REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Toscana
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1507 del
2012, proposto da: -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avv. Anna
Cordoni, con domicilio eletto presso Giancarlo Geri in Firenze, Via
Ricasoli 32;
contro
Ministero della Giustizia in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale
dello Stato di Firenze, domiciliata in Firenze, Via degli Arazzieri
4;
per l' accertamento
del diritto dei ricorrenti al
risarcimento del danno derivante dalla mancata adozione da parte del
Ministero della Giustizia delle misure di sicurezza delle condizioni di
lavoro presso la Casa Circondariale di Lucca con riferimento all'
esposizione ai fumi passivi derivanti da tabacco;
e per la condanna
dell' intimata amministrazione a disporre tutti i provvedimenti necessari
per la tutela della salute dei ricorrenti.
Visti il ricorso e i
relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di
Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti
gli atti della causa;
Visto l'art. 22 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, comma
8;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 novembre 2014 il dott.
Luigi Viola e uditi per le parti i difensori come specificato nel
verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue.
FATTO
I ricorrenti sono tutti Agenti Penitenziari in
servizio, alla data di proposizione del ricorso, presso la Casa
circondariale di Lucca; asseriscono tutti di essere non fumatori ed in
tale qualità hanno specificamente richiesto alla Direzione della Casa
Circondariale di porre in essere tutti gli accorgimenti necessari
(installazione di impianti di aereazione nei corridoi; creazione di
sezioni per detenuti non fumatori; ecc.) per non essere costretti ad
inalare il fumo di sigaretta proveniente dalle celle.
Con il presente
ricorso chiedono quindi la condanna del Ministero della Giustizia «a
disporre tutti i provvedimenti necessari per la tutela della salute dei
ricorrenti e ad adottare tutte le misure a tal fine prescritte dalla
normativa vigente».
Chiedono altresì il risarcimento del danno non
patrimoniale derivante «dall’aver lavorato in un ambiente
insalubre…tenendo conto, per ognuno, della natura del diritto leso e della
durata della lesione»; il ricorrente Sig. -OMISSIS- chiede altresì il
risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto all’integrità
psico-fisica derivato dalla lunga esposizione al fumo passivo (mentre gli
altri ricorrenti si sono riservati di azionare successivamente il
risarcimento del danno alla salute).
Si costituivano in giudizio le
Amministrazioni intimate, controdeducendo sul merito del
ricorso.
All'udienza del 20 novembre 2014 il ricorso passava quindi in
decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato e deve pertanto essere
respinto.
Per quello che riguarda la ricostruzione sistematica della
materia, la Sezione ritiene di poter recepire la precisa ricognizione
delle fonti normative contenuta nella sentenza 29 gennaio 2012 n. 1192 del
T.A.R. del Lazio, sez. I quater che può essere richiamata anche in
funzione motivazionale della presente decisione: «con la legge n. 584/75 è
stato introdotto il divieto di fumo in una serie di luoghi ivi
specificamente previsti e, precisamente, “nelle corsie degli ospedali,
nelle aule delle scuole di ogni ordine e grado negli autoveicoli di
proprietà dello Stato, di enti pubblici e di privati concessionari di
pubblici servizi per trasporto collettivo di persone; nelle metropolitane;
nelle sale di attesa delle stazioni ferroviarie, autofilotranviarie,
portuali-marittime e aeroportuali; nei compartimenti ferroviari riservati
ai non fumatori che devono essere posti in ogni convoglio viaggiatori
delle ferrovie dello Stato e nei convogli viaggiatori delle ferrovie date
in concessione ai privati; nei compartimenti a cuccette e in quelli delle
carrozze letto, occupati da più di una persona, durante il servizio di
notte” e “nei locali chiusi che siano adibiti a pubblica riunione, nelle
sale chiuse di spettacolo cinematografico o teatrale, nelle sale chiuse da
ballo, nelle sale-corse, nelle sale di riunione delle accademie, nei
musei, nelle biblioteche e nelle sale di lettura aperte al pubblico, nelle
pinacoteche e nelle gallerie d'arte pubbliche o aperte al pubblico” (art.
1).
Con Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14
dicembre 1995, applicabile anche alle amministrazioni dello Stato (art. 1)
è stata prescritta l’applicazione della legge n. 584/77 secondo i seguenti
criteri interpretativi:
“a) il divieto va applicato in tutti i locali
utilizzati, a qualunque titolo, dalla pubblica amministrazione e dalle
aziende pubbliche per l'esercizio di proprie funzioni istituzionali,
nonché dai privati esercenti servizi pubblici per l'esercizio delle
relative attività, sempreché si tratti - in entrambi i casi - di locali
che in ragione di tali funzioni sono aperti al pubblico;
b) per locale
"aperto al pubblico" s'intende quello al quale la generalità degli
amministrati e degli utenti accede, senza formalità e senza bisogno di
particolari permessi negli orari stabiliti;
c) il divieto va comunque
applicato nei luoghi nominativamente indicati nell'art. 1 della legge 11
novembre 1975, n. 584, ancorché non si tratti di locali "aperti al
pubblico" nel senso sopra precisato” (articolo 3 della
Direttiva).
Benché né la legge n. 584/77 né la Direttiva del 14/12/95
prevedano un generale divieto di fumo nei luoghi di lavoro deve ritenersi
che tale divieto, comunque, sussisteva all’epoca dei fatti come ha avuto
modo di affermare esplicitamente la Corte Costituzionale.
Con la
sentenza n. 399 del 20/12/96, infatti, la Consulta si è pronunciata, in
riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, sulla questione di
legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torino ed avente ad
oggetto gli artt. 1, lettera a) l. n. 584/75 (Divieto di fumare in
determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19
marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), così come
modificati dall'art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626,
nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del 1994,
nella parte in cui non prevedevano il divieto di fumare nei luoghi di
lavoro chiusi.
Nell’occasione la Corte, dopo avere precisato che,
secondo la sua costante giurisprudenza (sentenze n. 218 del 1994, n. 202
del 1991, nn. 307 e 455 del 1990, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986), la
salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona
ed impone piena ed esaustiva tutela, tanto da operare sia in ambito
pubblicistico che nei rapporti di diritto privato, ha rilevato che la
tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell'individuo a
condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio
questo suo bene essenziale ed implica non solo situazioni attive di
pretesa, ma anche - oltre che misure di prevenzione - il dovere di non
ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute
altrui.
Alla luce di tali considerazioni la Consulta ha, pertanto,
ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale per
l’erroneità del presupposto su cui si fondava l’ordinanza di rimessione
ovvero che “il vigente sistema normativo non offre comunque altri
strumenti idonei a tutelare la salute dei lavoratori così come voluto
dalla Costituzione”.
Ed, infatti, secondo la Corte, “pur non essendo
ravvisabile nel diritto positivo un divieto assoluto e generalizzato di
fumare in ogni luogo di lavoro chiuso, è anche vero che nell'ordinamento
già esistono disposizioni intese a proteggere la salute dei lavoratori da
tutto ciò che è atto a danneggiarla, ivi compreso il fumo passivo. Se
alcune norme prescrivono legislativamente il divieto assoluto di fumare in
speciali ipotesi, ciò non esclude che da altre disposizioni discenda la
legittimità di analogo divieto con riguardo a diversi luoghi e secondo
particolari circostanze concrete; è inesatto ritenere, comunque, che altri
rimedi voluti dal vigente sistema normativo siano inidonei alla tutela
della salute dei lavoratori anche rispetto ai rischi del fumo passivo. Ed
invero, non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41) ad
imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della
salute e dell'integrità fisica dei lavoratori; numerose altre
disposizioni, tra cui la disciplina contenuta nel decreto legislativo n.
626 del 1994, assumono in proposito una valenza decisiva. L'art. 2087 del
codice civile stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare
nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità
del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La
Cassazione (sentenza n. 5048 del 1988) ha ritenuto che tale disposizione
come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente
dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica e pertanto vale a
supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore
di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di
adeguamento di essa al caso concreto. Analogamente gli artt. 1, 4 e 31 del
decreto legislativo del 19 settembre 1994, n. 626, dispongono che il
datore di lavoro, in relazione alla natura dell'attività dell'azienda
ovvero dell'unità produttiva, debba valutare, anche nella sistemazione dei
luoghi di lavoro, i rischi per la sicurezza e per la salute dei
lavoratori, adottare le misure necessarie, e aggiornare le misure di
prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno
rilevanza ai fini della salute e della sicurezza, riaffermando l'obbligo
di "adeguare i luoghi di lavoro alle prescrizioni di sicurezza e di
salute. Con più specifico riferimento alla salubrità dell'aria nei locali
di lavoro chiusi, l'art. 9 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, modificato
dall'art. 16 del decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 242, stabilisce la
necessità che i lavoratori dispongano di aria salubre in quantità
sufficiente, anche ottenuta con impianti di aerazione; impianti che
peraltro devono essere sempre mantenuti in efficienza e devono funzionare
in modo che i lavoratori non siano esposti a correnti d'aria fastidiose. E
all'ultimo comma di detto art. 9 si soggiunge che qualsiasi sedimento che
potrebbe comportare un pericolo per la salute dei lavoratori dovuto
all'inquinamento dell'aria respirata deve essere eliminato rapidamente"
(Corte Cost. n. 399/96).
Secondo la Corte, pertanto, già sulla base
delle disposizioni richiamate, di natura non solo programmatica ma
precettiva, il datore di lavoro deve attivarsi per verificare che in
concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata e per
adottare le misure organizzative sufficienti a conseguire il fine della
protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio costituzionale
dell'art. 32 di talchè la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di
lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure
adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo
passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far
ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio
(Corte Cost. n. 399/96).
L’obbligo di tutela del lavoratore contro i
rischi da fumo passivo sul posto di lavoro è stato, poi, ribadito
dall’art. 51 della legge n. 3/03 che ha imposto il divieto generale di
fumo nei locali chiusi ad eccezione di quelli privati non aperti ad utenti
o al pubblico e a quelli riservati ai fumatori dotati di impianti per la
ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti.
Tale
disciplina è applicabile a partire dal 10 gennaio 2005 (per effetto del
differimento dell’entrata in vigore della norma disposto dall’art. 19 d.l.
n. 266/04) a tutte le amministrazioni dello Stato e, quindi, anche al
Ministero della Giustizia.
Per altro, la mancata emanazione del
regolamento previsto dall’art. 51 comma 4° l. n. 3/03 non preclude alla
normativa in esame di esplicare i suoi effetti anche nei confronti
dell’amministrazione resistente, come, invece, infondatamente dedotto dal
Ministero nella memoria conclusionale, dal momento che, secondo quanto
risulta dal tenore letterale della disposizione in esame, l’adozione della
fonte secondaria non costituisce requisito di operatività del divieto
legislativamente previsto ma solo il presupposto per l’individuazione di
“eventuali ulteriori luoghi chiusi nei quali sia consentito fumare” (fermo
restando che “tale regolamento deve prevedere che in tutte le strutture in
cui le persone sono costrette a soggiornare non volontariamente devono
essere previsti locali adibiti ai fumatori”) in mancanza della quale tali
ulteriori limiti al divieto non si applicano» (T.A.R. Lazio, sez. I quater
29 gennaio 2012 n. 1192).
A differenza della fattispecie decisa da
T.A.R. Lazio, sez. I quater 29 gennaio 2012 n. 1192, deve però ritenersi
che la Direzione della Casa Circondariale di Lucca abbia posto in essere
quanto necessario per ovviare alla problematica del fumo passivo originato
dai detenuti che fumano nelle celle.
Sotto il profilo organizzativo
interno dell’Istituto, risultano, infatti, ben tre ordini/avvisi di
servizio (precisamente si tratta degli ordini di servizio 9 gennaio 2002
n. 1, 10 agosto 2010 n. 11 e n. 2 del 2013) finalizzati all’imposizione
del divieto di fumo in una serie di locali utilizzati da tutta la comunità
carceraria (corridoi, corsie d’ospedale, biblioteche, locali adibiti a
sala riunione; ecc.) e di una serie di prescrizioni ritenute idonee a
ridurre le problematiche derivanti dal fumo nei locali in cui non era
possibile apporre il divieto di fumo (come nelle celle di detenzione,
secondo un’impostazione complessiva condivisa anche da parte
ricorrente).
A differenza della fattispecie decisa da T.A.R. Lazio,
sez. I quater 29 gennaio 2012 n. 1192, le misure organizzative in discorso
non sono poi rimaste lettera morta, ma sono state accompagnate
dall’applicazione di una serie di sanzioni disciplinari (rilevanti anche
ai fini della concessione dei benefici penitenziari) nei confronti dei
detenuti inadempienti (si vedano, al proposito, gli elenchi di sanzioni
disciplinari irrogate nel corso degli anni, contenuti nelle due produzioni
documentali dell’Amministrazione); deve pertanto ritenersi che si tratti
di una disciplina organizzativa che non può essere definita “di facciata”
ma che ha trovato applicazione effettiva (anche se con qualche flessione,
come rilevato nell’ultimo ordine di servizio) e che, soprattutto, è
monitorata e riproposta costantemente dalla Direzione
dell’Istituto.
Sempre con riferimento alle possibili soluzioni
organizzative, deve poi escludersi che sussistesse l’obbligo di istituire
sezioni specializzate cui destinare detenuti (e guardie penitenziarie) non
fumatori; la previsione dell’art. 6, 7° comma del d.P.R. 30 giugno 2000,
n. 230 (regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle
misure privative e limitative della libertà) prevede, infatti,
l’istituzione di reparti per non fumatori, solo nell’ipotesi in cui «le
condizioni logistiche lo consent(a)no» e, nella vicenda concreta, la
Direzione dell’Istituto penitenziario ha più volte rilevato, con
affermazioni sostanzialmente non contestate dai ricorrenti, come le
condizioni logistiche e di sovraffollamento dell’istituto non rendessero
(e non rendano ancora) praticabile l’istituzione di reparti separati per i
non fumatori.
Del resto, anche la giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti dell’uomo (CEDU, IV sez., 3 novembre 2006 n. 36150/13,
Aparicio Benito c Spagna; III sez., 14 settembre 2010 n. 37186/03, Florea
c. Romania) ha rilevato come, in presenza di soluzioni molto differenziate
a disposizione degli Stati, l’istituzione di sezioni per non fumatori nei
luoghi di detenzione non costituisca obbligo derivante dalla
Convenzione.
Per quello che riguarda poi la dotazione impiantistica
idonea a limitare gli effetti di diffusione del fumo (che non possono
essere completamente ovviati dagli accorgimenti contenuti negli ordini di
servizio), appare documentato in atti come siano stati ormai eseguiti e
siano operativi una serie di interventi (motorizzazione elettromeccanica
dei lucernari con comando dal posto di guardia) ritenuti idonei a ridurre
le immissioni di fumo nei corridoi.
L’adeguamento impiantistico è
ritenuto insufficiente dalla difesa dei ricorrenti.
Sotto il profilo
normativo, l’argomentazione non considera però adeguatamente il fatto che
l’art. 51, 2° comma della l. 16 gennaio 2003 n. 3 (come modificato
dall’art. 7 della l. 31 ottobre 2003 n. 306) prevede genericamente
l’installazione «di impianti per la ventilazione ed il ricambio di aria
regolarmente funzionanti» e non di «aspiratori per il fumo» come ritenuto
da parte ricorrente; ancora più specificamente, il d.P.C.M. 23 dicembre
2003 (attuazione dell'art. 51, comma 2 della L. 16 gennaio 2003, n. 3,
come modificato dall'art. 7 della L. 21 ottobre 2003, n. 306, in materia
di tutela della salute dei non fumatori) prevede l’obbligo di dotare i
locali per fumatori «di idonei mezzi meccanici di ventilazione forzata»,
così operando un rinvio ad un giudizio di idoneità che deve essere
ovviamente demandato ad organi tecnici.
Nel caso di specie, l’idoneità
dell’intervento ad eliminare la problematica del fumo passivo nei corridoi
è stata positivamente valutata dagli organi tecnici dell’Amministrazione
penitenziaria (si veda, a questo proposito, la nota 8 giugno 2011 prot. n.
23745.3-2 del Provveditorato Regionale per la Toscana) e dell’A.S.L. (si
veda il verbale dell’ultimo sopralluogo effettuato nell’istituto
penitenziario, ove si evidenzia come si tratti di intervento effettuato su
«indicazione» dell’A.S.L. e, quindi, ritenuto rispondente ad esigenze di
prevenzione; doc. n. 4 del deposito 19 febbraio 2014
dell’Amministrazione); la soluzione ritenuta idonea dagli organi tecnici a
determinare la ventilazione ed il ricambio dell’area nei corridoi non è
stata però contestata dai ricorrenti con valide argomentazioni tecniche
idonee ad evidenziare, con sufficiente approssimazione, l’erroneità o
inidoneità dell’intervento a raggiungere il risultato voluto dalla legge,
ma solo con argomentazioni generiche e non argomentate.
In definitiva,
la domanda di condanna del Ministero della Giustizia «a disporre tutti i
provvedimenti necessari per la tutela della salute dei ricorrenti e ad
adottare tutte le misure a tal fine prescritte dalla normativa vigente»
deve essere rigettata, essendo state già adottate una serie di misure
idonee a ridurre o eliminare la problematica e non avendo i ricorrenti
concretamente specificato quali siano le ragioni tecniche che portano a
ritenere insufficienti gli interventi operati dall’Amministrazione.
Per
quello che riguarda il risarcimento del danno non patrimoniale, la Sezione
deve rilevare come la limitata esposizione al fumo passivo (relativa solo
a una frazione del turno o all’occasionale presenza nei corridoi),
l’ampiezza degli ambienti interessati dal fumo (in almeno due casi su tre
costituita da corridoi di sufficiente larghezza ed ampiezza) e lo stesso
potere/dovere dei ricorrenti di richiedere ai detenuti l’osservanza dei
divieti e delle cautele disposte dalla Direzione costituiscano ragione
sufficiente per escludere che si sia verificata una compromissione della
vita relazionale di tale intensità da determinare il diritto al
risarcimento del danno; del resto, la giurisprudenza più recente in
materia di danno non patrimoniale ha rilevato l’impossibilità di
attribuire rilevanza a comportamenti che non superino una «soglia minima
di tollerabilità» (Cass., civ., sez. VI , 12 settembre 2014, n. 19327;
pen., sez. III, 12 dicembre 2013, n. 5481; T.A.R. Toscana, sez. I 7
novembre 2013 n. 1501) e, nel caso di specie, non risulta che, in dispetto
delle misure organizzative e impiantistiche poste in essere per prevenire
il fenomeno, si sia verificata una situazione tale da superare la normale
soglia di tollerabilità.
La concessione del danno non patrimoniale da
lesione del diritto alla salute richiesta dal ricorrente Sig. -OMISSIS-
trova poi, ostacolo, pur nell’obiettiva dimostrazione della sussistenza di
una malattia dell’apparato respiratorio, nella particolare evoluzione
della carriera dello stesso che ha visto, almeno a partire dall’8 luglio
2002 (data della promozione a Vice Sovrintendente), l’attribuzione di
mansioni importanti la presenza sporadica e non continuativa nei corridoi
interessati dal fenomeno del fumo passivo; essendo cessata in data ormai
risalente la presunta esposizione al fumo passivo, deve ritenersi, anche
senza l’ausilio di approfondimenti tecnici, che la malattia dell’apparato
respiratorio diagnosticata al ricorrente nel 2008 non possa essere
causalmente riportata al servizio svolto nei corridoi della Casa
Circondariale (per la necessità di verificare la sussistenza del nesso di
causalità in materia di danni da fumo passivo, si veda Cons. Stato, ad.
plen. 8 ottobre 2009 n. 5).
Il ricorso deve pertanto essere respinto;
la novità delle questioni trattate permette di procedere alla
compensazione delle spese di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Toscana (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come
in epigrafe proposto, lo respinge, come da motivazione.
Compensa le
spese di giudizio tra le parti.
Manda alla Segreteria di procedere, in
qualsiasi ipotesi di diffusione del provvedimento, all'oscuramento delle
generalità nonchè di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute
delle parti o di persone comunque citate nel provvedimento.
Così
deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 20 novembre 2014
con l'intervento dei magistrati:
Saverio Romano, Presidente
Eleonora
Di Santo, Consigliere
Luigi Viola, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/12/2014