdizione del g.a. si atteggerebbe così come foro speciale, ma facoltativo per l’esame delle controversie nei confronti della p.a. A favore del criterio del petitum inteso come unico criterio di riparto della giurisdizione ritenuto conforme ai principi costituzionali, v. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia non-amministrativa, 2005, 175 e 182, e R. Guastini, “Un soggetto, un diritto, un giudice”, in Dir. pubblico, 2008, 57.
[84] V., ad es., Cass. s.u. 31.3.2006 n. 7578, s.u. 18.2.1994 n. 1593. E’ anche significativo che Cons. St. ad. pl., n. 2/2005, nell’affermare l’esperibilità del giudizio di ottemperanza per la restituzione di un immobile espropriato, in caso di annullamento in sede giurisdizionale degli atti della procedura espropriativa, non escluda che il privato, in alternativa, possa avviare una concorrente azione restitutoria dinanzi al g.o.
[85] V. Cass. s.u. 23.4.2008 n. 10443, s.u. 28.12.2007 n. 27169 e Cons. St. ad. Pl,. 30.7.2008 n. 9.
[86] V. Cons. St. ad. pl., n. 9/2008 cit. E’ interessante notare che, secondo Cass. s.u. n. 10443/2008 cit., “la rilevata caducazione degli effetti del contratto stipulato, come conseguenza dell’annullamento della procedura illegittima, non sembra costituire nel caso una forma di ‘reintegrazione in forma specifica’”; “Anche a non considerare che un siffatto annullamento reintegratorio dovrebbe essere disposto dal giudice ordinario ovvero in via di autotutela dalla stessa Rai s.p.a. [amministrazione aggiudicatrice] per evitare il superamento dei limiti esterni dei poteri del giudice amministrativo”. Stando alle conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria, quindi, ciò che non può il g.a. in sede di giurisdizione di legittimità, può invece il giudice dell’ottemperanza. Parte della dottrina nel criticare l’orientamento delle Sezioni Unite sulla ripartizione della giurisdizione tra due giudici in questa materia ha lamentato la sottoprotezione cui sarebbe esposto il terzo vittorioso nel giudizio di annullamento dell’aggiudicazione, il quale sarebbe costretto a introdurre una seconda azione dinanzi al g.o. per cogliere il frutto sostanziale della sua vittoria. Si potrebbe obiettare che tale frutto il terzo difficilmente riuscirebbe ad ottenerlo dal g.a., se è vero che è lo stesso C.d.S. ad escludere, in concreto, la possibilità di disporre l’aggiudicazione in suo favore “quante volte l’annullamento dell’atto lasci sul tappeto profili di discrezionalità tecnica o amministrativa e, per l’effetto, venga in rilievo il rischio di debordare in aree riservate alla riedizione dell’azione amministrativa” (Cons. St. sez. VI, 19.11.2003 n. 7470) o quando sussistano ragioni contrarie di interesse pubblico (Cons. St. sez. IV, 16.10.2000 n. 5482).

 

(pubblicato il 9.12.2008)

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