L’intervento governativo nei settori economici strategici alla luce del diritto dell’Unione europea.
di Oreste Pallotta, Professore associato di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università degli Studi di Palermo.
Sommario: 1. I presupposti di esercizio del golden power alla luce delle regole sul mercato interno europeo. 2. Il rispetto dei principi di necessità e proporzionalità alla base dell’intervento nazionale. – 3. L’esistenza di esigenze imperative quale precondizione dell’intervento nazionale. – 4. Segue: l’ambito di applicazione (oggettivo e soggettivo) dei poteri speciali alla luce della disciplina nazionale. – 5. Osservazioni conclusive.
- I presupposti di esercizio del golden power alla luce delle regole sul mercato interno europeo.
L’analisi dei presupposti dell’intervento della mano pubblica nell’economia ([1]), disciplinati dal d.l. 15 marzo 2012 n. 21([2]), mediante l’esercizio dei poteri d’intervento speciale da parte dell’esecutivo italiano nei settori industriali ed economici ritenuti strategici, non può prescindere da un richiamo ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, consolidatasi sul punto alla luce delle regole derivanti dai Trattati UE in materia di libertà economiche fondamentali ([3]).
Difatti, prim’ancora di addentrarsi nella giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo sul punto, è del tutto evidente come ogni forma di protezionismo nazionale – pur sullo sfondo della generale riserva concessa dai Trattati UE all’ordinamento nazionale in merito al regime di proprietà ([4]) e pur tenendo conto di come, in principio, la politica economica spetti innanzitutto agli Stati membri – si ponga in linea di principio in contrasto con la realizzazione del mercato interno europeo e con le regole dei Trattati UE che disciplinano la circolazione dei fattori produttivi. D’altronde, come rilevato in dottrina, «l’azione speciale dello Stato contrastava per definizione con l’equivalenza di trattamento tra pubblico e privato, principio cardine che guida l’azione dell’Unione sul mercato» ([5]); in questo senso, era da spiegarsi la tradizionale ostilità dei giudici lussemburghesi nei confronti delle cd. golden shares, tradizionalmente ritenute in contrasto con le libertà di stabilimento e di capitali ([6]).
Conseguentemente, occorre preliminarmente chiarire come tutta la materia di cui qui si discute sia da intendersi complessivamente come una deroga alle normali regole di funzionamento del mercato comune dal punto di vista dell’Unione europea e, quindi, l’individuazione, applicazione e interpretazione dei presupposti oggettivi e soggettivi di riferimento subisca le regole proprie delle situazioni eccezionali, da sottoporre sempre ad un rigoroso test di necessita e proporzionalità; difatti, in prima battuta, ogni provvedimento nazionale, che implichi l’esercizio dei cd. poteri speciali in capo allo Stato italiano come ad altro Stato membro dell’Unione, non può che essere qualificato, dal punto di vista dell’ordinamento comunitario, alla stregua di una misura discriminatoria diretta fondata sulla nazionalità, da intendersi come «una restrizione particolarmente grave» sulla base delle norme primarie europee in materia di libera circolazione dei fattori della produzione ([7]).
Tale potenziale contrasto è d’altro canto ben noto ed evidente alla stessa giurisprudenza amministrativa interna, la quale non fatica affatto a rilevare espressamente come «l’esercizio dei poteri speciali di cui al d.l. n. 21/2012, ponendo delle limitazioni ai principi comunitari della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali, deve trovare la sua giustificazione nel perseguimento del fine legislativo di consentire l’intervento statale qualora l’operazione societaria possa compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale, avuto riguardo all’incidenza su beni considerati di rilevanza strategica»; per questa ragione – proseguono i giudici interni – «è escluso che l’esercizio dei poteri possa riguardare operazioni diverse da quelle previste dalla legge ovvero asset non individuati tra quelli “strategici”» ([8]).
Ne dovrebbe conseguire, come meglio si cercherà d’illustrare appresso, un utilizzo di stretta interpretazione dell’istituto del golden power, specie nell’individuazione e definizione dei suoi presupposti, e questo in linea con la generale regola dell’interpretazione restrittiva da doversi dare, nel nostro ordinamento (come in quello UE), alle situazioni eccezionali; invero, così non è se ben si osserva non solo la prassi più recente, ma anche e soprattutto gli orientamenti giurisprudenziali interni intesi a includere i provvedimenti di esercizio dei poteri speciali nella categoria degli atti di “alta amministrazione”, in quanto tali soggetti ad ampia discrezionalità amministrativa (se non a scelte di chiara connotazione politica) e, conseguentemente, a scrutinio giurisdizionale ridotto ([9]).
A tal proposito, occorre difatti considerare come la persistente situazione di crisi economica e sociale, realizzatasi negli anni recenti, abbia sempre più indotto gli Stati membri a porre un freno all’eccesso di liberalizzazione e all’ingresso di capitali esteri soprattutto in settori via via considerati strategici per gli interessi nazionali, mediante un neo-protezionismo inteso a salvaguardare gli asset nazionali non solo dall’ingresso degli investimenti extra-UE, ma anche infra-comunitari; come difatti autorevolmente osservato in dottrina, «[t]he EU in an open space committed to free trade and investment», sebbene «[t]he overall impression is that the EU is trying to strike a balance between its tradition of free trade and the protection of its critical economic sectors […]» ([10]).
Lo stesso intervento normativo di armonizzazione, adottato dall’Unione europea con il reg. (UE) 2019/452 ([11]), mira difatti a disciplinare il potere derogatorio degli Stati membri rispetto all’esercizio delle libertà di circolazione dei capitali e del diritto di stabilimento in un’ottica di politica commerciale comune ([12]). Per di più, l’inasprimento ulteriore delle tensioni geopolitiche, cui i tempi recenti assistono, sembrano sempre più spingere la stessa Unione europea ad una rivisitazione sempre più restrittiva del suo modello di apertura ai capitali esteri, sicché «in a global economic system fractured by geopolitical competition and trade tensions, the EU must integrate more tightly security and open strategic autonomy considerations in its economic policies» ([13]).
È dunque innanzitutto il diritto dell’Unione europea, specialmente in materia di libera circolazione dei capitali e di diritto di stabilimento, a dettare i presupposti per l’esercizio legittimo dei poteri speciali da parte degli Stati membri nei settori economici considerati di importanza strategica nazionale. Il discrimen tra la rilevanza delle norme dei Trattati UE sulla libera circolazione dei capitali, piuttosto che di quelle sul diritto di stabilimento, sta essenzialmente nella portata dell’investimento estero; se, difatti, la misura e la tipologia dell’investimento è tale da determinare un nuovo controllo dell’impresa target, l’art. 54 TFUE diventa il parametro di legittimità delle normative statali d’intervento. Secondo la Corte di Lussemburgo, difatti, «ricade nella sfera di applicazione delle norme in materia di libertà di stabilimento e non in quelle relative alla libera circolazione dei capitali una norma nazionale destinata ad applicarsi alle partecipazioni che consentano di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di una società e di determinarne le attività» ([14]).
Per di più – come noto – il pieno godimento delle libertà connesse al diritto di stabilimento spetta anche ad azionisti (persone fisiche o giuridiche che siano) di Paesi Terzi, dovendosi unicamente avere riguardo – in base al diritto UE – alla sede sociale delle imprese di volta in volta coinvolte nelle diverse operazioni societarie transfrontaliere, al fine della concessione e riconoscimento dei diritti derivanti dai Trattati UE.
Stando alla medesima giurisprudenza della Corte di giustizia UE, «la localizzazione della sede sociale, dell’amministrazione centrale o del centro di attività principale di cui all’art. 54 TFUE serve a determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato». Di contro, «da nessuna disposizione del diritto dell’Unione risulta che la provenienza degli azionisti delle società residenti nell’Unione, siano essi persone fisiche o giuridiche, incida sul diritto di tali società di esercitare la libertà di stabilimento»; difatti, «lo status di società dell’Unione si fonda, in virtù dell’art. 54 TFUE, sul luogo della sede sociale e sull’ordinamento giuridico di appartenenza della società, e non sulla nazionalità dei suoi azionisti» ([15]).
Ne consegue che, anche qualora l’esercizio dei poteri speciali d’intervento da parte dei governi nazionali sia diretto a paralizzare gli investimenti di determinati soci di ultima istanza, comunque tale azione di “contrasto” nazionale non può che muoversi all’interno dei principi generali in materia di diritto di stabilimento, allorquando la società veicolo benefici della personalità giuridica concessa da uno degli Stati membri sulla base dei criteri di collegamento alternativamente ammessi dall’art. 54 TFUE ([16]).
Entro questo quadro primario di riferimento si collocano dunque il d.l. 15 marzo 2012 n. 21 e i suoi presupposti applicativi che, secondo molti osservatori, sanano oggi i dubbi di compatibilità comunitaria che il precedente regime delle golden shares portava invece con sé ([17]); se questo è vero, lo è anche forse per un atteggiamento mutato delle istituzioni UE e una maggiore attenzione a tutelare i “campioni” nazionali e ad evitare le interferenze strategiche straniere ([18]).
- Il rispetto dei principi di necessità e proporzionalità alla base dell’intervento nazionale.
In considerazione di quanto precede, appare dunque evidente come, dovendosi risolvere l’esercizio del golden power in una deroga di stretta interpretazione all’esercizio delle libertà fondamentali dei Trattati, il suo esercizio in concreto non può che rinvenire i suoi primi presupposti oggettivi nei principi generali UE di proporzionalità e necessità, per come delineati dall’oramai consolidata giurisprudenza UE appresso descritta. L’osservanza di tali principi, quindi, rappresenta al tempo stesso non solo un parametro di legittimità (ex-post) dell’intervento normativo interno, ma anche una pre-condizione di esercizio del potere statale avverso gli investimenti esteri ([19]).
Non può difatti revocarsi in dubbio che la disciplina che qui ci occupa, in considerazione del suo carattere di eccezionalità rispetto alle ordinarie regole di funzionamento del mercato UE interno ed antitrust, si ponga in un terreno di interpretazione restrittiva rispetto all’indisturbata circolazione dei fattori produttivi ed al libero gioco della concorrenza imposti dai Trattati UE. Come difatti evidenziato dalla Corte di giustizia di Lussemburgo, «se è pur vero che gli Stati membri restano sostanzialmente liberi di determinare, conformemente alle loro necessità nazionali, le esigenze dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza, resta il fatto che tali motivi, nel contesto dell’Unione, e in particolare in quanto autorizzano una deroga a una libertà fondamentale garantita dal Trattato FUE, devono essere intesi in senso restrittivo, di modo che la loro portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il consenso delle istituzioni dell’Unione» ([20]).
Per giunta i giudici lussemburghesi hanno da sempre anche tenuto in considerazione le esigenze degli Stati membri di salvaguardare asset strategici nazionali a seguito dei processi di liberalizzazione che hanno fortemente investito i mercati nazionali nei decenni scorsi, anche sulla spinta delle politiche di liberalizzazione derivanti dal diritto UE.
In una decisione riguardante l’ordinamento belga e l’introduzione di una golden share nella Société nationale de transport par canalisations ([21]), nonché talune disposizioni che istituivano a vantaggio dello Stato poteri speciali nelle attività di canalizzazione ([22]), la Corte di giustizia ha avuto modo di osservare come «non possono essere negate le preoccupazioni che, a seconda delle circostanze, possono giustificare il fatto che gli Stati membri conservino una certa influenza sulle imprese inizialmente pubbliche e successivamente privatizzate, qualora tali imprese operino nei settori dei servizi di interesse generale o strategico» ([23]). Sennonché, prosegue la Corte, «tali preoccupazioni non possono tuttavia permettere agli Stati membri di far valere i loro regimi di proprietà […] per giustificare ostacoli alle libertà previste dal Trattato […] Infatti, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, il detto articolo non ha l’effetto di sottrarre i regimi di proprietà esistenti negli Stati membri ai principi fondamentali posti dal Trattato».
Il rigoroso rispetto dei test di necessità e proporzionalità appare peraltro tanto più necessario – nell’ottica della progressiva realizzazione del mercato interno stabilita dai Trattati UE – a fronte di una nozione del tutto in “bianco” di golden power; come difatti è stato correttamente osservato, tale nozione «sta ad indicare l’insieme di poteri pubblicistici finalizzati a proteggere interessi nazionali strategici nei confronti di investimenti ed altre operazioni economiche che li possano pregiudicare» ([24]), potendo dunque sussumere in sé il più ampio novero di tipologie di provvedimenti nazionali e settori dell’economia potenzialmente interessati sulla scorta delle esigenze interne via via configurabili nel tempo.
Non sussistendo, dunque, un catalogo predefinito del tipo di poteri speciali esercitabili, il rispetto dei summenzionati principi UE appare tanto più fondamentale nel momento cui essi servono a porre un argine di legalità europea al potenziale esercizio indistinto e indiscriminato dei poteri d’intervento nazionale nell’economia con finalità protezionistiche. In questo senso, assume un ruolo fondamentale, al fine del rispetto dei principi-presupposto sopra enunciati, la correttezza dell’iter procedimentale di accertamento, vale a dire – utilizzando la terminologia dei giudici amministrativi – «la necessità di una rigorosa istruttoria ai fini della verifica della presenza di beni strategici e di operazioni riconducibili a quelle individuate dalla legge» ([25]); entro tale ottica, il requisito procedimentale assume i tratti di un presupposto oggettivo essenziale di legittimità dell’intervento statale, anche perché di fatto – considerato l’elevato tasso di discrezionalità tecnico-politica di cui godono gli uffici della Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’esercizio del golden power – l’accertamento istruttorio che si realizza nella prima fase del complessivo iterprocedimentale rappresenta il solo momento di sindacabilità delle successive scelte politiche effettuate, considerato l’orientamento giurisprudenziale nazionale.
Ciò detto, la giurisprudenza UE in tema di esercizio dei poteri speciali da parte dei governi nazionali, volta a contemperare un simile intervento con le libertà fondamentali di libera prestazione dei servizi, diritto di stabilimento e libera circolazione dei capitali, è piuttosto ampia ed è da considerarsi ormai del tutto consolidata.
Potendoci qui limitare ad una mera overview di alcuni precedenti europei in materia, in un caso relativo alle privatizzazioni di ENI SpA e di Telecom Italia SpA ([26]), la Corte di giustizia UE si è trovata a pronunciarsi in ordine all’esercizio dei poteri speciali da parte del Governo italiano in funzione di obiettivi nazionali di politica economica ed industriale ([27]), nonché sull’introduzione di un limite del 3% dei diritti di voto come partecipazione rilevante ai fini dell’esercizio del potere speciale di gradimento da parte del Ministro del Tesoro. In tale decisione, i giudici di Lussemburgo hanno avuto l’occasione di precisare ancora meglio, dal punto di vista del diritto primario dell’UE e della salvaguardia delle libertà fondamentali da esso previste, i presupposti oggettivi d’intervento statale.
Secondo tale pronuncia, difatti, l’esercizio dei poteri speciali da parte dei governi nazionali può essere considerato legittimo in base al diritto dell’Unione europea solo a fronte del soddisfacimento di quattro condizioni cumulative, e cioè deve: (i) avvenire in modo non discriminatorio; (ii) rinvenire la propria giustificazione in motivi imperativi di interesse generale; (iii) risultare idoneo a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito; (iv) in ossequio al principio di proporzionalità, non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento dell’interesse generale cui l’intervento nazionale tende ([28]).
Pur nel rispetto di un certo livello di sovranità nazionale, i presupposti di intervento posti dalla giurisprudenza lussemburghese appaiono dunque piuttosto stringenti e, specularmente, dovrebbe risultare il più possibile incisivo il sindacato di legittimità concesso al giudice amministrativo nazionale. Sotto questo profilo, letta alla luce del quadro giuridico comunitario di riferimento, appare quindi discutibile l’orientamento giurisprudenziale italiano volto a ritenere – proprio in ragione della qualificazione degli atti di esercizio del golden power come «scelte di alta amministrazione» – che «la successiva decisione dello Stato di esercitare o meno i poteri speciali, attraverso l’imposizione di “prescrizioni”, “condizioni” ovvero opponendosi all’operazione, si connota per una amplissima discrezionalità, in ragione della natura degli interessi tutelati, attinenti alla sicurezza nazionale» ([29]). E un simile (elevato) tasso di discrezionalità, per quanto comprensibile in ragione della delicatezza e riservatezza degli interessi strategici sottostanti, difficilmente può in pieno conciliarsi con i requisiti di legittimità imposti dalla summenzionata giurisprudenza UE.
Per di più, sempre in merito all’elevato livello di discrezionalità concesso al governo nazionale dalla giurisprudenza amministrativa italiana, occorre anche evidenziare come quest’ultima abbia recentemente valorizzato la funzione preventiva (e non successiva) dell’esercizio del golden power; secondo i giudici interni, difatti, «se è vero che tale disciplina delinea un complesso di poteri di natura “eccezionale”, come tali di stretta interpretazione, deve però altrettanto rilevarsi che la finalità della predisposizione degli stessi è preventiva, sicché ridurne la portata unicamente alle operazioni effettivamente traslative ne vanificherebbe l’efficacia»[30]. In sostanza, il tribunale amministrativo, in ragione delle finalità precauzionali dell’esercizio dei poteri speciali, amplia – come si dirà appresso – l’ambito di esercizio dei poteri in questione, includendovi tra i presupposti oggettivi anche operazioni solo potenzialmente dotate di effetti traslativi; in altri termini, si tratta ancora una volta di un esempio dell’ampio margine di discrezionalità oggi giurisprudenzialmente acconsentito all’esecutivo nazionale, in apparente contrasto con la regola della stretta interpretazione delle norme (e dei poteri) eccezionali.
Per di più – occorre anche rilevare – tale elevato tasso di discrezionalità si accompagna ad un controllo giurisdizionale di fatto “debole”, limitato cioè ai casi di «manifesta illogicità delle decisioni assunte» ([31]) ovvero di «sproporzionata limitazione dell’iniziativa economica privata» ([32]). Ancor più ristretto sembra essere lo spazio di sindacato riconosciuto in materia dal Consiglio di Stato, in base al quale «nella specifica procedura in commento il vizio di contrasto con l’istruttoria si presenta strutturalmente marginale, in quanto è limitato ai casi macroscopici in cui il Consiglio affermi fatti smentiti dall’istruttoria o, al contrario, neghi fatti riscontrati nella fase istruttoria»; naturalmente – precisano i giudici di legittimità – «ciò non veicola una sorta di arbitrio decisionale del Consiglio, che, di contro, deve poggiare su un iter argomentativo coerente, fondato sui criteri posti a monte dalla legge» ([33]).
Ferme le criticità sopra espresse, occorre comunque considerare che il d.l. 21/2012 contiene esso stesso un esplicito richiamo ai surriferiti principi di fonte UE, prevedendo all’art. 1, par. 3, che l’esercizio dei poteri speciali a fronte di una minaccia per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale debba avvenire appunto «nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza»[34]. Resta beninteso che tale regola, in quanto appunto espressione di un più generale principio di fonte UE, vale per qualsivoglia intervento statale indipendentemente dal settore economico riguardato e quantunque non sempre espressamente richiamato.
- L’esistenza di esigenze imperative quale precondizione dell’intervento nazionale
Secondo regole e principi consolidati dell’ordinamento UE, le discriminazioni dirette fondate sulla nazionalità – quali sono appunto i provvedimenti di esercizio dei poteri governativi speciali – possono essere ammissibili, oltre che in presenza delle deroghe tassativamente previste dai Trattati, a fronte di esigenze imperative. Più in particolare, nella materia che ci occupa, la Corte di giustizia ha stabilito come una restrizione ad una libertà fondamentale riconosciuta dal TFUE risulta ammissibile solo se tale misura nazionale (i) trovi giustificazione in un motivo imperativo di interesse generale, (ii) sia idonea ad assicurare il raggiungimento dell’obiettivo cui è funzionalizzata e (iii) non superi quanto necessario per ottenerlo.
Ad esempio, in una pronuncia relativa alla legge tedesca sul controllo della Wolkswagen ([35]), la Corte ha precisato che «la libera circolazione dei capitali può essere limitata da provvedimenti nazionali che si giustifichino […] per motivi imperativi di interesse generale, purché non esistano misure comunitarie di armonizzazione che indichino i provvedimenti necessari a garantire la tutela di tali interessi» ([36]). Peraltro, in un proprio precedente pronunciamento, i giudici lussemburghesi avevano già avuto modo di precisare come «motivi di natura puramente economica, connessi alla promozione dell’economia nazionale o al buon funzionamento di quest’ultima, non possono servire come giustificazione di un ostacolo a una delle libertà fondamentali garantite dai Trattati» ([37]).
Con altre due sentenze gemelle la Corte di giustizia si è poi occupata della legittimità comunitaria di taluni regimi di golden power introdotti nell’ordinamento portoghese e in quello spagnolo. Nel primo caso ([38]), la Corte lussemburghese si è espressa sulla legge quadro sulle privatizzazioni in Portogallo, che imponeva restrizioni basate sulla nazionalità degli investitori alle acquisizioni al di sopra di un determinato numero di azioni in talune imprese portoghesi. Con tale pronuncia, la Corte di giustizia ha avuto innanzitutto l’occasione di ribadire che «[p]er quanto riguarda il divieto imposto agli investitori cittadini di un altro Stato membro di acquisire più di un numero determinato di azioni in talune impresi portoghesi, è pacifico […] che si tratta di una disparità di trattamento dei cittadini di altri Stati membri, che limita la libera circolazione dei capitali» ([39]).
Quanto poi alle giustificazioni ammissibili, la Corte di giustizia ha precisato che «per giurisprudenza consolidata motivi di natura economica non possono giustificare ostacoli vietati dal Trattato […]», giungendo a concludere che «questo ragionamento si applica anche agli obiettivi di politica economica, come la scelta di un partner strategico, il rafforzamento della struttura concorrenziale del mercato di cui trattasi nonché la modernizzazione ed il rafforzamento dell’efficacia dei mezzi di produzione. Siffatti interessi non possono costituire una valida giustificazione delle restrizioni alla libertà fondamentale considerata» ([40]).
Nella pronuncia gemella relativa all’ordinamento francese ([41]), i giudici di Lussemburgo si sono poi trovati ad occuparsi della golden share dello Stato francese nella Société nationale Elf-Aquitaine ([42]); in questo caso, la Corte di giustizia ha ulteriormente rinforzato il proprio orientamento restrittivo in merito all’esercizio dei poteri speciali da parte dei governi nazionali, precisando che «la pubblica sicurezza può essere […] invocata solamente in caso di minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività» ([43]).
Sotto questo profilo, appare dunque esserci una chiara discrasia tra il benchmark comunitario e l’orientamento giurisprudenziale italiano che, invece, appare essere molto generoso in termini di valutazione dei presupposti in concreto dell’esercizio dei poteri speciali da parte del governo italiano e, quindi, sulla legittimità delle scelte strategiche effettuate.
Difatti, ad avviso dei giudici amministrativi interni, il procedimento per l’espletamento del golden power è scindibile in due fasi: la prima, a carattere meramente istruttorio ([44]); la seconda, decisionale, dall’alto valore politico nella quale – a riprendere la descrizione fatta propria dagli stessi giudici nazionali – «il Consiglio dei Ministri, in sostanza, non si limita ad una ricognizione atomistica, puntiforme e, per così dire, “contabile” ed anodina delle caratteristiche specifiche dell’operazione, ma la traguarda nell’ambito e nel contesto dei fini generali della politica nazionale, ponderandone gli impatti sia sull’assetto economico-produttivo del settore socio-economico interessato, sia sulla più ampia struttura dell’economia nazionale, sia, infine sui rapporti internazionali e sul complessivo posizionamento politico-strategico del Paese nell’agone internazionale» ([45]).
Del tutto evidente come, una considerazione così ampia del tasso di discrezionalità di cui il governo italiano beneficia nell’esercizio dei propri poteri speciali possa forse meritare una riconsiderazione alla luce del carattere restrittivo delle deroghe ammesse dal diritto UE.
Ad ogni buon conto, il d.l. 21/2012 offre uno sforzo definitorio anche in proposito, individuando normativamente le esigenze imperative che giustificano l’esercizio dei poteri speciali; l’intera disciplina difatti, e indipendentemente dai settori strategici riguardati, è rivolta a tutelare «gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale». Il riferimento a tale elemento finalistico si rinviene non solo all’art. 1, co. 1., espressamente rubricato “poteri speciali nei settori della difesa e della sicurezza nazionale”, ma anche in materia di servizi di comunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G (cfr. art. 1-bis, co. 4, in base al quale «i poteri speciali sono esercitati nella forma dell’imposizione di specifiche prescrizioni o condizioni ogniqualvolta ciò sia sufficiente ad assicurare la tutela degli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale»), in tema di attivi strategici nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (dove l’art. 2, co. 1-ter, individua quale presupposto dell’intervento la «sussistenza di un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico compreso il possibile pregiudizio alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti»).
- Segue: l’ambito di applicazione (oggettivo e soggettivo) dei poteri speciali alla luce della disciplina nazionale
Proseguendo oltre sui requisiti d’intervento stabiliti dalla disciplina nazionale ([46]), i presupposti per l’esercizio dei poteri speciali da parte del governo italiano sono dettati dal d.l. 21/2012 e dai relativi decreti attuativi, che modulano le precondizioni del golden power in funzione dei gruppi di attività economiche considerati.
Per i settori della difesa e della sicurezza nazionale trovano applicazione le condizioni stabilite dall’art. 1 del summenzionato decreto legge, in base al quale «con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri […] sono individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, ivi incluse le attività strategiche chiave, in relazione alle quali con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato su conforme deliberazione del Consiglio dei Ministri, da trasmettere tempestivamente e per estratto alle Commissioni parlamentari competenti, possono essere esercitati i […] poteri speciali in caso di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale». Dunque, i primi due presupposti oggettivi per l’esercizio del golden power sono rappresentati: i) dalla sussistenza di un’attività di rilevanza strategica per la difesa e la sicurezza nazionale, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell’impresa in questione, e ii) dalla minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali di tali settori ([47]).
Quanto al primo requisito – quello della strategicità – occorre anche su questo fare i conti con una nozione dilatata dall’interpretazione giurisprudenziale interna, che, ad esempio, distingue chiaramente la nozione di asset strategico da quello di infrastruttura essenziale ai sensi del diritto della concorrenza. Difatti, secondo i giudici amministrativi¸ la circostanza che una determinata società target «non opererebbe in regime di monopolio, ma in un mercato fortemente concorrenziale, deve osservarsi che tale circostanza non elide, di per sé, la possibilità di verificazione del pregiudizio che giustifica l’attivazione dei poteri speciali» ([48]).
In attuazione dell’art. 1, co. 1, d.l. 21/2012 è stato adottato il D.P.C.M. 6 giugno 2014, n. 108, recante il Regolamento per l’individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale ([49]).
Particolarmente esteso è anche il campo di applicazione materiale dell’esercizio dei poteri speciali in materia di servizi di comunicazione elettronica a banda larga, basati su tecnologia 5G e cloud; difatti, l’art. 1-bis del d.l. 21/2012 estende i poteri d’intervento anche ai casi in cui vengano poste in essere operazioni contrattuali e non solo societarie (cfr. art. 1-bis, co. 2).
L’art. 2 del d.l. 21/2012 disciplina poi i poteri speciali nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni; anche in questo caso, con DPCM n. 180/2020 sono stati individuati le reti, gli impianti, i beni e i rapporti di rilevanza strategica nazionale ([50]). Dal punto di vista oggettivo, in base all’art. 2, co. 2., d.l. 21/2012, ricade nell’alveo dell’obbligo di notifica – ed è quindi potenzialmente suscettibile d’intervento speciale da parte dello Stato italiano – «qualsiasi delibera, atto o operazione, adottato da un’impresa che detiene uno o più degli attivi individuati ai sensi del comma 1, che abbia per effetto modifiche della titolarità, del controllo o della disponibilità degli attivi medesimi o il cambiamento della loro destinazione, comprese le delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione aventi ad oggetto la fusione o la scissione della società, il trasferimento all’estero della sede sociale, la modifica dell’oggetto sociale, lo scioglimento della società, la modifica di clausole statutarie […], il trasferimento dell’azienda o di rami di essa in cui siano compresi detti attivi o l’assegnazione degli stessi a titolo di garanzia». Si tratta con tutta evidenza di un ambito di applicazione oggettivo della disciplina del golden power molto esteso, che tende sostanzialmente a ricomprendere nel perimetro di esercitabilità dell’intervento speciale dello Stato ogni forma di operazione straordinaria che determini un mutamento del controllo e/o della personalità giuridica dell’impresa che detiene un asset strategico nazionale.
Peraltro, il perimetro materiale – già estensivamente dettato dal legislatore interno – è per di più oggetto d’interpretazione estensiva da parte dei giudici amministrativi italiani in ragione di una lettura funzionalistica delle norme di riferimento; ad avviso dei giudici interni, difatti, «se è vero che tale disciplina delinea un complesso di poteri di natura “eccezionale”, come tali di stretta interpretazione, deve però altrettanto rilevarsi che la finalità della predisposizione degli stessi è preventiva, sicché ridurne la portata unicamente alle operazioni effettivamente traslative ne vanificherebbe l’efficacia». Di conseguenza, i giudici amministrativi ritengono la disciplina del golden power applicabile anche alla costituzione di garanzie reali sugli asset strategici, dal momento che «la costituzione della garanzia incide quindi, inevitabilmente, sulla disponibilità ed il controllo del bene oggetto della garanzia da parte del debitore, giacché gli attivi concessi in garanzia risultano vincolati al soddisfacimento del credito»; sono state così ricomprese nel perimetro dei poteri del golden poweranche fattispecie negoziali ad effetto traslativo potenziale ed eventuale, come la mera costituzione di pegni sugli attivi societari ([51]).
Sotto il profilo soggettivo, il mutamento di titolarità diviene rilevante ai fini della notifica indipendentemente dal soggetto interessato, potendosi trattare tanto di un soggetto estero, quanto di un soggetto appartenente all’Unione europea e finanche stabilito o residente in Italia (art. 2, commi 2-bis e 5).
L’art. 5-bis, peraltro, offre una nozione di tipo sostanzialistico di “soggetto esterno” all’Unione europea, dal momento che l’elemento decisivo al fine di tale qualifica è rappresentato dal luogo ove si trova «il centro di attività principale», dovendosi peraltro verificare che non sussistano «elementi che indichino un comportamento elusivo rispetto all’applicazione della disciplina di cui al presente decreto». Ciò importa in quanto, nel caso di soggetti esteri, diviene rilevante ai fini dell’esercizio dei poteri statali ogni partecipazione, anche di minoranza (art. 2, co. 5).
Ricadono infine nel campo di applicazione del decreto le cd. operazioni greenfield, considerato che l’art. 2 include, al comma 7-bis, anche la costituzione di imprese che detengono attivi strategici[52].
- Osservazioni conclusive
Storicamente – lo si è illustrato in precedenza – l’UE ha sempre mostrato un certo livello di avversione nei confronti dell’intervento statale in economia, trattandosi per definizione di forme di esercizio della potestà pubblica che mal si conciliano con l’esplicazione delle libertà economiche fondamentali e, in definitiva, con la realizzazione del mercato interno. Naturalmente, sullo sfondo, agli Stati membri è sempre spettato il potere/dovere di tutelare i propri interessi strategici primari attraverso l’esercizio delle deroghe previste dagli stessi Trattati UE o l’invocazione delle esigenze imperative individuate via via nel tempo dalla giurisprudenza lussemburghese. Nondimeno, la Corte di giustizia ha per lunghi periodi adottato un approccio molto restrittivo nel riconoscimento della legittimità delle esigenze di volta in volta invocate dai Paesi per giustificare forme di protezionismo, attraverso un’interpretazione rigorosa di principi di stretta necessità e proporzionalità.
Eppure, non c’è alcun dubbio che oggi l’atteggiamento normativo sia del tutto cambiato, in linea con l’esigenza cogente di proteggere non tanto l’economia europea in sé per sé, quanto piuttosto i valori politici e sociali ad essa sottesi; in definitiva, oggi le diverse forme (ammissibili) d’intervento pubblico nell’economia in ottica di “blocco” di determinate operazioni sono tutte complessivamente orientate alla difesa della democrazia europea. Se ne ha d’altronde un’eloquente dimostrazione analizzando il d.l. n. 21/2012, laddove – tra i diversi presupposti oggettivi d’intervento nazionale – si legge che, tra le condizioni di esercizio del golden power, esso è reso possibile a fronte della «esistenza, tenuto conto anche delle posizioni ufficiali dell’Unione europea, di motivi oggettivi che facciano ritenere possibile la sussistenza di legami fra l’acquirente e paesi terzi che non riconoscono i principi di democrazia o dello Stato di diritto, che non rispettano le norme del diritto internazionale o che hanno assunto comportamenti a rischio nei confronti della comunità internazionale» (art. 1, co. 3, lett. b).
In questo senso il presupposto – complessivamente considerato – dell’esercizio del golden power non è tanto una determinata organizzazione del mercato nazionale (ed europeo interno), quanto piuttosto la difesa dell’ordine economico e, per esso, di quello politico democratico, tanto più oggi che le varie crisi pongono i tentativi d’influenza economica e industriale, specie attraverso l’accaparramento di asset strategici, come forme di attacco “ibrido” ([53]). Ed è dunque per questo che, specie nell’ultimo lustro, l’ordinamento dell’Unione ha indubitabilmente segnato un cambio di passo: in primo luogo offrendo essa stessa una cornice sovranazionale di regolamenti volti ad armonizzare – e dunque sempre più a facoltizzare – l’intervento statale nell’economia, secondo quanto accaduto con i regolamenti sugli investimenti esteri diretti ([54]) e sulle sovvenzioni estere ([55]).
Col primo intervento di armonizzazione l’Unione ha offerto agli Stati membri uno strumentario per intervenire nei confronti di «un investimento di qualsiasi tipo da parte di un investitore estero inteso a stabilire o mantenere legami durevoli e diretti tra l’investitore estero e l’imprenditore o l’impresa cui è messo a disposizione il capitale al fine di esercitare un’attività economica in uno Stato membro, compresi gli investimenti che consentono una partecipazione effettiva alla gestione o al controllo di una società che esercita un’attività economica» (art. 2, par. 2).
L’ampiezza della nozione in parola, cui corrispondono dunque poteri d’intervento altrettanto ampi, è limitata unicamente dal campo soggettivo di applicazione (dovendosi trattare solo e soltanto di investitori esteri provenienti da Paesi terzi[56]) e dai motivi invocabili quali presupposto oggettivo d’intervento, vale a dire la sussistenza di «motivi di sicurezza o di ordine pubblico» (art. 1, co. 1). Nondimeno, il Regolamento sugli investimenti esteri diretti appare assegnare agli Stati un potere d’intervento e una discrezionalità più ampia di quanto, invece, non si potesse dedurre dalla sola giurisprudenza in materia di deroghe alle libertà economiche e di esigenze imperative. In primo luogo, difatti, sebbene il regolamento in parola abbia istituito un quadro giuridico comune di riferimento in materia, resta «salva la competenza esclusiva di Stato membri per la sicurezza nazionale, come stabilito nell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, nonché il diritto degli Stati membri di tutelare gli interessi essenziali della propria sicurezza conformemente all’articolo 346 TFUE» (art. 1, co. 2); in secondo luogo, il regolamento – riferendosi al potere degli Stati di valutare anche i soli effetti potenziali – contiene un elenco meramente esemplificativo degli indicatori che gli Stati membri tengono in considerazione al fine del blocco degli investimenti esteri ([57]).
Anche il Regolamento sulle sovvenzioni estere rileva naturalmente ai nostri fini; difatti, sebbene esso sia più espressamente rivolto alla tutela della concorrenza e al corretto funzionamento del mercato interno (art. 1) ([58]), non può certo revocarsi in dubbio che tali norme rappresentino disposizioni di ordine pubblico, al contempo funzionali alla realizzazione e al mantenimento della democrazia europea. Peraltro, le sovvenzioni estere pongono un immediato problema di ordine pubblico e sicurezza nazionale allorquando mirino al controllo di attivi strategici, come le infrastrutture critiche o le tecnologie innovative.
In definitiva, la disciplina interna in materia di golden power si inscrive in un quadro giuridico europeo di riferimento ormai incline a valutare molto più favorevolmente i presupposti oggettivi e soggettivi di intervento degli Stati membri nell’economia, nonostante ciò sia volto a finalità – inutile nasconderselo – di tipo sempre più marcatamente protezionistico.
([1]) Per una generale ricostruzione dell’istituto in questione, si veda anche, di recente, Pittelli D., Golden Power e procedimento amministrativo: limiti, garanzie e zone grigie, in Federalismi.it, 2024, p. 180 ss.
([2]) In G.U. n. 63 del 15 marzo 2012, convertito con modificazioni dalla L. 11 maggio 2012, n. 56, in G.U. n. 111 del 14 maggio 2012.
([3]) Bassan F., Dalla golden share al golden power: il cambio di paradigma europeo nell’intervento dello Stato sull’economia, in Studi sull’integrazione europea, 2014, pp. 57-80.
([4]) Come noto, in base all’art. 345 TFUE, «i Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri». Sennonché – come correttamente osservato in commento – «le cd. golden shares, vale a dire i diritti speciali sul controllo del capitale e sulla gestione attribuiti all’azionista pubblico di un’impresa privatizzata operante in settori di interesse nazionale o strategici, non possono avere l’effetto di sottrarre i regimi di proprietà esistenti nei paesi membri ai principi fondamentali in materia di circolazione dei capitali e stabilimento»; così Fratea C., Commento all’art. 345 TFUE, in Pocar F. – Baruffi M. C. (a cura di), Commentario breve ai Trattati dell’Unione europea, Cedam, 2014, p. 1539-1546. Sempre sul punto, secondo D. Gallo, «una valorizzazione della norma potrebbe portare, se non ad invertire la presunzione della loro illegittimità [ndr., delle golden shares] – che sembra configurarsi nella giurisprudenza UE – perlomeno a relativizzarla in maniera significativa»; id., Le golden shares e la trasformazione del public/private divide: criticità, sviluppi e prospettive del diritto dell’Unione Europea tra mercato interno e investimenti extra-UE, in Carbone S.M. (a cura di), L’Unione Europea a vent’anni da Maastricht: verso nuove regole, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, pp. 177-232. In tema, si vedano anche Gardella A., Commento all’art. 345 TFUE, in Tizzano A. (a cura di), Trattati dell’Unione europea, Giuffré, Milano, 2014, p. 2509 ss.; nonché Bassan F., op. cit., p. 59 ss.
([5]) Bassan F., op. cit., p. 57. In proposito, si veda anche Chieppa R., La nuova disciplina del golden power dopo le modifiche del decreto-legge n. 21 del 2022 e della legge di conversione 20 maggio 2022, n. 51, in Federalismi.it, 2022, p. 2, secondo cui «l’interesse economico volto a assicurare un mercato interno fondato sulla libera circolazione e ad attrarre investimenti esteri, anche da paesi esterni all’Unione europea, trova un necessario contemperamento con l’interesse a garantire la compatibilità di tali investimenti (e più in generale dei movimenti di capitali) con alcuni rilevanti interessa nazionali […]».
([6]) Tra la copiosa giurisprudenza UE in materia si veda, esemplificativamente, C. Giust. UE, sentenza del 27 febbraio 2019, Associação Peço a Palavra e a., par. 54.
([7]) C. Giust. UE, sentenza 13 luglio 2023, causa C-106/22, Xella Magyarország Építőanyagipari Kft, par. 59, secondo cui una normativa nazionale «nella misura in cui consente alle autorità di uno Stato membro di vietare a una società dell’Unione, per motivi di sicurezza e di ordine pubblico, l’acquisizione di una partecipazione in una residente «strategica» che le consente di esercitare una sicura influenza sulla gestione e il controllo di quest’ultima società, costituisce, manifestamente, una restrizione alla libertà di stabilimento di tale società dell’Unione, nel caso di specie una restrizione particolarmente grave». In commento, si veda Tinti E., Il regolamento sul controllo degli investimenti diretti al vaglio della Corte: giudici liberisti, Avvocato generale protezionista?, reperibile su https://www.aisdue.eu/blogdue/. D’altro canto, come osserva Sandulli, «il golden power è uno strumento di ritorno allo Stato, alla riesumazione dei confini dello Stato doganiere o, meglio, della capacità di pianificazione dello Stato stratega»; cfr. Sandulli A., La febbre del Golden Power, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2022, p. 750.
([8]) Tar Lazio, sentenza n. 04488/2022 del 13.4.2022. Nel caso di specie, la pronuncia ha riguardato l’opposizione del Governo italiano all’operazione di acquisizione del controllo esclusivo su di una società operante nel mercato professionale delle sementi vegetali.
([10]) Baratta R., Circolazione dei capitali e dei pagamenti, in Strozzi G., Mastroianni R. (a cura di), Diritto dell’Unione Europea, Parte Speciale, Torino, Giappichelli Editore, 2021, in particolare pp. 304-308; L. Daniele, Diritto del mercato unico europeo e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Milano, Giuffré Editore, pp. 245-256; Pitruzzella G., Foreign direct investment screening in EU, in Napolitano G. (a cura di), Il controllo sugli investimenti esteri diretti, Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 63-69. Per un inquadramento del tema dal più ampio punto di vista internazionale, si vedano anche Bariatti S., Current trends in foreign direct investment: open issues on national screening systems, in NapolitanoG. (a cura di), Il controllo sugli investimenti esteri diretti, op. cit., pp. 39-43; nonché Fumagalli L., The global rush towards national screening systems on foreign direct investment:a movement facing no limits? Remarks from the point of view of public international law, in Napolitano G. (a cura di), Il controllo sugli investimenti esteri diretti, op. cit., pp. 45-53.
([11]) Reg. del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 marzo 2019, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione, in GUUE L79 del 21.3.2019, p. 1 ss. In proposito, cfr. Gallo D., Sovranità (europea?) e controllo degli investimenti esteri, in I Post di AISDUE, IV (2022), aisdue.eu.; Garofali R., Il controllo degli investimenti esteri: natura dei poteri e adeguatezza delle strutture amministrative, in Napolitano G. (a cura di), Il controllo sugli investimenti esteri diretti, op. cit., pp. 91-103; Napolitano G., I golden powersitaliani alla prova del Regolamento europeo, in Napolitano G. (a cura di), Il controllo sugli investimenti esteri diretti, op. cit., pp. 121-137
([12]) In base all’ottavo considerando del summenzionato reg. UE, difatti, «il quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti e per la cooperazione dovrebbe dotare gli Stati membri e la Commissione degli strumenti per affrontare in modo globale i rischi per la sicurezza o per l’ordine pubblico e per adeguarsi al mutare delle circostanze, mantenendo nel contempo la necessaria flessibilità per consentire agli Stati membri di controllare gli investimenti esteri diretti per mortivi di sicurezza e ordine pubblico, tenendo conto delle rispettive situazioni individuali e delle specificità nazionali». Su questo il reg. (UE), naturalmente lascia – pur nel rispetto dei principi fondamentali dell’Unione – ampio margine di autonomia alla sovranità nazionale, dal momento che il medesimo considerando riconosce che «spetta esclusivamente allo Stato membro interessato decidere se istituire un meccanismo di controllo o se controllare un investimento estero diretto determinato».
([13]) Communication from the Commission to the European Parliament, the European Council, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions – A Competitiveness Compass for the EU, del 29 gennaio 2025, COM(2025) 30 final, reperibile su https://commission.europa.eu/document/download/10017eb1-4722-4333-add2-e0ed18105a34_en; per un primo comment si veda Maresca M., Il “Competitiveness Compass” della Commissione Europea, in Quaderni AISDUE, 2025, p. 1 ss.
([14]) C. Giust. UE, sentenza del 13 luglio 2023, causa C-106/22, par. 42. Nel caso di specie la Corte UE ha ricordato come «conformemente all’art. 54 TFUE, possono beneficiare della libertà di stabilimento, in particolare, le società di diritto civile o di diritto commerciale, purché siano costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione, ossia le società che hanno la cittadinanza di uno Stato membro».
([16]) Come noto, tale articolo dispone che «[l]e società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione, sono equiparate, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente capo, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri. Per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro».
([17]) Ad esempio, si ritiene che «la disciplina introdotta nel 2012 sana il vulnus riscontrato a carico della normativa sulla golden share sia definendo in maniera esatta i confini dell’ambito di applicazione della nuova disciplina del controllo sugli investimenti esteri, sia regolando presupposti, procedure, opzioni provvedimentali e criteri di esercizio dei poteri speciali attribuiti al Governo»; Deodato C., Considerazioni introduttive sull’origine, l’ascesa e la più autentica funzione del golden power, in R. Chieppa, C. D. Piro, R. Tuccillo (a cura di), Golden power, La Tribuna, 2023, p. 3.
([18]) Al riguardo si rimanda a Chieppa R., Considerazioni conclusive, in R. Chieppa, C. D. Piro, R. Tuccillo (a cura di), op. cit., 415 ss.
([19]) Secondo i giudici del Lussemburgo «la libera circolazione dei capitali, in quanto principio fondamentale del Trattato, può essere limitata da una normativa nazionale solo se quest’ultima sia giustificata da motivi previsti all’art. 73 D, n. 1, del Trattato o da motivi imperativi di interesse pubblico e che si applichino ad ogni persona o impresa che eserciti un’attività sul territorio dello Stato membro ospitante. Inoltre, per essere così giustificata, la normativa nazionale deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di quest’ultimo, al fine di soddisfare il criterio di proporzionalità»; cfr. C. Giust. UE, sentenza del 4 giugno 2002, causa C-503/99, par. 45 ss.
In proposito è stato ben osservato come «il rischio “dirigistico” deve essere evitato in modo che i poteri speciali siano esercitati per evitare, specie in questo periodo di crisi, acquisizioni predatorie di aziende che operano in settori strategici e per salvaguardare l’indipendenza economica nazionale ed europea in determinati settori. A tal fine, i poteri speciali devono essere esercitati in modo prevedibile sulla base di criteri oggettivi e non discriminatori, senza disparità di trattamento e facendo ricorso ai principi di proporzionalità e ragionevolezza, valorizzati dal diritto dell’Unione europea»; così Chieppa R., Considerazioni conclusive, in R. Chieppa, C. D. Piro, R. Tuccillo (a cura di), op. cit., p. 423.
([20]) C. Giust. UE, sentenza del 13 luglio 2023, causa C-106/22, par. 66.
([21]) C. Giust. UE, sentenza del 4 giugno 2002, causa C-503/99, par. 44 ss. Più in particolare la disciplina belga in questione prevedeva che qualsiasi cessione, assegnazione a titolo di sicurezza o cambiamento della destinazione delle canalizzazioni della società, che costituiscono grandi infrastrutture di trasporto interno di prodotti energetici o che possono servire a tale scopo, dovesse essere soggetta a notifica preventiva al Ministro incaricato, al quale spettava un diritto di opposizione all’operazione. Inoltre, il Ministro poteva nominare due rappresentanti del governo federale nell’ambito del consiglio d’amministrazione della società, al quale spettava il potere di proporre al Ministro l’annullamento di qualsiasi decisione del consiglio d’amministrazione ritenuta in contrasto con gli orientamenti della politica energetica del paese, comprese le finalità del governo relative all’approvvigionamento di energia del paese.
([22]) Tali poteri consistevano nel fatto che: (i) qualsiasi cessione, assegnazione a titolo di sicurezza o cambiamento della destinazione degli attivi strategici della società dovesse essere notificata previamente al Ministro incaricato, il quale ha il diritto di opporsi a tali operazioni per pregiudizio agli interessi nazionali nel settore dell’energia; (ii) il Ministro può – anche in questo caso – nominare due rappresentanti del governo federale nell’ambito del consiglio d’amministrazione della società, aventi il potere di proporre al Ministro l’annullamento delle decisioni societarie in contrasto con la politica energetica del paese.
([24]) D’Alberti M., Il golden power in Italia: norme ed equilibri, in Napolitano G. (a cura di), Il controllo sugli investimenti esteri diretti, op. cit., pp. 83-90. Sul punto si veda anche così Malatesta A., Commento all’art. 63 TFUE, in Pocar F. – Baruffi M. C. (a cura di), Commentario breve ai Trattati dell’Unione europea, Cedam, 2014, p. 438-446.
([25]) Tar Lazio, sentenza n. 04488/2022 del 13.4.2022.
([26]) C. Giust. UE, sentenza del 23 maggio 2000, causa C-58/99.
([27]) Si trattava dello scrutinio di compatibilità comunitaria rispetto all’art. 1, n. 5, e l’art. 2 del testo coordinato del d.l. 31 maggio 1994, n. 332, in GURI n. 126 del 1° giugno 1994), convertito con modificazioni nella l. 30 luglio 1994, n. 474, recante norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni (in GURI n. 177 del 30 luglio 1994), nonché dei decreti relativi ai poteri speciali esercitabili nelle privatizzazioni dell’ENI SpA e di Telecom Italia SpA.
([28]) Nel caso di specie la Commissione europea aveva ritenuto insussistenti i requisiti summenzionati.
([29]) Tar Lazio, sentenza n. 04488/2022 del 13.4.2022.
([30]) Tar Lazio, sentenza n. 10275/2024 del 22.5.2024. La controversia verteva eminentemente sulla possibilità di includere nella disciplina sul golden power anche mere operazioni di costituzione di pegni su azioni, conti correnti e crediti a garanzia degli obblighi di pagamento di un prestito obbligazionario.
([31]) Tar Lazio, sentenza n. 4488/2022, cit.
([32]) Tar Lazio, sentenza n. 10275/2024, cit.
([33]) Consiglio di Stato, sentenza n. 289/2023 del 9.1.2023
([34]) In particolare, il decreto prevede che: «Al fine di valutare la minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale, derivante dall’acquisto delle partecipazioni di cui alle lettere a) e c) del comma 1, il Governo, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, considera, alla luce della potenziale influenza dell’acquirente sulla società, anche in ragione della entità della partecipazione acquisita:
- a) l’adeguatezza, tenuto conto anche delle modalità di finanziamento dell’acquisizione, della capacità economica, finanziaria, tecnica e organizzativa dell’acquirente nonché del progetto industriale, rispetto alla regolare prosecuzione delle attività, al mantenimento del patrimonio tecnologico, anche con riferimento alle attività strategiche chiave, alla sicurezza e alla continuità degli approvvigionamenti, oltre che alla corretta e puntuale esecuzione degli obblighi contrattuali assunti nei confronti di pubbliche amministrazioni, direttamente o indirettamente, dalla società le cui partecipazioni sono oggetto di acquisizione, con specifico riguardo ai rapporti relativi alla difesa nazionale, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale;
- b) l’esistenza, tenuto conto anche delle posizioni ufficiali dell’Unione europea, di motivi oggettivi che facciano ritenere possibile la sussistenza di legami fra l’acquirente e paesi terzi che non riconoscono i principi di democrazia o dello Stato di diritto, che non rispettano le norme del diritto internazionale o che hanno assunto comportamenti a rischio nei confronti della comunità internazionale, desunti dalla natura delle loro alleanze, o hanno rapporti con organizzazioni criminali o terroristiche o con soggetti ad esse comunque collegati».
([35]) C. Giust. UE del 22 ottobre 2013, Commissione europea c. Repubblica Federale di Germania, causa C‑95/12. La legge in questione limitava, inter alia, i diritti di voto di ogni azionista al 20% del capitale sociale della Volkswagen e richiedeva maggioranze rafforzate rispetto a quelle previste dal diritto comune ai fini delle decisioni dell’assemblea generale.
([37]) C. Giust. UE, sentenza del 27 febbraio 2019, Associação Peço a Palavra e a., C‑563/17, par. 70.
([38]) C. Giust. UE, sentenza del 4 giugno 2002, causa C-367/98.
([39]) Cfr. par. 40 della sentenza.
([41]) C. Giust. UE, sentenza del 4 giugno 2002, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese, causa C-483/99
([42]) In questo caso i diritti speciali si risolvevano nelle seguenti previsioni: a) ogni superamento, da parte di una persona fisica o giuridica, che avesse agito da sola o di concerto, dei limiti massimi di detenzione diretta o indiretta di titoli del decimo, del quinto o del terzo del capitale o dei diritti di voto della società doveva essere previamente approvato dal Ministro dell’Economi; b) poteva proporsi opposizione contro le decisioni di cessione o di attribuzione a titolo di garanzia degli elementi patrimoniali che figuravano nell’allegato del detto decreto, ossia della maggioranza del capitale di quattro consociate della società madre: la Elf-Aquitaine Production, la Elf-Antar France, la Elf-Gabon SA e la Elf-Congo SA.
([44]) Consiglio di Stato, sentenza 289/2023 del 9.1.2023, par. 13.1; si tratta, secondo i giudici, di una fase «tesa all’acquisizione di tutti i dati di fatto rilevanti al fine di ricostruire ed inquadrare l’operazione in chiave tanto analitica, quanto sistemica, a beneficio della successiva valutazione finale».
([46]) Bianconi F., I golden powers nella legislazione d’emergenza: riflessioni a margine dell’estensione dei poteri speciali governativi, in Contratto e impresa, 2022, pp. 202-251; Chieppa R., La nuova disciplina del golden power dopo le modifiche del decreto-legge n. 21 del 2022 e della legge di conversione 20 maggio 2022, n. 51, in Federalismi.it, 2022, pp. 1-28. Si veda anche la nota Assonime 7/2023, Golden Power e corporate governance delle società quotate. Spunti di riflessione da casi di esercizio dei poteri speciali.
([47]) In tema si veda Valensise B., I settori della difesa e sicurezza nazionale, in R. Chieppa, C. D. Piro, R. Tuccillo (a cura di), Golden power, La Tribuna, 2023, pp. 47-68.
([48]) Cfr. Tar Lazio, sentenza n. 10275/2024, cit. Nel caso di specie, il valore strategico dell’impresa target è stato ritenuto dai giudici amministrativi sussistente anche solamente in considerazione delle tecnologie detenute e della serie di rapporti contrattuali facenti capo alla società in questione con banche e, più in generale, nel settore finanziario.
([49]) In G.U. n.176 del 31-07-2014. Il regolamento in parola nasce dalla necessità di riunire in un unico corpo normativo le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale di competenza sia del Ministero dell’Interno che del Ministero della Difesa.
([50]) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2020, n. 180, recante Regolamento per l’individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, in G.U. n. 322 del 30-12-2020.
([51]) Secondo i giudici amministrativi, infatti, «la costituzione della garanzia incide […] sulla disponibilità ed il controllo del bene oggetto della garanzia da parte del debitore, giacché gli attivi concessi in garanzia risultano vincolati al soddisfacimento del credito; se l’obbligazione è adempiuta, naturalmente, il debitore non andrà incontro all’escussione della garanzia, ma la costituzione della stessa serve, appunto, a far sì che a fronte dell’inadempimento il creditore possa ottenere soddisfacimento mediante l’alienazione o assegnazione del bene. Non può, quindi, sostenersi che la costituzione della garanzia non abbia alcuna incidenza sulle poste attive oggetto della stessa o sul patrimonio del debitore e che tale incidenza sia correlata solo all’assegnazione del bene in garanzia, giacché, al momento dell’assegnazione, l’effetto di spossessamento in capo al debitore deve inevitabilmente compiersi per assicurare il soddisfacimento del creditore». Tar Lazio, sentenza n. 10275/2024, cit.
([52]) Cfr. Cirielli P., I settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni di cui all’art. 2, comma 1, D.L. n. 21/2012, in R. Chieppa, C. D. Piro, R. Tuccillo (a cura di), Golden power, La Tribuna, 2023, pp. 73-95; Valensise B., I nuovi settori di cui all’art. 2, comma 1-ter, del D.L. n. 21/2012, ibidem, pp. 99-116.
([53]) Sebbene sotto il diverso, ma in fondo simmetrico, tema degli investimenti in uscita e della fuga di tecnologia, la Commissione ha avuto modo di osservare come «l’Unione mantiene il suo impegno a favore di un contesto aperto agli investimenti. La strategia ha riconosciuto però che, con l’aumento delle «tensioni geopolitiche e un’integrazione economica globale più profonda che mai, alcuni flussi e attività economici possono rappresentare un rischio per la nostra sicurezza», e che «i profondi cambiamenti tecnologici aumentano l’intensità di questa concorrenza e rendono più complesse le sfide economiche e in materia di sicurezza»»; Raccomandazione (UE) 2025/63 della Commissione del 15 gennaio 2025 sul riesame degli investimenti in uscita in settori tecnologici critici per la sicurezza economica dell’Unione; in G.U.U. E. del 15.1.2025, p. 1 ss.
([54]) Reg. UE 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 marzo 2019 che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione, in G.U.U.E. del 21.3.2019 L79, p. 1.; per un commento si rinvia a Grande E., Il regolamento UE 2019/452 sul controllo degli investimenti esteri, in R. Chieppa, C. D. Piro, R. Tuccillo (a cura di), Golden power, La Tribuna, 2023, p. 269 ss.; Merola M., A. G. Navas, Gli investimenti esteri diretti nel Regolamento eurounitario: la posizione della Corte di giustizia e la proposta di modifica del Regolamento, in rivista.eurojus.it, 2024, p. 197 ss. Per una overview, si consulti anche il Report from the Commission to the European Parliament and the Council – Fourth Annual Report on the screening of foreign direct investments into the Union, del 17.10.2024, COM(2024)464 final.
([55]) Reg. UE 2022/2560 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 dicembre 2022 relativo alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno, in. G.U.U.E. del 23.12.2022 L 330, p. 1.
([56]) Da intendersi come «una persona fisica di un paese terzo o un’impresa di un paese terzo che intende realizzare o ha realizzato un investimento estero diretto» (art. 2, co. 2). Un’applicazione estensiva, tale da coinvolgere anche imprese stabilite nel territorio UE, può aversi solo nell’ipotesi fraudolente volte al raggiro del divieto, e cioè « tramite costruzioni artificiose che non riflettono la realtà economica ed eludono i meccanismi di controllo e le relative decisioni, ove l’investitore sia in ultima istanza di proprietà di una persona fisica o un’impresa di un paese terzo o da essa controllato, senza pregiudicare la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali sancite dal TFUE»; cfr. decimo considerando del regolamento.
([57]) A mente dell’art. 4 del Regolamento «nel determinare se un investimento estero diretto possa incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico, gli Stati membri e la Commissione possono prendere in considerazione i suoi effetti potenziali, tra l’altro, a livello di:
- a) infrastrutture critiche, siano esse fisiche o virtuali, tra cui l’energia, i trasporti, l’acqua, la salute, le comunicazioni, i media, il trattamento o l’archiviazione di dati, le infrastrutture aerospaziali, di difesa, elettorali o finanziarie, e le strutture sensibili, nonché gli investimenti in terreni e immobili fondamentali per l’utilizzo di tali infrastrutture;
- b) tecnologie critiche e prodotti a duplice uso quali definiti nell’articolo 2, punto 1, del regolamento (CE) n. 428/2009 del Consiglio, tra cui l’intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, la cibersicurezza, le tecnologie aerospaziali, di difesa, di stoccaggio dell’energia, quantistica e nucleare, nonché le nanotecnologie e le biotecnologie;
- c) sicurezza dell’approvvigionamento di fattori produttivi critici, tra cui l’energia e le materie prime, nonché la sicurezza
alimentare;
- d) accesso a informazioni sensibili, compresi i dati personali, o la capacità di controllare tali informazioni; o
- e) libertà e pluralismo dei media».
Gli Stati membri e la Commissione possono peraltro considerare quali ulteriori parametri se:
«a) l’investitore estero sia direttamente o indirettamente controllato dall’amministrazione pubblica, inclusi organismi
statali o forze armate, di un paese terzo, anche attraverso l’assetto proprietario o finanziamenti consistenti;
- b) l’investitore estero sia già stato coinvolto in attività che incidono sulla sicurezza o sull’ordine pubblico in uno Stato
membro; o
- c) vi sia un grave rischio che l’investitore intraprenda attività illegali o criminali».
([58]) In base all’art. 3, co. 1, «si ritiene che esista una sovvenzione estera quando un paese terzo fornisce direttamente o indirettamente un contributo finanziario che conferisce un vantaggio a un’impresa che esercita un’attività economica nel mercato interno e che è limitato, in linea di diritto e di fatto, a una o più imprese o a uno o più settori».