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n. 5-2015 - © copyright |
CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza
30 aprile 2015 n. 70
Presidente Criscuolo, Redattore Sciarra |
ASSISTENZA E PREVIDENZA - PENSIONI - Art. 24, comma 25,
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 - Previsione che per le pensioni
di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS ed inferiore a
tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica
spettante, l'aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a
concorrenza del predetto limite maggiorato - Q.l.c. promosse dal Tribunale
ordinario di Palermo e dalla Corte dei Conti - Lamentata violazione degli
artt. 38, comma 2 e 36, comma 1, Cost. - Illegittimità costituzionale
parziale
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È costituzionalmente illegittimo l’art. 24, comma 25, del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n.
214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente
situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e
2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo
fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per
cento».
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alessandro
CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI,
Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossi dal Tribunale ordinario di
Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, dalla Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due
ordinanze del 13 maggio 2014, e dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014,
rispettivamente iscritte ai nn. 35, 158, 159 e 192 del registro ordinanze
2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 14, 41 e
46, prima serie speciale, dell' anno 2014.
Visti gli atti di
costituzione di C.G. e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale
(INPS), nonché gli atti di intervento di T.G. e del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 marzo 2015
il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Riccardo
Troiano per C.G., Luigi Caliulo e Filippo Mangiapane per l’INPS e
l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione
lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, (r.o. n. 35 del 2014), la Corte
dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due
ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e r.o. n. 159 del 2014), e la
Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con
ordinanza del 25 luglio 2014, (r.o. n. 192 del 2014) hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, del
decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1 della legge 22 dicembre 2011, n.
214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente
situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e
2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo
fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per
cento», in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo
comma, 53 e 117, primo comma, della Costituzione.
Il Tribunale
ordinario di Palermo, sezione lavoro, premette di essere stato adito per
la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a
corrispondere al ricorrente i ratei di pensione maturati e non percepiti
nel biennio 2012-2013, maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria
fino all’effettivo soddisfo, previa dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell’azzeramento della perequazione automatica delle
pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo INPS introdotto dalla
norma censurata.
Il giudice rimettente rileva che la discrezionalità
di cui gode il legislatore nella scelta del meccanismo perequativo diretto
all’adeguamento delle pensioni, fondata sul disposto degli artt. 36 e 38
Cost., ha trovato il proprio meccanismo attuativo nel sistema di
perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, introdotto
dall’art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli
ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale).
Aggiunge che il blocco introdotto dalla normativa censurata reitera,
rendendola più gravosa, la misura di interruzione del sistema perequativo
già a suo tempo sancita dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di
attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e
competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché
ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), che era
limitata ai soli trattamenti pensionistici eccedenti otto volte il
trattamento minimo INPS, nonostante il monito rivolto al legislatore dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 316 del 2010, teso a rimuovere il
rischio della frequente reiterazione di misure volte a paralizzare il
meccanismo perequativo.
Con la misura censurata, secondo il
rimettente, si sarebbe violato l’invito della Corte, mediante azzeramento
della perequazione per i trattamenti pensionistici di più basso importo,
per due anni consecutivi e senza alcuna successiva possibilità di
recupero.
Il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale
(in particolare la sentenza n. 223 del 2012) secondo cui la gravità della
situazione economica, che lo Stato deve affrontare, può giustificare anche
il ricorso a strumenti eccezionali, con la finalità di contemperare il
soddisfacimento degli interessi finanziari con la garanzia dei servizi e
dei diritti dei cittadini, nel rispetto del principio fondamentale di
eguaglianza.
Deduce, quindi, la violazione dell’art. 38, secondo
comma, Cost., poiché l’assenza di rivalutazione impedirebbe la
conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone
l’adeguatezza e dell’art. 36, primo comma, Cost., in quanto il blocco
della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità tra la
pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza
di lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività
lavorativa.
Sostiene, altresì, la lesione del combinato disposto degli
artt. 36, 38 e 3 Cost., poiché la mancata rivalutazione, violando il
principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di
adeguatezza della prestazione previdenziale, altererebbe il principio di
eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in
danno della categoria dei pensionati. Deduce, inoltre, la violazione del
principio di universalità dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. e di
quello di non discriminazione ai fini dell’imposizione e di parità di
prelievo a parità di presupposto di imposta di cui al combinato disposto
degli artt. 3, 23 e 53 Cost., poiché, indipendentemente dal nomen iuris
utilizzato, la misura adottata si configurerebbe quale prestazione
patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in quanto doverosa, non
connessa all’esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e
collegata esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un
presupposto economicamente rilevante.
2.– La Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna, che ha sollevato con due
distinte ordinanze la questione di legittimità costituzionale del comma 25
dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riferisce che il
ricorrente nel giudizio principale lamentava la mancata rivalutazione
automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione della
norma oggetto di censura, per effetto della esclusione del meccanismo di
perequazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il
trattamento minimo INPS.
Evidenzia, alla luce della giurisprudenza
costituzionale, l’illegittimità delle frequenti reiterazioni di misure
intese a paralizzare il meccanismo perequativo, sottolineando, altresì, il
carattere peggiorativo della norma censurata rispetto all’art.1, comma 19,
della legge n. 247 del 2007, così determinando il blocco dell’adeguamento
dei trattamenti superiori a tre volte, anziché a otto volte, rispetto al
trattamento minimo INPS, avuto anche riguardo alla vicinanza temporale
rispetto all’ultimo azzeramento attuato, nonché alla mancata previsione di
un meccanismo di recupero.
In particolare, secondo il giudice a quo,
il vizio della norma censurata emerge ove si consideri che la natura di
retribuzione differita delle pensioni ordinarie è stata ormai
definitivamente riconosciuta dalla Corte costituzionale (viene richiamata
la sentenza n. 116 del 2013). Il maggior prelievo tributario rispetto ad
altre categorie risulta, con più evidenza, discriminatorio, poiché grava
su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni
lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita
lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile ridisegnare sul
piano sinallagmatico il rapporto di lavoro, con conseguente lesione degli
artt. 3 e 53 Cost.
Ad avviso della Corte rimettente, il mancato
adeguamento delle retribuzioni equivale a una loro decurtazione in termini
reali con effetti permanenti, ancorché il blocco sia formalmente
temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero, con
conseguente violazione degli artt. 3, 53, 36 e 38 Cost. Tale blocco incide
sui pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed impossibilità di
adeguamento del reddito, come evidenziato dalla Corte costituzionale,
secondo la quale i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non
hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis
rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza
dell’art. 53 Cost., che non consente trattamenti in peius di determinate
categorie di redditi da lavoro (viene richiamata ancora la sentenza n. 116
del 2013).
La Corte dei conti aggiunge che l’introduzione di
un’imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, viola il
principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta
economicamente rilevante e che, quindi, il blocco della perequazione si
traduce in una lesione del combinato disposto di cui agli artt. 3 e 53
Cost., in quanto la norma censurata limita i destinatari della stessa
soltanto ad una “platea di soggetti passivi”, cioè ai percettori del
trattamento pensionistico, in violazione del principio della universalità
della imposizione.
Essa sottolinea, inoltre, come l’intervento
legislativo evidenzi il carattere sempre più strutturale del meccanismo di
azzeramento della rivalutazione e non quello di misura eccezionale, non
reiterabile, senza osservare il monito espresso dalla Corte costituzionale
nella sentenza n. 316 del 2010, con riguardo ai gravi rischi di
irragionevolezza e violazione della proporzionalità derivanti dalla
frequente reiterazione delle misure volte a paralizzare il meccanismo di
perequazione automatica, in quanto le pensioni, anche di maggior
consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai
mutamenti del potere di acquisto della moneta.
Deduce, poi, come la
norma censurata si presenti lesiva anche del principio di affidamento del
cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3 Cost., giacché
i pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa le proprie
disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le aspettative
di vita di questi ultimi .
Sostiene, quindi, la palese
irragionevolezza del provvedimento censurato e l’irrazionalità dello
stesso per eccedenza del mezzo rispetto al fine, dovendo provvedersi ad
esigenze quali la «contingente situazione finanziaria» richiamata dal
legislatore mediante la fiscalità ordinaria, secondo il disposto di cui
all’art. 53 Cost.
Invoca, infine, sulla base dell’art. 117, primo
comma, Cost., quale parametro interposto, la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, richiamando poi il principio della certezza del
diritto, quale patrimonio comune degli Stati contraenti, nonché il diritto
dell’individuo alla libertà e alla sicurezza di cui all’art. 6 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il diritto di
non discriminazione che include anche quella fondata sul patrimonio (art.
21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e
indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul
piano giuridico, economico e sociale (art. 33) ed il diritto di accesso
alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali di cui all’art.
34 della medesima Carta.
3.– La Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Liguria, premette che la ricorrente nel
giudizio principale era titolare di pensione diretta e di pensione
indiretta del Fondo dipendenti INPS e che l’importo complessivo dei due
trattamenti era stato mantenuto fermo anche negli anni 2012 e 2013, in
applicazione della norma impugnata, aggiungendo che la parte aveva agito
per la condanna dell’INPS al pagamento delle quote di trattamento non
corrisposte, previo promovimento della questione di legittimità
costituzionale della norma censurata.
Nel merito, osserva la Corte
rimettente che, pur avendo la Corte costituzionale ammesso, in linea di
principio, la compatibilità costituzionale di disposizioni legislative che
incidano su situazioni soggettive attinenti ai rapporti di durata,
facendosi carico di esigenze di contenimento della spesa pubblica, la
stessa ha, al contempo, invitato il legislatore a salvaguardare il
principio di ragionevolezza nelle manovre economiche adottate, a tutela
degli interessi dei cittadini (viene richiamata la sentenza n. 316 del
2010).
Nel caso del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011,
come convertito, secondo il giudice a quo difetterebbero i presupposti
segnalati dalla giurisprudenza costituzionale, atteso che, in primo luogo,
l’intervento non avrebbe il carattere realmente temporaneo voluto dal
giudice delle leggi, perché esteso per un arco temporale di due anni.
Inoltre, esso non riguarderebbe soltanto le pensioni più alte, incidendo,
invece, sui trattamenti pensionistici di più basso importo, superiori ad
euro 1.405,05 lordi per il 2012 ed a euro 1.441,56 lordi per il 2013. Per
tali trattamenti, secondo la Corte rimettente, la pressante esigenza di
rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario, che garantisce
il soddisfacimento degli stessi bisogni alimentari, sarebbe
irrimediabilmente frustrata.
In particolare, lo sganciamento dai
meccanismi di adeguamento automatico dei trattamenti pensionistici
superiori a tre volte il minimo INPS, per un tempo considerevole,
minerebbe il sistema di adeguamento costituzionalmente rilevante, con
violazione dei principi di cui agli artt. 36 e 38 Cost.
Come ricordato
dal giudice rimettente, la Corte costituzionale ha affermato (viene citata
la sentenza n. 497 del 1988) che la protezione così garantita ai
lavoratori postula requisiti di effettività, tanto più che essa si collega
alla tutela dei diritti fondamentali della persona sanciti dall’art. 2
Cost., mentre il perdurante necessario rispetto dei principi di
sufficienza ed adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur
nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie
esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di
individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo
adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della
vita (il richiamo è alla sentenza n. 30 del 2004).
Il Collegio
rimettente osserva, quindi, che la Corte costituzionale, pur avendo
riconosciuto, con la sentenza n. 316 del 2010, la legittimità di
temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate alle pensioni
di importo più elevato, ha, al contempo, precisato che la ragionevolezza
complessiva del sistema dovrà essere apprezzata nel quadro del
contemperamento di interessi di rango costituzionale, alla luce dell’art.
3 Cost. Con ciò si intende evitare che una generalizzata esigenza di
contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque
valido motivo per determinare la compromissione «di diritti maturati o la
lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche
collettivi» (viene citata la sentenza n. 92 del 2013).
Deduce, poi, il
contrasto con gli artt. 3, 23, 53 Cost., sollevando d’ufficio la relativa
questione, per essere stato imposto con la norma censurata un sacrificio
cospicuo ad una sola categoria di cittadini, incorrendo nella violazione
del principio di eguaglianza, a causa della disparità di trattamento che
può essere ravvisata nella differente previsione di prestazioni
patrimoniali a carico di soggetti titolari di redditi analoghi.
4.– Si
è costituito in giudizio (r.o. n. 35 del 2014) C.G., ricorrente nel
giudizio principale pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Palermo,
sezione lavoro, instando per la declaratoria di illegittimità
costituzionale della disposizione legislativa censurata. Sostiene, in
particolare, il pregiudizio per l’adeguatezza delle prestazioni
previdenziali, la quale imporrebbe la costante perequazione della pensione
al mutamento dei valori monetari. Aggiunge il difetto di qualsivoglia
modalità di recupero della somma oggetto di blocco della perequazione per
il biennio 2012-2013 e la conseguente violazione degli artt. 3, 36, primo
comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il criterio adottato sarebbe
irragionevole, lesivo del principio di proporzionalità tra pensione e
retribuzione, nonché del principio di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost.
5.– Si è, altresì, costituito in tutti i giudizi, (r.o. n.n. 35, 158,
159 e 192 del 2014), l’INPS, chiedendo che siano dichiarate manifestamente
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, alla luce
della giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta alla
discrezionalità del legislatore, in conformità a un ragionevole
bilanciamento dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un
adeguato trattamento pensionistico alla stregua delle risorse disponibili,
fatta salva la garanzia di salvaguardia delle esigenze minime di
protezione della persona.
L’Istituto osserva, al riguardo, che la
norma censurata si limita a sospendere l’operatività del meccanismo
rivalutativo esistente per un breve orizzonte temporale e a salvaguardare
le posizioni più deboli sotto il profilo economico, evidenziando, altresì,
come la Corte, con la sentenza n. 316 del 2010, abbia già deciso,
respingendola, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 ed aggiungendo che la mancata
perequazione per un tempo limitato della pensione non incide sulla sua
adeguatezza, in particolare per le pensioni di importo più elevato.
6.– Ha proposto intervento ad adiuvandum T.G., premettendo di essere
iscritto al Fondo pensioni del personale delle Ferrovie dello Stato spa,
di non aver goduto, in forza dell’applicazione della norma di cui al comma
25 dell’art. 24, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, degli aumenti
di perequazione automatica per la parte di pensione superiore a tre volte
il trattamento minimo e di aver depositato analogo ricorso per le proprie
pretese pensionistiche dinanzi alla sezione giurisdizionale del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, allo scopo di sentir dichiarato il
proprio diritto alla perequazione automatica.
Assume, in particolare,
a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, il difetto di tutela
per chi non abbia partecipato al giudizio principale, ma versi nelle
medesime condizioni delle parti e, nel merito, la violazione degli artt.
38, secondo comma, 36, primo comma, e 3 Cost., nonché, infine, dell’art.
53 e del combinato disposto degli artt. 2, 23 e 53 Cost.
7.– E’
intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per
l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della
questione sollevata.
La difesa dello Stato eccepisce preliminarmente
il difetto della previa domanda amministrativa, presupposto dell’azione,
la cui mancanza renderebbe la domanda improponibile e adduce l’esistenza
di una temporanea carenza di giurisdizione, rilevabile in qualsiasi stato
e grado del giudizio.
L’Avvocatura generale rileva, in ogni caso, la
manifesta infondatezza della questione riguardo a tutti i parametri
segnalati e richiama la giurisprudenza costituzionale, nonché il principio
dalla stessa espresso, secondo cui la mancata perequazione della pensione
per un periodo contenuto non incide sull’adeguatezza del trattamento
pensionistico.
8.– All’udienza pubblica, le parti costituite hanno
insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese
scritte.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione
lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013 (r.o. n. 35 del 2014), la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia–Romagna, con due
ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e n. 159 del 2014) e la Corte
dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza
del 25 luglio 2014 (r.o. n. 192 del 2014), dubitano della legittimità
costituzionale del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in
cui, per gli anni 2012 e 2013, limita la rivalutazione monetaria dei
trattamenti pensionistici nella misura del 100 per cento, esclusivamente
alle pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento
minimo INPS, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 23, 36, primo
comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma della Costituzione,
quest’ultimo in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4
novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848.
Tutti i giudici rimettenti ritengono che il comma 25 dell’art.
24 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3,
36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata
rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della
prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di
eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in
danno della categoria dei pensionati.
La norma censurata recherebbe
anche un vulnus agli artt. 2, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si
configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente
tributaria, in violazione del principio dell’universalità dell’imposizione
a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola
categoria di contribuenti.
La sola Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna censura, infine, la
predetta disposizione, anche con riferimento all’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli artt. 6, 21, 25, 33 e
34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
2.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione
a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga
misura coincidenti.
Deve, pertanto, esser disposta la riunione dei
giudizi al fine di un’unica pronuncia (ex plurimis, sentenza n. 16 del
2015, ordinanza n. 164 del 2014).
Nel giudizio promosso dal Tribunale
ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha spiegato intervento ad adiuvandum
T.G., che non è parte nel procedimento principale, assumendo di aver
proposto analogo ricorso dinanzi alla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Lazio, allo scopo di sentir riconosciuto il
proprio diritto alla perequazione automatica del trattamento
pensionistico, per gli anni 2012 e 2013, negato dall’INPS.
Secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte (per tutte, sentenza n. 216 del
2014), possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori
di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di
ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura.
La
circostanza che l’istante sia parte in un giudizio diverso da quello
oggetto dell'ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata
analoga questione di legittimità costituzionale, non è sufficiente a
rendere ammissibile l'intervento (ex plurimis, ordinanza n. 150 del 2012).
Conseguentemente, poiché T.G. non è stato parte del giudizio
principale nel corso del quale è stata sollevata la questione di
legittimità costituzionale oggetto dell'ordinanza iscritta al n. 35 del
reg. ord. 2014, né risulta essere titolare di un interesse qualificato,
inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio, l’intervento dallo stesso proposto va dichiarato inammissibile.
3.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione
Emilia-Romagna, nelle due ordinanze di rimessione, dubita della
legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del
2011, come convertito dalla legge n. 214 del 2011, in riferimento, fra
l’altro all’art. 117, primo comma, Cost. e invoca genericamente, quale
parametro interposto, la CEDU, per poi richiamare, più specificamente, una
serie di disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea.
In particolare, sono evocati, oltre al principio
della certezza del diritto quale «patrimonio comune agli Stati
contraenti», anche « gli altri diritti garantiti dalla Carta: il diritto
dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non
discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio”, (art.
21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed
indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul
piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle
prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)».
La
questione, come prospettata, è inammissibile.
Va preliminarmente
rilevato che questa Corte ritiene configurarsi un’ipotesi di
inammissibilità della questione, qualora il giudice non fornisca una
motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza della stessa,
limitandosi a evocarne i parametri costituzionali, senza argomentare in
modo sufficiente in ordine alla loro violazione (ex plurimis, ordinanza n.
36 del 2015).
In tale ipotesi, il difetto nell’esplicitazione delle
ragioni di conflitto tra la norma censurata e i parametri costituzionali
evocati inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime (fra le
altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità delle
stesse.
Nel caso di specie, la Corte rimettente si limita a richiamare
l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU «come
interpretata dalla Corte di Strasburgo»
senza addurre alcun elemento a
sostegno di tale asserito vulnus, in particolare con riferimento alle
modalità di incidenza della norma oggetto di impugnazione sul parametro
costituzionale evocato.
Inoltre il richiamo alla CEDU si rivela, nella
sostanza, erroneo, atteso che esso risulta affiancato dal riferimento a
disposizioni normative riconducibili alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. Quest’ultima fonte, come risulta dall’art. 6, comma 1
del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona,
firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2
agosto 2008, n. 130, ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Pertanto, l’esame dell’ordinanza di rimessione non consente di
evincere in qual modo le norme della CEDU siano compromesse, per effetto
dell’applicazione della disposizione oggetto di censura.
Una tale
carenza argomentativa costituisce motivo di inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale, in quanto preclusiva della
valutazione della fondatezza.
Il giudice a quo non fornisce
sufficienti elementi che consentano di vagliare le modalità di incidenza
della norma censurata sul parametro genericamente invocato ed omette di
allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale
incidenza, richiamando erroneamente disposizioni normative afferenti al
diritto primario dell’Unione europea.
4.– La questione di
costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in
relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, non è
fondata.
Tutte le ordinanze di rimessione affermano che, nel caso di
specie, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura di
azzeramento della rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013,
relativa ai trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento
minimo INPS, configurerebbe una prestazione patrimoniale di natura
tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità
di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria
di contribuenti. Nell’imporre alle parti di concorrere alla spesa pubblica
non in ragione della propria capacità contributiva, essa violerebbe il
principio di eguaglianza.
I rimettenti richiamano, in particolare, le
decisioni n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012 nella parte in cui si afferma
che la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con
criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di
imposizione tributaria, ma esige un indefettibile raccordo con la capacità
contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di
progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo
tributario, del principio di eguaglianza (in tal senso, fra le più
recenti, sentenza n. 10 del 2015). Ciò si collega al compito di rimozione
degli ostacoli economico-sociali che di fatto limitano la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà
politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione
(ordinanza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n. 223 del
2012).
L’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura,
tuttavia, sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura
tributaria, atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale
imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere
ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario.
La
giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 219 e n. 154 del
2014) ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della
fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta,
in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale
a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una
modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un
presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta
decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.
Un
tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso
alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad
uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008).
Tale indice deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione
tributaria (fra le prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89
del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964).
Il comma 25 dell’art. 24
del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, che dispone per un biennio il
blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici
superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, non riveste, quindi,
natura tributaria, in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a
carico del titolare di un trattamento pensionistico.
In base ai
criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali,
in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa
natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto
per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a
mancare il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio
dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via
indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un
risparmio di spesa.
Il difetto dei requisiti propri dei tributi e, in
generale, delle prestazioni patrimoniali imposte, determina, quindi, la
non fondatezza delle censure sollevate in riferimento al mancato rispetto
dei principi di progressività e di capacità contributiva.
5.– La
questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost. è fondata.
La perequazione automatica, quale
strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della
moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento
alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza
sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che
le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo.
Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli
dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose
modificazioni.
Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153
(Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza
sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo
delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di
agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del
costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle
retribuzioni dei lavoratori dell’industria.
Con l’art. 11, comma 1,
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il
riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici,
a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla
cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di
perequazione automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul
valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di
operai ed impiegati. Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione
dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un
collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita
nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti
potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione
all’andamento dell’economia.
Il meccanismo di rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici governato dall’art. 34, comma 1, della legge
23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i trattamenti
pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che
tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di
inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di
rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in
funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico
dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione
automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura
proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto
all’ammontare complessivo.
Tuttavia, l’art 69, comma 1, della legge 23
dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), con riferimento al
meccanismo appena illustrato di aumento della perequazione automatica,
prevede che esso spetti per intero soltanto per le fasce di importo dei
trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS.
Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a
cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per i
trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa
impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a
conferma di un orientamento che predilige la tutela delle fasce più
deboli. Ad esempio, l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n.
81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con
modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127,
prevede, per il triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per
le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS.
In conclusione, la disciplina generale che si ricava dal complesso
quadro storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più
basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche
inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle
pensioni.
6.– Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo,
affidate a scelte discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel
corso degli anni orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le
attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa.
L’art. 2 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti
in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché
disposizioni fiscali) previde che, in attesa della legge di riforma del
sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa
l’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento o di accordi
collettivi, che introducesse aumenti a titolo di perequazione automatica
delle pensioni previdenziali ed assistenziali, pubbliche e private, ivi
compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti del settore
pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle rendite
a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia, con
l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384,
recante misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico
impiego, nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti
della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco
della perequazione, bensì quale misura di contenimento della
rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in
riferimento al tasso di inflazione programmata.
In seguito, l’art. 11,
comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di
finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una tantum
disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed
inflazione reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2
della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente
previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore
del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento
parziale della dinamica perequativa.
Dopo l’entrata in vigore del
sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge 27
dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della
finanza pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione
automatica, per l’anno 1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa
Corte con ordinanza n. 256 del 2001, ha limitato il proprio campo di
applicazione ai soli trattamenti di importo medio - alto, superiori a
cinque volte il trattamento minimo.
Il blocco, introdotto dall’art.
24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito,
ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1, comma 19, della
legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23
luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e
la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e
previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo
della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a
otto volte il trattamento minimo INPS.
Si trattava – come si evince
dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio dei
ministri il 13 ottobre 2007 – di una misura finalizzata a concorrere
solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di
anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al
trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a
decorrere dal 1° gennaio 2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme
in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza
pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione
stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza
obbligatoria).
L’azzeramento della perequazione, disposto per effetto
dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, prima citata, è stato
sottoposto al vaglio di questa Corte, che ha deciso la questione con
sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia questa Corte ha posto in
evidenza la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure
nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e
adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento,
per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato
(superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS).
Al contempo,
essa ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a
tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente
reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione
con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si
afferma, infatti, che «[…] le pensioni, sia pure di maggiore consistenza,
potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti
del potere d’acquisto della moneta».
7.– L’art. 24, comma 25, del d.l.
n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di censura nel presente
giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra
denominata “salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della
contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito
dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per
gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di
importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella
misura del cento per cento.
Per effetto del dettato legislativo si
realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a
tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo
superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il
blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di
importo superiore a euro 1.217,00 netti.
Tale meccanismo si discosta
da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma 4, della legge 28
febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato dall’art.
11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il
riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici,
a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non
discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì
tra fasce di importo.
Secondo la normativa antecedente, infatti, la
percentuale di aumento si applicava sull'importo non eccedente il doppio
del trattamento minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti. Per
le fasce di importo comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento
minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento. Per le fasce di importo
superiore al triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al
75 per cento.
Le modalità di funzionamento della disposizione
censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi
e non sulle fasce di importo. Esse trovano un unico correttivo nella
previsione secondo cui, per le pensioni di importo superiore a tre volte
il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della
quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione è
comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.
La norma censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle
osservazioni rivolte al Ministro del lavoro e delle politiche sociali
(Camera dei Deputati, Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione
del 6 dicembre 2011), ha determinato la sostituzione della originaria
formula. Quest’ultima prevedeva l’azzeramento della perequazione per tutti
i trattamenti pensionistici di importo superiore a due volte il
trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro 946,00. Il Ministro chiarì
nella stessa audizione che la misura da adottare non confluiva nella
riforma pensionistica, ma era da intendersi quale «provvedimento da
emergenza finanziaria».
La disposizione censurata ha formato oggetto
di un’interrogazione parlamentare (Senato della Repubblica, seduta n. 93,
interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 – 00321) rimasta inevasa,
in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere la revisione del
provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale.
Dall’excursus storico compiuto traspare che la norma oggetto di
censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione
precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide
anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato.
Il
provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla
legislazione ad esso successiva.
L’art. 1, comma 483, lettera e),
della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio 2014-2016,
una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione
automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il
meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con
l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il
trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di
legge originario le percentuali sono state, peraltro, parzialmente
modificate.
Nel triennio in oggetto la perequazione si applica nella
misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a
tre volte il trattamento minimo, del 95 per cento per i trattamenti di
importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a
quattro volte il trattamento minimo del 75 per cento per i trattamenti
oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento
minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o
inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per il 2014 il
blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di importo
superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna dunque a
proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di
progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità
e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza
conferma la singolarità della norma oggetto di censura.
8.–
Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che
la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento
di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di
adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si
presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della
retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante
giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale
retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza
n. 116 del 2013).
Per le sue caratteristiche di neutralità e
obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei
suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone,
senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del
legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum
di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi
ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38,
secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in
ragione delle finalità che perseguono.
La ragionevolezza di tali
finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza
sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da
evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti
pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile
quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità
e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e
nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma,
Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore,
con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli
(fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto
dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto
più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra
quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza
libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.
Non a caso,
fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura
sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una
particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che
proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento
del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel
prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta»,
senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il
livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al
legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale,
dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del
1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975;
ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost.
«consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di
quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del
1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).
Il
legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori
costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento
pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta
salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della
persona» (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un
non sopportabile scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle
retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della
ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993).
Al legislatore spetta,
inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante
adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così è
avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in
maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto
indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva
del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e,
dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38,
secondo comma, Cost.
Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così
come delineato dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi
contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.,
circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte
all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.
9.–
Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo
perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il
minimo INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n.
247 del 2007), questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata,
consistente nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare
l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal
1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione
di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004,
n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale
degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con
l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010).
In quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati
violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo
comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora
impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano «margini di
resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo». L’esigenza
di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa
per esse meno pressante.
Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non
violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione
automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni
superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un
trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a
quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più
modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita
da questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura
decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La
scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio
redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio
solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di
accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di
eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni
disomogenee.
La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche
superato le censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che
non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo
rallentamento della dinamica perequativa delle pensioni di valore più
cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al dovere di solidarietà,
hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della
rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte
superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza», secondo
questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione.
La
richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo
indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione
di misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti
tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e
proporzionalità», poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di
tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una
difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni.
Questa Corte si
era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di
dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura
notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della
prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di
interesse generale (sentenza n. 349 del 1985).
Deve rammentarsi che,
per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni
eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se
limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive
rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario,
bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già
stato intaccato.
10.– La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del
d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e
adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano
stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con
conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e
con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite
dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria
attività» (sentenza n. 349 del 1985).
Non è stato dunque ascoltato il
monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.
Si
profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega
il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le
più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del
1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un
corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un
risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al
fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che
potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte»
(sentenza n. 226 del 1993).
La disposizione concernente l’azzeramento
del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l.
201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la
«contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno
complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui
diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano
interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge
22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione
tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17,
comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di
contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta
il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.).
L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di
trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di
acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il
diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto,
costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome
di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque,
intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale,
fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del
trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36,
primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.).
Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non
esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui
all’art. 3, secondo comma, Cost.
La norma censurata è, pertanto,
costituzionalmente illegittima nei termini esposti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile
l’intervento di T.G.;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In
considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione
automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito
dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è
riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti
pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento
minimo INPS, nella misura del 100 per cento»;
3) dichiara non fondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del
d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento agli
artt. 2, 3, 23 e 53, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Palermo, sezione lavoro, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale
per la Regione Emilia-Romagna e dalla Corte dei Conti, sezione
giurisdizionale per la Regione Liguria, con le ordinanze indicate in
epigrafe;
4) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come
convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione, in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione
Emilia-Romagna, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
10 marzo 2015.
Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2015.
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