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n. 5-2015 - © copyright

 

ENRICO FOLLIERI

La nomofilachia del Consiglio di Stato*

 

 


 

 

Abstract


La funzione nomofilattica dovrebbe essere attribuita ad un solo giudice, ma il nostro sistema ha tre organi giurisdizionali di vertice che sono espressione della stessa esigenza: la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. L’A. espone le ragioni che consentono l’armonizzazione della nomofilachia con l’attribuzione della stessa a diversi ordini giudiziari e si sofferma in particolare sul percorso che ha portato l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ad assumere un ruolo egemone sull’esatta osservanza delle norme e sull’uniforme interpretazione dei giudici amministrativi, oggi rafforzato dalla previsione del comma tre dell’art. 99 c.p.a..


Sommario: 1. La nomofilachia del giudice. – 2. L’apparente inconciliabilità della nomofilachia affidata a più organi di vertice giurisdizionali. – 3. Il fondamento della nomofilachia del Consiglio di Stato nella coscienza dei giudici amministrativi del ruolo della giurisdizione. – 4. La nomofilachia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato. – 5. Il codice del processo amministrativo.


1. La nomofilachia del giudice.
Quando si parla di nomofilachia, il pensiero corre alla Corte di Cassazione che è il giudice che regola il riparto delle giurisdizioni, ma, soprattutto, dal diritto positivo è individuato come “organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”[1].
Questa norma stigmatizza tre profili: la Corte di Cassazione a) è al vertice della giurisdizione; b) cura la “esatta” attuazione della legge e la sua interpretazione “uniforme”; c) assicura “l’unità del diritto oggettivo nazionale”.
I due ultimi aspetti sono realizzati con alcuni efficaci strumenti: l’istituzione dell’Ufficio del massimario delle sentenze della Corte di Cassazione che rende “ufficiali” i principi affermati da quest’ultima e, per il processo civile, dal potere del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione di chiedere alla Corte di enunciare nell’interesse della legge il principio di diritto, anche quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato ovvero quando “il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile”[2] nonché dalla possibilità che la Corte pronunzi anche d’ufficio il principio di diritto “quando il ricorso proposto dalla parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza”[3].
L’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’assicurazione dell’unità del diritto oggettivo nazionale richiedono che nell’ordinamento vi sia un solo organo deputato a questa funzione che, se ripartita tra più uffici, reca in sé, ontologicamente, la possibilità di soluzioni differenziate. Queste ultime vanno a contraddire le ragioni ispiratrici dell’ambiziosa previsione normativa la quale aspira ad un ordinamento che trovi applicazione senza determinare diversità di indirizzi che viola il principio di uguaglianza di fronte alla legge[4] e di certezza dei rapporti giuridici.
L’applicazione del diritto richiede che casi simili trovino la medesima soluzione giuridica (uguaglianza) sulla quale si possa fare affidamento (certezza).
È un’esigenza antica questa cura che era incarnata nella figura del nomofilace, parola composta da νόμος (regola, norma) e φύλαξ (custode), che indicava il magistrato di varie città dell’antica Grecia il quale aveva la funzione di custodire il testo ufficiale delle leggi e assicurare la stabilità della legislazione, un punto fermo cui fare riferimento per garantire la certezza dei rapporti giuridici sulla quale si doveva poter fare affidamento. Ad Atene, questo particolare ufficio è documentato con sicurezza dal 317 a.c..
Nell’impero bizantino fu indicato con questo nome una magistratura creata dall’imperatore Costantino IX Monomaco (1042-1055) nell’XI secondo ed il primo titolare ne fu Giovanni Xilifino.
La nomofilachia indica, per richiamare il concetto greco, l’attività del “custode della legge” e più specificamente il fedele interprete della legge che ne cura e, a volte, impone l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.
Insomma, la legge ha bisogno di continue cure e manutenzione perché non ne venga fatta un’applicazione differenziata per casi simili, articolando le soluzioni secondo un’interpretazione personale del singolo operatore che rompe l’unità dell’ordinamento e sfocia nell’arbitrio.
Non sembrerebbe, quindi, esserci posto in un ordinamento per più di un “custode”, pena il venir meno della stessa ragione della istituzione di un organo nomofilattico.
Nel nostro sistema, però, è un fatto incontestabile che vi sono altri due organi, la Corte di Conti e il Consiglio di Stato, che, espressione della stessa esigenza, svolgono funzioni nomofilattiche.
Vorrei cercare di chiarire come ciò sia possibile e, soffermandomi in particolare sul Consiglio di Stato, il percorso che ha portato l’adunanza plenaria ad assumere un ruolo egemone sulla interpretazione dei giudici amministrativi, oggi rafforzato dalla previsione dell’art. 99, comma tre, del codice del processo amministrativo secondo cui “se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Mi rendo conto che può sembrare riduttivo non considerare, in un sistema giurisdizionale pluralistico che si è aperto alle Corti europee ed internazionali, anche le funzioni di queste Corti, ma è un problema diverso quello del rapporto delle giurisdizioni nazionali con quelle esterne al nostro Stato e che hanno una (importante) ricaduta nel nostro ordinamento. È questione di dialettica tra fonti culturali diverse che ha la sua disciplina in regole di prevalenza e/o coordinamento e non riguardano la nomofilachia delle norme interne del nostro Paese le quali, semmai, possono diventare del tutto recessive ovvero essere interpretate in conformità alle decisioni delle Corti estere.
L’oggetto della mia indagine non riguarda, però, il modo dell’interpretazione e come essa debba essere svolta e di quali elementi e dati debba tener conto, bensì come possa trovare spazio e armonizzarsi la previsione nomofilattica affidata a più organi giurisdizionali[5].


2. L’apparente inconciliabilità della nomofilachia affidata a più organi di vertice giurisdizionali.
L’ordinamento attribuisce a corpi diversi e separati, ognuno appartenente ad un plesso giurisdizionale autonomo, le giurisdizioni amministrativa, contabile ed ordinaria.
E le diversità si apprezzano sotto più profili tra cui i più rilevanti sono: il reclutamento dei magistrati; i rapporti con il potere esecutivo; i tre organi autonomi di autogoverno; le funzioni ulteriori rispetto a quelle esclusivamente giurisdizionali; le regole del processo che sono proprie di ogni plesso giurisdizionale e sono rilevanti sul piano strutturale, funzionale e del modello di processo.
Il punto rilevante, però, è che per le giurisdizioni vige la regola della separazione, per cui non possono conoscere della stessa domanda e, particolarmente, la giurisdizione amministrativa, sin dalla istituzione della sezione quarta, si esercita “quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratta di materia spettante alla giurisdizione ed alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali”[6].
E, quindi, ciascuna giurisdizione ha un suo ambito di cognizione che ha una delimitazione oggettiva, per cui chi promuove l’azione non sceglie il giudice e la stessa domanda non è attribuita a più giurisdizioni.
E’ come se ogni giurisdizione vivesse in un proprio compartimento stagno senza possibilità di interferenza e contatto con le altre.
Sennonchè, la vicenda di vita che finisce nelle aule giudiziarie si presenta nella realtà unitaria e può accadere che uno stesso fatto dia luogo a più controversie che possono celebrarsi innanzi a tutte e tre le giurisdizioni, come quando un dirigente pubblico, in violazione di normativa, provochi un danno che può dar luogo a: responsabilità penale, se ricorrono gli elementi di un reato (giudice ordinario penale); responsabilità civile (giudice ordinario civile); responsabilità erariale (Corte dei Conti); responsabilità disciplinare (giudice ordinario del lavoro, se il dirigente impugni l’eventuale sanzione inflittagli); annullamento degli eventuali atti amministrativi adottati (TAR e Consiglio di Stato)[7].
Questi giudizi, poi, potrebbero dare esiti diversi, con l’effetto che non si determinerebbero soluzioni diverse per casi simili ma, addirittura, per lo stesso caso[8].
La nomofilachia, però, non garantisce che lo stesso fatto sia conosciuto da un solo giudice e che la soluzione debba essere la medesima, anzi ogni plesso giurisdizionale prevede quanto meno due gradi di giudizio che possono concludersi con un risultato diverso; il che significa conoscenza della controversia da parte di più giudici e soluzioni non necessariamente identiche, anche se l’ipotesi della responsabilità del dirigente pubblico, presa prima in esame, comporti che la questione sia sottoposta al vaglio di più giurisdizioni e non di più giudici appartenenti alla stessa giurisdizione.
La nomofilachia attiene, invece, alla norma ed all’applicazione che si fa di essa allo scopo che sia assicurata l’uniforme interpretazione nell’attuazione della legge e, allora, non rileva che lo stesso accadimento possa passare al vaglio di più giurisdizioni dal momento che ciascuna di esse conosce della controversia attribuitale e che è diversa, per cui le soluzioni, in ipotesi diversificate, non sono in contraddizione tra di loro perché sono riguardate sotto i particolari profili presi in considerazione dall’ordinamento nel ripartire la giurisdizione.
In altri termini, l’esatta osservanza della legge e l’uniforme interpretazione del diritto che tiene unito il diritto oggettivo vanno parametrati alla specifica controversia come venutasi a determinare nei suoi elementi identificativi e che può essere conosciuta da una sola delle giurisdizioni. In conseguenza, vengono salvaguardati i valori di fondo alla base della nomofilachia e cioè l’uguaglianza e la certezza, poiché controversie simili vengono decise allo stesso modo nella misura in cui i principi enunciati dall’organo di vertice delle rispettive giurisdizioni sono condivisi e seguiti dai giudici appartenenti allo stesso plesso giurisdizionale.
Va, però, considerato che intanto gli organi di vertice della giurisdizione amministrativa, contabile e ordinaria possono svolgere attività nomofilattica nei confronti dei giudici appartenenti ai rispettivi plessi giudiziari, in quanto i processi si definiscono nel rispettivo ambito e non vi è un ulteriore organo cui rivolgersi per contestare l’eventuale violazione di principi e regole di diritto .
Se vi fosse un ulteriore organo, solo quest’ultimo svolgerebbe il compito dell’uniforme interpretazione ed osservanza della legge, avendo il potere di uniformare le decisioni sottoposte al suo sindacato, fissando il principio.
Com’è noto, però, le decisioni del vertice delle giurisdizioni non sono impugnabili innanzi ad organi giurisdizionali interni al nostro ordinamento, in via assoluta, per le sentenze della Corte di Cassazione, e, in via relativa, per quelle del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, nel senso che queste ultime sono soggette al sindacato delle sezioni unite della Corte di Cassazione solo per i motivi inerenti la giurisdizione, interpretato dalla giurisprudenza come difetto assoluto di giurisdizione o omissione di giurisdizione[9].
Questo sistema è stato costituzionalizzato dall’art. 111, ultimo comma, della Costituzione[10].
E, pertanto, il principio di diritto enunciato dal Consiglio di Stato o dalla Corte dei Conti nella singola decisione non è soggetto a modificazione o riforma da parte di altro organo giurisdizionale – e in particolare dalla Corte di Cassazione – tranne che per questioni attinenti alla giurisdizione, con ciò assegnando a tali organi, in potenza, funzioni nomofilattiche.


3. Il fondamento della nomofilachia del Consiglio di Stato nella coscienza dei giudici amministrativi del ruolo della giurisdizione.
Si può ravvisare un’attività nomofilattica negli organi di vertice della giurisdizione se vi siano espresse previsioni di diritto positivo ovvero si manifesti un effettivo adeguamento dei giudici appartenenti al medesimo plesso giurisdizionale agli indirizzi interpretativi espressi dai precedenti giurisprudenziali.
La forza del precedente rileva non solo nei Paesi di common law, ma anche in quelli dell’Europa continentale, per l’importanza della persuasività della motivazione spesa da altro giudice che ha affrontato un caso simile e per la posizione istituzionale di terzietà ed imparzialità che connota l’interpretazione data da chi interviene a dirimere una controversia in sede giurisdizionale[11]. Alla posizione istituzionale del giudice e alla persuasività delle argomentazioni, si aggiunge l’autorevolezza quando più si sale nella gerarchia del plesso giurisdizionale e, soprattutto, quando un organo di vertice sia composto in modo particolarmente qualificato per risolvere e comporre contrasti tra indirizzi interpretativi difformi.
Per il Consiglio di Stato, posto al vertice della giurisdizione amministrativa, non vi è una previsione simile a quella dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario dettato per la Corte di Cassazione ma non sono mancati, sin dall’istituzione della Sezione IV, indici normativi in questo senso e, soprattutto, la storia del giudice amministrativo è costellata, sia sul piano del diritto sostanziale e, forse, in maggior misura, su quello del processo, dalla posizione di principi e regole che hanno fatto spesso affermare agli studiosi che la sua giurisprudenza è pretoria, cioè creativa, sulla falsariga del praetor di romana memoria.
Questi risultati sono stati raggiunti grazie ad un forte senso di appartenenza dei giudici alla istituzione di cui fanno parte, nello svolgimento sia dell’attività consultiva che di quella giurisdizionale che si immedesimano alla base, per la identità della funzione dell’osservanza ed uniforme interpretazione della legge, in vista dell’unità dell’ordinamento[12].
Non è importante stabilire se vi sia stata una “fedele” applicazione della legge ovvero la posizione di principi, non espressi dalle norme, e come siano stati ricavati e cioè se attingendo, con metodo ricognitivo e induttivo, dalle sparse e numerose disposizioni di settore, o attingendo a valori presenti nell’ordinamento o alla loro formazione culturale, per poi, posto il principio, operare deduttivamente, secondo il metodo dommatico.
In altri termini, se l’attività del giudice amministrativo sia stata nomofilattica ovvero nomopoietica e, quindi, creativa, da ποίεσις[13].
Qui, invece, va preso atto che vi è stata, da parte del giudice amministrativo, l’individuazione di principi e regole, certo sotto la spinta e con le riflessioni della dottrina[14], ma che, intanto si è potuta realizzare, per la coscienza del ruolo della giurisdizione che affronta casi concreti e li risolve con la selezione dei principi da applicare, a loro volta parametro per dirimere altre controversie simili in una continua opera ricostruttiva e formativa del sistema, a ciclo continuamente rinnovantesi.
L’apporto del giudice amministrativo è divenuto rilevante nella formazione del diritto e del processo amministrativo perché il principio enunciato dal Consiglio di Stato, specie nella sua assise plenaria, è stato normalmente seguito nelle successive applicazioni giurisprudenziali con carattere di continuità e fedeltà tale da far assumere ai principi posti valore sostanzialmente normativo.
Un Presidente del Consiglio di Stato, Lionello R. Levi Sandri, in uno studio pubblicato per celebrare i centocinquantanni del Consiglio di Stato[15], pur rilevando che l’efficacia formale della pronunzia dell’adunanza plenaria non era diversa da quella di qualsiasi altra decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, richiamava una sentenza della sezione IV degli anni ’60 che rilevava: “sarebbe vano che la legge avesse attribuito ad un organo di particolare autorità la soluzione dei contrasti giurisprudenziali e delle questioni di massima di particolare importanza, se le sezioni, quando non si verifichino gravi ragioni di dissenso, potessero moltiplicare i rinvii” (all’adunanza plenaria) “o, addirittura decidere in difformità tenendone i pronunciati in non cale”[16]. Da qui, l’affermazione che la pronunzia dell’adunanza plenaria condiziona le successive decisioni delle singole sezioni, non diversamente da quanto accade per le sentenze delle sezioni unite della Corte di Cassazione nei confronti dei giudici ordinari.
E questo effetto viene collegato non tanto all’autorità morale dell’adunanza plenaria e delle sue decisioni, ma al rispetto del principio costituzionale, fondamentale in ogni Stato moderno, e cioè la “uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, il che presuppone l’uniforme interpretazione e applicazione della legge”[17], per cui, sul piano giuridico, sussiste “un dovere per gli altri organi del Consiglio di conformarsi alle decisioni dell’adunanza plenaria”[18]. Quando “gravi e circostanziati motivi” inducano a soluzioni diverse da quelle stabilite dall’adunanza plenaria, occorrerebbe sottoporre la questione nuovamente all’adunanza plenaria[19], come oggi dispone l’art. 99, comma 3, c.p.a..
Insomma, i giudici amministrativi hanno interiorizzato nel loro sentire e permeato la loro cultura con la idea di un trattamento uniforme nell’interpretare ed applicare le norme in presenza di casi simili, ritenendo che i contrasti giurisprudenziali debbano essere evitati e superati.


4. La nomofilachia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Si può ben dire che questa impostazione trova riscontro in diritto positivo sin dalla istituzione della Sezione IV del Consiglio di Stato, dal momento che l’art. 17 della L. 31.3.1889 n. 5992, in presenza di una sola sezione giurisdizionale, stabiliva che “Se la sezione riconosce che il punto di diritto sottoposto alla sua decisione ha dato luogo a precedenti decisioni tra loro difformi della stessa sezione, potrà rinviare con ordinanza la discussione della controversia ad altra seduta plenaria col concorso di nove votanti”, invece di sette. E si consideri che la sezione IV era composta di un presidente e di otto consiglieri, con possibile destinazione ad essa anche di tre referendari, con voto deliberativo, “soltanto negli affari dei quali siano relatori, ovvero quando vengono chiamati a supplire i consiglieri assenti od impediti”[20].
Dunque, si è prestata molta attenzione ai contrasti che si possono verificare all’interno di una sola sezione- i pareri delle tre sezioni consultive non sono considerati – in presenza di un numero di nove componenti, compreso il presidente, quando, normalmente intervengono nella votazione in sette, da risolvere in una “seduta plenaria”, con il concorso di nove votanti.
Questa previsione rileva sotto più punti di vista.
Innanzitutto, evidenzia quanto sia radicata la necessità di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, come esigenza da perseguire anche in presenza sostanzialmente di un solo collegio.
Di poi, l’attribuzione alla neo istituita sezione IV, in “seduta plenaria” di una funzione nomofilattica.
Inoltre, è interessante rilevare che siamo alla fine dell’800, in un’epoca in cui, nei Paesi di civil law, è ancora sentita l’idea che il giudice sia la “bouche de la loi” che va applicata in modo quasi meccanico.
Ciò nonostante, il legislatore ha ritenuto necessario che si dovessero evitare soluzioni applicative diverse tra loro, tanto da prevedere il superamento di contrasti di giurisprudenza nel rispetto del fondamentale principio di giustizia, l’uguaglianza di tutti i cittadini nei confronti della legge, e che nei Paesi di common law trova applicazione nel vincolo del precedente. In questi ultimi ordinamenti l’esigenza dell’uguaglianza si esprime nelle decisioni del caso concreto, nello jus dicere che assume carattere vincolante per i giudici che successivamente si troveranno a risolvere analoghe fattispecie concrete. Ma questa esigenza di uguaglianza per così dire applicativa è sentita anche nei Paesi di civil law dove è stata mitizzata la legge, considerato primo ed essenziale parametro di uguaglianza, ed i suoi interpreti vengono considerati fedeli attuatori della superiore volontà legislativa.
L’art. 17 L. n. 5992/1889 è espressione, infine, della consapevolezza che il giudice, nell’interpretare ed applicare la legge, non può essere un esecutore meccanico del dettato normativo e che le soluzioni adottate da giudici dello stesso consesso, limitato per numero ed espressione della stessa cultura giuridica, possano pervenire a risultati non solo diversi, ma contrastanti nell’individuare un principio di diritto.
La norma del 1889 non stabilisce che il precedente enunciato in “seduta plenaria” vincoli la sezione IV, ma se, in presenza di un contrasto, segna la via per superarlo, significa che soluzioni non uniformi vengono considerate un’aporia dell’ordinamento e che le decisioni assunte in “seduta plenaria” acquistano un particolare valore, anche se formalmente, sul piano della forza giuridica, non sono differenziate dalle altre decisioni della sezione IV, assunte con sette, anziché nove, votanti. Questo particolare valore comporta che la sezione senta il richiamo del precedente deciso in “seduta plenaria” che, dunque, viene a svolgere una pregnante funzione nomofilattica.
Funzione che viene amplificata quando, con l’art. 5 della L. 7.3.1907 n. 65, si istituisce un apposito organo, l’adunanza plenaria, allo scopo di dirimere i conflitti, positivi o negativi, di competenza tra la sezione IV e la sezione V, creata con la stessa legge, ma con attribuzione differenziata, giurisdizione di legittimità la IV, e giurisdizione anche in merito, per materie, la V[21]. E all’adunanza plenaria viene conferito anche il potere di superare i contrasti di giurisprudenza che siano venuti a determinarsi tra le due sezioni giurisdizionali e al loro interno.
Il R.D. 30.12.1923 n. 2840 eliminò la distinzione di competenze tra la IV e la V sezione, ma l’adunanza plenaria rimase a risolvere i contrasti di giurisprudenza, ripetendosi la stessa norma nell’art. 13 che è divenuto, poi, l’art. 45 nel R.D. 26.6.1924 n. 1054, T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato.
Con l’art. 5 della L. 21.12.1950 n. 1018, recependo quanto già previsto dall’art. 5 D. L.vo 6.5.1948 dettato per il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana[22], vengono sostituiti i commi due e tre dell’art. 45 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, e sono introdotti i contrasti giurisprudenziali non ancora verificatisi nonché la possibilità che il Presidente del Consiglio di Stato, prima della discussione, “su istanza delle parti o d’ufficio, può deferire all’adunanza plenaria qualunque ricorso che renda necessaria la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza”.


5. Il codice del processo amministrativo.
Il codice del processo amministrativo riproduce, ai commi uno e due dell’art. 99, le tre ipotesi che hanno trovato il loro definitivo assetto nel 1950 e cioè: dirimere il punto di diritto che ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali; dirimere il punto di diritto che può dare luogo a contrasti giurisprudenziali; risolvere questioni di massima di particolare importanza.
L’art. 99 c.p.a., al terzo comma, introduce un’importante novità: se la sezione ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, rimette a quest’ultima la decisione del ricorso; è un caso di rimessione obbligatoria all’adunanza plenaria che, però, non può ritenersi una ulteriore, quarta ipotesi, di rinvio perché è un contrasto giurisprudenziale che si sta per determinare e ne viene previsto il superamento prima che si abbia a verificare. È un caso tipizzato di contrasto giurisprudenziale che sta per prodursi e stabilisce obbligatoriamente la rimessione alla plenaria, mentre nelle altre ipotesi è facoltativo.
In fondo, i commi due e tre dell’art. 99 c.p.a. sono mere esemplificazioni perché la rimessione all’adunanza plenaria avviene sempre per la medesima ragione di fondo: un contrasto giurisprudenziale reale o potenziale perché: a) la questione di massima di particolare importanza riguarda sì un profilo di diritto di particolare rilevanza, ma che intanto viene avviata all’adunanza plenaria perché può dare luogo o ha dato luogo a soluzioni divergenti; se , infatti, l’aspetto non è controverso o controvertibile sarebbe del tutto fuor di luogo provocare l’intervento della plenaria; b) il terzo comma dell’art. 99 c.p.a. obbliga la sezione a non adottare una decisione in contrasto con un principio enunciato dall’adunanza plenaria cui deve rimettere la questione, se è di contrario avviso, ma anche qui si tratta, pur sempre, di evitare soluzioni divergenti.
Insomma, il fondamento è l’attività di nomofilachia e, quindi, l’esatta osservanza ed uniforme interpretazione della legge in funzione dell’unità oggettiva dell’ordinamento.
Nomofilachia che, con il terzo comma dell’art. 99 c.p.a., esce rafforzata perché munisce di una particolare forza formale nei confronti delle sezioni del Consiglio di Stato le decisioni dell’adunanza plenaria che non sono più come quelle di una qualsiasi decisione di una sezione del Consiglio di Stato.
In parallelo e precedentemente, disposizioni quasi identiche sono state dettate nei rapporti tra le sezioni semplici e le sezioni unite della Corte di Cassazione nel 2006 e tra le sezioni territoriali e le sezioni centrali e le sezioni riunite della Corte dei Conti nel 2009[23], quasi che l’ordinamento abbia voluto tutelare e garantire maggiormente i valori dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e della certezza dei rapporti giuridici, attraverso un rafforzamento della funzione nomofilattica degli organi qualificati di vertice della magistratura amministrativa, contabile ed ordinaria.
Come ho sostenuto in diversi scritti[24], il principio espresso dall’adunanza plenaria rappresenta, ormai, una vera fonte del diritto, ancorché culturale, con suoi propri caratteri, si inserisce in un suo modo proprio nel pluralismo delle fonti, presenta i suoi limiti, e vi sono più rimedi che possono essere azionati nel caso una sezione del Consiglio di Stato non rispetti un principio espresso dall’adunanza plenaria che possono distinguersi in oggettivi e soggettivi. I primi contro le sentenze della sezione del Consiglio di Stato, interni al Consiglio stesso (revocazione e opposizione di terzo) o esterni (ricorso per cassazione per difetto di giurisdizione, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost., e ricorso alla CEDU per violazione dell’art. 6, par. 1, della convenzione); i secondi, interno (azione disciplinare nei confronti dei componenti della sezione, con diversa e maggior graduazione e peso per il relatore e il presidente) ed esterno (azione di risarcimento dei danni innanzi al giudice ordinario per i danni causati nell’esercizio della funzione giudiziaria).
L’evidente rafforzamento della funzione nomofilattica dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato porta ad una maggiore rilevanza delle sue decisioni e richiede maggiore attenzione da parte di tutti gli operatori.

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* E’ il testo della relazione tenuta all’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma il 14 maggio 2015 nel convegno di studi su “La rilevanza del ruolo del giudice amministrativo a 150 anni dalla L.A.C.”.
[1] Art. 65 R.D. 30.1.1941 n. 12, ordinamento giudiziario.
[2] Art. 363, comma 1, c.p.c..
[3] Art. 363, comma 3, c.p.c. In questo caso, però, il quarto comma dell’art. 363 c.p.c. stabilisce che “la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice del merito”.
[4] Di recente A. PROTO PISANI, Il ricorso per cassazione in Foto Ital., 2015, V, 189, sottolinea che l’uniformità della giurisprudenza, affidata alla Corte di Cassazione, garantisce “il valore del principio (supremo) dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”.
[5] È appena il caso di rilevare che la Corte Costituzionale ha una diversa posizione istituzionale nel nostro ordinamento e la sua giurisdizione, caratterizzata per il particolare oggetto, è fuori dal tema in discussione.
[6] Art. 3 L. 31.3.1889 n. 5992.
[7] Cfr., per i rapporti tra questi possibili giudizi, E. FOLLIERI, L’autonomia e la dipendenza tra i processi in materia di responsabilità pubbliche in Dir. Proc. Amm. 2014, 391.
[8] E. FOLLIERI, op. ult. cit., 399 e ss. ove si considerano gli strumenti che l’ordinamento ha previsto per il coordinamento delle giurisdizioni e al fine di evitare il contrasto di giudicati e il superamento di quest’ultimi.
[9] Sia consentito rinviare a E. FOLLIERI, Il sindacato della Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato in www.giustamm.it 2014, e ivi riferimenti di dottrina e giurisprudenza.
[10] Per la necessità, ancora di recente riproposta, di sottoporre le sentenze del Consiglio di Stato al rimedio del ricorso straordinario alla Corte di Cassazione per violazione di legge ex art. 111, comma 7, della Costituzione, quando il giudice amministrativo si pronunzi sui diritti soggettivi in sede di giurisdizione esclusiva, cfr. E. SCODITTI, I diritti fondamentali fra giudice ordinario e giudice amministrativo in nota a Corte di Cassazione, sez. un., 25.11.2014 n. 25011 in Foro. Ital. 2015, I, 962 e ss., part. 966-967.
[11] Cfr. U. MATTEI, Precedente giudiziario e stare decisis in Digesto Disc. Priv., vol. XIV, Torino 1996, 148 e ss.; A. PIZZORUSSO, Delle fonti del Diritto in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna, 2011, 728 e ss..
[12] Cfr. E. GUICCIARDI, Consiglio di Stato in Nov. Dig. Ital., vol. IV, Torino 1959, 189 e ss..
[13] La poiesi è produzione, formazione, creazione ed è l’attività dello spirito, per sua natura creativa, come quella dell’artista.
[14] Il giudice acquisisce le sue conoscenze giuridiche innanzitutto nell’università che gli dà la prima base formativa di diritto e, poi, la sua cultura si accresce nello studio della dottrina. La giurisprudenza è commentata dalla dottrina che la verifica costantemente, dando spesso alimento a nuove impostazioni e a modifiche di precedenti indirizzi in un attivo rapporto culturale dialettico.
[15] L.R. LEVI SANDRI, L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, vol. III, Roma 1981, 1299 e ss..
[16] Cons. Stato, Sez. IV, 29.11.1961, n. 680 in Rass. Cons. Stato 1961, I, 1893.
[17] L.R. LEVI SANDRI, op. ult. cit., 1312.
[18] L.R. LEVI SANDRI, op. ult. loc. cit..
[19] L.R. LEVI SANDRI, op. ult. loc. cit..
[20] Art. 2 L. n. 5992/1889.
[21] E. GUICCIARDI, Consiglio di Stato, op. cit., 192.
[22] L’art. 5 D. L.vo 6.5.1948 n. 654 stabiliva che il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana potesse definire la cognizione del ricorso al Consiglio di Stato quando il punto di diritto “abbia dato o dia luogo a contrasti giurisprudenziali”.
Sulla formazione del sistema cfr. F.G. SCOCA, in Giustizia amministrativa a cura di Franco Gaetano Scoca, VI ed., Torino 2014, 4 e ss..
[23] Per la Corte di Cassazione, l’art. 374, comma 3 c.p.c. è stato introdotto dall’art. 8 D. L.vo 2.2.2006 n. 40 e, per la Corte dei Conti, la previsione è stata dettata dall’art. 42 L. 18.6.2009 n. 69 che l’ha aggiunta all’art. 1, comma 7, del D.L. 15.11.1993 n. 453, convertito, con modificazioni dalla L. 14.1.1994, n. 19.
[24] E. FOLLIERI, L’introduzione del principio dello stare decisis nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento alle sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in Dir. Proc. Amm. 2012, 1237; Rimedi avverso la violazione dell’art. 99, terzo comma, del codice del processo amministrativo in www.giustamm.it 2013; Lo stare decisis nel processo amministrativo in Dir. e proc. amm. 2015, 17; Gli effetti retroattivi del principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato tra certezza del giudicato e effettività dell’ordinamento giuridico in www.siaaitalia.it 2015.

 

(pubblicato il 21.5.2015)

 

 

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