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n. 4-2002 - © copyright.

TAR LAZIO, SEZ. II - Sentenza 12 marzo 2002 n. 1897 - Pres. Marzano, Est. Calvari – Rai - Radiotelevisione italiana s.p.a. (Avv. Federico Sorrentino) c. Ministero delle Comunicazioni (Avvocatura generale dello Stato), CCR s.r.l. e Crown Castel International Corp. (n.c.) - (respinge).

Telecomunicazioni - RAI - Mutamenti societari - Della Radiotelevisione italiana s.p.a. e delle società da essa controllate - Autorizzazione ministreriale - Necessità - Fattispecie relativa alla cessione della controllata RaiWay S.p.a.

Necessita di preventiva autorizzazione da parte del Ministero un eventuale mutamento nell’assetto societario di controllo della Rai (o di società da essa controllate), data la relativa qualifica quale società di interesse nazionale.

E’ legittimo il provvedimento di diniego di autorizzazione alla cessione, da parte della Rai, del 49% delle azioni della controllata RaiWay S.p.a. alla società statunitense Crown Castle Corporation, adottato dal Ministero delle Comunicazioni.

 

 

Commento di

LUIGI MAZZONCINI

L’importanza della pronuncia in commento discende in specie dal fatto che la stessa interviene nella disputa tra la RAI ed il Ministero delle Comunicazioni, statuendo sulla eventuale possibilità per il servizio radiotelevisivo pubblico di cedere il 49% di una società dal medesimo controllata, la RaiWay, ad un gruppo statunitense, la Crown Castle International Corporation (peraltro, non costituitosi in giudizio).

Mette conto precisare, in proposito, come il Tribunale si sia espresso negativamente sulla cessione in questione, utilizzando argomentazioni la cui correttezza appare difficilmente revocabile in dubbio, confermando la validità della scelta adottata dal Ministero a tutela degli interessi della Rai (e del servizio pubblico radiotelevisivo), ed insieme riconoscendo, pur se implicitamente, il significativo ruolo dell’Avvocatura dello Stato e delle relative strategie difensive, comunque ispirate e, in qualche modo, guidate dall’interesse pubblico che l’azione della p.a. sottende.

La complessità dei fatti merita una pur breve ricostruzione: l’origine della vicenda risale al 1999, quando la Rai, il 29 luglio, costituiva una società, interamente posseduta e controllata, denominata Newcodt S.p.a., allo scopo di avvalersene per lo svolgimento delle attività inerenti all’installazione ed all’esercizio degli impianti tecnici pubblici: a tal fine, la Rai, in data 11 novembre 1999, otteneva l’autorizzazione ministeriale, prescritta dall’art. 1, co. 5°, D.P.R. 28 marzo 1994, in cui si specificava come segue: "la società concessionaria può, previa autorizzazione del Ministero delle Comunicazioni, avvalersi, per attività inerenti all’espletamento dei servizi concessi, di società da essa controllate". Si stabiliva, altresì, che "ogni variazione dell’attuale assetto della Newcodt S.p.a. da parte di codesta società – la Rai (n.d.r.) – deve essere preventivamente autorizzata da questo Ministero".

Successivamente, il 29 febbraio 2000, la Newcotd S.p.a. mutava la propria denominazione in RayWay S.p.a. ed in quest’ultima società veniva conferito il ramo "Divisione, diffusione e trasmissione"; con nota del 28 marzo 2000 la Rai, nel dar conto del trasferimento al Ministero, lo rassicurava sul fatto che l’operazione non avrebbe comportato alcun mutamento negli assetti di controllo, preannunciando, però, al tempo stesso, come con delibera del consiglio di amministrazione fosse già stato deliberato di conferire alla Merril Lynch l’incarico di svolgere le funzioni di advisor nella procedura di collocamento di una quota minoritaria, comunque non superiore al 49%, della sua partecipazione nel capitale di RayWay.

Il 27 aprile 2001, la Rai informava il Ministero di aver proceduto alla stipula di un contratto di compravendita, con cui cedeva alla CCR S.r.l. – società controllata dal gruppo americano Crown Castle International Corporation – delle azioni rappresentative del 49% del capitale di RayWay, sottoscrivendo dei patti parasociali finalizzati a disciplinare l’esercizio delle rispettive prerogative dei soci.

Il contratto, immediatamente efficace, tanto che la Rai incassava il corrispettivo della vendita di L. 791,4 miliardi (poco meno di 410 milioni di euro), era assistito da due condizioni risolutive: la mancata autorizzazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai sensi della L. 287/90 ed il mancato rilascio, entro sei mesi, da parte del Ministero delle Comunicazioni di una c.d. presa d’atto dell’intervenuta cessione e del fatto che la stessa fosse conforme ai termini ed alle condizioni di cui all’autorizzazione dell’ 11 novembre 1999.

L’Authority, in data 8 agosto 2001, dava atto che l’operazione, pur costituendo concentrazione, non determinava una posizione dominante pregiudizievole per la concorrenza, e concludeva evidenziando che la cessione avrebbe dovuto ritenersi subordinata al rilascio di apposita autorizzazione del Ministero, in quanto comportante una variazione all’assetto di controllo previsto nell’autorizzazione dell’ 11 novembre 2000.

Il Ministero, dal canto suo, con provvedimento del 26 ottobre 2001, all’esito delle valutazioni sotto il profilo sia della regolarità amministrativa, sia più propriamente politico, attinente alle superiori scelte nell’interesse generale, negava la richiesta presa d’atto, con conseguente risoluzione del contratto di compravendita ed obbligo di restituzione del prezzo delle azioni con gli interessi dalla data del contratto.

La Rai, ritenendo di dover impugnare la determinazione negativa del Ministro con il ricorso al Tar del Lazio dal quale è poi scaturita la pronuncia in commento, lo ha articolato - in sintesi - sui vizi di carenza stessa del potere autorizzatorio in capo al Ministro; di incompetenza; di eccesso di potere per sviamento, difetto di istruttoria e motivazione, errore nei presupposti; nel merito, ha imperniato la propria linea difensiva sull’erroneità dell’assunto concernente l’avvenuta perdita del controllo, da parte della Rai, della partecipata società RayWay.

L’Avvocatura Generale dello Stato, nello svolgere le difese del Ministero, gli ha giustapposto la ricca congerie di ragioni già collocate a fondamento del provvedimento ministeriale negativo:

- gli impianti di RayWay hanno, in primo luogo, una potenzialità di applicazione tale da poter essere sfruttati anche per delicatissimi compiti di sicurezza e, soprattutto in seguito ai noti eventi dell’ 11 settembre, solo una gestione autenticamente riconducibile alla parte pubblica potrebbe garantirne la piena disponibilità;

- i patti parasociali sottoscritti parallelamente alla vendita, poi, conferiscono nella sostanza alla società acquirente un potere di indirizzo strategico sull’attività di RayWay, financo superiore a quello che rimane al socio di maggioranza (la Rai con il 51% delle azioni).

In definitiva, secondo la tesi abbracciata dall’Amministrazione, il difetto di annullamento dell’intera operazione avrebbe confortato la perdita del controllo di RayWay da parte della concessionaria pubblica, sì da alterare le condizioni stesse in costanza delle quali era stata rilasciata dal Ministero l’autorizzazione del 1999.

Il Tar, respingendo il ricorso, ha accolto le deduzioni dell’Avvocatura, non già semplicemente limitandosi a valutazioni di forma, caratteristiche del giudizio amministrativo, ma spingendosi fino ad effettuare apprezzamenti di merito, con conclusiva condivisione delle ragioni poste dal Ministero alla base del diniego della "presa d’atto".

Il Tribunale ha, dapprima, operato alcune considerazioni tecniche sui profili di ammissibilità del ricorso, qualificando il provvedimento del Ministero non come semplice presa d’atto, o come dichiarazione di scienza (secondo la tesi del difensore della Rai), ma come provvedimento amministrativo: tale qualifica appare sostanzialmente idonea a comportare una manifestazione di volontà posta in essere da un’autorità amministrativa nell’esercizio di una potestà pubblica.

In altre parole, il Ministro ha adottato un provvedimento critico nei confronti della richiesta avanzata dalla Rai e ne ha denunciato il carattere anomalo, trattandosi di richiesta successiva, e non già preventiva, rispetto alla vendita.

La Rai aveva peraltro articolato una interessante censura di illegittimità del provvedimento ministeriale impugnato, imperniata sull’asserita incompetenza del Ministro ad adottare il diniego, da ritenersi piuttosto rientrare nella competenza dirigenziale in forza del noto principio di separazione tra politica ed amministrazione.

Il Tar, tuttavia, ha disatteso tale doglianza statuendo che il provvedimento è "esplicazione di potestà di vigilanza e di controllo rientranti nell’ambito della responsabilità politica del Ministro".

Il Tribunale, più precisamente, riconoscendo al Ministro un’ampia discrezionalità in ordine ai profili valutativi del merito tecnico della cessione, ha ritenuto, accogliendo le difese dell’Amministrazione, come fosse evidente, ad un attento esame dei patti parasociali sottoscritti contestualmente al contratto, come la Rai, da ritenersi a tutti gli effetti una "società di interesse nazionale", avrebbe con l’operazione globalmente considerata conferito al gruppo americano un consistente, e per questo inaccettabile, potere di indirizzo strategico dell’attività di RayWay.

A tal proposito, varrà evidenziare quanto significativamente emerso nel corso del giudizio: il Tribunale ha conferito debita rilevanza alla circostanza onde, per l’approvazione di numerose delibere, tutte relative alle vicende giuridiche di impianti di assoluta importanza strategica e di sicuro rilievo internazionale, sarebbe stato necessario, nell’ambito di un Consiglio d’amministrazione composto da otto membri – cinque nominati dalla Rai e tre dal partner – il voto favorevole di almeno due consiglieri di designazione del partner.

La composizione del collegio sindacale, inoltre, avrebbe visto una prevalenza del controllo da parte del socio americano (due sindaci su tre), prevedendosi peraltro - per le materie di competenza dell’assemblea straordinaria - sia in prima che in seconda convocazione una maggioranza del 67% con conseguente assegnazione al partner statunitense di un potere di blocco sulle delibere di tale assemblea.

Tutti elementi in grado di evidenziare come l’influenza del gruppo americano avrebbe potuto in effetti rivelarsi ben superiore rispetto a quella accordatagli sulla base all’effettiva partecipazione azionaria; in altri termini, i vincoli contrattuali cui si sarebbe sottoposta la Rai ni vistù dell’operazione censurata dal Tar avrebbero conferito – quantomeno tendenzialmente - al gruppo americano un’influenza dominante, un controllo di fatto e, in definitiva, una ingerenza "estera" senz’altro eccessivamente pervasiva in un settore delicato e fondamentale della realtà nazionale quale quello delle comunicazioni.

Tale ingerenza avrebbe peraltro trovato conferma – come il Tar ricorda puntualmente – nelle stesse parole usate dalla Crown Castle International Corporation in seno alla corrispondenza intercorsa con il Ministro delle Comunicazioni, immediatamente prima dell’adozione del provvedimento di diniego: il 22 ottobre 2001, il Presidente della società statunitense poneva infatti all’attenzione del Ministro la circostanza che i patti conclusi con la Rai avrebbero previsto un ruolo decisivo di Crown Castle nella conduzione dell’attività del gruppo neocostituito ed un ruolo significativo nella gestione dell’azienda; facendo altresì presente l’intenzione coltivata dal suo gruppo - qualora il Governo avesse voluto intraprendere la strada della privatizzazione - di acquisire il pacchetto di maggioranza della RayWay, al fine di poter realizzare più compiutamente gli obiettivi prefissati.

Conclusivamente, pare di poter affermare a pieno titolo come l’importanza della sentenza in commento risieda nell’aver evitato la perdita del controllo, da parte della Rai, su una partecipata la cui attività presenta un rilevante interesse strategico nazionale, dando in qualche modo seguito – con la pertinente mediazione difensiva dell’Avvocatura dello Stato - alle emblematiche considerazioni esplicitate in una nota del Ministro, onde: "i fatti dell’ 11 settembre e gli sviluppi successivi" avrebbero potuto rendere "ancora più rilevanti le preoccupazioni circa le possibili limitazioni di un effettivo esercizio del controllo su un fondamentale elemento del patrimonio tecnologico nazionale da parte della Rai", con ciò imponendo al Ministero medesimo "un’attenta considerazione dei preminenti interessi nazionali".

 

 

Commento di

GIULIO BACOSI

L’Avvocatura dello Stato, l’interesse pubblico e….
la "terza - parte".

A scorrere la pronuncia in epigrafe, non difetterebbero davvero i pretesti per impegnative discettazioni di tecnica giuridica, a cavallo tra il "solito" diritto civile tout court ed il puro diritto amministrativo.

Sul punto, qualche flash esemplificativo saprà senz’altro soccorrere chi, suo malgrado, sia rimasto maggiormente distante dalle ultime avanguardie pretorie, pur dovendosi subitaneamente premettere come altrove si diriga la rotta delle presenti considerazioni.

Accade con ritmo vieppiù frequente che l’efficacia di patti tra privati venga subordinata, in senso sospensivo o, massime, risolutivo (come nel caso "regolato" dalla pronuncia in epigrafe) alla adozione, ovvero alla mancata adozione, di specifici atti o provvedimenti amministrativi, sovente di natura (ancorché latamente) autorizzatoria.

In una ipotesi analoga (contratto tra privati efficace, ma sottoposto alla condizione risolutiva della mancata adozione di una provvedimento amministrativo entro un dato termine), la nota pronuncia della VI Sezione del Consiglio di Stato numero 3463 del 26 giugno 2001 ha senza esitazioni dipinto il giudice amministrativo quale "disinteressato" scrutinatore della legittimità dell’atto (o del mancato atto) impugnato, in misura affatto disancorata dai potenziali effetti che il provvedimento stesso (rectius, la mancata, relativa adozione) potrebbe produrre sull’accordo che lo ha elevato a condizione della propria definitiva efficacia.

Parte della dottrina di commento, in modo assai più perspicuo, si è invece preoccupata di evidenziare, con riguardo a similari ipotesi, in che termini una sentenza o, più spesso, una ordinanza cautelare del g.a. possa ovviare all’inerzia amministrativa in caso di pericoloso approssimarsi dello spirar del termine condizionale, senza che l’atto – la cui mancata adozione implica risoluzione del contratto intercorso tra le parti – abbia visto la luce.

I paciscenti, invero, hanno concordemente previsto l’atto autorizzatorio quale quid concretamente idoneo a suggellare la definitiva effettualità del contratto: può l’ordinanza cautelare prendere il posto dell’inane Amministrazione, evitando, assunte le vesti palliativo ope iudicis, la ridetta (e temuta) risoluzione ? Ed ove possa, il sottostante contratto - e per esso la clausola che ha individuato nell’invocato (e mai intervenuto) provvedimento autorizzativo la chiave della sua futura operatività – non divengono per ciò solo imprescindibile oggetto dello scandaglio giurisdizionale amministrativo (contrariamente a quanto assunto dalla VI Sezione), al fine di valutare la configurabilità di quel fondamentale perno del petitum cautelare che va sotto il nome di periculum in mora ?

Tenendo sempre la decisione in chiosa quale punto di riferimento, ma spiccando un balzo da una piazza (Capo di Ferro) all’altra (Cavour) della Capitale, è la Suprema Corte di Cassazione ad avere, ancora recentissimamente, preso posizione sui c.d. "patti parasociali" (tipico esempio i c.d. "sindacati di voto"), ribadendone la congenita atipicità e soffermandosi sul relativo regime di validità.

In specie, con la decisione della I Sezione n.14865 del 23 novembre 2001 i giudici della legittimità si sono soffermati sul problema della eventuale durata indeterminata di tali patti, stigmatizzandone per eccentricità la relativa nullità "a tutti i costi", pure sostenuta da parte della dottrina, per affermarne da un lato, in senso contrario, la potenziale conformità al sistema, e per garantire dall’altro a ciascun "sindacalista" la plausibile attivabilità di un recesso ad nutum - con preavviso o per giusta causa – quale rimedio generale proprio di qualunque tipologia di patti a durata indeterminata, quantunque modulati su frequenze "atipiche".

L’attenzione, nondimeno, va ormai dirottata altrove.

La decisione in commento, sia detto senza blandizie, rappresenta infatti – sotto il profilo della stretta liturgia processuale – un successo tanto significativo quanto, etimologicamente, "grave" della difesa tecnica dell’Amministrazione, il che è quanto basta per orientare anche il più disorientato osservatore dell’orbe giuridico alla volta di quei promettenti "venti di novità" che appaiono investire nell’attuale l’Avvocatura dello Stato.

Posto tra l’incudine di un incipiente regionalismo (ormai anche costituzionalmente incentivato: cfr. la recente legge cost. n.3.01) ed il martello di una (non da ieri) soverchiante comunitarizzazione del sistema, l’Istituto si mostra, per vero, prossimo ad una palingenesi favorita da una innegabile managerialità del nuovo Vertice e del relativo Staff, intesa a modernamente rilanciarne, fra gli altri, quel ruolo – tradizionale e, direbbesi, "congenitamente" appartenetele - di fulcro del "virtuoso circuito" che avvince la Difesa pubblica per eccellenza al mondo delle aule giudiziarie (civili, penali, amministrative, tributarie, costituzionali e, per l’appunto, comunitarie).

Senza tuttavia, perdere la propria identità, che è in qualche modo anfibia, di "parte imparziale", e che viene condivisa con pochissime altre figure nella bottega dell’arte giuridica.

Come il Pubblico Ministero, senz’altro "parte" nel processo penale a fronte della terzietà dell’organo giudicante – quest’ultima vieppiù avvalorata, ormai non solo nelle intenzioni, dall’impianto accusatorio tracciato dal "nuovo" codice di procedura penale del 1988 – è chiamato ex lege a svolgere, lungo l’intero corso delle indagini finalizzate ad imbastirne l’accusa, "…altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta(vi)" (art.358 c.p.p.); similmente al buon Avvocato dello Stato, quantunque anch’egli "parte" dell’agone processuale, vien fatto - per la medesima (peculiare) connotazione del relativo ruolo istituzionale (oltrechè per comune dovere professionale) - di rifuggire da difese "strenue", ex ante destituite di fondamento e capaci, per ciò solo, di pregiudicare quell’interesse pubblico il cui perseguimento è anch’egli chiamato a garantire, quantunque mutatis mutandis e sul crinale tecnico-processuale, con intensità pari a quella profusa dall’Amministrazione turnariamente rappresentata e difesa.

Due figure, quella del p.m. e quella dell’Avvocato dello Stato, cui può essere in qualche modo accostata, seppure ragionando per late assimilazioni ed ancora in termini di "parte imparziale", quella del curatore fallimentare; il quale, esemplificativamente, e come ha di recente evidenziato la Cassazione (I, n.12903 del 27 settembre 2001), subentra nella posizione di chi (il fallito) fu "parte" di un contratto di conto corrente con una banca (ormai sciolto in forza dell’art.78 l.fall.), ad un tempo "imparzialmente" verificando, rispetto alla massa dei creditori, che quella "parte" della quale pure in qualche modo prosegue la personalità (salvaguardandone, nei limiti del possibile, gli interessi) non abbia alla banca effettuato rimesse revocabili nel corso del c.d. "periodo sospetto".

Abbandonando il gioco degli accostamenti, e tornando al delicato compito affidato dall’ordinamento all’Avvocato dello Stato, resta da precisare come la complementarietà nel perseguimento dell’interesse pubblico rispetto all’Amministrazione di volta in volta rappresentata e difesa – in rapporto ai rispettivi piani di operatività sostanziale e, segnatamente, processuale - si colori di più incisiva emblematicità sol che si ponga mente a come tale public interest, ove perseguito dallo Stato, rappresenti quello che è tale ("pubblico") per antonomasia.

Con l’ulteriore precipitato onde lo stesso, in una con l’Amministrazione che ne risulta istituzionalmente portatrice, va presidiato nell’equilibrato senso cui supra si accennava, innanzi a qualunque sede giurisdizionale, inesorabilmente attaccando laddove se ne ravvisi la necessità, come "imparzialmente arretrando" laddove una difesa ad oltranza possa recare con sé un pregiudizio alla collettività, globalmente intesa ed organizzata a Stato, che ne risulta il primo e, in definitiva, l’ultimo più autentico referente.

L’Avvocatura, dunque, come "spada" dell’Amministrazione (specie statale) pronta, alla bisogna, a riguadagnare il fodero ma che, nel caso deciso dalla II Sezione del Tar Lazio con la sentenza in commento – coinvolgente il delicato assetto degli interessi che gravitano nell’orbita dello "strategico" sistema radiotelevisivo pubblico – ha colpito con precisione chirurgica il bersaglio processuale prefissosi, sventando una pur minacciata frizione col sistema.

Nell’attesa di un eventuale, nuovo round sul ring di Piazza Capo di Ferro…

 

per l'annullamento

del provvedimento in data 26 ottobre 2001, con il quale il Ministero ha espresso il proprio diniego alla "cessione da parte della Rai a CCR s.r.l. delle azioni rappresentative del 49% del capitale di RaiWay s.p.a.".

(omissis)

FATTO

La Rai ha costituito, in data 29 luglio 1999, con Rai Trade s.p.a. (totalmente partecipata dalla stessa Rai), una società denominata Newcotd s.p.a. (denominazione successivamente mutata in RaiWay), con capitale sociale da essa detenuto per intero, allo scopo di avvalersene per lo svolgimento delle attività inerenti all’installazione e all’esercizio degli impianti tecnici.

Con provvedimento dell’11 novembre 1999 la Rai otteneva l’autorizzazione ministeriale a tal fine prescritta dall’art. 1, quinto comma del D.P.R. 28 marzo 1994 (contenente l’approvazione della convenzione tra il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e la Rai per la concessione in esclusiva del servizio pubblico di diffusione circolare di programmi sonori e televisivi sull’intero territorio nazionale). Quindi, con atto di conferimento del 29 febbraio 2000, trasferiva a RaiWay il ramo aziendale costituito dalle attività, beni e organizzazione, già assicurato dalla "Divisione trasmissione e diffusione" della stessa Rai.

In data 5 giugno 2000 le due Società sottoscrivevano un "contratto di fornitura di servizi di trasmissione e diffusione", con il quale la Rai affidava a RaiWay (ai sensi della precitata convenzione e dell’autorizzazione ministeriale dell’11 novembre 1999) "la fornitura dei servizi relativi all’installazione, manutenzione e gestione di reti di telecomunicazioni e la prestazione di servizi di trasmissione, distribuzione e diffusione di segnali e di programmi radiofonici e televisivi" e RaiWay si impegnava a garantire lo svolgimento di tali servizi "in conformità con i livelli di servizio, copertura e continuità previsti dalla convenzione e dal contratto di servizio", stipulato tra la Rai e l’Amministrazione concedente.

Con nota prot. n. 0079/11983 del 28 marzo 2000, la Rai notiziava il Ministero delle comunicazioni di aver proceduto a conferire in "Rai Way" il ramo aziendale costituito dall’ex "Divisione diffusione e trasmissione" e di aver avviato la procedura di collocamento sul mercato di una quota minoritaria, non superiore al 49%, della sua partecipazione nel capitale di RaiWay.

Con contratto di compravendita, sottoscritto in data 27 aprile 2001, previo acquisto della partecipazione detenuta dalla Rai Trade s.p.a., la Rai cedeva alla CCR s.r.l., società indirettamente controllata da Crown Castle Internazional Corporation, le azioni rappresentative del 49% del capitale della RaiWay contro il versamento di £. 791,4 miliardi e sottoscrivendo con il partner dei patti parasociali finalizzati a disciplinare l’esercizio delle rispettive prerogative di soci.

Nel contratto di compravendita azionaria si stabiliva l’automatica risoluzione dell’accordo di cessione nel caso di "mancato rilascio dell’incondizionata autorizzazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai sensi e per gli effetti della legge n. 287/1990", "e/o di mancato rilascio da parte del Ministero dell’attestazione di conformità dell’operazione alla Convenzione e all’autorizzazione dell’11 novembre 1999, entro il termine di sei mesi dalla data di stipulazione del contratto (27 aprile 2001)".

Nella medesima data di sottoscrizione del contratto, l’operazione veniva comunicata alla precitata Autorità garante e al Ministero.

L’Autorità antitrust riteneva di non dover avviare l’istruttoria di cui all’art. 16, quarto comma, della legge n. 287/1990 e analoga determinazione veniva assunta dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Diversamente, il Ministero, nella considerazione che l’operazione dovesse essere preventivamente autorizzata, con provvedimento del 26 ottobre 2001, negava la "presa d’atto"della cessione della partecipazione azionaria in questione.

Conseguentemente, la Crown Caste chiedeva la risoluzione del contratto e la Rai provvedeva alla restituzione del prezzo delle azioni e gli interessi maturati dalla data di stipulazione del contratto.

Asserendo l’illegittimità del provvedimento negativo, la Rai è insorta, con ricorso notificato in data 23 novembre 2001, chiedendone l’annullamento e l’adozione di una decisione che, disponendo la reintegrazione in forma specifica, emetta un provvedimento che tenga conto della "presa d’atto" negata dal Ministero o, in subordine, condanni quest’ultimo al risarcimento dei danni subiti.

Dopo aver premesso alcune considerazioni sulla caratterizzazione dell’atto impugnato – che, in ragione della sua natura ibrida, dovrebbe qualificarsi come dichiarazione di scienza piuttosto che come atto autorizzatorio (come riferito nell’atto medesimo) – la ricorrente ne deduce l’illegittimità per incompetenza, eccesso di potere, sotto distinti profili, violazione e falsa applicazione di legge.

Costituendosi in giudizio l’amministrazione intimata ha replicato alle tesi contenute in ricorso del quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità e, nel merito, l’infondatezza.

Con atto notificato in data 25 febbraio 2002 ha dispiegato intervento ad opponendum lo SNATER, nella qualità di Sindacato nazionale autonomo telecomunicazioni-radiotelevisioni.

Alla pubblica udienza del 27 febbraio 2002, sulle conclusioni delle parti, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

1.- Oggetto dell’impugnativa è il provvedimento in data 26 ottobre 2001, con il quale il Ministero delle comunicazioni ha espresso il proprio diniego alla "cessione da parte della Rai a CCR s.r.l. delle azioni rappresentative del 49% del capitale di RaiWay s.p.a.".

La determinazione impugnata risulta preliminarmente motivata con la circostanza che il contratto di cessione delle azioni di RaiWay avrebbe postulato la preventiva autorizzazione ministeriale; e ciò in conformità al provvedimento del Ministro delle comunicazioni dell’11 novembre 1999, che aveva autorizzato la Rai ad avvalersi di una società da quest’ultima controllata per lo svolgimento delle attività inerenti all’installazione e all’esercizio degli impianti tecnici, ai sensi dell’art. 1, quinto comma, della convenzione - intervenuta tra il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e la Rai - approvata con D.P.R. del 28 marzo 1994.

La mancata "presa d’atto" in ordine all’intervenuta operazione commerciale si sostiene, poi, fondamentalmente sulle argomentazioni di seguito riportate:

- gli impianti di RaiWay avrebbero una "potenzialità di applicazione tale da poterli sfruttare anche per delicatissimi compiti di sicurezza" e "solo una gestione realmente riconducibile, anche indirettamente alla parte pubblica" potrebbe garantirne la piena disponibilità;

- "la valutazione sugli impianti in questione" sarebbe "analoga a quella fatta nel lontanissimo 1991 dall’IRI";

- i patti parasociali – sottoscritti contestualmente alla stipula del contratto di compravendita – conferirebbero al "partner un potere di indirizzo strategico dell’attività di RaiWay addirittura superiore a quello del socio di maggioranza;

- in conclusione, "il controllo di RaiWay" non farebbe "più capo alla concessionaria, con conseguente alterazione delle condizioni dell’autorizzazione rilasciata dal Ministero alla Rai con provvedimento 11 novembre 1999".

2.- Insorgendo contro il provvedimento ministeriale negativo la società concessionaria ne contesta la legittimità sostenendo che il Ministero avrebbe agito con incompetenza, in carenza di un potere autorizzatorio in ordine all’intervenuta attività contrattuale, con eccesso di potere per sviamento, difetto di istruttoria e di motivazione, e, nel merito, con valutazioni erronee circa l’asserita perdita di controllo da parte della Rai nei confronti della società RaiWay.

3.- Resistendo al ricorso l’Amministrazione intimata ne eccepisce l’inammissibilità sotto più profili: per carenza di interesse all’impugnativa; per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione al rapporto controverso (che si innesterebbe su una pretesa attinente a diritti soggettivi derivanti dal contratto di cessione di una partecipazione azionaria) e alla natura dell’atto impugnato (che, in ragione dell’ampia discrezionalità politico-amministrativa che lo caratterizza, si atteggerebbe ad atto politico o comunque di alta amministrazione).

4.- La disamina delle eccezioni pregiudiziali in ordine all’ammissibilità del ricorso postula la preliminare definizione della natura dell’atto impugnato. Anche, perché, in dissonanza con la prospettazione in proposito svolta dalla difesa erariale, la parte ricorrente attribuisce all’atto impugnato "natura ibrida", sostanzialmente configurandolo, poi, come "dichiarazione di scienza", nella considerazione che il Ministero sarebbe "stato chiamato dalle parti ad esprimere una valutazione sulla regolarità dell’operazione" (di cessione delle azioni di RaiWay).

La messa a fuoco della caratterizzazione giuridica dell’atto impugnato rende però opportuna la puntuale descrizione dei fatti entro cui si iscrive la vicenda all’esame.

Con provvedimento dell’11 novembre 1999, la Rai veniva autorizzata dal Ministero delle comunicazioni – ai sensi dell’art. 1, quinto comma, della convenzione Stato-Rai, approvata con D.P.R 28 marzo 1994. - ad avvalersi di una società per azioni, la Newcotd, interamente posseduta e controllata dalla stessa Rai, per lo svolgimento delle attività inerenti all’installazione e all’esercizio tecnico degli impianti di cui all’art. 1, quarto comma, lett. a) di detta convenzione.

Nell’atto autorizzativo si stabiliva espressamente che: "ogni variazione dell’attuale assetto di controllo della New.Co TD s.p.a., da parte di codesta Società, deve essere preventivamente autorizzata da questo Ministero".

In seguito, la predetta società Newcotd mutava la propria denominazione in RaiWay s.p.a., alla quale, con atto del 29 febbraio 2000, veniva trasferito il ramo aziendale costituito dall’ex "Divisione, diffusione e trasmissione" della stessa Rai.

Nel comunicare al Ministero l’intervenuto conferimento a RaiWay del predetto ramo aziendale, la Rai, con nota del 28 marzo 2000, dava assicurazione del fatto che l’operazione non aveva "comportato, ai sensi di quanto disposto nella quarta proposizione del citato provvedimento ministeriale (id est: dell’11 novembre 1999) variazione alcuna dell’assetto di controllo che, per tipologia, forme e strumenti di acquisizione e di mantenimento rimane quello di cui all’art. 2359, comma 1, n. 1, c.c. esistente al momento del rilascio dell’autorizzazione ad avvalersi di società controllate per l’esercizio delle attività assentite in concessione". Soggiungeva, poi, la Rai che il proprio Consiglio di amministrazione, "all’esito delle procedure selettive" aveva "deliberato di conferire alla società Merrill Lynch l’incarico sospensivamente condizionato all’omologazione della delibera di aumento di capitale di RaiWay di svolgere le funzioni di advisor affinché assista la Rai nella procedura di collocamento di una quota minoritaria, non superiore al 49% e, orientativamente, non inferiore al 30% della sua partecipazione nel capitale RaiWay".

Con nota del 27 aprile 2001, la Rai informava il Ministero delle comunicazioni di aver stipulato, in pari data, un contratto di compravendita avente ad oggetto la cessione "alla CCR s.r.l., società indirettamente controllata da Crown Castle Internazional Corp., le azioni rappresentative del 49% del capitale della RaiWay, mantenendo quindi la titolarità del residuo 51% del capitale sociale". Informava, altresì, che, contestualmente alla sottoscrizione del contratto le parti avevano sottoscritto dei "patti parasociali" finalizzati a disciplinare l’esercizio delle rispettive prerogative dei soci.

Al contratto, reso subito efficace tra le parti, accedevano due condizioni risolutive consistenti: la prima, nel mancata rilascio dell’autorizzazione all’operazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai sensi della legge n. 287/1990; la seconda, nel mancato rilascio, entro sei mesi dalla data di sottoscrizione del contratto, di una "presa d’atto" da parte del Ministero delle comunicazioni dell’intervenuta cessione e del fatto che quest’ultima fosse conforme "ai termini e alle condizioni della Convenzione e dell’Autorizzazione, con particolare riferimento al requisito del mantenimento del controllo della RaiWay da parte della scrivente Rai per le finalità della Convenzione e dei relativi contratti di servizi".

Approssimandosi la data stabilita per la "presa d’atto", la Rai, con nota del 18 ottobre 2001 indirizzata al Ministero, nel ripercorrere le fasi salienti del procedimento, puntualizzava come "l’Autorità del garante e della concorrenza del mercato, con provvedimento prot. 9859 dell’8 agosto 2001" aveva "ritenuto di non dover avviare l’istruttoria di cui all’art. 16, comma 4, della legge 287/1990 e che "analoga determinazione" era "stata assunta, con riferimento all’operazione in parola, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con parere del 6 agosto 2001". Sollecitava pertanto l’Amministrazione al rilascio "della positiva comunicazione di presa d’atto", già richiesta il precedente 27 aprile, ricordando come, "sia nel caso in cui non fosse rilasciata alcuna comunicazione da parte del Ministero entro il predetto termine (del 26 ottobre 2001), sia nel caso in cui il Ministero rilasciasse una comunicazione di diniego della richiesta presa d’atto, gli accordi negoziali con la Crown Castle International Corporation perderebbero di efficacia, con conseguente obbligo di restituzione a Crown Castle del prezzo delle azioni RaiWay, pari a lire 791, 4 miliardi oltre gli interessi maturati dal 27 aprile 2001".

Avveniva, intanto, in data 20 ottobre 2001, che il Ministro delle comunicazioni, sulla base di un esame del contratto e dei patti parasociali, rappresentava alla Crown Castle "la netta impressione" che "il rispetto formale dell’autorizzazione (essendo RaiWay posseduta al 51% dalla Rai)" poteva "non essere sufficiente a modificare il quadro di sostanziale perdita di controllo da parte della Rai di un’attività di rilevante interesse strategico nazionale". Evidenziava, altresì, come "i fatti dell’11 settembre e gli sviluppi successivi" rendevano "ancora più rilevanti le preoccupazioni circa le possibili limitazioni di un effettivo esercizio del controllo su un fondamentale elemento del patrimonio tecnologico nazionale da parte della Rai", e ciò imponeva al Ministero "un’attenta considerazione dei preminenti interessi nazionali".

Il successivo 22 ottobre, il Presidente della società statunitense replicava che i patti negoziali conclusi con la Rai prevedevano un ruolo decisivo (decisive role) di Crown Castle nella conduzione (in the management) dell’attività del Tower business e un ruolo significativo nella gestione dell’azienda (and a significant role in the management of RaiWay). Rappresentava, poi, l’intenzione di Crown Castle, qualora il Governo avesse deciso di procedere ad una privatizzazione degli assets in questione, di acquisire il pacchetto di maggioranza della società RaiWay al fine di poter più compiutamente realizzare gli obiettivi prefissati.

Interveniva, quindi, e infine, l’atto del 26 ottobre 2001 con il quale il Ministero delle comunicazioni negava la presa d’atto richiesta con la nota del 27 aprile 2001 preliminarmente rilevando come la Rai, anziché richiedere la preventiva autorizzazione, così come stabilito nel provvedimento dell’11 novembre 1999, aveva anticipato il perfezionamento del contratto di cessione, condizionandone risolutivamente l’efficacia alla mancata "presa d’atto" dell’Amministrazione. Soggiungeva poi, quanto al merito dell’operazione della cessione della partecipazione azionaria in questione, che, "contravvenendo all’impegno assunto dalla Rai circa il mantenimento del controllo di RaiWay e posto alla base dell’autorizzazione rilasciata in data 11 novembre 1999, i patti parasociali" erano tali "da conferire al partner un potere di indirizzo strategico dell’attività di RaiWay addirittura superiore a quello del socio di maggioranza".

5.- Così rappresentate le scansioni fattuali dell’articolata vicenda, deve definirsi – coerentemente alla premessa metodologica sopra enunciata – l’effettiva portata del provvedimento ministeriale impugnato. La quale va delineata sulla base dell’oggettivo contenuto dell’atto, riguardato in connessione sistematica con i provvedimenti e le attività a cui esso accede.

5.1.- Su tale considerazione non può certamente aderirsi alla concettualizzazione in proposito proposta dalla difesa della ricorrente.

Invero, affermare la natura "ibrida" dell’atto impugnato, per pervenire poi alla conclusione che esso si qualifichi come una "dichiarazione di scienza", è il precipitato di una ricostruzione fattuale e giuridica della vicenda che non trova rispondenza nei termini obiettivi del suo reale svolgimento. Tale ricostruzione poggia, infatti, sul dato che il Ministro sarebbe stato legittimamente chiamato dalle parti a esprimere una valutazione sulla regolarità dell’operazione della cessione azionaria, mentre il Ministro medesimo si sarebbe erroneamente ritenuto investito di un potere autorizzatorio esercitabile in via preventiva. Ma una siffatto esito di considerazioni conclusive potrebbe fondatamente sostenersi solo ove si acceda alla tesi – dalla Sezione non condivisa per le valutazioni che saranno rassegnate nel prosieguo – che la condotta della Rai, per quel che attiene alla perfezionata attività contrattuale, si sia attivata e mantenuta nei termini stabiliti dalla convenzione e dal provvedimento autorizzatorio dell’11 novembre 1999.

Quanto, poi, più specificamente alla natura dell’atto oggetto dell’impugnativa, sembra difficilmente predicabile il suo carattere di dichiarazione di scienza che, come è noto, vale a connotare l’atto per i suoi profili intellettivi (consistendo essa nella manifestazione, da parte di un soggetto, di una propria cognizione, o rappresentazione, o convinzione, in ordine ad una data situazione) piuttosto che per quelli volontaristici mirati alla produzione di ben determinati effetti.

Orbene, sotto tale riguardo, e con attenta considerazione al contenuto dell’atto ministeriale, è certo che quest’ultimo si caratterizza per il suo intento volontaristico di risolvere l’efficacia dell’attività contrattuale posta in essere dalla Rai con il partner statunitense: su tale non confutabile dato l’atto non lascia di essere un provvedimento amministrativo in quanto manifestazione di volontà posta in essere da un’autorità amministrativa nell’esercizio di una potestà pubblica.

Più precisamente, e come si è enunciato in fatto, ci si trova al cospetto di una determinazione autoritativa con la quale il Ministro delle comunicazioni, ponendosi criticamente nei riguardi della richiesta avanzata dalla Rai del rilascio di una "presa d’atto" dell’operazione commerciale de qua, ne ha denunciato il carattere anomalo in quanto successiva, e non preventiva (sotto forma di autorizzazione), alla stipula del contratto.

Con la stessa determinazione, poi, il Ministro, sulla base di valutazioni implicanti profili di ampia discrezionalità, ha negato l’ammissibilità dell’intervenuta cessione azionaria per l’opportunità di conservare la titolarità degli impianti, in capo alla società pubblica concessionaria, in ragione della loro rilevante importanza strategica, e per l’ulteriore considerazione che la disciplina prevista nei patti sociali avrebbe comportato la perdita, da parte della concessionaria medesima, del controllo di RaiWay.

6.- - Quanto puntualizzato in ordine alla consistenza dell’atto impugnato consente, sotto altro verso, di disattendere le eccezioni pregiudiziali di inammissibilità del ricorso variamente sollevate dalla difesa dell’Amministrazione resistente.

6.1.- Non ha pregio, anzitutto, la prospettazione secondo cui la Rai, in considerazione dell’attribuita natura di semplice dichiarazione di scienza dell’atto impugnato, sarebbe priva di interesse a coltivare l’impugnativa. Si è chiarita, infatti, l’esatta portata concettuale dell’atto ministeriale, puntualizzandosi come un approccio sostanzialistico non consente di considerarlo nel senso proposto in ricorso.

Sotto altro verso, non può accedersi alla tesi del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nel rilievo che la pretesa della ricorrente atterrebbe esclusivamente a diritti soggettivi derivanti dal contratto di cessione della partecipazione azionaria.

E’ agevole, in proposito, osservare che l’impugnativa si dirige nei riguardi di una determinazione ministeriale cui non può negarsi natura provvedimentale. Deve, peraltro, soggiungersi che la situazione all’esame radica certamente una controversia in materia di servizi pubblici, come tale devoluta ex lege alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, lett. b) e c), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, che riserva in particolare a detto giudice le controversie rispettivamente: "tra amministrazioni pubbliche e i gestori comunque denominati di pubblici servizi" (lett.b.-) e "in materia di vigilanza e di controllo nei confronti di gestori dei pubblici servizi" (lett. c.-).

In proposito, non può dubitarsi del fatto che la presente fattispecie, attinendo a questione afferente in sostanza la materia dei pubblici servizi nel settore delle telecomunicazioni, rientri nella precitata previsione legislativa, in quanto la Rai è concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo. Qualità questa che, come puntualmente rammentato anche dalla difesa erariale, comporta l’attribuzione alla concessionaria della qualifica di "società di interesse nazionale" ai sensi dell’art. 2461 del codice civile.

6.2.- Ugualmente da disattendere è l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, desunta dalla natura di atto politico del provvedimento impugnato, come tale sottratto al sindacato giurisdizionale ai sensi dell’art. 31 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato).

In proposito, ripetendo concetti fin troppo noti, è appena il caso di osservare che, nell’elaborazione giurisprudenziale, la categoria degli atti politici risulta ristretta a quegli atti palesamente estranei alla funzione amministrativa in quanto espressione di una potestà costituzionale e di governo. Trattasi, in particolare, di atti di così pregnante necessità per il funzionamento del nostro sistema costituzionale che non sono idonei a rifluire lesivamente in via diretta su interessi individuali e non sono, pertanto, suscettibili di essere assoggettati al sindacato giurisdizionale.

Orbene, per quanto il provvedimento impugnato involga la responsabilità politica del titolare del Dicastero, non può di certo affermarsi che il contenuto dell’atto sia permeato di un così totale rilievo e significato politico da giustificare la sua sottrazione alla tutela giurisdizionale garantita dall’art. 113 della Costituzione per le situazioni soggettive lese dai provvedimenti delle autorità amministrative.

6.3.- Anche l’ultima eccezione pregiudiziale, che fa leva sul concetto di attività "di alta amministrazione" per inferire la non giustiziabilità del provvedimento ministeriale, non è da condividere.

Infatti, anche se connotato da amplissima discrezionalità, l’atto di alta amministrazione è pur sempre un vero e proprio atto amministrativo, e come tale sicuramente sindacabile in sede giurisdizionale; sicché, per tale via, l’asserita caratterizzazione giuridica del provvedimento ministeriale non potrebbe essere valorizzata per affermarne la sua non impugnabilità.

7.- Il ricorso è pertanto ammissibile. Esso, però, non merita accoglimento alla stregua delle considerazioni che seguono.

7.1.- Non è anzitutto fondato l’iniziale motivo di ricorso, con il quale è dedotta l’incompetenza del Ministro ad adottare l’atto impugnato. Si sostiene, in particolare, che, ai sensi dell’art. 4, primo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (che riproduce pedissequamente l’art. 3 del d.lgs. n. 29/1993) l’adozione degli atti e dei provvedimenti di competenza dei Ministeri e le relative responsabilità spettano ai dirigenti e non ai ministri, cui compete invece l’indirizzo politico-amministrativo.

7.1.1.- Deve al riguardo osservarsi – richiamando argomentazioni già svolte – che il provvedimento impugnato, quale esplicazione di potestà di vigilanza e di controllo rientranti nell’ambito della responsabilità politica del Ministro, legittimamente radica in capo a questi la competenza dell’adozione dell’atto.

Non può, poi, sottacersi – come puntualmente rilevato dalla resistente – che l’originaria autorizzazione dell’11 novembre 1999 ad avvalersi di società controllata, ai sensi della convenzione di cui al D.P.R. 28 marzo 1994, è stata rilasciata dall’autorità ministeriale del tempo e che sulla legittimità di tale competenza non sono mai stati adombrati dubbi o formulate contestazioni.

7.2.- Da disattendere è anche l’ulteriore motivo, con il quale si contesta l’esistenza in capo al Ministro, di un preventivo potere autorizzatorio per il semplice mutamento della partecipazione azionaria della società controllata.

La censura merita attenta disamina perché attiene all’aspetto fondamentale della presente controversia.

Sostiene la ricorrente che i casi in cui al Ministero spetta un potere autorizzatorio, rispetto a singole operazioni di gestione, sono specificamente e tassativamente individuate dalla convenzione e dal contratto di servizio e che l’ipotesi ricorrente nel caso di specie – cessione a terzi di una partecipazione azionaria nel capitale di società costituita dalla Rai ai sensi dell’art. 1, quinto comma, della convenzione – non sarebbe disciplinata né dalla convenzione medesima, né dal contratto di servizio.

7.2.1.- La tesi non è condivisibile e appare smentita da una piana interpretazione degli atti amministrativi e regolamentari che, in subiecta materia, disciplinano il potere autorizzatorio ministeriale.

La più volte menzionata previsione contenuta nell’art. 1, quinto comma, della convenzione a suo tempo intervenuta tra il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e la Rai, e concedente a quest’ultima in esclusiva sull’intero territorio nazionale il servizio pubblico di diffusione di programmi radiofonici e televisivi, così testualmente dispone: "La società concessionaria può, previa autorizzazione del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni, avvalersi, per attività inerenti all’espletamento dei servizi concessi, di società da essa controllate".

Va soggiunto che, coerentemente con la riportata disposizione, il provvedimento dell’11 novembre 1999 - con il quale il Ministro delle comunicazioni aveva autorizzato la Rai ad avvalersi della società per azioni Newcotd per lo svolgimento delle attività inerenti all’installazione e all’esercizio degli impianti di cui all’art. 1, quarto comma, della convenzione – stabiliva espressamente che "ogni variazione dell’attuale assetto di controllo della New.Co TD s.p.a. da parte di codesta società deve essere preventivamente autorizzata di questo Ministero".

Orbene, in tale contesto dispositivo – che, stante la sua chiarezza, non può essere inteso che attraverso l’elemento filologico delle espressioni letterali impiegate – non possono trovare posto le argomentazioni della parte ricorrente della non necessità della preventiva autorizzazione ministeriale nell’ipotesi che ne occupa, costituita dal mutamento della partecipazione azionaria della società controllata.

A parere della Sezione l’esistenza del preventivo potere autorizzatorio, da parte del Ministero, era chiaramente desumibile ex se dalla riportata previsione di cui al quinto comma dell’art. 1 della convenzione, che postulava l’autorizzazione ministeriale in caso di avvalimento, da parte della concessionaria, di società da quest’ultima controllate "per attività inerenti all’espletamento dei servizi concessi".

In proposito è il caso di puntualizzare che alla società partecipata era stata appunto trasferita ogni attività e organizzazione concernente la pianificazione, la progettazione, l’installazione, la realizzazione, l’esercizio, la gestione, la manutenzione, l’implementazione, lo sviluppo, nonché la proprietà degli impianti tecnici, e che la convenzione ricomprende, tra i servizi concessi, (art. 1, quarto comma, lett. a.-) l’installazione e l’esercizio tecnico degli impianti e dei connessi collegamenti di tipo fisso.

Sicché, come condivisibilmente sostenuto dalla difesa dell’Amministrazione, le parti non avrebbero potuto procedere all’alienazione di una quota azionaria – anche quando tale operazione non avesse, in ipotesi, comportato la perdita di controllo su RaiWay – senza la preventiva autorizzazione ministeriale.

Quand’anche, poi, dovesse ritenersi, in via meramente ipotetica, che la norma della convenzione non legittimi l’interpretazione patrocinata da questo giudice (il che fermamente si contesta) non potrebbe comunque, e in alcun modo, confutarsi che il provvedimento autorizzatorio dell’11 novembre 1999 vincolava la concessionaria a sottoporre ad autorizzazione preventiva ogni e qualsiasi mutamento dell’assetto di controllo della New.Co TD e quindi di RaiWay (che di questa aveva assunto la denominazione).

Va, in proposito, e peraltro, rammentato che anche l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nell’esprimere il 1 agosto 2001 il proprio parere favorevole all’Autorità garante della concorrenza e del mercato in ordine "alla valutazione dell’operazione di concentrazione", avvertiva, nelle proprie conclusioni, che "l’operazione" doveva intendersi "subordinata al rilascio di un’apposita autorizzazione da parte del Ministero delle comunicazioni, ai sensi dell’art. 1, comma 5, del d.p.r. 28 marzo 1994, poiché l’autorizzazione rilasciata alla Rai l’11 novembre 1999, per lo svolgimento delle attività inerenti all’installazione e all’esercizio degli impianti tecnici, prevede che ogni variazione dell’attuale assetto di controllo della società New.Co TD s.p.a. (ora Rai Way) da parte della Rai debba essere preventivamente autorizzata dal Ministero stesso".

Consegue, dall’esposto ordine di considerazioni, che la ricorrente, nell’operazione commerciale di cessione della partecipazione di minoranza in RaiWay, ha posto in essere una procedura anomala e affatto dissonante dai termini e dalle condizioni imposte dalla convenzione Stato-Rai e dall’autorizzazione ministeriale intervenuta in data 11 novembre 1999, prevedendo arbitrariamente, in luogo della necessaria e preventiva autorizzazione formale, un successivo atto di assenso ministeriale, sotto forma di "presa d’atto", con funzione di condizione risolutiva del già perfezionato ed efficace contratto di cessione.

Né potrebbe sostenersi, come pure la ricorrente lascia trasparire in sede di esposizione fattuale della vicenda, che una richiesta di autorizzazione preventiva era stata comunque avanzata con la nota del 28 marzo 2001. Infatti, tale nota, per quel che qui interessa rilevare, era diretta a preannunciare la volontà della concessionaria di collocare sul mercato una quota minoritaria della sua partecipazione nel capitale RaiWay e con essa non era stata avanzata domanda di autorizzazione preventiva all’operazione di cessione, attraverso la sottoposizione al vaglio ministeriale dello stipulando contratto di cessione.

8.- La mancata richiesta, da parte della concessionaria, della preventiva autorizzazione ministeriale al contratto di cessione, e la conseguente denuncia dell’attivazione di una procedura anomala nella conclusione dell’attività di compravendita in questione, costituiva certamente elemento autonomamente significativo, sotto il profilo della rilevanza giuridica, per radicare il legittimo diniego dell’Autorità ministeriale all’invocata "presa d’atto".

Il provvedimento negativo ministeriale non si è limitato, però, ad evidenziare l’anomalia della procedura seguita dalla Rai con la richiesta "presa d’atto". Esso si compone, infatti, di una parte ulteriore in cui, con valutazioni attinenti al merito dell’operazione di cessione azionaria, e nel rilievo dell’opportunità di conservare in capo alla società concessionaria la titolarità degli impianti (indipendentemente dalla semplice rilevanza commerciale degli stessi, perché asseritamente non commensurabile alla loro importanza strategica), si afferma l’inammissibilità della cessione, così come disciplinata nei patti parasociali concordati tra le parti, in quanto foriera di una sostanziale perdita di controllo di RaiWay da parte della concessionaria pubblica.

8.1.- In ordine a tale parte dispositiva del provvedimento ministeriale la ricorrente deduce un complesso di censure mirate a denunciare l’eccesso di potere, sotto svariati profili, in cui sarebbe incorsa l’Autorità procedente nell’attività valutativa conducente al giudizio finale, secondo cui con la conclusione dei patti parasociali, la Rai, contravvenendo all’impegno assunto in convenzione, non avrebbe mantenuto il controllo della società (RaiWay) della quale si è avvalsa per l’esercizio dei servizi concessi.

8.2.- Rileva preliminarmente la Sezione, in coerenza con la natura dell’atto ministeriale, in parte qua connotato da sicuri elementi di ampia discrezionalità cui sono commisti anche profili valutativi che impingono al merito, tecnico dell’operazione in questione che il sindacato giurisdizionale di legittimità - nella specie certamente ammissibile, vertendosi, pur sempre, come in precedenza argomentato, al cospetto di un provvedimento amministrativo – deve mirare a saggiare se, attraverso la motivazione dell’atto, le scelte valutative discrezionali operate dall’Amministrazione presentino profili, o comunque, sintomi di incongruità.

8.3.- In proposito valgano le seguenti considerazioni.

Nell’atto impugnato si evidenzia come i patti parasociali, sottoscritti dalle parti contestualmente al contratto di cessione, conferivano al partner un potere di indirizzo strategico dell’attività di RaiWay superiore a quello di maggioranza.

Tanto è stato desunto da un complesso di elementi valutativi riferiti ai seguenti settori di osservazione.

1.- Gestione della società.

I patti parasociali prevedevano (art. 3, lett. c.-) che, per l’approvazione di sedici delibere (approvazione e modifica di qualsiasi business plan o budget; acquisto di partecipazione in società, rami d’azienda ect; sottoscrizione di contratti di finanziamento per impianti superiori a dieci miliardi per singola operazione o cinquanta miliardi per il totale delle operazioni; modifica, sospensione, revoca o cessazione di ogni tipo di consenso rilevante per la società; stipula di qualsiasi rilevante accordo, ivi compreso il contratto di servizio anche con soggetti diversi dalla Rai; decisione circa transazioni o azioni legali di valore superiore a dieci miliardi; rapporti di lavoro e deleghe; finanziamenti; conclusioni di contratti; costituzione di società controllate; costituzione di garanzie; concessioni di prestiti; proposta di ammissione a quotazione della società; accordi di consulenza di durata superiore a dodici mesi o di importo superiore a cinquecento milioni; stipula, cessazione o modifica di qualsiasi accordo di importo superiore a dieci miliardi incidente sulla gestione del c.d. Tower business) fosse necessario, su un consiglio di amministrazione costituito di otto elementi (cinque nominati dalla Rai e tre dal partener), il voto favorevole di almeno due consiglieri di designazione del partner (ossia del socio di minoranza).

2.- Collegio sindacale.

L’art. 4 prevedeva una prevalenza nel controllo da parte del socio di minoranza dal momento che questi avrebbe nominato due sindaci a fronte dell’unico sindaco nominato dalla Rai.

3.- Nomine.

L’art. 6 prevedeva la creazione del Business Devolpment Officer, figura centrale al quale delegare pieni poteri equiparabili ai poteri delegati all’amministratore delegato dal Consiglio di amministrazione, limitatamente alla gestione delle attività della società nel Tower business, di rilevante interesse strategico.

4.- Maggioranza in assemblea straordinaria.

L’art. 5, lett. B), prevedeva una maggioranza del 67% per le materie di competenza dell’assemblea straordinaria sia in prima che in seconda convocazione , con conseguente assegnazione al partner di un potere di blocco sulle delibere di detta assemblea.

5.- Divieto di concorrenza.

L’art. 9, lett. A), prevedeva il divieto di concorrenza del partner per un periodo di un solo anno dalla perdita della qualità di socio, mentre nella prima stesura dei patti parasociali, predisposti dalla Rai, il periodo di non concorrenza era stabilito in cinque anni.

8.4.- Tutto ciò premesso, nell’obiettiva considerazione delle situazioni singolarmente indicate, sembra plausibile l’affermazione di fondo sottesa al provvedimento impugnato, e cioè che la cessione della partecipazione azionaria di RaiWay, formalmente contenuta nella quota minoritaria del 49%, comportasse nella sostanza un’influenza del partner sostanzialmente superiore a quella spettantegli in base all’effettiva partecipazione azionaria.

In proposito non può che aderirsi a quanto osservato dalla difesa dell’Amministrazione in ordine agli elementi che, in base della stessa disciplina civilistica (art. 2359 c.c., come modificato dall’art. 1 del d.lgs. n. 127/1991, che contiene la definizione di società controllate), valgono a connotare il rapporto di controllo. Il quale non si individua soltanto in ragione di un preciso rapporto giuridico (come, ad esempio, dalla consistenza della partecipazione azionaria; c.d. controllo di diritto: art. 2359 c.c., primo comma, n. 1), ma anche per effetto di un’influenza dominante esercitata dalla società su altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con quest’ultima (c.d. controllo di fatto: art. 2359 c.c., primo comma , n. 3).

Orbene, il provvedimento impugnato – con procedimento valutativo che, nei limiti del sindacato di legittimità, appare immune da vizi logici – ha pertinentemente valorizzato la nozione di controllo di fatto, evidenziando come la peculiare disciplina dei patti parasociali annessi al contratto rivelassero un’ingerenza del partner tale da configurare un’influenza dominante nel controllo societario di RaiWay.

Non poteva, poi, non considerarsi che una tale ingerenza avrebbe interessato un settore – inerente a un complesso di impianti trasmittenti e di collegamento installati su tutto il territorio nazionale, utilizzabili anche per servizi a terzi – di assoluta importanza strategica e di sicuro rilievo internazionale.

Non sembra ex adverso concludente la tesi della concessionaria ricorrente tendente a minimizzare la consistenza dei patti parasociali ai fini della vanificazione del controllo; e ciò nella considerazione che quest’ultimo appariva comunque positivamente garantito da quanto affermato, in sede di "principi generali" (art.1), circa "l’effettivo controllo della gestione complessiva della società" che non avrebbe non potuto non rimanere "di competenza della Rai, quale socio di maggioranza".

Infatti, è sulla base dell’effettiva portata e incidenza di tali patti, e facendo utilizzazione della categoria civilistica del controllo di fatto, che l’Autorità ministeriale è pervenuta alla considerazione dell’attribuzione al partner di un potere di indirizzo strategico debordante rispetto alla consistenza quantitativa della rilevata partecipazione azionaria.

Quanto, poi, al rilievo che i patti parasociali non avrebbero potuto considerarsi concludenti ai fini della perdita di controllo da parte della Rai sulla società RaiWay, è il caso di osservare che le delibere di cui al precitato art. 3, lett. c), riguardavano materie interessanti le principali attività della società

Peraltro, non è senza rilievo la circostanza (e ciò ulteriormente invera la tesi della sostanziale perdita di controllo da parte della concessionaria sulla società RaiWay) che è stata la stessa Crown Caste, nella corrispondenza intercorsa con il Ministro delle comunicazioni appena prima dell’adozione del provvedimento impugnato, a riconoscere che i patti negoziali che accedevano al contratto di cessione della partecipazione azionaria prevedevano un ruolo di grande e decisivo rilievo della società statunitense nella gestione di RaiWay.

9.- Alla stregua di tutte le considerazioni che precedono il ricorso va respinto.

La complessità e la novità delle questioni trattate spingono a compensare tra le parti spese di lite e onorari di causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione seconda), decidendo il ricorso in epigrafe, lo respinge.

Compensa tra le parti costituite le spese di lite.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 27 febbraio e del 1 marzo 2002.

Il Presidente dr. Filippo Marzano

Il Consigliere est. dr. Massimo Calveri

Depositata il 12 marzo 2002.

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