I. L’esperienza contemporanea palesa il crescente logoramento della concezione del diritto come di un sistema coerente ed unitario, dotato di una razionalità fondata sull’univocità dell’ordinamento statale: basti pensare che lo stesso fatto può essere oggetto di più normative destinate ad operare in ambiti diversi: civile, penale, amministrativo o contabile, e constatare che la compresenza degli ordinamenti coinvolti rende sempre più arduo il reperimento di regole certe e razionali.
Questi diversi ambiti normativi fanno solitamente capo a giudici appartenenti a diverse giurisdizioni (ordinaria, amministrativa, contabile e, poco manca che ad esse si debba aggiungere -ma occorrerebbe rivedere la Carta costituzionale- anche la “giurisdizione tributaria”); e, quando ciò accade, sorge la necessità di stabilire quale debba essere il rapporto tra le giurisdizioni, e cioè chi sia il giudice che debba conoscere per prima del fatto illecito (in termini di concorrenza o di alternatività) oppure se il giudice penale - giacché di questi ci occupiamo- possa conoscere del fatto indipendentemente e separatamente dal giudice amministrativo, in virtù della specificità delle materie di rispettiva competenza.
La regolamentazione del rapporto tra la pluralità delle giurisdizioni del nostro Ordinamento investe innanzitutto il tema della pregiudizialità del giudizio penale rispetto a quello civile o amministrativo che, abbandonata l’antica e collaudata regola dell’art. 3, comma 2 del codice abrogato. (che risolveva il problema delle “precedenze” con la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c.) ha ridisegnato i rapporti tra le giurisdizioni in termini di autonomia e separatezza, in coerenza con il principio del giusto processo.
E, benché la scelta del legislatore lascia intendere che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile (v. in tal senso Cass. 25 marzo 2005 n. 6478) c’è da chiedersi se l’istituto della sospensione necessaria non sia tuttora indispensabile quando possa derivarne utilità al processo per la individuazione dei fatti e la raccolta delle prove, e debba definirsi, sul piano logico, ancor prima che giuridico, la responsabilità su cui pende il giudizio (nondimeno la Cassazione nella sentenza citata ha confermato la decisione che aveva dichiarato la falsità di un testamento olografo impugnato di falso sulla sola scorta delle prove acquisite nel processo civile, laddove nel processo penale il beneficiario delle disposizioni testamentarie era stato assolto dall’imputazione di aver falsificato il testamento).
Ma il rapporto tra le giurisdizioni che affollano il nostro ordinamento si manifesta anche sotto un altro più delicato profilo (che di norma è un posterius logico-giuridico rispetto alla questione di pregiudizialità) ed è quello degli effetti del giudicato che si sia formato in altre sedi giurisdizionali rispetto allo svolgimento del processo contabile; che, con riguardo al giudicato penale e ai suoi effetti vincolanti per le parti del giudizio contabile, è quel che più interessa in questa sede.
II. E come solitamente accade quando si discorre di giurisdizione, la questione dei limiti dell’efficacia del giudicato penale non registra soluzioni condivise e di generale applicazione. Per coglierne il senso occorre distinguere tra il giudicato di condanna e quello di assoluzione, che sono regolati, rispettivamente, dagli art. 651 e 652 c.p.p..
Nell’ipotesi del giudicato di condanna è il caso di ricordare che ai termini dell’art. 651 cit. l’efficacia vincolante del giudicato penale è limitata agli elementi del fatto dannoso materiale (condotta evento e nesso di causalità materiale), essendo evidente che il giudice contabile non può fondare le sue decisioni su fatti o presupposti contrastanti con la realtà fenomenica accertata con il giudicato penale, da intendersi comprensiva anche dell’elemento psicologico affermato dal giudice penale (v. Corte dei Conti, sez. 1; 18 dicembre 2002 n. 443/a): deve pertanto ritenersi preclusa al giudice contabile di pronunciare nuovamente sul fatto che abbia prodotto il danno erariale, sulla sua liceità e sulla sussistenza del dolo in capo all’imputato: e dunque deve ritenersi per ferma l’autonoma valutazione della sussistenza o meno delle cause di giustificazione scrutinabili ai fini dell’inquadramento del fatto nell’ambito dell’illecito contabile, e solo contabile.
Il giudice contabile recupera, però, e appieno la sua autonomia quando l’azione penale sia sfociata in una sentenza di condanna con patteggiamento; sentenza che, ai sensi dell’art. 445 c.p.p. non fa stato nel giudizio contabile, né per la sussistenza e modalità del fatto né per la colpevolezza.
Resta però da chiedersi se la novella di cui alla Legge n. 97 del 2001 che ha modificato sia l’art. 445 c.p.p. che l’art. 653 c.p.p. equiparando la sentenza patteggiata alla sentenza di condanna, sia pure limitatamente al giudizio di responsabilità disciplinare, non abbia finito col modificare il quadro testé descritto, vincolando il giudice contabile all’osservanza delle risultanze fattuali accertate nel giudizio patteggiato anche fuori del sistema disciplinare, tanto più che, come osserva lo stesso giudice contabile “non v’è ragione di ritenere come non avvenuti fatti e circostanze pur sempre assunti dal giudice penale durante l’indagine preliminare e sui quali si è realizzato il consenso delle parti e vi è stato il controllo giudiziale” convenendo sul fatto che gli elementi di prova raccolti in ordine all’effettiva commissione dei fatti costituenti reato ben possono costituire oggetto nel processo contabile (cfr. Sez. 1, 19 gennaio 1994 n. 12).
Una posizione che può definirsi “intermedia” ha tuttavia assunto la Prima Sezione Centrale della Corte di Conti affermando che “la richiesta di pena patteggiata non comporta un accertamento invincibile di responsabilità, come invece accade per il giudicato penale a seguito di dibattimento ex art. 651 c.p.p. ma può essere contestato in un giudizio diverso da quello penale fondato sui medesimi fatti attraverso la prova (contraria) dell’inattendibilità della veridicità dei fatti versati nel giudizio penale iniziando dai motivi per i quali è stato chiesto di patteggiare la pena pur essendo il richiedente autore dei fatti illeciti” (v. sentenza n. 68 del 6.3.2006, e per la dottrina, CHIAPPINIELLO, La responsabilità amministrativa nel giudizio dinanzi alla Corte dei Conti, Ist. Pol. dello Stato pag. 211 ss.).
E tuttavia non può tacersi dell’opinabilità, in sede applicativa e relativamente al giudizio di responsabilità disciplinare, del descritto orientamento, che, introducendo la possibilità di una diversa lettura dei fatti versati nel giudizio penale -sia pure al nobile fine di assicurare al giudice contabile la discrezionalità connaturata al giudizio- finisce, a nostro avviso, col sovrapporsi ad esso e in termini potenzialmente conflittuali.
III. Più vivace contrasto va registrato con riguardo agli effetti del giudicato di assoluzione sul giudizio contabile, essendo possibili diverse letture dell’art. 652 c.p.p. che affronta il tema attribuendo efficacia alla sentenza penale di assoluzione “quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima” (nel) giudizio (civile o amministrativo) promosso dal danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel giudizio penale.
Che si vuol dire?
Delle due possibili tesi: l’una che afferma l’inopponibilità al Procuratore regionale della Corte dei Conti della sentenza irrevocabile di assoluzione per il semplice fatto che non è legittimato ad intervenire nel processo penale; con la conseguenza che la norma dell’art. 652 c.p.p. in questi casi non sarebbe applicabile (ma la tesi, che rivendica al giudizio contabile piena autonomia processuale, è contrastata dall’espresso riferimento che la norma fa al processo amministrativo) e l’altra che, sull’opposto versante, ritiene invece il giudicato assolutorio pienamente vincolante nel giudizio amministrativo-contabile per il principio di unicità dell’azione del pubblico ministero (v. Sez. I, 14 gennaio 1994 n. 9), sembra preferibile l’opinione che, tra le formule assolutorie dell’art. 530 c.p.p. delimita l’applicazione della norma dell’art. 652 cit. alla sola formula della “non sussistenza del fatto”, l’unica che vincola il giudice contabile (v. P. SANTORO, L’illecito contabile, pag. 421) alla stregua della ovvia considerazione che solo il fatto materiale oggettivamente ascritto all’imputato ed escluso dal giudice penale è a Lui opponibile. Per il resto, e cioè quando l’assoluzione sia accompagnata dalle altre formule elencate nel primo comma dell’art. 530 cit. (il fatto non costituisce reato, il fatto non è previsto dalla legge come reato) e nel secondo comma della disposizione (quando manca, o è insufficiente o contraddittoria la prova), è indubbio che il vincolo del giudicato non può non avere che un valore relativo.
In definitiva, il giudicato assolutorio può vincolare un diverso giudice solo quando contenga un effettivo accertamento sull’insussistenza del fatto e la non attribuzione di esso all’imputato, ma non anche quando l’assoluzione sia stata determinata da insufficienza di prova sul fatto, o sulla colpa, o perché il fatto non costituisce reato. E parimenti può dirsi al cospetto di una sentenza assolutoria non definitiva, essendo evidente che, in tal caso, il giudice contabile può liberamente valutare il materiale probatorio acquisito nel processo penale.
Peraltro, non può dubitarsi che la previsione di cui all’art. 7 della Legge n. 97 del 2001 che prevede la comunicazione al Procuratore Regionale della Corte di Conti delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti indicati nell’art. 3 della legge, aggiungendosi all’informativa prevista dall’art. 129 delle disp. att. c.p.p. (che obbliga il p.m. a dare notizia dell’imputazione quando esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno erariale) finisca con il rafforzare e non limitare le prerogative della giurisdizione contabile.
Quando però vi sia stata la costituzione di parte civile, occorre far capo alla norma dell’art. 654 c.p.p. che, potendo operare solo nei confronti dell’imputato o della parte civile, sembrerebbe lasciare fuori il p.m. contabile (che non può costituirsi parte civile) e legittimare quindi l’opinione che tra le due azioni, di responsabilità e risarcitoria (costituzione di parte civile) possa esserci soltanto un rapporto di alternatività nel senso cioè che, se l’amministrazione non è intervenuta nel processo penale i suoi poteri istituzionali non possono essere incisi da accertamenti o da valutazioni del giudice penale rese in un processo al quale essa è rimasta estranea (v. Consiglio di Stato 31 gennaio 2006 n. 357).
In definitiva, nel mentre l’azione civile nel giudizio penale non estingue il giudizio civile ma ne impedisce la prosecuzione (v. art. 75 c.p.p.) non altrettanto accade per l’azione amministrativo-contabile che non subisce la sospensione e va avanti autonomamente.
Da tutto questo risulta evidente che la molteplicità dei livelli normativi che si manifestano all’interno dell’ordinamento statale, e in un contesto segnato da una pluralità anche esterna (si pensi al diritto comunitario e internazionale) sollecita l’interprete alla ricerca di regole giuridiche che richiedono una diversità di prestazioni interpretative che offrono diverse soluzioni. E la conferma ci è data dalla stagione che viviamo, connotata da una pluralità di ordinamenti che faticano ad integrarsi o armonizzarsi tra loro, e che con significativa frequenza entrano tra loro in competizione e in conflitto, com’è dimostrato dai recenti arresti delle Sezioni Unite della Cassazione e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Quale che sia o debba essere, in questo difficile scenario, il compito del giurista non è facile definire, soprattutto quando sotto il gravoso fardello della crisi del sistema che fa capo alla giurisdizione ordinaria, il legislatore, lungi dal curarne la revisione, all’insegna della semplificazione e dell’accelerazione, preferisce dismettere gli antichi percorsi, senza però aprirne altri: e penso alla sospensione necessaria del processo che, in un ambito ordinamentale distinto da tempi ragionevoli e dal buon governo del processo, sarebbe apparsa sufficiente, soprattutto nella zona d’ombra nella quale s’incontrano, e si scontrano, giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativo-contabile, ad assicurare alle vicende giuridiche unità e coerenza.
E tuttavia proprio quel che può accadere quando al valore della coerenza logica e dell’uniformità dei giudicati si sovrappone quello del giusto processo, che discorre di parità delle armi e di speditezza del processo, dovrebbe indurci a ripensare agli effetti della interferenza tra giudicati e tra le giurisdizioni, e al pregiudizio che alla rappresentazione unitaria della condotta (illecita o lecita che sia) può derivarne. Anche qui il relativismo vince sulla tendenziale unicità della verità giudiziale. |