REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
nel giudizio di legittimità costituzionale degli
artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Liguria 31 marzo 2014, n. 6
recante «Disposizioni in materia di esercizio di attività professionale da
parte del personale di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina
delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della
riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica), e
successive modificazioni e integrazioni», promosso dal Presidente del
Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 30 maggio-4 giugno 2014,
depositato in cancelleria il 5 giugno 2014 ed iscritto al n. 37 del
registro ricorsi 2014.
Visto l’atto di costituzione della Regione
Liguria;
udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2015 il Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato dello Stato Fabrizio
Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Emanuela
Romanelli per la Regione Liguria.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso spedito per la notifica il 30
maggio 2014, ricevuto dalla resistente il successivo 4 giugno e depositato
nella cancelleria di questa Corte il 5 giugno 2014 (reg. ric. n. 37 del
2014), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art.
117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Liguria 31
marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di esercizio di attività
professionale da parte del personale di cui alla legge 10 agosto 2000, n.
251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche
della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione
ostetrica) e successive modificazioni e integrazioni».
La legge
regionale censurata, al dichiarato scopo di assicurare una più efficace e
funzionale organizzazione dei servizi sanitari regionali, prevede che il
personale sanitario non medico di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251
(Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della
riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica)
possa svolgere attività libero-professionale intramuraria in strutture
sanitarie regionali, sia «singolarmente», sia anche in forma «allargata»
in strutture sanitarie diverse da quella di afferenza (art. 1, comma
1).
La concreta disciplina dell’organizzazione e delle modalità di
svolgimento di tale attività è demandata alla Giunta regionale della
Liguria che dovrà adottare entro novanta giorni dall’entrata in vigore
della legge una direttiva vincolante (art. 1, comma 2).
Ritiene il
ricorrente che tali previsioni violino l’art. 117, terzo comma Cost. in
quanto si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali nella
materia di «tutela della salute». L’esercizio della libera professione
intramuraria sarebbe stata prevista dal legislatore statale esclusivamente
per i dirigenti medici e i medici dipendenti dal Servizio sanitario
nazionale e solo a particolari condizioni, al fine di assicurare un
equilibrio tra attività istituzionale e libera professione. Infatti,
l’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in
materia di finanza pubblica) ha introdotto il principio della esclusività
del rapporto di lavoro del personale medico con il servizio sanitario
nazionale e la sua incompatibilità con altro rapporto di lavoro
dipendente, con il rapporto convenzionale, nonché con l’esercizio di altra
attività o con la titolarità o partecipazione di quote di imprese che
possano determinare un conflitto di interessi con il servizio
sanitario.
Osserva ancora l’Avvocatura generale come l’art. 1, comma 5,
della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica) ha stabilito l’incompatibilità tra attività
libero-professionale intramuraria ed extramuraria nonché il divieto di
attività libero-professionale extra moenia all’interno delle strutture
sanitarie pubbliche diverse da quelle di appartenenza o presso strutture
sanitarie private. Inoltre, l’art. 15-quater del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a
norma dell’articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto
dall’art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la
razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo
1 della L. 30 novembre 1998, n. 419), ha stabilito che i dirigenti
sanitari il cui contratto di lavoro sia stato stipulato successivamente al
31 dicembre 1998, ovvero che, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n.
229 del 1999, abbiano optato per l’esercizio di attività
libero-professionale intramuraria, siano sottoposti al rapporto di lavoro
esclusivo con il Servizio sanitario nazionale.
La disposizione in
parola, a seguito delle modifiche introdotte dal decreto-legge 29 marzo
2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo
per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26
maggio 2004, n. 138, ha, inoltre, previsto la possibilità per i dirigenti
medici di optare per il rapporto di lavoro non esclusivo mediante
richiesta da presentarsi entro il 30 novembre di ciascun anno.
Ancora,
l’art. 15-quinquies, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 dispone che
l’attività libero-professionale intramuraria non debba comportare un
volume di prestazioni superiore a quello assicurato per l’attività
istituzionale e, a tal fine, prevede appositi controlli per accertare
eventuali violazioni di tale limite. Analogamente, l’art. 22-bis, comma 4,
del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il
rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di
contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla
legge 4 agosto 2006, n. 248, ha affidato alle Regioni i controlli sullo
svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria da parte dei
dirigenti medici al fine di verificare il corretto equilibrio di tale
attività con quella istituzionale.
Infine, l’art. 1 della legge 3
agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività
libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria),
come modificato dal decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni
urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello
di tutela della salute) convertito, con modificazioni, dalla legge 8
novembre 2012, n. 189 ha demandato alle Regioni l’assunzione di iniziative
idonee al fine di individuare gli spazi necessari all’esercizio della
libera professione intramuraria e di realizzare gli interventi di
ristrutturazione edilizia necessari a tale scopo.
Dalle disposizioni
richiamate emergerebbe, ad avviso del ricorrente, che il legislatore
statale ha disciplinato l’esercizio della libera professione intramuraria
«quale specificità prevista esclusivamente per i dirigenti medici e i
medici dipendenti del Ssn e solo a particolari condizioni, al fine di
salvaguardare un equilibrato rapporto tra attività istituzionale e
libero-professionale».
Inoltre, il rapporto di lavoro del personale
medico sarebbe improntato ai principi dell’esclusività e
dell’incompatibilità con altro rapporto di lavoro dipendente, con altro
rapporto di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale,
nonché con l’esercizio di altra attività.
L’attività
libero-professionale intra moenia costituirebbe una deroga al principio di
esclusività del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, la
quale può essere giustificata solo alla luce di un equilibrato
bilanciamento tra l’interesse allo svolgimento dell’attività
libero-professionale e quello dello Stato a garantire imparzialità,
efficacia ed efficienza delle funzioni preordinate alla tutela della
salute. Proprio l’esigenza di assicurare tale contemperamento renderebbe
necessaria l’adozione di una disciplina uniforme sull’intero territorio
nazionale, anche sotto il profilo soggettivo, della individuazione, cioè,
dei soggetti legittimati a svolgere attività
libero-professionale.
Premesso che la Corte costituzionale ritiene
oramai pacificamente che la disciplina della professione sanitaria
intramuraria rientra nella materia concorrente «tutela della salute» (sono
richiamate le sentenze n. 301 del 2013, n. 371 del 2008 e n. 181 del
2006), l’Avvocatura generale sostiene che l’individuazione dei soggetti
abilitati allo svolgimento di attività intramuraria costituirebbe
enunciazione di un principio fondamentale della materia. Tale conclusione
troverebbe conferma nell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 il
quale stabilisce che le disposizioni in esso contenute costituiscono
enunciazione di principi fondamentali, ai sensi dell’art. 117
Cost.
Troverebbe, altresì, conferma nelle altre disposizioni statali
richiamate nel ricorso dalle quali emergerebbe come il legislatore
nazionale abbia creato «un organico sistema di esercizio dell’attività
libero professionale intramuraria incentrato sulle figure del dirigente
medico e del medico dipendente del Ssn». D’altra parte, la individuazione
delle categorie professionali ammesse a svolgere attività intra moenia,
richiedendo l’individuazione di un equilibrio tra le opposte istanze di
svolgimento della professione e di esclusività del rapporto con il
Servizio sanitario nazionale, sarebbe strettamente funzionale alla tutela
della salute (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 50 del 2007).
Coerentemente con tale assetto, la legislazione statale consentirebbe al
personale di cui alla legge n. 251 del 2000 unicamente il lavoro intra
moenia d’équipe.
La legge regionale impugnata, pertanto, intervenendo a
disciplinare il profilo soggettivo dell’attività libero professionale
intramuraria, inciderebbe su un ambito riservato alla competenza del
legislatore statale.
1.2.– Il ricorrente individua un ulteriore profilo
di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. n.
6 del 2014, nella parte in cui consente al personale sanitario non medico
lo svolgimento di attività libero-professionale «anche in forma
intramuraria allargata, presso le Aziende sanitarie locali, gli Istituti
di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) e gli altri enti
equiparati». Tale disposizione contrasterebbe con l’art. 1 della legge n.
120 del 2007 in base al quale devono essere le strutture sanitarie a
rendere possibile l’esercizio dell’attività libero-professionale
intramuraria attraverso l’individuazione di appositi spazi per lo
svolgimento di tale attività. Solo in via residuale, e previa
autorizzazione della Regione, è prevista la possibilità di procedere
all’acquisto o alla locazione di spazi presso strutture sanitarie
autorizzate non accreditate ovvero presso altri soggetti pubblici.
Tale
disposizione costituirebbe un principio fondamentale nella materia della
tutela della salute dal momento che questa Corte ha affermato che è da
ritenere vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto
specifico e dettagliato, sia «da considerare per la finalità perseguita,
in “rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” con le
norme-principio che connotano il settore» (è richiamata la sentenza n. 301
del 2013).
L’art. 1 della legge reg. n. 6 del 2014, in contrasto con
tale previsione, consentirebbe al personale non medico di cui alla legge
n. 251 del 2000 di svolgere attività intramuraria anche presso strutture
diverse da quella di appartenenza, contravvenendo al modello delineato dal
legislatore statale che pone a carico della struttura di appartenenza il
compito di individuare gli spazi da assegnare all’attività intra
moenia.
1.3.– Infine, il ricorrente, rilevata la inscindibile
connessione dell’ art. 1, commi 2 e 3 e degli artt. 2 e 3 con l’art. 1,
comma 1, eccepisce l’illegittimità costituzionale anche di tali
disposizioni per i medesimi motivi sopra indicati.
2.– Si è costituita
in giudizio la Regione Liguria la quale ha chiesto il rigetto del ricorso
evidenziando come la legge impugnata troverebbe fondamento nell’esigenza
di fronteggiare la forte carenza di professionisti infermieri e tecnici
sanitari di radiologia medica, della prevenzione, delle cure
riabilitative, della ostetricia e degli altri operatori delle professioni
sanitarie non mediche, carenza che si ripercuoterebbe sulla adeguata
erogazione di cure a livello territoriale. La legge impugnata, ad avviso
della difesa regionale, si collocherebbe nella materia della
«organizzazione sanitaria» di competenza residuale delle Regioni, ai sensi
dell’art. 117, quarto comma, Cost. (sono richiamate, al riguardo, le
sentenze di questa Corte n. 162 e n. 105 del 2007; n. 510 del
2002).
Anche laddove si volesse ritenere che la materia attinta sia
quella della «tutela della salute», non vi sarebbe violazione dei principi
fondamentali della legislazione statale. La circostanza che il personale
sanitario non medico non sia espressamente previsto tra i soggetti
legittimati allo svolgimento di attività intramuraria non attesterebbe
univocamente l’esistenza di una preclusione allo svolgimento di questa
attività. D’altronde, tale personale sarebbe espressamente autorizzato
allo svolgimento di attività intramuraria d’équipe e a supporto del
professionista dall’art. 1 della legge n. 120 del 2007.
Inoltre, le
censure svolte nel ricorso non terrebbero conto dei principi desumibili
dalla legge n. 251 del 2000 che coinvolgono le Regioni nel compito di
valorizzare e responsabilizzare le professioni sanitarie non mediche,
ricollegando tale opera alla realizzazione del diritto alla salute
dell’utente.
3.– In prossimità dell’udienza la Regione ha depositato
una memoria nella quale ha eccepito l’inammissibilità delle censure
statali per genericità delle stesse. Il ricorrente, infatti, non avrebbe
specificato in quale modo la scelta regionale di consentire lo svolgimento
dell’attività libero-professionale al personale sanitario, di cui alla
legge n. 251 del 2000, avrebbe violato i principi fondamentali della
legislazione statale nella materia della tutela della salute.
La difesa
regionale ha ribadito, poi, che la legge censurata interverrebbe, non già
in materia di tutela della salute, bensì in materia di “assistenza e
organizzazione sanitaria” riservata alla legislazione regionale. Infatti,
l’ampliamento della sfera dei soggetti abilitati all’esercizio della
libera professione intramuraria costituirebbe una misura volta a
contrastare l’esodo di infermieri professionisti e tecnici sanitari verso
la sanità privata e dunque a migliorare le prestazioni del servizio
sanitario. L’organizzazione sanitaria, pertanto, si rivelerebbe una
condizione necessaria e “prodromica” rispetto alla tutela della
salute.
La Regione, pur consapevole che, allorché una norma si presti
ad incidere in una pluralità di ambiti competenziali, la giurisprudenza
costituzionale utilizza il criterio della “prevalenza”, sostiene che, nel
caso di specie, non potrebbe ravvisarsi una prevalenza della materia
«tutela della salute» dal momento che la disciplina censurata non
inciderebbe sulla natura del rapporto di lavoro del personale – dovendo
l’attività libero-professionale essere svolta fuori dall’orario di lavoro
– e sarebbe rivolta a garantire la sicurezza nella erogazione delle
prestazioni ed elevati standard di assistenza infermieristica e
tecnica.
4.– Alla pubblica udienza la difesa regionale, oltre a
ribadire le argomentazioni svolte nei propri scritti, ha eccepito
l’inammissibilità delle censure per omessa indicazione del parametro
interposto asseritamente violato. Lo Stato, infatti, non avrebbe
individuato la disposizione che sancisce il principio fondamentale che
preclude al personale sanitario di cui alla legge n. 251 del 2000 di
svolgere attività libero-professionale intramuraria.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato,
in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione
Liguria 31 marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di esercizio
di attività professionale da parte del personale di cui alla legge 10
agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie
infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché
della professione ostetrica) e successive modificazioni e
integrazioni».
La legge regionale censurata, all’art. 1, comma 1,
stabilisce che «Al fine di conseguire una più efficace e funzionale
organizzazione dei servizi sanitari regionali, il personale che esercita
le professioni sanitarie di cui alla L. 251/2000 e successive
modificazioni e integrazioni, operante con rapporto di lavoro a tempo
pieno e indeterminato nelle strutture pubbliche regionali, può esercitare
attività libero professionale, al di fuori dell’orario di servizio, anche
singolarmente all’interno dell’Azienda e in forma intramuraria allargata,
presso le Aziende sanitarie locali, gli Istituti di ricovero e cura a
carattere scientifico (IRCCS) e gli altri enti equiparati».
La concreta
disciplina dell’organizzazione e delle modalità di svolgimento di tale
attività è demandata alla Giunta regionale della Liguria che dovrà
adottare entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge una
direttiva vincolante (art. 1, comma 2). Nei successivi sessanta giorni, le
aziende sanitarie provvedono ad adeguare «i rispettivi atti regolamentari
ai contenuti della direttiva stessa, in modo che non sorga contrasto con
le loro finalità istituzionali e si integri l’assolvimento dei compiti di
istituto assicurando la piena funzionalità dei servizi anche nella
continuità della cura a domicilio» (art. 1, comma 3).
L’art. 2 prevede
che la Giunta regionale presenti annualmente alla competente Commissione
consiliare una relazione sull’attuazione della legge medesima. Infine,
l’art. 3 pone una clausola di invarianza finanziaria stabilendo che
dall’attuazione della legge «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza regionale».
Il ricorrente sostiene che tali
previsioni violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost. in quanto si
porrebbero in contrasto con i principi fondamentali stabiliti dalla
legislazione statale nella materia «tutela della salute».
In
particolare, l’art. 1, comma 1, permettendo al personale che esercita le
professioni sanitarie di cui alla legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina
delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della
riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) di
svolgere attività libero-professionale intramuraria, disciplinerebbe il
profilo soggettivo dell’attività sanitaria intra moenia che attiene ai
principi fondamentali in materia di tutela della salute, la cui
individuazione è riservata alla legislazione statale.
Inoltre, la
medesima disposizione regionale, nella parte in cui consente al personale
sanitario non medico lo svolgimento di attività libero-professionale
intramuraria anche presso strutture diverse da quella di appartenenza,
contrasterebbe con il principio fondamentale in materia di «tutela della
salute» stabilito dall’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 120
(Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e
altre norme in materia sanitaria), in base al quale devono essere le
strutture sanitarie di appartenenza a rendere possibile l’esercizio
dell’attività libero-professionale intramuraria attraverso
l’individuazione di appositi spazi per lo svolgimento di tale attività e
solo in via residuale, e previa autorizzazione della Regione, possono
procedere all’acquisto o alla locazione di spazi presso strutture
sanitarie diverse da quella di appartenenza.
Infine, l’art. 1, commi 2
e 3 e gli artt. 2 e 3 della legge reg. n. 6 del 2014, i quali sono
inscindibilmente connessi con l’art. 1, comma 1, violerebbero l’art. 117,
terzo comma, Cost. per i medesimi motivi sopra indicati.
2.–
Preliminarmente, deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità
delle censure statali per genericità delle stesse prospettata dalla
Regione Liguria, la quale ha sostenuto che il ricorrente non avrebbe
specificato in quale modo la scelta regionale di consentire lo svolgimento
dell’attività libero-professionale al personale sanitario di cui alla
legge n. 251 del 2000 avrebbe violato i principi fondamentali della
legislazione statale nella materia della tutela della salute.
In
realtà, il ricorrente argomenta in modo adeguato le proprie censure
sostenendo che la disciplina regionale determinerebbe un allargamento
dell’ambito dei soggetti ai quali la legge statale consente lo svolgimento
di attività intramuraria, in tal modo ponendosi in contrasto con i
principi fondamentali della materia «tutela della salute» la cui
determinazione spetta alla legislazione dello Stato. Sul tema ci si
soffermerà più diffusamente nel successivo punto 3 nell’esaminare la
specifica eccezione sollevata dalla Regione nella pubblica
udienza.
Analogamente, appare sufficientemente e puntualmente
argomentata anche la censura concernente la previsione regionale circa
l’attività intra moenia cosiddetta «allargata». Il Presidente del
Consiglio, infatti, evoca la disposizione statale asseritamente violata,
individuandola nell’art. 1 della legge n. 120 del 2007 e illustra le
ragioni per cui alla stessa debba riconoscersi la natura di principio
fondamentale, richiamando la giurisprudenza di questa Corte la quale ha
affermato che nelle materie di competenza ripartita è da ritenere
vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto vincolato, è da
considerare, per la finalità perseguita, in rapporto di coessenzialità e
di necessaria integrazione con le norme-principio che connotano il settore
(è citata in proposito la sentenza n. 301 del 2013).
Quanto, infine,
alla censura avente ad oggetto l’art. 1, commi 2 e 3, e gli artt. 2 e 3,
essa risulta motivata, sia pure in termini estremamente sintetici,
mediante il rinvio alle argomentazioni svolte in relazione alle altre
censure. Il tenore complessivo dell’atto introduttivo rende possibile
comprendere tanto le censure rivolte avverso tali disposizioni, quanto le
ragioni poste a loro sostegno.
La difesa regionale ha, altresì,
eccepito l’inammissibilità del ricorso per omessa indicazione del
parametro interposto asseritamente violato, non avendo lo Stato
individuato la disposizione che sancisce il principio fondamentale che
precluderebbe al personale sanitario di cui alla legge n. 251 del 2000 di
svolgere attività libero-professionale intramuraria.
Anche tale
eccezione è priva di fondamento. È ben vero che secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, laddove si denunci la violazione dell’art.
117, terzo comma, Cost. è onere del ricorrente indicare specificamente la
disposizione statale che si ritiene violata, ed in particolare il
principio fondamentale asseritamente leso (ex plurimis, sentenze n. 165
del 2014 e n. 141 del 2013). Nel caso di specie, tuttavia, tale onere è
stato assolto dal ricorrente il quale ha individuato il complesso delle
diposizioni statali in materia di attività libero-professionale
intramuraria da cui emergerebbe l’esistenza del principio fondamentale di
cui si lamenta la violazione. Tali disposizioni sono individuate:
nell’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni
in materia di finanza pubblica) il quale avrebbe introdotto il principio
della esclusività del rapporto di lavoro del personale medico con il
Servizio sanitario nazionale e la sua incompatibilità con altro rapporto
di lavoro dipendente; nell’art. 1, comma 5, della legge 23 dicembre 1996,
n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) la quale
avrebbe stabilito l’incompatibilità tra attività libero-professionale
intramuraria ed extramuraria nonché il divieto di attività
libero-professionale extra moenia all’interno delle strutture sanitarie
pubbliche diverse da quelle di appartenenza o presso strutture sanitarie
private; nell’art. 15-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.
502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo
1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall’art. 13 del decreto
legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del
Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della L. 30 novembre
1998, n. 419), il quale ha stabilito che i dirigenti sanitari il cui
contratto di lavoro sia stato stipulato successivamente al 31 dicembre
1998, ovvero che alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999
abbiano optato per l’esercizio di attività libero-professionale
intramuraria, sono sottoposti al rapporto di lavoro esclusivo con il
Servizio sanitario nazionale; nell’art. 15-quinquies, comma 3, del d.lgs.
n. 502 del 1992 il quale dispone che l’attività libero-professionale
intramuraria non deve comportare un volume di prestazioni superiore a
quello assicurato per l’attività istituzionale e, a tal fine, prevede
appositi controlli per accertare eventuali violazioni di tale limite;
nell’art. 22-bis, comma 4, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché
interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, il quale
ha affidato alle Regioni i controlli sullo svolgimento dell’attività
libero-professionale intramuraria da parte dei dirigenti medici al fine di
verificare il corretto equilibrio di tale attività con quella
istituzionale.
Sostiene il ricorrente che dall’insieme delle
disposizioni ora richiamate emergerebbe il principio fondamentale in
materia di «tutela della salute» che riserva esclusivamente ai dirigenti
medici e ai medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale lo
svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria e solo a
particolari condizioni, al fine di assicurare un equilibrato rapporto tra
attività istituzionale e libero-professionale. Tale opera di
contemperamento presupporrebbe, secondo l’Avvocatura generale dello Stato,
una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale.
L’onere di
specifica indicazione del parametro interposto risulta assolto anche con
riguardo alla seconda censura, concernente la previsione della attività
intra moenia «allargata». In tal caso, il ricorrente ha evocato
espressamente la disposizione statale contenente il principio fondamentale
di cui denuncia la lesione, individuandolo nell’art. 1, comma 4, della
legge n. 120 del 2007 il quale stabilisce che è la stessa struttura
sanitaria di appartenenza del medico ad individuare gli spazi da assegnare
all’attività intramuraria e solo in via residuale, e previa autorizzazione
regionale, consente di ricorrere alla locazione o all’acquisto di spazi
presso altre strutture sanitarie od altri soggetti pubblici.
3.– Nel
merito, le questioni prospettate sono fondate.
3.1.– È innanzitutto
necessario individuare l’ambito materiale nel quale si collocano le
disposizioni regionali impugnate.
Il ricorrente sostiene che esse, in
quanto disciplinano l’esercizio della professione sanitaria intramuraria,
sarebbero riconducibili alla materia concorrente della «tutela della
salute». Per contro, la difesa regionale ritiene che le disposizioni
censurate, in quanto rivolte a fronteggiare la carenza di operatori delle
professioni sanitarie non mediche, atterrebbero alla materia della
«organizzazione sanitaria» rientrante nella competenza residuale delle
Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
In realtà, questa
Corte ha già avuto modo più volte di chiarire che le disposizioni
concernenti l’attività sanitaria intramuraria debbono essere ricondotte
alla materia della «tutela della salute». Infatti, «il “nuovo quadro
costituzionale”, delineato dalla legge di riforma del titolo V della parte
II della Costituzione, recepisce (…) una nozione della materia ‘tutela
della salute’ “assai più ampia rispetto alla precedente materia
‘assistenza sanitaria e ospedaliera’”, con la conseguenza che le norme
attinenti allo svolgimento dell’attività professionale intramuraria,
“sebbene si prestino ad incidere contestualmente su una pluralità di
materie (e segnatamente, tra le altre, su quella della organizzazione di
enti ‘non statali e non nazionali’)”, vanno “comunque ascritte, con
prevalenza, a quella della ‘tutela della salute’”. Rileva, in tale
prospettiva, “la stretta inerenza che tutte le norme de quibus presentano
con l’organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva,
con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza,
essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla
capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti
ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale”
(sentenze n. 181 del 2006 e n. 50 del 2007)» (così la sentenza n. 371 del
2008. Negli stessi termini, da ultimo, sentenza n. 301 del
2013).
Questa Corte ha, invece, escluso che le disposizioni attinenti
alla disciplina dell’attività intramuraria, ivi comprese quelle
concernenti la predisposizione delle strutture a tal fine necessarie,
possano essere ricondotte alla materia della “organizzazione sanitaria”
dal momento che tale ambito «neppure può essere invocato come “materia” a
sé stante, agli effetti del novellato art. 117 Cost., in quanto
l’organizzazione sanitaria è parte integrante della “materia” costituita
dalla “tutela della salute” di cui al terzo comma del citato art. 117
Cost.» (sentenza n. 371 del 2008).
Dunque, alla luce della
giurisprudenza costituzionale si deve affermare che la legge della Regione
Liguria n. 6 del 2014, nel riconoscere agli esercenti delle professioni
sanitarie non mediche la possibilità di svolgere attività
libero-professionale intra moenia, si colloca nell’ambito della materia
«tutela della salute».
3.2.– Il ricorrente sostiene che
l’individuazione dell’ambito dei soggetti ammessi allo svolgimento di tale
attività costituirebbe espressione di un principio fondamentale della
materia, come tale riservato al legislatore statale e che la legge
regionale impugnata, estendendo tale ambito, eccederebbe dalla sfera di
competenza ad essa riservata, ai sensi dell’art. 117, terzo comma,
Cost.
Per verificare la fondatezza della questione è opportuno
ripercorrere brevemente l’evoluzione della normativa in materia.
Fin
dalla legge 12 febbraio 1968, n. 132 (Enti ospedalieri e assistenza
ospedaliera) al personale medico degli istituti di cura e degli enti
ospedalieri era riconosciuta la possibilità, nelle ore libere dalle
attività istituzionali, di svolgere la libera professione, anche
nell’ambito della struttura sanitaria di appartenenza (art. 43, comma 1,
lettera d).
Il d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (Stato giuridico dei
dipendenti degli enti ospedalieri) aveva poi specificato che il rapporto
di lavoro del personale medico poteva essere, a scelta dell’interessato, a
tempo pieno ovvero a tempo definito: nel primo caso il medico rinunciava
alla attività libero-professionale extra ospedaliera (art. 24, comma 3,
lettera a), a fronte di un premio di servizio che compensava detta
rinuncia e aveva «priorità per l’esercizio dell’attività professionale
nell’ambito dell’ospedale» (art. 47, comma 12). Nel secondo caso, il
sanitario poteva svolgere l’attività professionale anche fuori dalla
struttura sanitaria, nel rispetto, comunque, dell’orario di servizio (art.
24, comma 3, lettera b).
Successivamente, la legge 23 dicembre 1978, n.
833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) aveva espressamente
riconosciuto il diritto allo svolgimento della libera professione al
personale medico ed ai veterinari dipendenti dalle unità sanitarie locali
(art. 47, comma 3, numero 4) sul presupposto che ciò potenziasse le
capacità del medico, nell’interesse degli utenti e della collettività.
Così, in attuazione della delega contenuta nella legge ora richiamata, il
d.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità
sanitarie locali) aveva previsto per il personale medico che avesse scelto
il rapporto di lavoro a tempo pieno il diritto all’esercizio dell’attività
libero-professionale nell’ambito dei servizi e delle strutture della unità
sanitaria locale (art. 35, comma 2, lettera d). Al di fuori di tale
ambito, l’attività in questione era limitata solo a «consulti e
consulenze, non continuativi» specificamente autorizzati (art. 35, comma
2, lettera c). Per i medici che avessero, invece, optato per il rapporto
di lavoro a tempo definito era prevista la facoltà di esercitare
l’attività libero-professionale «anche fuori dei servizi e delle strutture
dell’unità sanitaria locale», purché tale attività non fosse prestata con
rapporto di lavoro subordinato (art. 35, comma 3, lettera c).
La legge
n. 412 del 1991, poi, «liberalizzava del tutto l’esercizio dell’attività
professionale sia extra che intramuraria e incentivava “la scelta per il
rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice
domanda, il passaggio dal “tempo definito” al “tempo pieno”, anche in
soprannumero» con la conseguente incidenza sulla retribuzione (sentenza n.
50 del 2007).
Successivamente, il d.lgs. n. 502 del 1992 ha introdotto
meccanismi per incentivare l’attività intra moenia, prevedendo, altresì,
la necessità di individuare appositi spazi da riservare allo svolgimento
della libera professione intramuraria con la possibilità, in mancanza, di
reperirli all’esterno tramite la stipula di convenzioni tra le unità
sanitarie e altre case di cura pubbliche o private. L’art. 15-quater,
comma 4, del decreto legislativo, come modificato dall’art. 2-septies del
decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare
situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138, ha riconosciuto a tutti
i dirigenti sanitari pubblici la possibilità di optare per il rapporto di
lavoro esclusivo, ovvero per quello non esclusivo entro il 30 novembre di
ciascun anno, con effetto dal 1° gennaio dell’anno successivo, salva la
facoltà per le Regioni di stabilire una cadenza temporale più
breve.
L’art. 15-quinquies del citato decreto, introdotto dall’art. 13
del d.lgs. n. 229 del 1999, ha stabilito che il rapporto di lavoro
esclusivo comporta la totale disponibilità nello svolgimento delle
funzioni dirigenziali attribuite dall’azienda con impegno orario
contrattualmente definito. Inoltre, all’opzione per tale tipologia di
rapporto segue il diritto all’esercizio dell’attività
libero-professionale, al di fuori dell’orario di servizio, nell’ambito
delle strutture aziendali individuate dal direttore generale, d’intesa con
il collegio di direzione. La medesima disposizione ha fissato, altresì,
dei limiti al volume di tale attività al fine di assicurare un «corretto
ed equilibrato rapporto» tra di essa e l’attività istituzionale stabilendo
che l’attività libero-professionale non può comportare un volume di
prestazioni superiore a quello assicurato per i compiti istituzionali,
rinviando alla disciplina contrattuale nazionale la definizione del
corretto equilibrio tra le due tipologie di attività (comma 3).
L’art.
1, della legge n. 120 del 2007, infine, ha fatto carico alle Regioni di
predisporre le strutture necessarie per consentire al personale medico lo
svolgimento dell’attività intramuraria, consentendo, in mancanza e nelle
more della loro realizzazione o individuazione, di reperire spazi
sostitutivi in strutture non accreditate, ovvero di utilizzare, previa
autorizzazione, studi professionali privati. Tale disposizione ha,
inoltre, stabilito che le Regioni debbano garantire, attraverso proprie
linee guida, che «le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le
aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione
diretta e gli IRCCS di diritto pubblico gestiscano, con integrale
responsabilità propria, l’attività libero-professionale intramuraria, al
fine di assicurarne il corretto esercizio», ed ha individuato le modalità
con cui tale finalità deve essere assicurata. In particolare, è prevista
l’adozione, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica,
di sistemi e di moduli organizzativi e tecnologici che consentano il
controllo dei volumi delle prestazioni libero-professionali, che non
devono superare, globalmente considerati, quelli eseguiti nell’orario di
lavoro (comma 4, lettera a); il pagamento di prestazioni di qualsiasi
importo direttamente al competente ente o azienda del Servizio sanitario
nazionale, mediante mezzi di pagamento che assicurino la tracciabilità
della corresponsione di qualsiasi importo (comma 4, lettera b); la
definizione degli importi da corrispondere a cura dell’assistito, idonei
per ogni prestazione, a remunerare i compensi del professionista,
dell’équipe, del personale di supporto, nonché ad assicurare la copertura
di tutti i costi diretti e indiretti sostenuti dalle aziende, compresi
quelli connessi alle attività di prenotazione e di riscossione degli
onorari (comma 4, lettera c); la prevenzione delle situazioni che possono
determinare l’insorgenza di un conflitto di interesse o di forme di
concorrenza sleale (comma 4, lettera e); il progressivo allineamento dei
tempi di erogazione delle prestazioni nell’ambito dell’attività
istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di libera professione
intramuraria «al fine di assicurare che il ricorso a quest’ultima sia
conseguenza di libera scelta del cittadino e non di carenza
nell’organizzazione dei servizi resi nell’ambito dell’attività
istituzionale» (comma 4, lettera g).
Come appare chiaro dalla normativa
richiamata, la disciplina dell’attività libero-professionale intramuraria
ha sempre riguardato specificamente il personale medico, nonché, ai sensi
degli artt. 4, comma 11-bis e 15 del d.lgs. n. 502 del 1992, il personale
della dirigenza del ruolo sanitario, costituito da farmacisti, biologi,
chimici, fisici e psicologi secondo quanto specificato dall’art. 3 del
d.P.C.m. 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente
l’attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza
sanitaria del Servizio sanitario nazionale). Quanto ai veterinari del
servizio pubblico, il d.P.R. n. 761 del 1979 ha riconosciuto loro la
facoltà di svolgere attività libero-professionale fuori dei servizi e
delle strutture dell’unità sanitaria locale (art. 36).
Nulla, invece, è
previsto per il personale sanitario non medico, ad eccezione di quanto
stabilito dall’art. 30, comma 4, del R.D. 30 settembre 1938 n. 1631 (Norme
generali per l’ordinamento dei servizi sanitari e del personale sanitario
degli ospedali), il quale dispone che «Tanto alla ostetrica capo che alle
ostetriche è inibito l’esercizio professionale».
Non può condividersi
l’assunto della difesa regionale secondo la quale il personale non medico
sarebbe già abilitato all’esercizio della libera professione in équipe e a
supporto del professionista in forza dell’art. 1, comma 4, lettera c),
della legge n. 120 del 2007. Tale disposizione, infatti, si limita
semplicemente a prevedere che gli importi da corrispondere a carico
dell’assistito per la prestazione libero-professionale intra moenia devono
remunerare anche i compensi dell’équipe e del personale di
supporto.
3.3.– La circostanza che lo svolgimento dell’attività
libero-professionale all’interno della struttura sanitaria sia stato
previsto e disciplinato espressamente solo per i medici e i dirigenti del
ruolo sanitario assume – diversamente da quanto sostenuto dalla difesa
regionale – il preciso significato di circoscrivere a tali categorie il
riconoscimento del diritto in questione.
In tal senso depongono una
pluralità di elementi. Innanzitutto, occorre considerare che nel settore
sanitario l’esercizio dell’attività libero-professionale – come si è visto
– si atteggia con caratteristiche del tutto peculiari, sia quanto alle
conseguenze che l’opzione per il suo svolgimento intra moenia determina
sulla tipologia del rapporto di lavoro, sia quanto alle conseguenze
relative all’organizzazione delle strutture sanitarie nelle quali essa è
esercitata. Sotto il primo profilo è previsto che l’opzione per
l’esercizio dell’attività intramuraria determina l’assoggettamento del
sanitario al rapporto di lavoro esclusivo (art. 15-quater, comma 1, del
d.lgs. n. 502 del 1992) con la conseguente totale disponibilità nello
svolgimento delle funzioni attribuite dall’azienda, nonché
l’incompatibilità con l’esercizio dell’attività libero-professionale extra
moenia, secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 5, della legge n. 662
del 1996.
Sotto il secondo profilo, la necessità per le strutture
sanitarie di consentire lo svolgimento della libera professione
intramuraria per il personale medico e sanitario che abbia esercitato la
relativa opzione determina il sorgere dell’onere per le stesse di assumere
le iniziative volte a reperire gli spazi a tal fine necessari, predisporre
gli strumenti organizzativi per le attività di supporto (quali il servizio
di prenotazione e di riscossione degli onorari), individuare sistemi e
moduli organizzativi per il controllo dei volumi delle prestazioni
libero-professionali, prevenire situazioni che possano determinare
l’insorgere di situazioni di conflitto di interessi o forme di concorrenza
sleale (art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007).
Tutto ciò rende
evidente come le disposizioni che disciplinano l’attività intramuraria
«rappresentano un elemento tra i più caratterizzanti nella disciplina del
rapporto fra personale sanitario ed utenti del Servizio sanitario, nonché
della stessa organizzazione sanitaria» (sentenza n. 50 del 2007). D’altra
parte questa Corte ha già riconosciuto a diverse disposizioni che
disciplinano questa materia la natura di principio fondamentale. Ciò vale,
in particolare, per la previsione (art. 15-quater, comma 4, del d.lgs. n.
502 del 1992, modificato dall’art. 2-septies del decreto-legge n. 81 del
2004, come convertito) che riconosce ai dirigenti medici e del ruolo
sanitario la facoltà di scelta tra il regime di lavoro esclusivo e non
esclusivo, in quanto volta «a garantire una tendenziale uniformità tra le
diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province
autonome in ordine ad un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed
utenti» (sentenza n. 50 del 2007; sentenza n. 371 del 2008). Ha, inoltre,
affermato che partecipa della medesima natura di principio fondamentale
anche la disciplina dettata dall’art. 1 della legge n. 120 del 2007 volta
ad assicurare che non resti priva di conseguenze, in termini di concrete
possibilità di svolgimento dell’attività libero-professionale
intramuraria, l’opzione compiuta dal sanitario in favore del rapporto di
lavoro esclusivo (sentenza n. 371 del 2008). In questo quadro, anche la
disciplina del profilo soggettivo dell’attività intra moenia riveste la
natura di principio fondamentale della materia, in quanto volta a definire
uno degli aspetti più qualificanti della organizzazione sanitaria,
ovverosia quello della individuazione dei soggetti legittimati a svolgere
la libera professione all’interno della struttura sanitaria, il quale
richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio
nazionale.
Conseguentemente, l’art. 1, comma 1, della legge della
Regione Liguria n. 6 del 2014, nell’estendere al personale sanitario non
medico di cui alla legge n. 251 del 2000 la facoltà di svolgere tale
attività, ha esorbitato dall’ambito riservato alla legislazione regionale,
violando l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.4.– L’accoglimento della
prima questione implica, quale diretta conseguenza, che anche le questioni
promosse con riguardo alle altre disposizioni regionali sono fondate.
Esse, infatti, disciplinano tutte lo svolgimento dell’attività intra
moenia da parte del personale sanitario non medico, di tal che la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che
riconosce tale facoltà determina la caducazione delle restanti
disposizioni ad essa collegate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della
Regione Liguria 31 marzo 2014, n. 6 recante «Disposizioni in materia di
esercizio di attività professionale da parte del personale di cui alla
legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie
infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché
della professione ostetrica) e successive modificazioni e
integrazioni».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2015.
Depositata in Cancelleria il 31 marzo 2015.