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SIMONA ROSTAGNO

L’ambito soggettivo di applicazione della disciplina dell’art. 13 del cd. decreto Bersani: prime indicazioni della giurisprudenza e prime perplessità


1. - L’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006 n° 223 convertito in l. 4 agosto 2006 n° 248 estende nel suo tenore letterale la disciplina ivi prevista alle “società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali” mediante una previsione che il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia ha dilatato fino a ricomprendervi una società partecipata, fra l’altro, da una società a sua volta integralmente partecipata da una società, a sua volta integralmente partecipata da una Regione (oltrechè da alcune Camere di Commercio).
A tale esito si addiviene affermando che indubbiamente la società sub iudice “rientra nelle previsioni del 1° comma dell’art. 13” in considerazione dello “stretto collegamento” tra la catena di società e fra queste e la Regione, che impone di ritenere che la Regione “abbia una posizione di totale controllo delle due società intermedie e, quindi, partecipi anche della società oggetto di indagine”.
In altre parole per il Giudice la nozione di società partecipata da amministrazione pubblica regionale di cui all’art. 13 del c.d. decreto Bersani equivale e ricomprende anche la nozione di società partecipata da società a sua volta “controllata” da società che a sua volta è partecipata da amministrazione pubblica regionale.
L’uso del verbo “partecipare” e “controllare” nella descrizione della fattispecie da ultimo effettuata non interviene a caso, in quanto proprio la revisione della prospettazione sopra riportata alla luce dell’istituto del controllo societario previsto dall’art. 2359 cod. civ. e ss. conduce ad esprimere perplessità sulla fondatezza della stessa.
La riconduzione della società sub iudice alla fattispecie dell’art. 13 1° co. del c.d. decreto Bersani costringe necessariamente ad includere nella dizione “società (…) partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali” di cui alla norma della qualità di includere anche la nozione di partecipazione indiretta, risultando evidente che nel caso di specie la Regione non è azionista della società sub iudice, bensì solamente azionista di una società che –si ripete - a sua volta controlla una società che a sua volta partecipa nella società che interessa.
Peraltro, il nostro ordinamento non contempla una nozione di partecipazione azionaria indiretta (rectius: nel caso di specie, di controllo indiretto) per tutte le persone giuridiche e fisiche ma solamente per le società e fra le società ai sensi appunto della disciplina prevista dall’art. 2359 ss. cod. civ.
E che la questione debba risolversi alla stregua del vigente ordinamento societario è appena evidente in quanto pacificamente l’art. 13 del d.l. 223/2006 convertito in l. 248/2006 si riferisce a società sia pure pubbliche, nel contesto dell’attività iure privatorum della Pubblica Amministrazione.
Ebbene, la norma in esame parla di partecipazione sociale dell’amministrazione regionale e che cosa sia la partecipazione societaria non può appunto che risolversi secondo le norme del diritto delle società.
Ne consegue allora che se è pacifico che “il controllo indiretto regolato dall’art. 2359 2° co. cod. civ. – detto controllo “a catena” o “a cascata” si fonda sul teorema della transitività del rapporto di controllo” ed esprime “una relazione di eguaglianza, per la quale dall’ipotesi che la società A controlla B e la società B controlla la società C”, con il che “si deduce che la società A controlla (indirettamente) la società C” (1), ciò non accade sicuramente per il socio della società A che in virtù dell’elementare principio della separatezza fra socio e società non equivale alla medesima, per cui pacificamente lo stesso per il fatto di partecipare in A non partecipa in C.
La partecipazione sociale è un agglomerato di diritti ed oneri patrimoniali e corporativi che, nel caso di specie, pacificamente non sono esercitati dalla Regione nella società sub iudice, ma dalla società controllata dalla società a sua volta partecipata dalla Regione medesima.
Prova a contrario è che nel caso di specie, ove si pretende di delineare il controllo a catena fra un ente pubblico e più società, non risulterebbe pacificamente applicabile la disciplina dell’art. 2359 bis cod. civ. in materia di partecipazioni incrociate, per il semplice fatto appunto che la Regione non è una società e quindi in ogni caso non è applicabile alla Regione medesima la nozione di controllo indiretto pur contemplata ora nella norma medesima (2).
Si ha davvero l’impressione che la sentenza abbia operato una indebita sovrapposizione fra la disciplina del “controllo analogo” rilevante per il modello in house (e quindi per la la fattispecie della rilevanza del controllo dell’ente pubblico sulla società terza) con la disciplina della partecipazione sociale e del controllo azionario che non coincide affatto con la prima, come l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha sin qui dimostrato.
Né per superare quanto sopra è possibile appellarsi alla ratio della norma, come la sentenza sembrerebbe invece intendere, ove si giustifica l’interpretazione offerta invocando il fatto che “una simile interpretazione appare del tutto conforme alla ratio legis, che non solo è volta a tutelare il principio di concorrenza e di trasparenza, ma anche -e soprattutto- quello di libertà di iniziativa economica che risulterebbe gravemente turbato dalla presenza e dalla operatività sul mercato) di soggetti che proprio per la presenza (diretta o mediata) della mano pubblica finiscono in sostanza con l’eludere il rischio di impresa”.
Intanto, il richiamo non sembra coerente in quanto semmai la sentenza inconsapevolmente attua una decisa involuzione quando di fatto finisce per teorizzare la sussistenza del “controllo” da parte della Regione sulla società terza per la sola titolarità della partecipazione sociale in altre società, il che è approdo ampiamente sconfessato dalla Corte di Giustizia e dalla giurisprudenza interna (3).
Inoltre, il tenore della norma dell’art. 13 del dl 223/2006 convertito in l. 248/2006 depone in senso contrario all’interpretazione della norma offerta dal Giudice, in quanto l’operazione ermeneutica surriferita con riferimento alla nozione di “società (…) costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali” è stata effettuata appunto estrapolando tale nozione dal più complesso impianto della previsione di legge.
La norma infatti non si riferisce, come notorio, indistintamente a “tutte” le società costituite e partecipate dall’amministrazione pubblica regionale o locale bensì circoscrive il suo effetto a quelle società “costituite o partecipate (…) per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività (…) nonché nei casi consentiti dalla legge per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza”, per imporre alle medesime di “operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti”, con esclusione di “altri soggetti pubblici o privati”.
La generale e generica dizione connessa all’adozione della formula “altri soggetti pubblici o privati” per individuare l’ambito della capacità di agire delle società “costituite e partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali” consente di individuare per sottrazione il limitato ambito di operatività delle società in esame.
Non è dubbio che il riferimento agli enti “costituenti o partecipanti” si saldi con la precedente individuazione delle società “costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali”, il che già esclude che la nozione di partecipazione sociale rilevante ad individuare queste ultime possa estendersi ad una partecipazione sociale detenuta da una società, visto che la norma ben sa distinguere fra “enti” e “soggetti pubblici e privati”.
D’altra parte, a meno di ritenere che la norma dell’art. 13 del decreto Bersani abbia riscritto il modello in house permettendo che l’affidamento di appalto fra ente e società intervenga anche in assenza di “controllo analogo” (che secondo una giurisprudenza sufficientemente consolidata può essere solo “diretto” (4) si fa davvero fatica, al di fuori di poche eccezioni, a ritenere che l’ente “affidante” possa corrispondere ad ente che non partecipa direttamente alla società. E, per inciso, nel caso di specie, la società sub iudice svolge la sua attività nei settori ordinari e in assenza di diritti esclusivi, con il che non è davvero chiaro come la Regione potrebbe affidare direttamente degli incarichi alla medesima.
Né la sentenza fornisce degli elementi per comprendere quale sia l’oggetto sociale della società sub iudice per capire se almeno sotto tale profilo la stessa rientrasse nell’ambito delle società individuate dall’art. 13 citato (società “per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti”), restando irrilevante in tal senso il riferimento all’oggetto sociale della società controllata dalla Regione e a sua volta controllante la società che partecipa alla società sub iudice come anche il riferimento all’oggetto sociale della società controllante la società sub iudice, che con tutta evidenza non sono oggetto di indagine da parte del Giudice.
2. Non meno problematico appare il deciso riferimento della Camera di Commercio nel novero degli enti pubblici la cui partecipazione sociale è significativa per individuare l’ambito di operatività della norma di legge, effettuato osservando che si tratta di “enti pubblici”.
La qualifica di ente pubblico della Camera di Commercio è stata riaffermata dall’art. 1 della l. 29 dicembre 1993 n° 580, che ha previsto una disciplina che fa della Camera di commercio un mezzo di comunicazione fra stato e collettività locale, in quanto promuove lo sviluppo di quest’ultima in armonia con l’ordinamento statale.
Le Camere di Commercio sono certamente “enti rappresentativi della rete dei soggetti che, secondo la legge, costituiscono la struttura dell’economia provinciale” come rilevato dalla Corte Costituzionale (5) ma anche caratterizzati da una ingerenza dell’esecutivo statale (6) anche dopo la riforma introdotta dal d.lgs. 112 del 1998, proprio perché in definitiva tutelano gli interessi del sistema delle imprese che per definizione sono generali (7).
Alla luce di quanto sopra, la riconduzione dei medesimi enti alle amministrazione pubbliche regionali e locali di cui all’art. 13 del c.d. decreto Bersani non è operazione tanto scontata (8), vista l’eccezionalità della norma. La questione quindi necessita senz’altro di una meditazione più approfondita, considerato che pacificamente le Camere di Commercio non sono enti regionali né comunque possono riferirsi semplicemente agli enti locali individuati dal d.lgs. n° 267/2000 s.m.i. La sentenza non offre in tal senso una soluzione soddisfacente in quanto il riconoscimento alle Camere di Commercio della qualifica di “enti pubblici” non risolve il problema interpretativo.

 

--- *** --- 1) Cfr. Manuale di diritto commerciale a cura di V. Buonocore, Torino 2005, pag. 592 e ss.
2) Cfr. Cass. 13 marzo 2003 n° 3772 in Società 2003, pag. 824 e ss.
3) Corte di Giustizia I 13 ottobre 2005 C-458/03, in questa rivista.
4) Corte di Giustizia II 11 maggio 2006 C-340/04, in questa rivista.
5) Corte Cost. 8 novembre 2000 n° 477.
6) Senza pretesa alcuna di entrare nel complesso tema, si ricordano soltanto gli artt. 3, 4, 18, 20 della l. n° 580 del 1993. Per una riflessione sull’evoluzione del sistema del commercio nel contesto del quale si colloca l’evoluzione del sistema delle Camere di Commercio: cfr. fra gli altri, A. Orlando, Il Commercio, in Trattato di diritto amministrativo a cura di Sabino Cassese IV, Milano 2003, pag. 3556 e ss.; G. Virga, Diritto Amministrativo. Amministrazione Locale 3, Milano 1998, pag. 334 ove ampia bibliografia sul tema.
7) Cfr. Consiglio Stato Atti norm. 10 gennaio 2005 n. 150.
8) Cfr. peraltro Tar Lazio – Roma III ter, 19 gennaio 2004 n° 380.

 

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V. ANCHE T.A.R. LOMBARDIA - MILANO - SEZIONE I - Sentenza 31 gennaio 2007, n. 140

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