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ANTONIO PLAISANT

In house providing e società miste: due rette parallele o convergenti? nota a parere Consiglio di Stato, Sezione II, 18 aprile 2007, n. 456


1. Introduzione
2. Il parere 18 aprile 2007, n. 456, della II Sezione del Consiglio di Stato.
3. L’evoluzione normativa dei servizi pubblici locali nell’ordinamento nazionale.
4. Le società miste a confronto con l’in house providing, l’organismo di diritto pubblico e la concessione di servizi.
5. Lo stato attuale dell’ordinamento ed il contributo offerto dal parere in commento.
6. Alcune considerazioni conclusive


1. Introduzione



Il presente contributo trae spunto dal parere 18 aprile 2007, n. 456, espresso dalla Sezione II del Consiglio di Stato, in merito all’affidamento di un servizio informatico a favore di società a capitale misto pubblico-privato.
La fattispecie posta all’attenzione del Supremo Collegio ha caratteristiche peculiari, ma il relativo parere riveste comunque notevole rilievo, in un momento ordinamentale caratterizzato da interventi normativi disorganici e spinte provenienti dal diritto comunitario non sempre connotate da sufficiente univocità.
Ciò ha comportato l’affermarsi di arresti giurisprudenziali e ricostruzioni dottrinali distanti non solo sul piano delle soluzioni proposte ma anche del significato lessicale e sistematico da attribuire alle diverse fattispecie giuridiche, tanto che le società miste sono state di volta in volta ricondotte alla figura dell’organismo di diritto pubblico, a quella dell’in house providing ed alla teoria generale delle concessioni di servizi e, quel che più sorprende, tali diverse conclusioni sono state spesso fondate sui medesimi dati normativi e giurisprudenziali (1).
In un quadro generale così complesso, il parere in commento si distingue soprattutto per l’apprezzabile tentativo di ricostruzione complessiva del sistema, attraverso un metodo singolarmente classificatorio, che mira a fare il punto sulle principali tesi in campo, chiarire gli effetti delle pronunce della Corte di Giustizia sull’ordinamento nazionale e, infine, indicare la soluzione ritenuta preferibile.
Nell’affrontare la complessa problematica si cercherà di utilizzare la medesima impostazione prescelta dal Consiglio di Stato.
Si partirà dall’analisi del caso concreto, inserendolo nel contesto generale degli affidamenti di servizi alle società miste (par. 2).
Sarà poi necessario richiamare sinteticamente la normativa nazionale in materia di servizi pubblici locali (par. 3).
Ciò posto si procederà all’analisi dell’evoluzione cui è andato incontro il modello in house, al fine di evidenziarne la convergenza sulle società a partecipazione pubblico-privata, alla luce dei più recenti pronunciati della Corte di Giustizia (par. 4).
Ed infine si cercherà di trarre qualche conclusione sistematica in relazione alla questione di fondo posta dal titolo del presente lavoro, nonché, più in generale, alle concrete prospettive e ragioni di sopravvivenza della società mista nell’attuale contesto ordinamentale (par. 5).




2. Il parere 18 aprile 2007, n. 456, della II Sezione del Consiglio di Stato.




Il Supremo Collegio è stato chiamato ad esprimere parere da parte dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AGEA), circa la legittimità dell’affidamento diretto, ad una società mista a prevalente capitale pubblico appositamente costituita, del Servizio Informativo Agricolo Nazionale (SIAN).
Quest’ultimo - consistente nella raccolta, archiviazione e trasmissione agli organi pubblici competenti dei dati inerenti al settore agricolo nazionale - era stato istituito dall’art. 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194, che ne aveva affidato la gestione al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, il quale avrebbe dovuto gestirlo “attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale, anche indiretta”.
Con l’entrata in vigore dell’art. 14, comma 9, del decreto legislativo 2004, n. 99, i compiti di coordinamento e gestione del SIAN erano stati trasferiti all’AGEA, di cui era stato disposto il subentro in tutti i rapporti attivi e passivi relativi al SIAN (comma 10).
Da ultimo il decreto legge 2005, n. 182, convertito in legge 2005, n. 231, ha aggiunto all’art. 14 il comma 10 bis, secondo cui “l’AGEA…costituisce una società a capitale misto pubblico-privato, con partecipazione pubblica maggioritaria nel limite massimo pari a 1,2 milioni di euro…alla quale affidare la gestione e lo sviluppo del SIAN. La scelta del socio privato avviene mediante l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica ai sensi del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157 e successive modificazioni…”.
In virtù di tale nuova previsione normativa l’AGEA ha provveduto a costituire un società mista nei termini indicati dal legislatore, scegliendo il partner privato mediante gara ed attribuendogli il compito di assumere in proprio l’onere di gestire per nove anni il SIAN dal punto di vista tecnico-operativo ed è proprio su questo affidamento che è stato espresso il parere in commento.
Il Consiglio di Stato, per il vero, aveva già espresso un primo parere sulla fattispecie de qua ed in quella occasione si era espresso in senso negativo (2), ritenendola non riconducibile al modello dell’in house providing, il che sarebbe bastato a decretarne l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario.
La questione ha poi costituito oggetto di un nuovo quesito e su di esso è stato espresso il parere 456/2007 ora in commento.
Questa volta l’AGEA ha puntato su una diversa ricostruzione della fattispecie.
Ha evidenziato, infatti, l’Agenzia che il SIAN, nella gestione del quale è subentrata per legge, è servizio strumentale all’esercizio di competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole, tanto è vero che il “Ministero per le Politiche Agricole e gli enti e le agenzie dallo stesso vigilati, le regioni e gli enti locali, nonché le altre amministrazioni pubbliche operanti a qualsiasi titolo nel comparto agricolo e agroalimentare, hanno l’obbligo di avvalersi dei servizi messi a disposizione dal SIAN, intesi quali servizi di interesse pubblico…” (art. 15, comma 1, decreto legislativo 1998, n. 173).
In quest’ottica il ricorso alla società mista costituirebbe una necessità pratica, oltre che giuridica, vista la mancanza di personale interno in possesso della professionalità necessaria allo svolgimento di un servizio informatico di così elevata complessità. In ciò troverebbe giustificazione la scelta di affidare al socio privato - individuato con gara pubblica ad alta selezione concorrenziale, per una durata del rapporto pari a nove anni - compiti operativi e di effettiva gestione a proprio rischio delle prestazioni informatiche connesse al SIAN, mentre ad AGEA è rimasto il coordinamento e controllo della relativa attività e la gestione delle fasi propriamente “pubblicistiche” del rapporto. Nel caso di specie, quindi, non sarebbe dato ravvisare l’affidamento di un servizio pubblico, bensì una modalità organizzatoria di funzioni istituzionali.
Il Supremo Collegio ha aderito, questa volta, alle tesi dell’Agenzia, ritenendo che l’affidamento del servizio alla società mista sia compatibile con i principi comunitari.
A tal fine, con specifico riferimento alle peculiarità della fattispecie, il Supremo Collegio ha valorizzato soprattutto la diretta connessione tra la prestazione richiesta e l’attività istituzionale dell’Agenzia, che parrebbe sottrarre il caso alla teoria generale dei pubblici servizi, per collocarla all’interno degli affidamenti di pubbliche funzioni o di porzioni delle stesse.
Ciò riporta alla mente il servizio di accertamento, riscossione e liquidazione di tributi locali - remunerato direttamente dal Comune in proporzione al volume degli accertamenti compiuti e suscettibile di essere affidato a società mista in virtù dell’art. 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, che rinvia alla disciplina dei servizi pubblici (3) - anche se nel caso ora in esame l’estraneità alla materia dei pubblici servizi locali è ancor più evidente, posto che la prestazione informatica resa dalla società non coinvolge in alcun modo gli utenti privati, essendo rivolta nei confronti dell’ente e nel suo esclusivo interesse, secondo lo schema classico dell’appalto di servizi (4).
Quest’ultima osservazione, peraltro, pone seri dubbi in merito alla conclusione favorevole cui è giunto il Consiglio di Stato in quanto la riconduzione alla materia degli appalti di servizi avrebbe dovuto comportare una piena sottoposizione ai principi concorrenziali previsti dalla Direttiva 2004/18/CE. Né tale assunto pare superabile mediante una ricostruzione della fattispecie in termini di “traslazione esterna di pubbliche funzioni”, come suggerito dall’AGEA e ritenuto dal Consiglio di Stato, posto che la prestazione richiesta alla società mista, risolvendosi nella raccolta e gestione informatica di dati, ha natura esclusivamente tecnico-strumentale e non pare assimilabile alla pubblica funzione, mentre la norma di legge che ne prevede l’affidamento diretto a società mista non ha valore dirimente, ben potendosi ipotizzarne l’incompatibilità comunitaria e la conseguente disapplicazione per contrasto con fonte di rango superiore.
Non sono questi, comunque, gli aspetti del parere che si intende in questa sede approfondire.
Quel che maggiormente interessa, invece, è la disamina generale sui servizi pubblici ed il relativo ruolo delle società miste, temi cui è stata dedicata la parte più importante della trattazione.
Il Supremo Collegio ha effettuato un’accurata analisi delle varie ipotesi di affidamento, distinguendo la figura dell’in house da quella della società mista.
Quest’ultima si caratterizzerebbe quale meccanismo autonomo di affidamento del servizio, non riconducibile al modello in house (del quale, peraltro, non potrebbe per definizione possedere i requisiti), ma non per questo necessariamente incompatibile con l’ordinamento comunitario.
Attraverso un’ampia analisi degli atti comunitari, e dopo aver confutato le tesi estreme, di tenore opposto (5), affacciatesi in dottrina, la II Sezione abbraccia l’impostazione intermedia (6), secondo cui la società mista può avere ancora un proprio spazio applicativo - in uno con la sua capacità di assicurare all’ente pubblico un controllo più pregnante sull’esercizio del servizio rispetto a quanto avviene nei modelli tipici dell’outsourcing - ma solo in presenza delle seguenti condizioni:
a) che al socio privato - fin dal momento della sua selezione, necessariamente concorrenziale - sia affidato (non il ruolo di mero finanziatore bensì) di esecutore materiale del servizio per il quale la società è stata costituita, servizio che deve sostanzialmente esaurire l’attività sociale;
b) che sia prevista, già all’atto della scelta concorrenziale del partner, una durata limitata dell’affidamento ed il conseguente rinnovo della gara alla scadenza.
In presenza di tali due condizioni, infatti, la II Sezione ritiene che si realizzi una “sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un socio industriale ed operativo, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio”. E rileva, inoltre, che - ove si richiedesse la gara (non solo per la scelta del socio ma anche) per l’affidamento del servizio alla società mista - si finirebbe per costruire “una procedura di evidenza pubblica nella quale l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento” e ciò “condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative “tutta pubblica” e “tutta privata”.


3. L’evoluzione normativa dei servizi pubblici locali nell’ordinamento nazionale.




Ai fini di un compiuto inquadramento della fattispecie nell’attuale quadro ordinamentale, si rende necessario ricostruire sinteticamente le vicende normative della società mista, in parallelo con l’evoluzione dell’in house providing, di cui si tratterà nel paragrafo successivo.
Nell’ordinamento nazionale la storia della società mista si identifica principalmente con quella dei servizi pubblici locali.
Come noto la prima disciplina organica della materia si deve all’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142, poi modificato dall'articolo 17, comma 58, della legge 15 maggio 1997, n. 127, che prevedeva, quale modello di gestione del servizio, la società mista a prevalente capitale pubblico locale in alternativa, tra l’altro, alla concessione di servizi.
A seguito di una procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea, che riteneva tale assetto normativo in contrasto con i principi del Trattato CE posti a tutela della concorrenza (7), con l’art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 441, si era proceduto ad una radicale modificazione di tale disciplina, nel frattempo trasfusa nell’art. 113 TUEL, prevedendo quale sistema sostanzialmente unico di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale la società per azioni scelta mediante gara pubblica (8).
Tale impianto normativo è stato nuovamente modificato dall’art. 14 del decreto legge 30 settembre 2003 n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003 n. 326, nonché dall’art. 4, comma 234, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (9).
La nuova disciplina si caratterizza per la distinzione di fondo tra servizi a rilevanza economica e servizi che ne sono privi, nonché, nell’ambito dei primi, per l’analitica distinzione tra gestione delle reti e concreta erogazione del servizio, che può avvenire mediante società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica (art. 113, comma 5, lettera a) oppure attraverso società a capitale misto pubblico-privato (art. 113, comma 5, lettera b) o, ancora, per mezzo di società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano (comma 5, lettera c).
Il legislatore ha, quindi, riesumato il previgente modello della società mista, affidandone la compatibilità con i principi comunitari alla previsione di una gara per la scelta del partner privato, come già avveniva in passato.
La finalità sostanziale di tale “ritorno al passato” deve probabilmente ricercarsi nell’intento di legittimare le gestioni dirette esistenti, in massima parte affidate a società di capitali sorte in esito a privatizzazioni sostanziali mediante offerte pubbliche di vendita. Tanto è vero che l’articolato regime transitorio introdotto dal legislatore fa espressamente salvi gli affidamenti a società miste in cui il socio privato sia stato scelto mediante gara (11).
Occorre tenere conto, inoltre, che la società mista ha raccolto l’eredità della “vecchia “Azienda Speciale”, destinataria di affidamenti diretti e tradizionalmente considerata un plesso della struttura amministrativa], per cui è sembrato naturale che l’affidamento alla società mista, cui l’ente locale partecipa direttamente, dovesse essere strutturato in modo non dissimile.
Si è ritenuto, quindi, che l’attribuzione del servizio alla società mista potesse avvenire in modo diretto - senza alcun intervento dello strumento concessorio e dei connessi principi (quasi) concorrenziali (12) - ma, a quel punto, si sono posti rilevanti interrogativi in merito al meccanismo giuridico con cui si formalizza l’affidamento, descritto dal legislatore quale “contratto di servizio” (13).
Sta di fatto che la prassi ha mostrato un amplissimo impiego della società mista, utilizzata per attrarre capitali privati in luogo della concessione di servizi, non a caso scomparsa dall’elenco normativo dei moduli di gestione dei servizi pubblici locali di cui all’art. 113 TUEL (vedi supra).
Ma in parallelo ad interventi legislativi così dichiaratamente favorevoli alla società mista, si andavano nel frattempo componendo altri fattori destinati a comportarne, se non il radicale declino, certamente un futuro più incerto.
Si tratta di una linea evolutiva dettata essenzialmente dal diritto comunitario.
L’ostilità delle Istituzioni Europee nei confronti del modello societario misto, mai tradottasi in disposizioni normative espresse, si è manifestata secondo due diverse direttrici:
- le ripetute iniziative intraprese dalla Commissione Europea, che ha contestato l’art. 113 TUEL in diversi stadi della sua tormentata evoluzione testuale;
- la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, la quale - pur non avendo specificamente analizzato la principale peculiarità del modello italiano, che risiede nell’anticipazione della scelta concorrenziale alla fase “a monte” di scelta del partner (14) - è andata incontro ad un’evoluzione particolarmente restrittiva sull’in house providing, con il quale la società mista è stata ritenuta strutturalmente incompatibile, il che ne ha messo in discussione la stessa sopravvivenza.
Ciò detto, prima di introdurre qualche considerazione critica appare, quindi, necessario analizzare i termini fondamentali di tale evoluzione comunitaria, con specifico riguardo alle possibili interferenze tra il modello in house e quello societario misto.



4. Le società miste a confronto con l’in house providing, l’organismo di diritto pubblico e la concessione di servizi




La nascita dell’in house providing si fa generalmente coincidere con la sentenza 18 novembre 1999, in causa C-107-98 Teckal s.r.l., ove la Corte di Giustizia ebbe modo di chiarire che in materia di appalti di forniture, rispetto ai quali non opera l’art. 6 della Direttiva/92/50/CEE, la normativa sugli appalti trova generale applicazione, tranne si tratti di un affidamento (non ad un’entità soggettiva distinta dall’ente affidante bensì) ad un plesso organizzativo sul quale l’amministrazione eserciti un controllo analogo a quello operato sui propri servizi ed il quale realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che lo controllano. In presenza di tali due condizioni, infatti, quand’anche l’affidatario abbia formalmente personalità giuridica autonoma, non sarebbe dato ravvisare una relazione intersoggettiva, mancando così il presupposto fondamentale per l’applicazione delle norme sugli appalti.
Dopo questa sua prima formulazione l’in house providing ha “fatto molta strada”.
La mancanza di una base normativa espressa, quanto meno a livello comunitario, ha favorito una continua evoluzione del modello, divenuto per un verso più rigoroso e per altro in continua “espansione territoriale”.
Fin da subito la dottrina si è interrogata sul modo in cui dovesse essere esattamente inteso il requisito del controllo analogo (15).
Una prima tesi aveva ritenuto non indispensabile la titolarità del pacchetto azionario di maggioranza da parte dell’ente controllante, mentre si era attribuito carattere decisivo al “potere di nomina di nomina di amministratori e sindaci rappresentativi dell’assetto di interessi di cui il designante è portatore” (16).
Ma alla luce dei più recenti interventi della Corte di Giustizia, la dottrina è oggi sostanzialmente concorde nel ritenere che l’eccezione in house presuppone (non solo) il controllo totalitario iniziale da parte dell’ente pubblico (ma addirittura) la garanzia di una stabile permanenza dello stesso per tutta la durata dell’affidamento. Così come il controllo analogo non si configura ove sussistano altri fattori ostativi, quali l’attribuzione al consiglio di amministrazione di poteri troppo ampi in ordine a scelte fondamentali della gestione societaria o un oggetto sociale che finisca per attribuire all’ente una vocazione di fatto commerciale. Non si esclude, invece, la possibilità di una contitolarità del pacchetto azionario da parte di più enti pubblici, purché la struttura sociale consenta alla parte pubblica un’effettiva direzione dell’attività in forma congiunta (17).
Anche il secondo requisito indicato nella sentenza Teckal, cioè la realizzazione della parte più importante dell’attività con l'ente locale, è stato meglio precisato.
A fronte delle molte ricostruzioni dottrinali, basti rilevare che il requisito in esame presuppone un’assoluta marginalità (se non l’assenza) di attività svolta al di fuori dei rapporti con l’ente locale, in linea con la ratio del requisito, con cui si vuole, da un lato, garantire la par condicio fra le imprese di settore, al fine di evitare che la società in house possa operare liberamente sul mercato, finendo per assumere una posizione ingiustamente privilegiata rispetto ad altri operatori che non vantano un simile rapporto privilegiato con l’ente pubblico (18) e, dall’altro, giustificare sul piano funzionale l’affidamento diretto alla società in house.
A fronte di questa tendenza restrittiva sul piano dei presupposti, l’eccezione in house è andata incontro ad una notevole espansione sul piano dell’ambito applicativo.
La più recente evoluzione giurisprudenziale, infatti, l’ha portata ad “invadere” la tematica dei servizi pubblici, ben distinta da quella degli appalti ove l’istituto era nato.
La locuzione “con l’ente pubblico”, utilizzata nella sentenza Teckal ad indicare la necessaria direzione pubblicistica dell’attività, è stata, infatti, ritenuta compatibile con prestazioni rese direttamente agli utenti, di tal che l’in house providing ha fatto ingresso nelle più recenti vicende giurisprudenziali dei pubblici servizi (20).
Tale impostazione ha trovato conferma nell’art. 113 TUEL, nel quale - come già si è rilevato - si indica quale sistema di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica “c) la società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano”, previsione poi “bissata” in materia di servizi pubblici a rilevanza non economica.
Ciò ha comportato notevoli ricadute sistematiche.
L’estensione ai servizi pubblici del modello in house - per il quale si richiede ora, quale requisito minimo, la partecipazione totalitaria dell’ente pubblico, unitamente ad un particolare sistema operativo della società (vedi supra) - ha finito per porre in discussione la compatibilità comunitaria della società mista che, per definizione, non corrisponde ai requisiti del controllo analogo così inteso, se non altro per la presenza del partner privato nel pacchetto azionario.
È dato ormai pacifico, infatti, che la società mista sia priva dei requisiti in house e che la sua “compatibilità comunitaria” debba semmai ricercarsi altrove (21).
A quest’ultimo riguardo non appare possibile, peraltro, giustificare l’affidamento del servizio alla società mista mediante una sua riconduzione alla categoria dell’organismo di diritto pubblico (22), chiamando in causa l’art. 6 della Direttiva 92/50/CEE, poi trasfuso nell’art. 18 della Direttiva 2004/18/CE, secondo cui “La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice a un'altra amministrazione aggiudicatrice o a un'associazione di amministrazioni aggiudicatrici in base a un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”.
Sul piano sostanziale perchè in tal modo si creerebbe il “rischio che la costituzione o la partecipazione di società a partecipazione pubblica divenga il metodo privilegiato per attribuire posizioni di privilegio attraverso l’affidamento diretto del servizio in assenza di alcuna motivazione in ordine alla necessarietà dell’esclusiva” (23).
Sul piano più strettamente logico-giuridico perché la società mista presenta caratteri non sempre collimanti con il terzo elemento caratterizzante l’organismo di diritto pubblico, quello cioè di soddisfare bisogni di carattere non industriale o commerciale: la società, infatti, è - per definizione - un modulo operativo finalizzato allo svolgimento di attività commerciale e su tale premessa vi è chi le nega una natura anche impropriamente pubblicistica, quanto meno ove operi “in regime ordinario” mediante “la produzione di beni e servizi destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza” (24). Ciò sulla base di una rilettura rigorosa, e sostanzialmente condivisibile, del terzo requisito dell’organismo di diritto pubblico, ove si attribuisca rilievo non solo alla finalità d’istituzione dell’ente, bensì ad una valutazione “dinamica” della sua attività, che tiene conto del modo in cui il soggetto concretamente opera sul mercato (25).
Non è questa la sede per approfondire tale problematica, ma a parere di chi scrive la riconduzione della società mista alla nozione di organismo di diritto pubblico, ancorché prospettabile in alcuni casi, non può giustificare una “deroga soggettiva” di carattere generale ai principi concorrenziali, anche perché la Corte di Giustizia concepisce questo tipo di deviazioni in termini assai ristretti, strettamente legati alla necessità, non altrimenti perseguibile, di tutelare interessi collettivi di rango superiore alla concorrenza (26).
Più sostenibile è, invece, l’idea di ricondurre a sistema la società mista facendo leva sulla selezione concorrenziale prevista per la scelta del partner privato, che potrebbe teoricamente costituire un valido meccanismo concorrenziale alternativo alla gara per affidamento del servizio alla società.
La tesi, per il vero, non è nuova, essendo stata prospettata quale modello generale fin dall’entrata in vigore della legge 142/1990, benché la gara per la scelta del socio privato fosse stata prevista dal legislatore solo con riferimento alla società mista con capitale pubblico minoritario.
Si tratta però di stabilire se tale meccanismo possa tuttora costituire, nel mutato contesto ordinamentale, un valido sistema di armonizzazione del modello con i principi del diritto comunitario.
Al riguardo non sembra potersi rinvenire una chiara risposta nelle pronunce del giudice comunitario.
Nelle varie occasioni in cui si è occupata di società miste (peraltro non sempre con riferimento alla materia dei pubblici servizi), infatti, la Corte di Giustizia non ha direttamente affrontato il profilo della scelta concorrenziale del partner (27).
A fronte di un quadro giurisprudenziale così ambiguo, la dottrina italiana è oggi profondamente divisa in merito alla sorte delle società miste.
Alcuni autori ritengono che il relativo modello non sia più compatibile con il diritto comunitario, che vieterebbe sistemi di affidamento del servizio non concorrenziali, al di fuori dello stretto ambito dell’eccezione in house (28).
In altre tesi si ritrovano, invece, maggiori aperture, pur con alcuni distinguo.
Vi è chi, ad esempio, ritiene che il diritto comunitario impedisca soltanto l’affidamento del servizio a preesistenti società miste, ma non anche a società ad hoc costituite, purché il socio privato sia scelto con gara (29).
Altri desumono la sopravvivenza del modello soprattutto dal Libro Verde della Commissione (30).
Ulteriori ricostruzioni condividono tale ultima osservazione ed esigono che la gara per la scelta del socio sia configurata in modo da attribuirgli un effettivo ruolo di “socio d’opera”, mediante partecipazione diretta all’esecuzione del servizio, il che consentirebbe di ricondurre la fattispecie ai canoni sostanziali dell’outsourcing, fino al punto di ravvisare - in rapporto di collegamento con la partecipazione societaria - un contratto di appalto o di concessione di servizi (31).
Ed è soprattutto a queste ultime tesi che pare essersi ispirata la II Sezione del Consiglio di Stato nel parere in commento, ove ha ritenuto “ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quanto meno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al socio operativo della società”
In ogni caso la questione resta quanto mai aperta, ove si consideri che proprio di recente il Consiglio di Giustizia della Regione Siciliana è pervenuto “ad un interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio” (32).
A ciò si aggiunga un distinto, ma non meno rilevante, fattore di criticità, che a giudizio di chi scrive ha origine nella difficoltà di armonizzare, prima di tutto sul piano linguistico, gli interventi del giudice comunitario con la realtà normativa italiana.
Già si è rilevato che, nell’occuparsi di affidamento diretto di pubblici servizi a società miste, la Corte di Giustizia ha per prima cosa verificato la possibilità di applicare, nel caso concreto, l’eccezione in house.
Una volta esclusa questa possibilità, come di regola avvenuto con riferimento ai “casi italiani”, la Corte ha ricondotto le relative fattispecie alla concessione di servizi e vi ha ricollegato l’applicazione dei principi concorrenziali del Trattato CE (33).
Tale impostazione potrebbe ingenerare ulteriori dubbi sistematici in quanto alla concessione di servizi si riferisce ora una specifica disposizione nazionale, introdotta nell’art. 30 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che prevede una gara informale per la scelta del concessionario.
Sul piano strutturale una simile riconduzione non pare, peraltro, condivisibile.
Nel Libro Verde della Commissione pubblicato in data 30 aprile 2004, infatti, la concessione di servizi e l’affidamento a società mista sono contrapposti, appartenendo la prima al novero dei “parternariati contrattuali” (cui è ricondotto anche l’appalto di servizi) ed il secondo alla categoria dei “parternariati istituzionali”, che si basano sulla creazione di una soggettività ad hoc cui affidare stabilmente la gestione del servizio.
Può, quindi, ragionevolmente ipotizzarsi che in materia di affidamenti alle società miste il termine “concessione di servizi” sia stato utilizzato dalla Corte di Giustizia in un’accezione atecnica, per indicare non tanto lo specifico meccanismo di attribuzione del servizio quanto la generica presenza di un modello non in house, per il quale è doverosa l’applicazione di quel nucleo fondamentali di principi concorrenziali da tempo elaborati in materia di concessione di servizi.
Ma questa precisazione - seppur fondamentale ai fini di una corretta ricostruzione del sistema - non cancella il significato sostanziale dei pronunciati comunitari, sostanzialmente tendenti a stringere intorno ad una morsa sempre più stretta il modello societario misto, mediante la sua sottoposizione agli stessi principi garantistici originariamente elaborati dalla Corte proprio in materia di affidamento delle concessioni.


5. Lo stato attuale dell’ordinamento ed il contributo offerto dal parere in commento.




Le società miste, da sempre “in bilico tra pubblico e privato” (33), si basano sull’inserimento - in una struttura che nasce comunque strumentale all’ente pubblico - di un partner esterno, il che le pone autenticamente “a cavallo” tra la gestione diretta e l’outsourcing, come dimostra plasticamente la previsione, auspicata dalle istituzioni comunitarie ed adottata dal legislatore italiano, di una procedura selettiva per la scelta del partner.
Come già si è evidenziato, si discute ampiamente in ordine al se, ed a quali condizioni, questo canale alternativo, non incidente sull’affidamento del servizio (come avviene, invece, nella concessione), sia sufficiente a garantire in modo sufficiente la concorrenza.
Al riguardo è possibile indicare alcuni concetti fondamentali.
Un primo dato è che l’ordinamento comunitario reputa anticoncorrenziale l’affidamento ad una società mista preesistente all’istituzione del servizio, più precisamente, già in precedenza costituita per la gestione di altri e diversi servizi.
Ciò si desume dai pronunciati del giudice comunitario, che ha avuto modo di esaminare proprio casi di questo genere (34), e nella stessa direzione depone il Libro Verde pubblicato dalla Commissione in data 30 aprile 2004, ove si legge che “non affronteremo specificamente il caso delle imprese miste preesistenti che partecipano alle procedure d'aggiudicazione di appalti pubblici o di concessioni, poiché non si tratta di una situazione che possa suscitare discussioni riguardo al diritto comunitario applicabile. Il carattere misto di un'impresa che partecipa ad una procedura di appalto non implica infatti alcuna deroga alle norme applicabili nel quadro dell'aggiudicazione di un appalto pubblico o di una concessione” (35).
Più arduo è rinvenire indicazioni precise riguardo alla diversa ipotesi di società miste costituite ad hoc per l’affidamento del servizio.
Sul punto il Libro Verde del 30 aprile 2004, atto privo di carattere precettivo, ma dotato di indubbia valenza politico-interpretativa, contiene alcune osservazioni piuttosto articolate.
Ed infatti, pur rilevando che “L'operazione consistente nel creare un'impresa a capitale misto” esige che “sia garantito “il rispetto delle norme e dei principi derivanti da tale diritto (i principi generali del Trattato o, in alcuni casi, le disposizioni delle direttive”, la Commissione Europea non sembra voler escludere queste forme di parternariato, rilevando che “La cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni, che può adattare nel tempo in funzione delle circostanze, attraverso la propria presenza nella partecipazione azionaria e in seno agli organi decisionali dell'impresa comune. Essa permette inoltre al partner pubblico di sviluppare un’esperienza propria riguardo alla fornitura del servizio in questione, pur ricorrendo al sostegno di un partner privato”, per poi indicare, quale “condizione di compatibilità” del modello, l’attribuzione “di incarichi tramite un atto che può essere definito appalto pubblico o concessione. La scelta di un partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un'impresa mista non può dunque essere basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta - che economicamente è la più vantaggiosa - per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire. Infatti, in mancanza di criteri chiari ed oggettivi che permettano all'amministrazione aggiudicatrice di individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, l'operazione in capitale potrebbe costituire una violazione del diritto degli appalti pubblici e delle concessioni”.
Sembra, quindi, che l’affidamento diretto del servizio alla società mista sia possibile a patto che la scelta del partner privato avvenga (non solo) mediante selezione concorsuale (ma anche) in base alla preventiva individuazione del suo ruolo operativo (e non di mero finanziatore), cristallizzato nell’oggetto di gara, sede in cui i requisiti soggettivi e di validità dell’offerta dovranno essere tradotti in precisi requisiti di partecipazione e di valutazione qualitativa del progetto di gestione.
Tali assunti, che trovano conferma in una recente risoluzione del Parlamento Europeo (36) - ove si afferma espressamente che “se il primo bando di gara per la costituzione di un’impresa mista è risultato preciso e completo non è necessario un’ulteriore bando di gara”- sono alla base di una già richiamata tesi “intermedia” (37) e, soprattutto, del parere 456/2007 del Consiglio di Stato in commento, ove si indicano, quali condizioni che legittimano l’affidamento diretto del servizio alla società mista, il ruolo “d’opera” attribuito al partner privato e la durata limitata del relativo affidamento.
Il significato sistematico di quest’ultimo requisito si ravvisa nell’intento di evitare la chiusura del servizio alla concorrenza, mediante affidamenti “a tempo indeterminato”.
L’attribuzione al partner di un ruolo necessariamente operativo è riconducibile, invece, alla necessità di garantire al modulo societario misto una ratio propria - in grado di giustificarne la sopravvivenza quale sistema alternativo rispetto all’outsourcing - che il Consiglio di Stato identifica nell’esigenza “di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio”.
Si giunge, in tal modo, a configurare una sorta di “controllo semianalogo”, non così diretto come quello esercitabile dall’ente sui propri plessi organizzativi, ma comunque maggiore che nelle forme di pura esternalizzazione, come la concessione di servizi, il che, secondo la II Sezione, consente di coniugare “l’interesse alla valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio pubblico, con l’interesse alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione”.
Tale sforzo ricostruttivo appare condivisibile, quanto meno nella parte in cui cerca di giustificare la “sopravvivenza” della società mista sulla base di elementi sostanziali, inerenti la sua peculiare funzione nella teoria dei servizi pubblici.
In ogni caso la direzione indicata dal Consiglio di Stato è quella di un utilizzo prudente e limitato dell’istituto, che deve trovare giustificazione in precise ragioni funzionali, oltre che nella predeterminazione di limiti in grado di evitare forme di alterazione del mercato.
Un rischio insito nel modello societario misto, infatti, risiede nella possibilità che si creino posizioni di privilegio commerciale, assicurate dall’introduzione di affidamenti a tempo indeterminato e dalla compresenza del partner pubblico e di quello privato, che possono vantare ciascuno “know how” differenti e complementari. Un rischio che riguarda non tanto il singolo servizio affidato alla società mista (rispetto al quale la selezione concorrenziale del partner e la durata predeterminata dell’affidamento potrebbero costituire degli efficaci correttivi), ma soprattutto il complessivo segmento di mercato nel quale lo stesso si inserisce, se non addirittura settori diversi, nei quali la società potrebbe trovarsi a fruire di pericolose posizioni di dominanza economica.
Esemplare, a riguardo, è la nota dialettica in ordine alla possibilità per le società miste di operare extra moenia (38)
In materia sono sorti diversi indirizzi giurisprudenziali, alcuni tendenti a legare tale possibilità alla permanenza di un collegamento funzionale tra il cd. servizio eccedente e le necessità della collettività locale (39), altri più ampliativi e propensi a riconoscerle un’ampia capacità operativa, legata alla sua natura ontologicamente imprenditoriale (40).
A prescindere da quale sia l’orientamento preferibile, resta il dato di una “intrinseca espansività” del modello societario pubblico, legato alla sua collocazione nella teoria generale d’impresa (41), che impongono la costruzione di una disciplina assai rigorosa dei relativi affidamenti.
In questa stessa direzione si sta muovendo, da ultimo, lo stesso legislatore italiano.
Si fa riferimento al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248 (cd. decreto Bersani), ove all’art. 13 si prevede un totale divieto per le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite per la produzione di beni e servizi nell’interesse degli enti che vi hanno dato vita, di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, con l’ulteriore precisazione che i relativi contratti sono nulli e che le società già operanti cessano le attività non consentite entro un anno dall’entrata in vigore della nuova disposizione.
Se è vero che la portata della norma è stata fortemente ridimensionata in sede di conversione del decreto, ove dal suo ambito applicativo sono stati esclusi i servizi pubblici locali, la descritta linea di tendenza trova conferma nel recente disegno di legge 4 luglio 2006, n. 772, di riforma dei servizi pubblici locali, attualmente all’esame del Parlamento, che risponde al dichiarato intento di adeguare l’ordinamento nazionale ai principi derivanti da quello comunitario.
In tale proposta normativa si prevede l’affidamento diretto a società miste o in house quale possibilità eccezionale, “ove ciò sia reso necessario da particolari situazioni di mercato, secondo modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati direttamente connesse alla gestione ed allo sviluppo degli specifici servizi pubblici locali oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive e la previsione di norme e clausole volte ad assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili conflitti di interesse”, con l’obbligo di motivare adeguatamente “le ragioni che, alla stregua di una valutazione ponderata, impongono di ricorrere” a tali modalità di affidamento, in base ad una “previa analisi di mercato, soggetta a verifica da parte delle Autorità nazionali di regolazione dei servizi di pubblica utilità competenti per settore, ovvero, ove non costituite, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ove si dimostri l’inadeguatezza dell’offerta privata” e con adozione, comunque, di un “programma volto al superamento, entro un periodo di tempo definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine”.
E soprattutto si prevede il divieto per le società in house e per “le imprese partecipate da enti locali, affidatarie della gestione di servizi pubblici locali, qualora usufruiscano di forme di finanziamento pubblico diretto o indiretto, fatta eccezione per il ristoro degli oneri connessi all’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico derivanti dalla gestione di servizi affidati secondo procedure ad evidenza pubblica” di acquisire la gestione di “servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quello di appartenenza”.
L’intento è quello di armonizzare il contesto normativo italiano con i principi del diritto comunitario, in un’ottica che riduce l’ambito operativo delle società miste (e delle stesse gestioni in house) ad ipotesi di comprovata inadeguatezza degli altri sistemi gestionali e ne circoscrive il campo operativo al ristretto ambito del servizio per cui sono state istituite.

6. Alcune considerazioni conclusive




Nei paragrafi precedenti chi scrive ha sostanzialmente condiviso le tesi propense a ritenere tuttora possibile l’affidamento diretto di servizi pubblici alle società miste, purché sussistano alcune condizioni relative al “ruolo operativo” richiesto al partner privato ed alla durata predeterminata dello stesso.
Tale impostazione, infatti, è apparsa (non tanto preferibile in assoluto bensì) la più aderente alle scarne indicazioni sistematiche provenienti dall’ordinamento comunitario.
È, quindi, apprezzabile, in quest’ottica, il tentativo del Consiglio di Stato di ricollegare l’utilizzo della società mista ad effettive esigenze operative, perché soddisfa l’ineludibile esigenza di “ricollegare il tipo ad una causa”, il che risulta vieppiù necessario in materia di soggetti formali, notoriamente inclini ad un utilizzo meramente strumentale e “di facciata”.
Deve ora rilevarsi, tuttavia, che la tesi fin qui sostenuta non è esente da possibili inconvenienti sistematici, il che dimostra come la questione in esame assomigli alla “quadratura del cerchio”, non facilmente risolvibile per via interpretativa.
La scelta di richiedere al partner privato un ruolo operativo, strutturando la gara finalizzata alla sua individuazione intorno a criteri di selezione qualitativa dei relativi progetti di gestione, avvicina la società mista ad un appalto (o, più precisamente, ad una concessione) di servizi, cioè agli strumenti del parternariato contrattuale.
Ma, se così è, che senso ha la sopravvivenza della società mista?
La sua funzione non potrebbe essere svolta, con pari efficacia, dall’appalto e/o dalla concessione di servizi?
Sul punto l’analisi dottrinale e giurisprudenziale non sembra essere stata sufficientemente approfondita.
Nel parere in commento si legge che il modello societario si presterebbe ad assicurare “un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio” e considerazioni non dissimili si traggono dal Libro Verde della Commissione (vedi supra).
Ma in cosa può consistere, in concreto, questo maggior controllo?
Non pare ragionevole ritenere che lo stesso - eletto dal Consiglio di Stato a ratio giustificativa e tratto differenziale del modello societario misto rispetto al parternariato contrattuale - possa efficacemente realizzarsi in virtù del semplice esercizio dei poteri di assemblea.
Ed infatti, pur potendosi ipotizzare che la società mista italiana sia essenzialmente a capitale pubblico maggioritario (42), restano comunque gli amplissimi poteri decisionali assicurati agli amministratori dalla recente riforma del diritto societario, cristallizzati nell’art. 2380 bis del codice civile e solo in parte compensati dai poteri assicurati al socio pubblico dall’art. 2449 dello stesso codice (43), che indubbiamente sminuiscono l’importanza dei poteri di controllo del socio in quanto tale.
Per cui l’esatta delineazione di questo speciale requisito, che abbiamo definito “controllo semianalogo” (vedi supra), pare presupporre ulteriori strumenti di influenza del socio pubblico sull’attività sociale (come, ad esempio, apposite clausole statutarie), il cui contenuto rimane, tuttavia, piuttosto oscuro. Senza contare che una simile ricostruzione del modello societario misto ne comporta il sostanziale riavvicinamento all’in house, proprio mentre si è ritenuto di differenziare nettamente le due figure.
Se poi si volge lo sguardo all’altra condizione richiesta dal Consiglio di Stato - l’esigenza, cioè, di limitare la capacità operativa della società ai ristretti confini del servizio per cui è stata creata ed a periodi temporali predeterminati - emergono problemi sistematici di non minor rilievo.
Tale obiettivo, infatti, se appare pienamente condivisibile sul piano degli interessi pubblici e di tutela del libero mercato, lo è meno sotto l’angolo visuale del diritto commerciale, nel quale la società è, per definizione, strumento di libero esercizio dell’attività imprenditoriale, tanto è vero che la materia è da sempre oggetto di opposte visioni d’insieme, a seconda dell’impostazione di partenza adottata.
E, inoltre, questa crescente limitazione del campo operativo delle società miste tende a riavvicinarle, da una parte, al terzo requisito dell’organismo di diritto pubblico (l’essere istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale) e, dall’altra, al secondo requisito del modello in house (il realizzare parte più importante dell’attività con l'ente pubblico), il che comporta il rischio di una gran “confusione sistematica”, che solo un deciso intervento normativo (o quanto meno giurisprudenziale) comunitario potrebbe ormai evitare.
In conclusione la natura “strumentale” della società mista - che si basa sull’adattamento di un istituto privatistico al perseguimento del pubblico interesse (44) - se da un lato può rendere necessarie alcune forzature ai principi generali dei due insiemi giuridici coinvolti, quello amministrativo e quello commerciale, non può legittimamente comportare uno stato di perenne incertezza, che favorisce un utilizzo distorsivo dello strumento nella prassi applicativa, ove spesso si registra l’inutile creazione di nuovi soggetti giuridici, con i connessi costi, non accompagnata dall’effettiva privatizzazione dei moduli operativi e dei sistemi di scelta e controllo del management.

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NOTE.
(1) Il che denota l’esistenza di incertezze sul significato prima di tutto lessicale di alcune espressioni, specie nell’uso che ne ha fatto la Corte di Giustizia: al riguardo non può che richiamarsi, da ultimo, l’elegante studio di L.R. Perfetti, Miti e realtà nella disciplina dei servizi pubblici locali, in Rivista Italiana di diritto pubblico comunitario, 2006, pagg. 387 segg.
(2) Consiglio di Stato, Sezione II, 13 dicembre 2006, n. 3162.
(3) Sul punto merita citazione Consiglio di Stato, Sezione V, 1 luglio 2005, n. 3672, (in Giornale di diritto amministrativo, 2006, pagg. 291 e segg., con commento di T. Bonetti), ove si giustifica l’affidamento senza gara ad una società mista dei servizi tributari, ricondotti alla nozione di pubblico servizio. Dalla lettura della sentenza, peraltro, emerge che la ratio fondamentale del decisum risiede in una “distinta ed autonoma normativa settoriale”, ove si rinvia espressamente alle procedure di affidamento dei servizi pubblici.
(4) Del resto “I Servizi informatici ed affini” figurano espressamente, al punto 7, nell’allegato II.A. al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e come tali sono soggetti alle regole concorrenziali da esso previste per l’affidamento degli appalti in virtù dell’art. 20, comma 2, del medesimo decreto legislativo, che richiama espressamente le prestazioni di cui all’allegato II.A. Analoga riconduzione era possibile in relazione ai “vecchi” allegati al decreto legislativo 157/1995.
(5) Vedi par. 5.
(6) Cfr. da ultimo Cavallo Perin - D. Casalini, L’in house providing, un’impresa dimezzata, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2006, pagg. 60 e segg.
(7) Atto di messa in mora 8 novembre 2000, SG (2000) D/108243.
(8) In argomento vedi A. Graziano, La riforma e la controriforma dei servizi pubblici locali, in Urbanistica e appalti, 2005, pag. 1369 e segg..
(9) Per un’ampia analisi della relativa disciplina vedi, tra gli altri, G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano 2005, pagg. 223 e segg.
(10) In questi termini si pone, ad esempio, G. Piperata, op. cit, pag. 226.
(11) Cfr. A. Graziano, op cit., pagg. 1369.
(12) Tra gli altri, A. Graziano, Le società per azioni con partecipazione degli enti locali: affidamento di servizi e appalto di lavori pubblici, in Rivista trimestrale degli appalti, 1994, pagg. 601 e segg; F. Carigella, Corso di diritto amministrativo, Tomo I, pag. 663 e segg.; F. Luciani, La gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni, in Diritto amministrativo, 1995, pagg. 275 e segg.
(13) Secondo alcuni autori, peraltro, questo tipo di affidamenti presupporrebbe un procedimento complesso, in cui non potrebbe dirsi del tutto assente il profilo pubblicistico: vedi, ad esempio, le riflessioni di G. Piperata, in Tipicità ed autonomia nei servizi pubblici cit, pag. 250, secondo cui il contratto di servizio…non sembra paragonabile ad un provvedimento concessorio, ma presenta caratteristiche tipiche di uno strumento negoziale di esecuzione di una decisione di organizzazione presa in sede amministrativa…”, il che sembra evocare le tesi di chi già ricollegava l’effetto “traslativo” all’atto amministrativo istitutivo della società: si allude a B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico, Milano, 2003.
(14) Vedi infra.
(15) Per un’ampia ricostruzione vedi, tra gli altri, F. Caringella, L’affidamento in house, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici, a cura di R. Garofoli - M.A. Sandulli, pagg. 231 e segg.; R. Villata, Pubblici servizi, Milano, 2006, pagg. 283 e segg.; da ultimo Cavallo Perin - D. Casalini, op. cit., pagg. 51 e segg.
(16) Cfr. ad esempio G. Mangialardi, La scelta del socio di minoranza nelle società miste, in Urbanistica e appalti, 2002, pagg. 418 e segg.
(17) Cfr. M.G. Roversi Monaco, I caratteri della gestione in house, in Giornale di diritto amministrativo, 2006, pag. 1371 e segg., che richiama T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 15 luglio 2005 n. 634 e T.A.R. Lombardia, Brescia, 5 dicembre 2005, n. 1250.
(18) M.G. Roversi Monaco, op. cit. pag. 1379.
(19) D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003, pagg. 265 e segg.; F. Caringella, L’affidamento in house cit., pagg. 343 e segg.
(20) In Corte di Giustizia, 25 ottobre 2005, in causa C-458/03, “Parking Brixen”, ad esempio, il modello in house è stato applicato all’affidamento di un servizio pubblico, per poi rilevarne l’insussistenza e, di conseguenza, l’illegittimità dell’affidamento diretto del servizio.
(21) Tale conclusione si trae con ragionevole certezza soprattutto da Corte di Giustizia 21 luglio 2005, in causa C-231/102 Parking Brixen, e da Corte di Giustizia 6 aprile 2006, in causa C-410-2004 ANAV. Ed è, inoltre, condivisa dal Consiglio di Stato nel parere 456/2007 in commento.
(22) Per un’ampia ricostruzione dell’organismo di diritto pubblico, e dei suoi rapporti con la società mista, vedi, tra gli altri, B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico cit.; D. Casalini, Organismo di diritto ed organizzazione in house cit.; R. Villata, Pubblici servizi cit.; da ultimo G. Greco, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti in house: ampliamento o limitazione della concorrenza? In Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005, pagg. 61 e segg.
(23) Così B. Mameli, l’organismo di diritto pubblico cit., pag. 138.
(24) Cfr., B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico cit., pag. 133.
(25) Cfr. G. Greco, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti in house: ampliamento o limitazione della concorrenza? cit., pag. 67, il quale richiama la recente sentenza della Corte di Giustizia 22 maggio 2003, in causa C-18/01 Taitotalo.
(26) Sul tema vedi G. F. Cartei, I servizi di interesse economico generale fra riflesso dogmatico e regole di mercato, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005, pagg. 1219 e segg., nonché, da ultimo, V. Cerulli Irelli, Impresa pubblica, fini sociali, servizi di interesse generale, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2006, pagg. 772 e segg.
(27) Un fugace riferimento si rinviene, per il vero, nella sentenza ANAV, ove ai capoversi 27-30 si legge che “27 Stando alle osservazioni scritte presentate alla Corte dall’AMTAB Servizio, il Comune di Bari ha deciso, in data 27 dicembre 2002, di cedere una partecipazione corrispondente all’80% delle azioni di tale società da esso detenute, e in data 21 maggio 2004 ha deciso di avviare, a tal fine, la procedura di gara ad evidenza pubblica per la selezione del socio privato di maggioranza. Tale informazione è stata confermata dall’ANAV nel corso dell’udienza dinanzi alla Corte. 28 Nella stessa udienza, però, il Comune di Bari ha sostenuto di aver rinunciato all’intenzione di cedere una parte delle proprie azioni dell’AMTAB Servizio. Esso avrebbe deciso, in data 13 gennaio 2005, di non dare seguito alla propria delibera precedente, e di non privatizzare più detta società. Tale provvedimento non sarebbe stato inserito nei documenti inviati dal giudice a quo in quanto adottato successivamente all’ordinanza di rinvio. 29 Spetta al detto giudice, e non alla Corte, chiarire se il Comune di Bari intenda aprire il capitale dell’AMTAB Servizio ad azionisti privati. Tuttavia, allo scopo di fornire a tale giudice elementi utili per risolvere la controversia sottopostagli, va precisato quanto segue. 30 Qualora, durante la vigenza del contratto di cui alla causa principale, il capitale dell’AMTAB Servizio fosse aperto ad azionisti privati, la conseguenza di ciò sarebbe l’affidamento di una concessione di servizi pubblici ad una società mista senza procedura concorrenziale, il che contrasterebbe con gli obiettivi perseguiti dal diritto comunitario”.
(28) Così, ad esempio, R. Ursi, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica tra outsourcing e in house providing, in Diritto amministrativo, 2005, pagg. 179 ss.
(29) Cfr. De Nictolis, 2005, Commento a Corte di Giustizia CE, I, 11.1.2005, n. 2603, C-26/03, Stadt Halle, in Urbanistica e Appalti, 2005, pag. 305,
(30) Lo spunto si deve soprattutto a E. Scotti, Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e parternariato pubblico privato, in Diritto amministrativo 2005, pag. 947.
(31) Si allude al recente ed illuminante contributo di Cavallo Perin - D. Casalini, op. cit., pagg. 87-90.
(32) La sentenza del Supremo Collegio Siciliano è la 27 ottobre 2006, n. 589, espressamente richiamata nel parere in commento.
(33) L’espressione è di B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico cit., pag. 129.
(34) Vedi nota 27.
(35) Ed in ciò sembra trovare conferma lo spunto richiamato nella precedente nota 29.
(36) Si tratta della Risoluzione sui parternariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni 26 ottobre 2006 (2006/2043), richiamata anche nel parere in commento.
(37) Vedi nota 31.
(38) Per un’ampia ricostruzione della problematica vedi, da ultimo, F. Caringella, In particolare, le società pubbliche, in i Contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di R. De Nictolis, Milano, 2007, pagg. 325 e segg.
(39) In questo senso si è espressa la stessa Corte di Giustizia, seppur in relazione al secondo requisito in house, con la sentenza 11 maggio 2006, in causa C- 340/04 Carbotermo; con specifico riferimento alla società mista vedi Consiglio Stato, Sezione IV, 29 settembre 2005, n. 5204.
(40) Consiglio di Stato, Sezione VI, 3 settembre 2001, n. 4586.
(41) Tanto è vero che analoghi problemi si sono posti anche per l’azienda speciale: cfr. F. Caringella, op. ult. cit., pag. 327.
(42) Ciò è sicuramente vero per la specifica fattispecie esaminata nel parere in commento, ove la partecipazione pubblica maggioritaria è prevista dal legislatore, ma dovrebbe valere, in via generale, anche per le società mista di gestione dei servizi pubblici locali, in virtù di un’applicazione a contrariis dell’art. 116 TUEL: cfr. R. Ursi, op. cit., pag. 187.
(43) Cfr. L.R. Perfetti, op cit., pag. 422.
(44) Cfr. F. Caringella, op. ult. cit., pagg. 280 e segg.

(pubblicato il 28.5.2007)

 

 
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