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n. 6-2008 - © copyright |
MASSIMILIANO MINERVA
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Danno derivante dalla cattiva gestione delle società a partecipazione pubblica
(ovvero per una società pubblica “sincera”)
1. Premessa: verso un sistema risarcitorio e sanzionatorio dell’inefficienza e della diseconomicità
2. La valutazione di convenienza economica del modello societario: a) la società “insincera”; b) la costituzione ; c) la ricapitalizzazione
3. L’inefficienza e la diseconomicità della gestione aziendale: strumenti di reazione del socio pubblico, poteri di governance e di controllo
4. Dalla sindacabilità (limitata) del merito delle scelte amministrative discrezionali alla sindacabilità (limitata) delle scelte imprenditoriali pubbliche
1. Se non si vuole correre il rischio di svuotare di significato le ormai numerose affermazioni di principio che il legislatore – anche in relazione all’avvertita esigenza di dare attuazione concreta al principio costituzionale di “buon andamento” della p.a. (art. 97 Cost.) - sta facendo a partire dal 1990[1] circa la necessità del conseguimento degli obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità[2] anche da parte del settore pubblico e del perseguimento del modello della “gestione per risultati” e non ”per atti” da parte di una amministrazione realmente moderna e adeguata agli standard europei, occorre riempire di contenuti immediatamente precettivi le innovative disposizioni che, ormai da tempo, hanno fatto ingresso nel nostro ordinamento, anche e soprattutto sul piano della tutela giurisdizionale (delle pubbliche finanze) e, dunque, delle responsabilità dei singoli, occorre cioè affrontare seriamente il problema dell’introduzione di un sistema risarcitorio e sanzionatorio dell’inefficienza e della diseconomicità nel settore pubblico.
In particolare, l’esigenza di garantire efficienza, efficacia e economicità anche in questo settore, tradizionalmente territorio delle valutazioni di legittimità, ha finito per conformare la stessa attività amministrativa, finalizzando l’azione dei suoi organi e funzionalizzandone i relativi poteri. Presupposto di questa trasformazione è stata indubbiamente l’affermazione e la tendenziale attuazione del principio di separazione tra atti di indirizzo (propria degli organi di governo) ed attività di gestione (affidata alla dirigenza amministrativa), affermato a partire dal d. lgs 29 del 1993, oggi confluito nel d. lgs. 165/2001 (e s.m.i.), con il corollario della corrispondente responsabilità dirigenziale per il mancato conseguimento dei risultati (art. 21 d.lgs. 165/2001), dal cui presupposto discende anche l’attuale assetto rigidamente ripartitorio delle responsabilità amministrative dei dirigenti e degli amministratori pubblici e tutta l’impostazione del sistema dei controlli interni ex d. lgs 286/99 (strategico e di gestione) fino ad arrivare al corollario, necessario sul fronte esterno del rapporto con i fruitori dei servizi, dell’introduzione di strumenti di verifica del grado di soddisfazione degli utenti (efficacia percepita) e connessi rimedi o sanzioni (codificati nelle “Carte di servizi”).
Si è così venuta affermando l’idea di una amministrazione orientata al risultato (performance oriented), idea che trova la sua definitiva consacrazione normativa nell’art. 1, comma 1, della l. 241/90 (in questa parte non modificata dalla novella del 2005) secondo cui "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia…", nonché nel principio di prevalenza dell’efficacia dell’azione amministrativa (intesa come raggiungimento dello scopo) sulla regolarità formale-procedimentale: in applicazione di questo principio, che potremmo definire di “conservazione degli atti” amministrativi il nostro ordinamento, con una disposizione moderna, pur se ricognitiva di un principio di civiltà giuridica, non ammette l’annullabilità del provvedimento per vizi procedimentali o formali qualora lo scopo dell’atto sia stato comunque raggiunto (artt. 21octies e 21 nonies della l. 241 del 1990, con le modifiche introdotte dalla l. 15 del 2005).
Proprio in virtù di tali specifiche previsioni di legge, detti criteri (in particolare, quello di economicità), che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97, primo comma, Cost., hanno acquistato dignità normativa, assumendo rilevanza sul piano della legittimità (e non della mera opportunità) dell'azione amministrativa (così Cons. Stato, Sez. 6^, 847/02; Sez. 4^, 6684/02 e già: Cons. Stato, Sez. 5^, 4 novembre 1996, n. 1293; Sez. 5^, 22 novembre 1996, n. 1396); con importanti conseguenze in tema di legittimità e di liceità dell’attività amministrativa: la verifica della prima non può più prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti e, come insegna la Corte di Cassazione nella fondamentale sentenza a Sezioni Unite n. 14488 del 29 settembre 2003, “la violazione dei criteri di economicità assume rilievo anche nel giudizio di responsabilità, dal momento che l'antigiuridicità dell'atto amministrativo costituisce un presupposto necessario della "colpevolezza" di chi lo abbia posto in essere”.
Essendo ormai assunti tra i requisiti normativi che regolano l'attività amministrativa anche i criteri "economicità" e di "efficacia", deve ritenersi che rientri tra i poteri della Corte dei conti, nell'ambito del giudizio di responsabilità, anche quello di verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obbiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità (ancora Cass. SS. UU. n. 14488/2003).
Alcuni recenti segnali, sul piano delle tendenze dell’evoluzione normativa, mostrano come in realtà, pur cambiando i parametri di valutazione e ponderazione degli interessi tutelati dall’ordinamento amministrativo, si tratta pur sempre di valori codificabili, anche perchè, come abbiamo accennato, già costituzionalizzati (art. 97), per cui sembra solo differito il momento dell’introduzione legislativa di un vero e proprio sistema risarcitorio e sanzionatorio dell’inefficienza e della diseconomicità amministrativa e gestionale, necessario, tra l’altro, per far fronte alle sempre più pressanti richieste dei cittadini e dell’opinione pubblica di maggiore efficienza, economicità e efficacia della cosa pubblica, qualunque sia il suo modulo organizzatorio. Indicative di questo percorso (già tracciato e da completare) e di questa acquisita consapevolezza erano alcune disposizioni contenute in un recente disegno di legge governativo (“Modernizzazione della pubblica amministrazione e riduzione degli oneri burocratici”[3], il quale introduceva innovativamente alcune specifiche sanzioni per l’inefficienza procedimentale e gestionale. In particolare, sul presupposto che la durata del procedimento sia uno dei (principali) parametri di efficienza per una pubblica amministrazione moderna e ferma restando la tutela risarcitoria tout court, veniva prevista un’ulteriore forma di ristoro patrimoniale “a titolo sanzionatorio del mero ritardo” “nei casi di inosservanza dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi” e poiché, tra l’altro, era anche previsto che il relativo pagamento disposto a favore del soggetto istante venisse comunicato alla competente Procura regionale della Corte dei conti, sussistendo tutti i presupposti della responsabilità amministrativa, il responsabile del ritardo procedimentale poteva essere convenuto in un giudizio amministrativo dal Pubblico Ministero contabile.
Analogamente, veniva aggiunta una ipotesi di responsabilità dirigenziale per gravi e reiterati ritardi procedimentali, nonché per (grave e reiterata) violazione di obblighi documentali ed informativi e dell’obbligo di non aggravamento del procedimento, con previsione della sanzione personale della decurtazione del trattamento economico accessorio (si aggiungeva il comma 1bis all’art. 21 d.lgs. 165/01).
Anche sul fronte della gestione dei servizi di pubblica utilità si introduceva (con l’aggiunta dell’art. 29 bis alla legge n. 241 del 1990) una forma di responsabilità gestionale esterna (nei confronti dell’utenza) con relativa sanzione in forma di indennizzo automatico e forfettario (sempre ferma restando la tutela risarcitoria), che andava a colpire l’inefficienza nell’erogazione dei pubblici servizi da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare per il mancato rispetto degli standard di qualità e quantità definiti e pubblicati nelle carte dei servizi (eventualmente anche mediante forme di autotutela negoziale a favore del consumatore: detrazione dell’indennizzo dalla fattura).
E’ del tutto evidente che in questa nuova e diversa prospettiva (già presente in nuce nel sistema e sviluppata nell’iniziativa normativa di cui si è appena detto), lo spostamento del baricentro del sistema organizzatorio e gestionale dei pubblici poteri verso i modelli di tipo imprenditoriale (enti pubblici economici e S.p.A. pubbliche) e verso i “risultati”, l’obiettivo dell’economicità della gestione, l’attenzione al momento dell’ottimizzazione delle risorse disponibili, la valutazione dell’azione amministrativa in termini di costi-benefici ed il monitoraggio continuo sulla rispondenza dei risultati conseguiti, - non solo di tipo economico-finanziario - agli obiettivi prefissati, costituiscono non più mere affermazioni di principio o soltanto criteri guida per l’effettuazione delle nuove forme di controllo sulla gestione della cosa pubblica (cfr. il d. lgs n. 286/1999), ma contenuti immediati e concreti della responsabilità amministrativa, dirigenziale e gestionale (da prestazione). A questi principi corrispondono, difatti, in maniera diretta numerosi e ben tipizzati obblighi di fare, di agire nell’interesse pubblico, che, a ben vedere, è anche e soprattutto interesse della collettività al raggiungimento dei risultati dell’efficacia e dell’economicità della gestione e dell’ottimizzazione delle risorse disponibili, risultati che si realizzano, oltre che attraverso programmi di contenimento della spesa pubblica, anche attraverso la massimizzazione delle entrate, la valorizzazione delle partecipazioni pubbliche e, dunque, per quanto rileva in questa sede, attraverso la oculata e sana gestione dei rapporti con le società partecipate, che devono rappresentare per l’ente pubblico una opportunità di investimento e uno strumento operativo redditizio - da utilizzare per migliorare efficienza ed economicità nella resa dei servizi ai cittadini-utenti - non risolversi in una fonte di sprechi e di sperpero di risorse finanziarie (soprattutto sotto forma degli oneri derivanti dalla gestione della struttura e dal pagamento dei gettoni di presenza o indennità varie ai componenti degli organi di amministrazione), quando non una tecnica di aggiramento dell’obbligo di assunzione del personale tramite concorsi e dei vincoli stabiliti dalla normativa di derivazione comunitaria nelle procedure di selezione del contraente (anche se su quest’ultimo aspetto la giurisprudenza comunitaria sta arrivando a importanti conclusioni in tema di attrazione del modulo gestionale privatistico alla disciplina pubblicistica [4]).
2. Ciò premesso, va ricordato che, anche storicamente, le società pubbliche sono nate proprio per aumentare l’efficienza, l’efficacia, l’economicita’ dei servizi da erogare, attraverso l’adozione di forme più flessibili, elastiche di organizzazione e gestione delle attività, in modo da ottenere il risultato dell'autonomia tecnico-operativa dell’organismo, senza nel contempo perderne il controllo, grazie al regime ed agli istituti civilistici della responsabilità degli amministratori (di tipo compensativo), ulteriormente rafforzati dalla recente riforma delle società per azioni (d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, e successive modificazioni)[5].
La maggiore semplicità operativa (rispetto al modello organizzatorio pubblicistico tradizionale) rileva anche nei rapporti con i terzi, in virtù dell’applicazione della normativa societaria in materia di rappresentanza delle società, di pubblicità degli atti sociali, di valutazione del bilancio, di integrità del patrimonio sociale, senza contare, dal punto di vista auto-organizzativo, che gli atti statutari sono modificabili con semplice decisione dell'assemblea.
Alla flessibilità e semplificazione della gestione operativa, si aggiunge, sul fronte interno, nei rapporti con il socio pubblico, il vantaggio derivante dal fatto che nel complesso i poteri che spettano all'azionista pubblico risultano molto maggiori di quelli esercitati,ad esempio, nello schema tipico dell’ente strumentale, da un ministro vigilante, anche per ciò che attiene, nel bene e nel male, al grado di ingerenza politica esercitabile da parte dei responsabili degli enti-soci, che appare particolarmente intensa sulla società partecipata (soprattutto se in house o di maggioranza), anche maggiore di quella presente nel sistema delle partecipazioni statali, nelle quali il livello decisionale politico raggiungeva gli enti di gestione e alcune società "di primo livello", ma risultava poi debole sulle società operative.
a) Ciò che sin dall’esordio del nuovo modello societario venne messo in luce è il suo carattere ambiguo, ambivalente, tanto da far parlare delle società pubbliche come di società "insincere" (Ascarelli) o della "farisaica adozione del modello societario" (Irti), e ciò per diverse ragioni: in primo luogo, per l’assenza di rischio di impresa (evidente in particolare nelle società in house), comunque fortemente ridotto per l’assenza di concorrenza, ma anche per altri fattori connessi ai meccanismi traslativi dei rischi economici e, in particolare, delle perdite derivanti dalle attività sociali (per ricapitalizzazioni, aiuti vari, anche sotto forma di fideiussioni ex art. 207 TUEL, ecc.), che ne facevano e ne fanno in ogni caso una società di diritto privato diversa dalle altre (e quindi difficilmente definibile di “diritto comune”), esposte come sono queste ultime ai rischi tipici dell’esercizio dell’attività di impresa, in cui la concorrenza è fonte virtuosa di vantaggi in termini di competitività aziendale e di sistema socio-economico complessivo, ma anche di sempre possibili drammatiche uscite dal mercato. Ma società pubblica insincera anche per la ricordata commistione tra pubblico e privato, tra politica e gestione, dato che l’ente pubblico nomina i propri rappresentanti nell’assemblea dei soci e, in base allo Statuto (ex 2449 c.c.), anche uno o più componenti del consiglio di amministrazione[6] e, in tal modo, il potere politico finisce per esercitare o contribuire ad esercitare poteri di amministrazione (e la separazione pubblicistica tra direzione-indirizzo e gestione ?), con l’ulteriore conseguenza negativa di ritenere così assolti i suoi compiti di socio, finendo per delegare di fatto il controllo della società partecipata ai propri rappresentanti così nominati (mentre socio è l’ente in quanto tale, rappresentato dai suoi vertici istituzionali)[7].
Il carattere insincero della società pubblica si rivela anche sul piano della valutazione sostanziale dei risultati aziendali, sul piano dunque dell’efficienza e dell’economicità, dato che si è da subito registrato, anche in questi organismi come negli enti pubblici, un fenomeno, strettamente connesso all’ingerenza del livello decisionale politico di cui si è appena detto, di sviamento dai fini societari pubblici, con effetti perversi di mala gestione societaria che contrastano fortemente con l’analogo modello privatistico puro (in cui le ferree logiche del profitto spingono naturalmente ad aumentare continuamente i livelli di performance).
In realtà, la strada da seguire, anche in questo campo, non passa né per l’adozione generalizzata pervicace ed aprioristica del modello societario, di per sé strumento organizzativo neutro, né positivo né negativo, o per il suo abbandono antistorico ed altrettanto immotivato, ma attraverso una necessaria rimeditazione delle ragioni alla base della scelta di ricorrere a tale modello, da basare su rigorose analisi di economicità, efficienza ed efficacia, che portino all’assunzione consapevole delle decisioni in materia societaria e che siano finalizzate a realizzare (se non utili) utilità e vantaggi, non solo di natura economica (dipende dal tipo di società e di attività), per l’ente e la collettività (una società pubblica “sincera”, dunque).
Va precisato che la valutazione di efficienza ed economicità, che va fatta con riferimento sia alla fase iniziale della vita della società (la costituzione) che alla fase intermedia (capitalizzazione) ed alla fase finale (scioglimento), passando per i singoli atti di gestione, può rilevare a livello di responsabilità amministrativa sotto due profili generali: come omessa vigilanza dell’ente-socio attraverso i suoi rappresentanti nominati negli organi sociali o i titolari degli uffici ed organi competenti dell’ente medesimo, ovvero come responsabilità diretta e commissiva degli amministratori della società e ne rappresenta, probabilmente, il limite ideale contenutistico sul piano della tutela risarcitoria. [8]
b) Per quanto riguarda la valutazione di convenienza iniziale del modello societario, occorre esaminare la decisione dell’ente di costituire la società, premettendo che l’ente pubblico che si fa socio, diviene per ciò stesso imprenditore e che dunque la delibera, ad esempio di consiglio comunale, di costituzione della società costituisce, insieme atto di autonomia privata e attività amministrativa di natura discrezionale.
Siffatta decisione è soggetta in quanto tale ad un sindacato (che va necessariamente riportato al momento in cui la decisione è stata presa, ex ante) ed ha ad oggetto non tanto gli elementi estrinseci e formali (tipici della veste amministrativa che essa assume), quanto l’effettiva convenienza economica della decisione costitutiva, la quale andrà esaminata in base alla congruità della motivazione della delibera (le ragioni di diritto e di opportunità che costituiscono l’iter logico-giuridico seguito), alla sussistenza di documenti tecnici di supporto, quali un piano economico-finanziario e un piano industriale, accompagnati da una approfondita analisi costi-benefici e dalla valutazione comparativa delle diverse alternative possibili (affidamento del servizio in concessione, affidamento diretto tramite gara pubblica)[9].
Questo atteggiamento rigoroso già nella fase costitutiva si giustifica in quanto la decisione di dar vita ad una società pubblica espone immediatamente l’ente a significative conseguenze sul piano economico e di bilancio dato che rilevanti sono i costi generali del modello societario, sotto forma di spese di costituzione, compensi agli organi sociali, spese di funzionamento, ecc. (ovviamente variano a seconda della natura della società e del suo dimensionamento anche in termini di capitale sociale), mentre va dimostrata in concreto, caso per caso, l’effettiva convenienza economica della scelta del modello societario.
E che si tratta di costi non del tutto secondari nel quadro complessivo della gestione di un ente, ad esempio comunale medio-piccolo, è dimostrato dalla (contro)-tendenza attuale nel senso di imporre alcuni limiti alle società pubbliche, proprio a partire dal numero degli amministratori, dai loro compensi e dalle limitazioni delle attività imprenditoriali: si vedano ad esempio le norme in materia di esclusività dell’oggetto sociale e le limitazioni all’attività extraterritoriale poste dall’art. 13 d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, conv. in l. n. 248 del 4 agosto 2006[10], o quelle in materia di riduzione dei componenti dei consigli di amministrazione e dei relativi compensi introdotte dalla legge finanziaria per il 2007 e, in parte, per il 2008 (legge n. 296/2006, art. 1, commi 465 e 466 e da 725 a 736, e legge 244/2007, art. 3, commi da 43 a 51).
c) La medesima esigenza di ben ponderare la convenienza economica di (continuare ad) investire pubbliche risorse in una compagine societaria, si ripropone nel momento in cui l’ente pubblico si appresta a porre in essere operazioni di capitalizzazione, quando il capitale sociale scenda sotto la soglia legale minima (art. 2447 c.c. e art. 2327 c.c.), mediante riduzione e contestuale aumento del capitale medesimo, esigenza di capitalizzazione che spesso è causata da continue e gravi perdite di esercizio, con conseguente riduzione del capitale sociale disposto ex art. 2446 c.c. e necessità, qualora si scenda al di sotto del limite legale, di riportare il capitale al di sopra di detta fatidica soglia.
Anche in questo caso occorre porsi il problema del limite alla capitalizzazione reiterata da parte del socio pubblico di maggioranza della società partecipata, in base ad una doppia valutazione, da un lato, di convenienza economica della decisione e, dall’altro, di permanenza dell’interesse pubblico alla continuazione dell’attività della società (che ben può sussistere anche in presenza di perdite di esercizio, in caso ad esempio di erogazione di servizi pubblici necessari alla collettività).
Quel che è certo è che, in ogni caso, occorre una preventiva approvazione di un serio piano industriale di risanamento della società tale da consentire di affrontare e risolvere i problemi di natura strutturale, di certo non risolvibili attraverso semplici ricapitalizzazioni, capaci di far fronte alle sole situazioni congiunturali[11].
Anche la giurisprudenza contabile si è posta il problema, affermando, ad esempio, la responsabilità dei componenti di un consiglio comunale che non avevano ravvisato l'assoluta disutilità economica dell'intervento di ricapitalizzazione per l'inidoneità della società stessa a raggiungere gli obiettivi di interesse pubblico statutariamente previsti, in base ad una valutazione di utilità-disutilità che va riportata ovviamente ex ante al momento di assunzione della delibera di ricapitalizzazione (Sez. Giur. Marche n. 492 del 12 luglio 2005).
Sulla base del piano industriale verrà presa la decisione di nuova capitalizzazione, ovvero si prospetteranno altre soluzioni: la trasformazione ex art. 2447 c.c. (ove possibile) ovvero, extrema ratio, ma pur ratio, lo scioglimento della società (art. 2484 cc: scioglimento e liquidazione), con contestuale deliberazione di proposizione dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori in caso di ritardo o omissione nell’accertamento della sussistenza di una causa di scioglimento o nell’emissione dei provvedimenti previsti dal terzo comma dell’articolo 2484 c.c. (come prevede l’art. 2485 c.c.)[12].
In conclusione sul punto, dinanzi ai momenti di crisi della società pubblica, per perdite di esercizio ricorrenti od altro, occorre sempre domandarsi, come farebbe qualsiasi imprenditore oculato, se vi è convenienza nella ricapitalizzazione, o invece nella trasformazione o, addirittura, nello scioglimento e liquidazione della società; e la risposta a questa spesso ricorrente domanda deve essere fornita in base ad un’analisi comparata dei costi e dei benefici delle diverse soluzioni, nonché in base ad un serio piano finanziario di risanamento e ad un business plan che indichi chiaramente quali sono le prospettive dell’azienda.
3. Questa drammatica decisione può essere evitata utilizzando al meglio gli strumenti di reazione preventiva previsti dall’ordinamento a favore del socio (pubblico), tanto più se di maggioranza, a partire dall’azione di responsabilità (deliberata dall’assemblea o dai soci che rappresentino 1/5 o 1/20 del capitale) contro gli amministratori (o i consiglieri di gestione nel sistema dualistico, ex art. 2393 cc., 2393 bis, 2409 decies), dall’azione dei singoli soci (azione individuale ex art. 2395 c.c., nella Srl ex art. 2476 co. 3 cc), dalla revoca degli amministratori e sindaci.
Esistono poi tutta una serie di regole e procedure in grado di garantire un livello soddisfacente di efficienza ed economicità nella gestione societaria (indicate sinteticamente con l’espressione “strumenti di governance e controllo”), che andrebbero utilizzate nelle società pubbliche più spesso di quanto non accada oggi (specialmente, in quelle a partecipazione comunale), poteri di governo, che, tanto più in una società c.d. in house, o a partecipazione totale e, in parte, maggioritaria, possono effettivamente indirizzare e correggere in corsa gli andamenti gestori della società, prevenendo le perdite di esercizio e i conseguenti scenari. Si pensi alle direttive emanate dal socio maggioritario, anche se, quanto all’efficacia, certamente la loro inosservanza non è in grado, per ciò solo, di fondare una azione di responsabilità contro gli amministratori (a meno che le finalità pubbliche non coincidano con lo scopo sociale) e ciò in quanto la gestione dell’impresa costituisce attività esclusiva degli amministratori e non del socio, sia pure maggioritario (2380 bis c.c.), i quali amministratori sono tenuti a curare solo l’interesse sociale, non quello del socio.
Ulteriori strumenti più stringenti e sofisticati di controllo da parte del socio pubblico sono, oltre alla nomina dei propri delegati e all’approvazione del bilancio, il contratto di servizio[13] e l’approvazione di varie tipologie di rendicontazione periodica (report contabili o rapporti di gestione, report sui risultati economico-finanziari), senza tacere delle verifiche e degli audit specifici da parte di soggetti incaricati dagli enti locali e delle analisi dei bilanci.
A livello organizzativo, inoltre, è importante sottolineare la necessità dell’istituzione di una struttura nell’ambito dell’ente (una sorta di Ufficio “Rapporti con le società partecipate”) a cui facciano capo tutti i rapporti con le (spesso numerose) società partecipate, in modo da avere sotto controllo l’andamento complessivo delle partecipazioni e da realizzare un unico riferimento, per di più specializzato, per l’istruttoria delle decisioni che devono assumere gli organi di vertice dell’ente (ad esempio in tema di ricapitalizzazione o trasformazione), per la definizione dei contenuti delle direttive rivolte alla società e anche per il monitoraggio delle prestazioni oggetto dei contratti di servizio.
In questa stessa ottica, di sistema, ma traslata sul piano più squisitamente contabile, appare ormai indifferibile l’adozione obbligatoria e generalizzata dello strumento rappresentativo del bilancio consolidato[14] da parte dell’ente-socio, che dia conto analiticamente dei dati contabili attivi e passivi di ciascuna società, strettamente collegati allo stato delle finanze dell’ente, in modo da evitare situazioni contabili falsate in cui, ad esempio, sia possibile nascondere le perdite di una società nelle pieghe del bilancio dell’ente: “i risultati delle società a partecipazione pubblica totalitaria o maggioritaria in termini di ammontare di spese e di debito devono essere conteggiati insieme a quelli dell’ente pubblico che detiene la partecipazione poiché, in caso contrario, quest’ultimo potrebbe trovarsi, contemporaneamente, da un parte in una situazione di sostanziale pareggio di bilancio e sana situazione finanziaria e, dall’altra, essere azionista di una società di capitali gravata di ingenti debiti, dei quali dovrebbe comunque rispondere in modo illimitato se azionista unico o pro-quota se azionista di maggioranza”[15].
Così come, infine, deve essere valorizzato il ruolo del collegio sindacale (artt. 2397 e ss. c.c. per le spa), il quale (art. 2403 c.c.) vigila sull'osservanza della legge e dello statuto e, in particolare, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione – cioè, a ben vedere, proprio sull’efficienza, sull’efficacia e sull’economicità della gestione - in particolare sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società (efficienza sul piano interno) e sul suo concreto funzionamento (efficacia). Tra l’altro, sul piano dei poteri (2403 bis c.c.), il collegio sindacale può disporre ispezioni, richiedere notizie sull'andamento delle operazioni sociali o su determinati affari, scambiare informazioni con gli organi omologhi delle società controllate.
4. La questione fondamentale che si pone a questo punto è se ed in che limiti sia possibile valutare l’efficienza e l’economicità di una società pubblica, oltre che nei momenti fondamentali della vicenda societaria (nascita, crisi, morte), con riferimento ai singoli atti della gestione, se cioè sia ipotizzabile, accanto e parallelamente ad un sindacato della Corte dei conti sulla sana gestione dell’amministrazione pubblica, un sindacato sulla sana gestione societaria, tenuto conto che tale ipotesi si scontra frontalmente con il principio di insindacabilità nel merito delle scelte imprenditoriali, in maniera del tutto speculare (mutatis mutandis, ovviamente), sul fronte pubblicistico, all’analogo limite costituito dall’insindacabilità nel merito delle scelte amministrative discrezionali.
Tale valutazione si articola in astratto su un profilo esterno, come vaglio di efficienza, efficacia ed economicità dell’attività o del servizio reso alla collettività dalla società pubblica, e su un profilo interno, come analisi della capacità di (auto)-organizzazione e gestione dei fattori produttivi (capitali finanziario, risorse strumentali ed umane, ecc.).
Sotto il primo aspetto, va da subito evidenziato che in questo caso, l’eventuale danno verrebbe subito non dalla società (per lo meno direttamente) ma dalla collettività, o meglio dagli utenti del servizio pubblico e consisterebbe nell’erogazione di quest’ultimo in contrasto con i criteri di efficienza, economicità ed efficacia – come fissati, ove esistenti, nelle carte dei servizi - tale da concretizzare un “disservizio esterno”, sul fronte degli utenti a causa della non correttezza della gestione societaria, rilevante verso l’esterno.
Ne consegue che, nell’attuale assetto normativo del sistema delle responsabilità, la Corte dei conti difetterebbe della giurisdizione[16], a favore del giudice ordinario, presso il quale andrebbero esperite le azioni individuali del singolo danneggiato dall’azienda pubblica (o un certo numero di questi, ma individualmente), oppure, a seguito della recente introduzione di azioni collettive anche nel nostro ordinamento, da intere categorie di utenti[17].
Diverso e molto più articolato il discorso nel caso in cui la valutazione di economicità ed efficienza debba essere fatta sul piano interno e sia registrabile una cattiva gestione dell’azienda nel suo complesso che porti ad esempio a perdite consistenti e reiterate (nel qual caso va ricordato che tale circostanza da sola non è di per se significativa, dato che l’ente pubblico può valutare la prevalenza dell’interesse pubblico alla continuazione della gestione, ad esempio nelle società in house o a totale partecipazione pubblica di erogazione di un servizio essenziale) ovvero nel caso in cui una singola decisione imprenditoriale provochi il depauperamento del patrimonio aziendale.
Preliminarmente ed in via generale va sottolineato che un ente pubblico, nel momento in cui diviene socio di una società, dovrebbe ispirare la propria azione, oltre che al perseguimento dell’interesse pubblico (generale e speciale), se non ad un vero e proprio fine di lucro, per lo meno a canoni di economicità e convenienza economica, e ciò anche nel caso delle c.d. "società in house", le quali hanno come cliente esclusivo l’ente pubblico che le ha costituite (su quest’ultimo aspetto, v. Corte dei conti, Sez. Giur. Umbria, sent. n. 354 del 8.11.2006).
Elementari regole di gestione del denaro pubblico secondo criteri di economicità (cioè almeno la remunerazione dei fattori impiegati, le risorse investite nella società) impongono che la permanenza (ed a maggior ragione l’ampliamento della quota di partecipazione[18]) in una società il cui capitale risulta già sottoscritto dall’ente pubblico in misura largamente maggioritaria dovrebbe essere sottoposta a continua vigilanza e revisione in base alla convenienza complessiva della partecipazione stessa, ai benefici ed ai ritorni economici diretti ed indiretti, agli eventuali utili, e ciò tanto più allorché si tratti di una operazione nel medio-lungo periodo. Per l’ente-socio si tratta di vagliare continuamente l’effettiva utilità e la convenienza economica della permanenza della partecipazione maggioritaria nella società, posto che lo strumento societario (sia essa in house, a totale o maggioritaria partecipazione, ovvero di produzione beni e servizi, o di intermediazione) dovrebbe essere impiegato in vista della pubblica utilità e del vantaggio economico progettato (almeno capacità di auto-sostentamento e auto-propulsiva nel primo caso, assenza di perdite o conseguimento di utili negli altri).
Il parametro generale è offerto dal criterio dell’homo oeconomicus, inteso quale entità astratta, essere ideale, cui l’economia classica ha fatto ricorso per formulare leggi fondate sulla massimizzazione del vantaggio personale, ma anche per descrivere un modo di agire razionale, basato sulla attenta valutazione dei pro e dei contro delle scelte, e soprattutto sulle informazioni, sulla conoscenza di tutte le circostanze e le situazioni rilevanti (esiste cioè una sorta di onere informativo a carico degli amministratori della società ed anche, sotto altro profilo, dei vertici dell’ente tenuti a vigilare sulla partecipazione).
Al riguardo va segnalata una recente sentenza della Corte dei conti che si è occupata di un caso, certamente limite, di inutilità o disutilità societaria pubblica (sez. Giur. Umbria n. 354 del 8 novembre 2006), in cui il danno derivava dalla permanenza in una società (a maggioranza pubblica, di produzione di beni e servizi) che presentava, oltre all’assenza di utili per un certo numero di esercizi, diversi indici di diseconomicità ed inefficienza (senza sede, coincidente con quella dell’ente socio, senza personale, senza beni, senza clienti, essendo l’unico l’ente stesso) ed oltretutto fonte di ulteriori diseconomie per l’ente socio in virtù del ruolo di intermediazione fittizia della società tra l’ente e i suoi originari fornitori nell’acquisizione di beni e servizi (con la conseguenza che l’ente finiva anche per pagare le forniture ad un prezzo maggiore). In questa ipotesi, il giudice ha affermato che ciò che viene a mancare “è il concetto stesso di azienda” (cfr. artt. 2555, 2082 e 2475, n°3, cc, vigente, quest’ultimo, prima del d. leg.vo n°6/2003, nonché art. 2463, n°3, cc, nel testo introdotto da tale decreto), tanto da giungere a definire la società stessa “una scatola vuota”.
Dal punto di vista dei soggetti responsabili (legittimati passivi), questa decisione si iscrive nel filone giurisprudenziale che, più che fare riferimento alla responsabilità diretta degli organi sociali, valorizza la responsabilità dell’ente socio per la mancata vigilanza sull’utilità economica della partecipazione societaria e va a sindacare proprio la mancata adozione dei meccanismi di reazione del socio (pubblico) di cui si è detto supra, a partire dal mancato esercizio dell’azione di responsabilità sociale ex 2393 c.c., in questo caso per gestione antieconomica della società (Cdc, sez. II n. 96/02, Sez. Lazio n. 1015/1999, Sez. Abruzzo n. 378/2005). Dello stesso filone fa parte anche una sentenza della Corte di Cassazione , la n. 13702 del 22 luglio 2004, in base alla quale , in presenza di atti dannosi di cattiva gestione della società, l’ente socio (nella persona del sindaco) ha l’obbligo di proporre l’azione sociale ex art. 2393 cc nei confronti degli amministratori della società, sulla base del presupposto che tale decisione non rientri nell’attività discrezionale, rimessa a valutazioni di merito, ma corrisponde a precisi obblighi di tutela del patrimonio dell’ente socio.
Resta da esaminare la diversa prospettiva di una valutazione di responsabilità diretta a carico degli organi sociali, degli amministratori di una società pubblica per la diseconomicità e inefficienza (degli atti) della gestione: il percorso argomentativo che si seguirà tende a fondare la responsabilità a carico di amministratori di una società pubblica per la diseconomicità e inefficienza degli atti di gestione, muovendo dalla (diversa) sindacabilità (limitata) del merito delle scelte amministrative discrezionali per giungere ad una sindacabilità (limitata) delle scelte imprenditoriali pubbliche.
Va ricordato, difatti, quanto al primo aspetto, che secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, il limite dell’insindacabilità delle scelte discrezionali, se non autorizza il giudice contabile, a sindacare nel merito le scelte compiute (con inammissibilità di una valutazione della congruità tra i mezzi utilizzati e i fini perseguiti), lo legittima a verificare la esistenza di un rapporto di "ragionevole proporzionalità" tra costi e benefici …. essendo ormai assunti tra i requisiti normativi che regolano l’attività amministrativa anche i criteri di "economicità" e di "efficacia"; in conseguenza, “deve ritenersi che rientri tra i poteri della Corte dei Conti, nell’ambito del giudizio di responsabilità, anche quello di verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità” (Cass. S.U. Civ. 14488/03)”. In tal modo, “la violazione dei criteri di economicità assume rilievo anche nel giudizio di responsabilità, dal momento che l'antigiuridicità dell'atto amministrativo costituisce un presupposto necessario della "colpevolezza" di chi lo abbia posto in essere.
In applicazione di tale principio, la giurisprudenza contabile prevalente dopo aver affermato la piena sindacabilità di atti che, esprimendo scelte abnormi e palesemente arbitrarie, debbono ritenersi illegittimi per eccesso di potere ovvero, nel caso di comportamenti omissivi, per violazione di legge ha, appunto, individuato l’ambito di sindacabilità nell’area delle scelte caratterizzate da “abnormità e palese irrazionalità” (ad es., tra le tante, SS.RR. n. 4 del 1 marzo 1999; Sez. Giur. Centr. II n. 2 del 7 gennaio 2003) ha poi concluso (si veda per tutte, Sez. Giur,. Centr. III, n. 16 del 15 gennaio 2007; sez. II n. 127 del 20 marzo 2006) che l'insindacabilità delle scelte amministrative non esclude la verifica giudiziale sul corretto esercizio del potere discrezionale, sulla base di parametri esterni (quali la competenza, il termine e la materia) e interni (rapporto tra fine istituzionale e fine concreto; congruità e proporzionalità delle scelte; principi di razionalità, imparzialità e buona amministrazione). In questa evoluzione giurisprudenziale, ci si è spinti, in alcuni casi, sino a sindacare gli investimenti di risorse finanziarie (di enti pubblici) in operazioni speculative o ad alto rischio, escludendo che tali operazioni, in quanto al di fuori di ogni criterio di ragionevolezza, possano rientrare nei fini istituzionali pubblici (in part., sentenza n. 67 del 14 gennaio 2005 della Sez. Giur. Abruzzo).
A ben vedere, si può concludere che, sul fronte pubblicistico, nell’impostazione giurisprudenziale del delicato tema (e soprattutto alla luce della sent. n. 14488 del 2003 della Corte di cassazione), l’insindacabilità nel merito delle attività amministrative discrezionali (la scelta in quanto tale) si risolve nella limitata sindacabilità del rapporto costi-benefici alla base della scelta (valutazione da compiere in base ai parametri ed agli indicatori di efficacia, economicità efficienza).
Ulteriore premessa logica necessaria, sul fronte dell’attività di diritto comune, è che l’attività privata svolta dalla pubblica amministrazione, anche nelle forme tipiche del diritto privato, la quale costituisce espressione (non di attività discrezionale, ma) dell’autonomia negoziale dell’ente, non è libera nel fine, ma è funzionalizzata in ogni caso al perseguimento dell’interesse pubblico e, sul piano del diritto contabile, al corretto utilizzo di denaro pubblico; con la conseguenza che essa è sottoposta ad un duplice sindacato: ad un sindacato di legittimità, in quanto soggiace a vincoli normativi publicistici (ad es., in campo societario, i limiti posti dalla recente legislazione in materia di riduzione del numero dei componenti dei consiglio di amministrazione delle società, di riduzione dei compensi dei medesimi amministratori, di limitazioni attività extraterritoriali, ecc.), ma anche a vincoli normativi propri del diritto comune, tipici della natura dell’attività in questione (ad esempio, in materia societaria, trova applicazione la disciplina codicistica e le altre norme applicabili al particolare modello societario prescelto).
Sotto il primo profilo (vincoli pubblicistici), inoltre, in ragione dell’ampliamento dell’area della legittimità di cui si è detto supra - che oggi ricomprende anche i criteri di efficacia, efficienza, economicità - le attività privatistiche funzionalizzate (ivi comprese quelle proprie di una spa pubblica in house o a totale partecipazione pubblica), possono e devono essere vagliate, in sede di giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti, in base a parametri che, pur rientrando nella sfera della legittimità, involgono in realtà valutazioni proprie delle scienze economiche, da effettuare caso per caso, in particolare attraverso l’applicazione ex ante di tecniche di analisi costi-benefici.
Poiché si tratta di effettuare valutazioni di scelte imprenditoriali (pubbliche), va subito precisato che esiste per le società private, come noto, il limite invalicabile dell’insindacabilità dinanzi al giudice ordinario delle scelte imprenditoriali pure, il c.d. merito imprenditoriale (in cui cioè gli atti aziendali corrispondono ad altrettante scelte di strategia aziendale), in base ad una giurisprudenza “pietrificata”[19].
Se questa è dunque la linea di confine oltre la quale non si può andare, appare però evidente dalle premesse del ragionamento che la funzionalizzazione della società pubblica, il suo carattere “insincero” (l’immanenza dell’elemento pubblicistico, sia sotto forma di interesse pubblico da perseguire sia sotto forma di denaro pubblico utilizzato) non può non portare all’ammissibilità, per lo meno per le società in house e a totale partecipazione pubblica (criterio soggettivo) o, seconda altra impostazione, in ogni caso in cui esse svolgano attività amministrativa o di natura esclusivamente pubblica (criterio oggettivo), di una limitata sindacabilità del merito degli atti privatistici di gestione, dove la limitazione è costituita dal necessario superamento di una soglia minima di rilevanza, l’abnormità e la palese irrazionalità dell’atto di gestione.
L’individuazione in concreto dei caratteri propri di una scelta gestoria abnorme e palesemente irrazionale andrà condotta in base a diversi parametri (a seconda del caso concreto): la coerenza rispetto all’interesse societario o di gruppo (2497 c.c.), l’adeguatezza e la conformità all’interesse pubblico (soprattutto nelle società in house e a totale partecipazione pubblica), la natura dell’attività svolta (ente strumentale, servizio pubblico, produzione beni e servizi), l’esistenza di vincoli pubblicistici (più forti e penetranti nelle società in house e a totale partecipazione pubblica, meno nelle società di produzione e intermediazione), l’esistenza di vincoli di natura privatistica (all’inverso, più forti e penetranti nelle società di produzione ed intermediazione, meno nelle società in house e a totale partecipazione pubblica) e tra questi ultimi, a parte i vincoli normativi, principalmente l’obiettivo della massimizzazione del profitto o, quanto meno, della riduzione al minimo delle perdite (bilancio in pareggio), in base a logiche proprie del comportamento dell’homo oeconomicus[20].
In conclusione, come sul fronte pubblicistico, l’insindacabilità nel merito delle attività amministrative discrezionali si risolve nella limitata sindacabilità del rapporto costi-benefici alla base della scelta, così, sul fronte societario pubblico, in virtù della funzionalizzazione, è possibile giungere ad un sindacato della sana gestione aziendale pubblica, risolvendo il sindacato sul merito imprenditoriale pubblico (non ammesso in quanto tale) nella valutazione dei parametri oggettivi di natura economica che diano conto della “ragionevole proporzionalità tra costi e benefici” (di cui parla anche Cass. SS.UU. n. 14488/2003), da effettuare attraverso tecniche consolidate proprie delle scienze economiche (analisi costi benefici, indici di redditività, ecc.), tenendo sempre presente che il comportamento dell’amministratore di una impresa pubblica risulterà patologico soltanto quando si sarà superata una soglia minima di rilevanza, costituita dall’irrazionalità e abnormità della scelta aziendale.
Tuttavia, la funzionalizzazione societaria comporta anche l’insufficienza dei soli criteri economici di valutazione e la necessità di considerare parametri di altra natura; in particolare, posto che ogni scelta imprenditoriale costituisce espressione dell’autonomia negoziale e che tra i limiti di questa, oltre alla liceità, da intendersi come conformità all’ordinamento (rispetto delle norme imperative, ordine pubblico, buon costume ex art. 1343 c.c.), vi è in ogni caso, secondo la dottrina più avanzata, la meritevolezza dell’interesse perseguito in concreto (art. 1322 c.c., co. 2), grande importanza nella problematica che ci interessa potrebbe assumere quest’ultimo parametro, tenuto conto che, tra le diverse posizioni formatesi su tale concetto, che, ad esempio, tendono ad identificarlo al minimo nell’assenza di futilità dell’interesse, vi sono posizioni avanzate che valorizzano una interpretazione costituzionalmente orientata del parametro civilistico, giudicando meritevole di tutela per l’ordinamento solo gli interessi (appunto) “socialmente funzionalizzati” (art. 41 Cost.), dividendosi poi tra quanti ritengono sufficiente che l’iniziativa economica non contrasti con l’utilità sociale (co. 2) e quanti affermano che l’attività economica pubblica debba essere indirizzata e coordinata a fini sociali (co. 3). Nel caso dell’attività di una società pubblica la meritevolezza dell’interesse sotteso alle singole decisioni aziendali andrà valutata in concreto alla luce delle finalità pubbliche e agli scopi sociali perseguiti statutariamente.
Ricordando allora che la Corte dei conti è già il giudice della grave devianza dei fenomeni finanziari pubblici, il giudice dell’abnormità (si pensi all’attuale conformazione della responsabilità amministrativa, con i suoi limiti, dalla colpa grave all’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, che ne fanno il giudice delle “gravi responsabilità”), l’area del danno risarcibile dinanzi ad esso dovrebbe essere ampliata sino a ricomprendere l’inefficienza e la diseconomicità aziendale pubblica in caso di superamento della soglia minima costituita dall’abnormità e palese irrazionalità della scelta imprenditoriale, individuata attraverso un esame comparativo degli interessi in gioco (pubblici e privati), l’utilizzo degli strumenti propri delle scienze economico-aziendali (analisi costi-benefici svolta ex ante, indici di redditività, ecc.) e il ricorso al criterio della meritevolezza dell’interesse perseguito dalla decisione societaria visto in chiave di funzionalizzazione pubblica (il tutto da graduare diversamente a seconda del tipo di società, di attività, di misura della partecipazione del capitale pubblico).
Tenendo anche presente che esiste in questa materia un principio non scritto di valorizzazione delle partecipazioni pubbliche: le società pubbliche, insincere per definizione, devono sempre rappresentare per l’ente pubblico una opportunità di investimento e uno strumento operativo redditizio, oltre che flessibile e dinamico, da utilizzare per migliorare efficienza ed economicità nella resa dei servizi ai cittadini-utenti e non una fonte di sprechi e di sperpero di risorse finanziarie.
Tra l’altro, sono concetti di cui si occupano - e non da adesso – le Sezioni regionali di controllo e in genere tutta l’area del controllo della Corte dei conti ed infatti ritengo questo terreno un luogo privilegiato di incontro tra le due anime storiche dell’Istituto.
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[1] A partire dall’art. 1 della l. 241 del 1990 (e successive modifiche ed integrazioni); la legge n. 142/1990 poi sostituite dal Testo unico degli enti locali; l’ art. 1, co. 1, e 4, co. 1, del d. l.vo n. 29/1993, poi art. 1 e 2 del d. lgs. 165/2001; l. n. 20/1994; d. l.vo n. 77/1995; il d. lgs. n. 286/1999; le due leggi “Bassanini”: le n. 59/1997 e n. 127/1997; il capo IV del titolo III e l'intero titolo VI del Testo unico degli Enti Locali, per citarne solo alcune.
[2] La letteratura in tema di valutazione dell’efficienza, efficacia ed economicità in ambito pubblicistico è veramente sterminata, così come variegato appare il modo di atteggiarsi dei significati dei tre termini, a seconda del contesto in cui sono utilizzati; la visione nord-americana della questione definitoria sintetizza pragmaticamente (e mirabilmente) il concetto di efficienza come l’insieme delle valutazioni e misurazioni di produttività, rendimento, basate in particolare sulle rilevazioni dei costi unitari di servizi e prestazioni che tentano di dare risposta alla domanda fondamentale: si stanno facendo le cose nel modo giusto ?; nella stessa prospettiva, per efficacia si intende l’insieme delle misurazioni della qualità effettiva dell’interazione del soggetto valutato con l’ambiente e cerca di dare risposta al quesito altrettanto centrale nella vita di un ente o azienda: si stanno facendo le cose giuste ?; infine, il concetto di economicità va sdoppiato, da un lato, nell’attitudine alla remunerazione dei fattori produttivi e, dall’altro, nella capacità di soddisfare i fabbisogni finanziari richiesti dalla gestione, di modo che essa diviene la misura della sua autosufficienza, della capacità auto-propulsiva del soggetto. E’, infine, evidente come tra i tre obiettivi (e le corrispondenti valutazioni),vi siano continue e reciproche interdipendenze; in particolare, l’efficienza è spesso un utile strumento di controllo di una apparente economicità: ad esempio, se un’azienda pubblica realizza un volume di ricavi maggiore dei costi, ma è diretta poco razionalmente (gestione contraddistinta da scarsa efficienza), si verificherà uno spreco di risorse e fattori produttivi, per cui, mentre in una situazione monopolistica o di godimento di altri privilegi (es. aiuti di Stato) grazie ai meccanismi economici e giuridici di compensazione sarà possibile mantenere i risultati aziendali positivi, in un sistema di effettivo libero mercato la stessa sopravvivenza sarà messa a rischio. E’ anche una questione di provenienza soggettiva della valutazione: l’utente del servizio, il consumatore, privilegia il momento dell’efficacia rispetto all’efficienza o all’economicità aziendale, perché ciò che interessa al fruitore del bene o servizio è, in primo luogo, la qualità e le condizioni economiche dell’offerta.
[3] Esaminato nella seduta del Consiglio dei ministri del 1° dicembre 2006 ed approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 24 ottobre 2007 (AC 2161) con il nuovo titolo "Disposizioni volte alla modernizzazione e all' incremento dell' efficienza delle amministrazioni pubbliche, nonché alla riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese"; l’esame parlamentare si è poi fermato per l’anticipata fine della legislatura.
[4] Dopo aver da lungo tempo precisato che l’organismo di diritto pubblico è sempre soggetto, qualunque sia la sua forma giuridica, alla normativa in materia di appalti pubblici, più di recente, in applicazione del principio di attrazione (o del “contagio”), la Corte di Giustizia della CE ha affermato che tutta l’attività contrattuale di una società partecipata pubblica, che abbia le caratteristiche dell’organismo di diritto pubblico, deve essere sottoposta alle regole procedimentali di evidenza pubblica, giacchè le attività libere o liberalizzate risultano per così dire contagiate dal regime vincolistico tipico dell’agire dell’organismo di diritto pubblico (CGCE, 10 aprile 2008, causa C-393/06; in precedenza, tra le tante, 10 novembre 1998, causa C-360/96; 27 febbraio 2003, causa C-373/00). L’importante principio, che segna probabilmente il punto di arrivo del lungo percorso normativo e giurisprudenziale avviato all’inizio degli anni ’90, si basa sulla nota definizione di organismo di diritto pubblico fondata sul soddisfacimento di “esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale”, con la precisazione che tale ultimo carattere si rinviene, in positivo, allorchè il soggetto operi in condizioni normali di mercato, persegua scopi di lucro e subisca le perdite commerciali connesse all’esercizio della sua attività (nel quale ultimo caso saremmo di fronte ad una società partecipata-“impresa pubblica”, la quale di per se non è assoggettata alle procedure di evidenza pubbliche e al codice dei contratti, a meno che operi nei c.d. “settori speciali).
[5] In via generale e del tutto schematica, tale regime prevede: l’azione sociale, previa deliberazione dell’assemblea,come previsto dall’articolo 2393 c.c.; l’azione dei soci che rappresentino 1/5 o 1/20 del capitale sociale in base all’articolo 2393 bis c.c.; l’azione individuale del socio ex art. 2395 c.c.; l’azione proposta dai creditori o dai terzi ex art. 2394 c.c.
[6] Anche se su quest’ultima disposizione codicistica si è di recente abbattuta la scura comunitaria della Corte di giustizia che, con sentenza 6 dicembre 2007, in cause riunite C-463/04 e C-464/04, ha dichiarato incompatibilità l’art 2449 codice civile con l’articolo 56 del Trattato CE.
[7] Tra l’altro, sotto questo punto di vista, va segnalata l’insufficienza della riforma: nel c.d. "sistema dualistico" (artt. 2409-octies ss. c.c.), in cui i poteri amministrazione spettano al consiglio di gestione e i poteri di controllo al consiglio di sorveglianza, dove però quest’ultimo assorbe una parte dei poteri che nel sistema monistico spettano all'assemblea, come, ad esempio, la nomina del consiglio di gestione e la deliberazione dell’azione di responsabilità nei confronti del consiglio di gestione, con l’effetto che, pur apparendo in astratto un esempio di separazione fra politica e gestione, in concreto l’obiettivo risulta vanificato se il consiglio di sorveglianza (nominato dall’assemblea) risulta essere composto da politici.
[8] Esula dal presente scritto, nel senso che ne costituisce il (già ampiamente approfondito) presupposto, sia la tematica della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sulle società pubbliche, affermata a partire dalla notissima sentenza della Corte Cass. n. 19667 del 2001, passando per le ulteriori pronunce, fino al recente intervento legislativo di cui all’art. 16-bis della legge 28 febbraio 2008, n. 31"Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria", la quale disposizione, letta a contrario, per la prima volta riconosce normativamente la giurisdizione della Corte sulle società a totale o maggioritaria partecipazione pubblica, nonchè su quelle con partecipazione inferiore al 50% purché non quotate sui mercati regolamentati. Sia il tema del tipo di azione spettante al Pubblico Ministero contabile, cioè se a quest’ultimo spetti una azione propria nell’interesse del socio pubblico, una azione individuale del PM contabile ex art. 2395 c.c. o una azione sociale del PM contabile ex 2393 e 2393 bis del c.c.. Non può tuttavia negarsi che appare più coerente con il sistema complessivo delle tutele giurisdizionali la prima soluzione (azione propria del PM contabile nell’interesse del socio pubblico), come sembra affermare anche una recente pronuncia della Sezione giurisdizionale Lombardia della Corte dei conti, sentenza n. 135 del 4 marzo 2008, secondo cui, premesso che, in materia di risarcimento del danno subito da una società a partecipazione pubblica, l'azione del PM contabile non è assorbita dall'azione di responsabilità prevista dal diritto societario, tra le due azioni, che dunque convivono, vi sono profonde differenze: in particolare mentre l'azione societaria è sempre rinunciabile e transigibile ed è prevista a vantaggio dell'intera società, l'azione contabile è obbligatoria e irrinunciabile, non può avvantaggiare i soci privati in caso di società mista (il risarcimento andrà a favore dell'ente socio e nella misura della partecipazione al capitale) e può colpire anche i singoli dipendenti oltre agli amministratori e ai direttori generali.
[9] Tracce (isolate, in verità) di questa impostazione sono rinvenibili in un risalente parere reso dalla prima Sezione del Consiglio di Stato n. 130 dell’ 1.2.1985: “la motivazione della determinazione comunale di costituire una società p.a., insieme con un privato, per la gestione di un pubblico servizio locale, deve innanzitutto evidenziare la convenienza economica, per le finanze dell’ Ente locale, di una tale formula, rispetto alle altre previste dall’ordinamento” (oggi 113 TUEL). Proseguiva la decisione: “A tale scopo si renderà opportuno redigere una relazione che confronti i risultati economici di un ipotetico piano-programma pluriennale,.... sia di un’ azienda pubblica locale per lo svolgimento del servizio considerato, sia di una società concessionaria del medesimo servizio, cui partecipano soggetti diversi dall’ ente locale interessato, con le analoghe previsioni per il medesimo periodo dei risultati della società mista alla quale si intende affidare quel servizio. Dovrà inoltre tenersi conto della qualità del servizio erogato e del diverso grado di efficienza nello svolgimento attraverso l’ uno o l’ altro strumento, mediante un calcolo dettagliato dei costi-benefici di ciascuno di essi nonché dell’ eventuale opportunità della partecipazione di un privato al capitale della società in relazione ad una specifica necessità di un apporto di particolari conoscenze tecniche e di tecnologie (know how) e di finanziamento.” Il principio di cui sopra è stato poi puntualmente richiamato e ribadito nella sentenza della Sezione sesta dello stesso Consiglio di Stato n. 374 del 12 marzo 1990, mentre la Corte dei conti in una decisione, anch’essa risalente, sez. II, n. 44 del 25 settembre 1996 (poi riformata in appello da SS.RR. n. 13/A del 4 marzo 1998) espresse una valutazione negativa della scelta dello strumento societario proprio sul piano della preventiva valutazione di convenienza economica e della mancata o insufficiente esplicitazione dei motivi di pubblico interesse. Tuttavia, secondo le Sezioni riunite, si trattava di vizi della deliberazione che potevano fondare censure in termini di illegittimità degli atti, non di illiceità dei comportamenti e che, dovendo guardare il fine e non i mezzi dell’attività amministrativa, ed essendo il comune deliberante un ente a fini generali, ben poteva costituire, come nel caso in discussione, una società di promozione di manifestazioni culturali, sportive e ricreative; senza contare che, nel merito e sul piano dell’economicità stricto sensu, gli introiti della società erano risultati maggiori rispetto alla quota di partecipazione dell’ente.
[10] Una delle più note anticipazioni giurisprudenziali in tema di attività imprenditoriale pubblica extraterritoriale è costituita dalla decisione della VI Sezione del Consiglio di Stato 5843/2004, che nel premettere che “non può seriamente dubitarsi della possibilità della società mista di svolgere le proprie attività in ambito extraterritoriale, occorre, caso per caso verificare, con specifiche indagini e studi, che l'espletamento di tale attività, da un lato contribuisca al migliore perseguimento dell'interesse della collettività locale e, dall'altro, non si traduca in un aumento dei costi per tale collettività in termini di aumento di tasse o di tariffe o di peggioramento del servizio”, di modo che “solo a tali condizioni... si soddisfa la duplice esigenza che, da un lato le attività extraterritoriali della società mista non si traducano in pregiudizio e aumento di costi della collettività territoriale, in contrasto con i principi di efficienza e di equa misura di tariffe e tasse, e che, dall'altro lato, la società mista, una volta immessa nel mercato, vi operi in condizione di effettiva concorrenza e parità con gli imprenditori privati, senza costituire una posizione di privilegio derivante dalla possibilità di usufruire, in violazione delle norme comunitarie e nazionale sugli aiuti pubblici alle imprese di una dote economico-finanziaria costituita da danaro pubblico e, dunque, in definitivo a carico della collettività”.
[11] Su questo fronte, le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti hanno già fatto alcune precisazioni importanti, allorquando hanno puntualizzato che mentre "ripianare le perdite" indica qualsiasi modalità utile per colmare un disavanzo di gestione, cui può provvedersi con contrazione di mutui, con assunzione di prestiti obbligazionari, con riduzione di costi e così via, il verbo "ricapitalizzare" identifica l’azione di ricostituire il capitale originariamente deliberato dai soci per la costituzione della società che si rende necessaria allorché, per fatti connessi alla gestione e a seguito del conseguimento di perdite, il patrimonio sociale si attesta al di sotto del capitale minimo normativamente previsto (Sez. Lombardia, delib. n. 29/2007). Con la conseguenza che il ripiano delle perdite non rientra fra quelle situazioni previste espressamente dalla normazione in materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio, in particolare l’articolo 194, lett. 2 del TUEL (si veda, altresì, Sezione Toscana delib. n. 10/2007). O come quando si è precisato che le somme sborsate dal Comune per ripiani di perdite derivanti dalla gestione di un società partecipata, per cui vige il divieto di finanziamento mediante indebitamento ex art. 3, comma 19, della legge n. 350 del 2003, debbano essere qualificate come spesa corrente, e che il finanziamento degli oneri derivati a carico del bilancio comunale con discapito della consistenza patrimoniale debba considerarsi comportamento contrario ai criteri di “buona amministrazione” e di “sana gestione finanziaria”, perché in contrasto con la regola aurea costituzionalizzata dall’art. 119, comma 6 (Sez. controllo Abruzzo del. 578 del 27 ottobre 2007).
[12] La legge 4 dicembre 1956, n. 1404, all’art. 6, modificato dall’art. 47-ter del d.l. n. 41 del 1995, conv. in legge dalla l. n. 85 del 1995, prevede che nelle società in cui lo Stato abbia la proprietà dell'intero capitale o della maggioranza di esso, il ministro per il tesoro può con proprio decreto, da emanarsi di concerto con il ministro competente, avocare a sè e, alle proprie dipendenze, all'ufficio liquidazioni di cui all'art. 1, tutte le facoltà che competono allo stato come azionista per richiedere la convocazione di assemblee straordinarie, nonché per votare lo scioglimento o la messa in liquidazione anche anticipata delle società, la nomina, la revoca o la sostituzione dei liquidatori e l'azione di responsabilità contro amministratori e liquidatori.
[13] Va rammentato che (riformando gli artt. 113 e 113 bis TUEL) l’art. 35 della legge 448/01, e successive modificazioni ed integrazioni, ha introdotto l’obbligo di contratto di servizio per la regolazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e soggetto erogatore del servizio pubblico in relazione ad ogni ipotesi di affidamento di servizio pubblico locale ed ha previsto che il contratto di servizio vada allegato al bando di gara, nella fase di scelta del soggetto gestore.
[14] Tale strumento, pur previsto astrattamente dall’art. 152, co. 2, e dall’art. 230, co 6, del TUEL, è tuttora scarsamente utilizzato, mentre consentirebbe di dare effettiva attuazione al principio di universalità del bilancio, fornendo un quadro più fedele della reale situazione dell’ente pubblico, che deve sempre più essere inteso come una sorta di holding, come sistema complesso di partecipazioni azionarie, secondo i criteri e i principi del bilancio consolidato, nella versione patrimoniale (con funzione rappresentativa di tipo consuntivo) o economico-finanziario (in chiave prospettica). Su questo specifico documento contabile sarebbero necessarie indicazioni specifiche che, ad esempio, riadattino al contesto nazionale i principi contabili internazionali IPSAS in materia (in particolare (6, 2000, Consolidated Financial Statements – Accounting for Controlled Entities).
[15] Così Sezione regionale di controllo per la Lombardia, del. n. 17/2006 del 30 ottobre 2006.
[16] In realtà, anche nell’ipotesi del danno da disservizio esterno, cioè verso gli utenti del servizio (dunque, sul piano extracontrattuale o della c.d. “responsabilità da contatto sociale”), si potrebbe riconsiderare il tema della giurisdizione della Corte dei conti (nei casi di danni provocati da amministratori e dipendenti delle società pubbliche) valorizzando la previsione di cui all’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994, che, se impone di tenere conto dei vantaggi subiti non solo dall’amministrazione ma anche, e questo va sottolineato, dalla “comunità amministrata” al fine di compensare il danno subito dalle pubbliche finanze, correlativamente apre scenari tuttora inesplorati di risarcibilità dinanzi al giudice amministrativo-contabile degli svantaggi (danni) subiti dalle comunità amministrate, da intendere come insieme di persone individuate od individuabili in base al rapporto con un soggetto pubblico (siano essi gruppi differenziati di cittadini o utenti di un servizio pubblico, sanitario, scolastico, di trasporto, ecc.). Resterebbe il delicato aspetto del soggetto creditore del risarcimento, che potrebbe però essere individuato nell’ente territoriale esponenziale della comunità amministrata (che ha subito il danno) socio della società erogatrice del servizio (il PM contabile agirebbe a tutela di quest’ultimo, secondo lo schema consueto). Ulteriore spunto interpretativo a favore di una rimeditazione del tema è offerto da talune disposizioni del “codice dell’ambiente” (decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006, "Norme in materia ambientale”, e s.m.i.), in particolare, l’art. 313, comma 6 e l’art. 318, comma 2, lett. a), le quali, secondo una certa interpretazione, avrebbero (re-)introdotto una (limitata) giurisdizione della Corte sui danni ambientali.
[17] Il riferimento è, come noto, alla legge finanziaria 2008 (n. 244/2007), che ha previsto all’art. 2, comma 445, che le disposizioni di cui ai commi da 446 a 449 istituiscano e disciplinino l'azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori, quale nuovo strumento generale di tutela nel quadro delle misure nazionali volte alla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, conformemente ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria volti ad innalzare i livelli di tutela, attraverso l’introduzione di nuove disposizioni dopo l'articolo 140 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo). In realtà, la nuova disciplina, che entrerà in vigore il 1° luglio 2008, è stata da subito oggetto di diverse critiche, a partire dalla stessa collocazione nell’ambito di una legge finanziaria, dal filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria, al meccanismo di determinazione del quantum (del tutto sdoppiato rispetto alla procedura giudiziale relativa all’an), rimesso al consenso delle parti o, in difetto, ad una procedura di conciliazione, all’esclusione dei punitive damages (danni punitivi).
[18] Ad esempio, nel caso di una società pubblica in deficit strutturale, non corrisponde al parametro in discorso l’acquisto del pacchetto di minoranza (in mano ai soci privati) di una società che non solo non produce utili, ma continue perdite (e non gestisce il servizio con efficienza o, dal lato dell’utenza, a tariffe eque), il tutto senza contestualmente indagare sulle cause del dissesto, prendere decisioni sul management e approvare un articolato piano industriale di rilancio societario.
[19] A partire, tra le tante, da Cass. sez. I, 12 novembre 1965, n. 2359; l’unico spiraglio nel senso di una limitata ammissibilità del sindacato sulle scelte imprenditoriali è costituito da isolatissime pronunce del giudice di merito, in caso di scelte “palesemente irrazionali e contrarie agli elementari principi di regolare amministrazione” (ad es., Corte Appello Genova del 5 luglio 1986). In realtà, un tale sindacato potrebbe al più risolversi nella valutazione dell’elemento soggettivo, del grado di diligenza impiegato per arrivare ad una determinata decisione (da effettuarsi ex ante), ad esempio in caso di scelta irrazionale, molto rischiosa, abnorme, ipotesi in cui un importante parametro della diligenza è costituito dagli oneri di informazione a carico degli amministratori ex art. 2381 u.c. c.c..
[20] Un utile parametro di riferimento al riguardo può essere identificato nel riferimento alla “remunerazione al minimo del capitale investito” di derivazione comunitaria, propria del modello soggettivo dell’”investitore in una economia di mercato” (direttiva “trasparenza”: direttiva 2000/52/CE della Commissione, del 26 luglio 2000, che modifica la direttiva 80/723/CEE relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza finanziaria all'interno di talune imprese). Al riguardo la contabilità economica ha da tempo individuato diversi indici di redditività che possono essere utilizzati al fine di misurare la convenienza economica di una gestione aziendale pubblica: in particolare, il ROE (Return on equity) è un indicatore della redditività effettivamente ottenuta dall’impresa e quindi del grado di remunerazione del rischio affrontato dall’imprenditore o dai soci (il valore ottenuto va confrontato con il rendimento offerto da investimenti alternativi (in altri settori di imprese o in impieghi finanziari a basso rischio quali BOT, CCT, ecc.); il ROI (return on investment) o tasso di redditività del capitale investito può essere considerato approssimativamente uguale alla differenza tra il Valore e i Costi della produzione evidenziata nel Conto economico civilistico. Il valore minimo assunto dal ROI deve almeno corrispondere al costo medio del denaro, misurato dal ROD (return on debt), il quale ultimo misura la capacità dell’impresa di remunerare il capitale di debito (debiti a breve termine + debiti a medio/lungo termine), ma nello stesso tempo fornisce la misura dell’incidenza del peso degli oneri finanziari sulla redditività complessiva; l’EVA (Economic Value Added); è un indicatore che stima il valore economico creato da un’impresa in un dato esercizio, sulla base del presupposto che un’impresa (o una sua divisione) crea valore quando il rendimento degli investimenti effettuati eccede il costo del capitale investito, il quale, dunque, rappresenta il rendimento minimo da offrire mediamente ai soggetti che hanno investito i propri capitali nell’impresa sia a titolo di capitale di debito, sia a titolo di capitale di rischio. In concreto, il valore creato da un’impresa in un dato periodo è misurato dalla differenza tra la redditività del capitale investito e il costo del capitale complessivamente impiegato nell’attività aziendale, espresso in termini percentuali, moltiplicato per l’entità dello stesso. |
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(pubblicato il 10.6.2008) |
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