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DONATO CASALINO

Il superamento del dissenso tra Stato e Regione nei procedimenti di autorizzazione di infrastrutture lineari energetiche di cui all'art. 52-quinquies del D.p.r. 327/2001 – il caso del gasdotto d’importazione Trans Adriatic Pipeline

 

 


 

 

ABSTRACT: L'evoluzione normativa del settore energetico susseguitasi negli anni, in ragione della necessità di velocizzare i tempi di sviluppo e potenziamento delle infrastrutture del sistema Paese, ha portato all'introduzione della c.d. autorizzazione unica. Tuttavia, a causa del caotico affastellarsi di differenti procedure disegnate dal legislatore per il superamento del dissenso, ci si interroga circa la modalità di conclusione del procedimento di cui all’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001 nell’ipotesi in cui vi sia una mancata definizione dell’intesa Stato/Regione; ovvero, più chiaramente, se debba ritenersi ancora applicabile il comma 6 dell’art. 52-quinquies citato oppure l’art. 1, comma 8-bis, della legge 239/2004 ovvero, ancora, l’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 241/90. Risolta la questio iuris a favore dell’applicabilità dell’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 231/90, si evidenzia come, tuttavia, tale procedimento aggravato, si manifesti inappagante proprio sul crinale dell’effettività, ove le scelte localizzative dell’infrastruttura siano condizionate da valutazioni di compatibilità ambientale raggiunte all’esito di un subprocedimento il cui puntuale rispetto restringe significativamente i margini del dialogo istituzionale, sia nella sede procedimentale propria, sia in quella aggravata innanzi la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tale conclusione è ancora più evidente, ove si rifletta sulla possibilità di giungere innanzi alla Presidenza del Consiglio, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 3, cit., per il superamento del dissenso regionale, nonostante il Consiglio dei Ministri abbia già deliberato in via definitiva sulla VIA, a seguito di una rimessione degli atti del subprocedimento ambientale in ragione di un contrasto tra Ministero dell’Ambiente e Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Tali ipotesi, d’altro canto, si è concretamente realizzata in occasione del procedimento innanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per superare il dissenso della Regione Puglia in merito alla realizzazione del progetto “Trans Adriatic Pipeline”. Dall’analisi dell’articolazione procedimentale innanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri si è indotti ad avanzare dubbi, corroborati dalla lettura della parte motiva della deliberazione del Consiglio dei Ministri sul caso “Trans Adriatic Pipeline”, sulla legittimità costituzionale del procedimento aggravato di cui all’art. 14-quater, comma 3, cit.


SOMMARIO
: introduzione; l’intesa c.d. “forte” tra Stato e Regione nei procedimenti di autorizzazione di infrastrutture lineari energetiche; l’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 241/90; il procedimento dell'art.1, comma 8-bis, della legge n. 239 del 2004 sulle grandi opere nel settore energetico; abrogazione o vigenza del comma 6 dell’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001; le contrastanti valutazioni sull’applicabilità dell’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 241/90 e sull’efficacia del modello di componimento del dissenso introdotto dall’art. 33-octies, comma 1, legge n. 221 del 2012: il caso del gasdotto d’importazione “Trans Adriatic Pipeline”.


Introduzione
L'evoluzione normativa del settore energetico susseguitasi negli anni, anche in ragione del recepimento della normativa comunitaria e della necessità di velocizzare i tempi di sviluppo e potenziamento delle infrastrutture del sistema Paese, ha portato all'introduzione della c.d. autorizzazione unica, volta a coordinare i diversi iter procedurali incardinati presso le singole amministrazioni, nei diversi settori di competenza, che vengono pertanto coinvolte in un'unica procedura gestita dall'amministrazione competente. Tale procedura comprende e sostituisce tutte le autorizzazioni e i consensi necessari alla realizzazione e all'esercizio delle infrastrutture energetiche, ivi compresi quelli di carattere ambientale – valutazione d’impatto ambientale e/o valutazione d’incidenza naturalistico-ambientale –, necessari alla realizzazione e all'esercizio delle infrastrutture, ricorrendo allo strumento della "conferenza di servizi", disciplinata dagli artt. 14 e ss. della L.241/1990.
La conferenza di servizi risponde, da un lato, all'esigenza di evitare la dispersione delle funzioni amministrative, dall'altro, all'esigenza di individuare un modulo procedimentale efficiente, destinato ad operare in un unico contesto, in cui la decisione finale costituisce in concreto la risultante di un processo di formazione dove si esprimono, in posizione tendenzialmente paritaria, più soggetti, ciascuno dei quali è titolare di un interesse pubblico coinvolto nel procedimento che l'amministrazione responsabile è tenuta a valutare al fine del corretto bilanciamento tra gli interessi stessi.
A fronte di questa duplice funzione, la conferenza di servizi oltre che strumento di semplificazione dell'azione amministrativa, si configura soprattutto come la "sede ideale" per la valutazione contestuale di molteplici interessi.
Per la realizzazione e gestione di infrastrutture lineari energetiche la normativa di riferimento, per quanto concerne i gasdotti appartenenti alla rete nazionale di trasporto dell’energia, è costituita dall’art. 52-quinquies del DPR 8 giugno 2001, n. 327, in combinato disposto con l’art. 9 del D.Lgs 23 maggio 2000 n. 164, che prevede un regime autorizzatorio semplificato, basato su un "procedimento unico" da svolgersi mediante convocazione di una conferenza dei servizi ai sensi degli artt. 14 ss. della legge n. 241/90. Il provvedimento ampliativo è rilasciato dal Ministero dello Sviluppo Economico, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate, coerentemente al combinato disposto degli artt. 117, comma 3 e 118, comma 1 Cost., per le materie in cui vi sia competenza concorrente di Stato e Regioni, nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico, e comprende la dichiarazione di pubblica utilità, nonché, ove prevista, la valutazione di impatto ambientale e/o la valutazione di incidenza naturalistico-ambientale, comportando l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio e la variazione degli strumenti urbanistici.
In caso mancato raggiungimento dell’intesa con la regione o le regioni interessate, l’ordinamento appronta differenti strumenti di composizione del dissenso, tuttavia, non compiutamente armonizzati tra di loro e dei cui rispettivi confini applicativi si dubita. Infatti in ragione del caotico affastellarsi di differenti procedure, disegnate dal legislatore a seguito di ripetuti arresti della giurisprudenza costituzionale, ma senza una effettiva visione d’insieme, ci si interroga circa la modalità di conclusione del procedimento di cui all’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001 nell’ipotesi in cui vi sia una mancata definizione dell’intesa; ovvero, più chiaramente, se debba ritenersi ancora applicabile il comma 6 dell’art. 52-quinquies citato oppure l’art. 1, comma 8-bis, della legge 239/2004 ovvero, ancora, l’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 241/90.


L’intesa c.d. “forte” tra Stato e Regione nei procedimenti di autorizzazione di infrastrutture lineari energetiche
Il comma 7, dell’art. 1, della legge 239/2004 (c.d. legge Marzano) traccia la linea di confine delle competenze Stato/Regione in ordine all’esercizio di funzioni amministrative. Ai sensi della normativa citata, spetta allo Stato, anche avvalendosi dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas ed il servizio idrico integrato, l'identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento all'articolazione territoriale delle reti infrastrutturali energetiche dichiarate di interesse nazionale ai sensi delle leggi vigenti, nonché l'individuazione, di intesa con la Conferenza unificata, della rete nazionale di gasdotti. Gli artt. 29, comma 2, lett. g), del D.Lgs 112/98 e 52-quinquies del D.P.R. 327/2001, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, attribuiscono nella materia di cui si tratta un potere autorizzatorio allo Stato, riconoscendo quindi "una competenza amministrativa generale e di tipo gestionale" all'amministrazione statale in presenza di esigenze di carattere unitario.
Il necessario coinvolgimento delle Regioni, di volta in volta interessate al procedimento di autorizzazione di cui all’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001, è attuato dal T.U. de qua mediante quello strumento particolarmente efficace costituito dall'intesa in senso “forte”, la quale assicura una adeguata partecipazione di queste ultime allo svolgimento del procedimento incidente sulle molteplici competenze delle amministrazioni regionali e locali, anche ai fini della localizzazione delle infrastrutture lineari energetiche.
Nell’ambito legislativo afferente alla "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia" devoluto dalla Costituzione alla competenza concorrente Stato/Regione, occorre, infatti, considerare che il problema della competenza legislativa dello Stato non può essere risolto esclusivamente alla luce dell'art. 117 Cost. Come ripetutamente chiarito dalla Corte Costituzionale[1], è infatti indispensabile una ricostruzione che tenga conto dell'esercizio del potere legislativo di allocazione delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell'art. 118 Cost., conformemente a quanto già la Corte Costituzionale ha ritenuto possibile nel nuovo assetto costituzionale[2]. In questa logica, la legge 330/2004, modificativa del D.P.R. 327/2001, pur senza negare il vigente ordinamento costituzionale ed in particolare l'attribuzione di potestà legislativa di tipo concorrente alle regioni in tema di "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia", ha ridefinito in modo unitario ed a livello nazionale i procedimenti di autorizzazione delle maggiori infrastrutture energetiche lineari, in base all'evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell'esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative.
L’indefettibile principio dell’intesa è assunto a principio fondamentale della materia dall’art. 1, comma 7 lett. n) e comma 8 lett. b), numero 2, della legge 239/2004, con riserva a favore dello Stato dell’esercizio delle funzioni amministrative negli ambiti individuati dalle citate disposizioni. La stessa Corte Costituzionale ha già qualificato le norme citate come principi fondamentali della materia di potestà legislativa concorrente «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»[3]. Analogamente, l’art. 29, comma 2, lettera g), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59), riserva allo Stato, come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale, funzioni amministrative e autorizzatorie in materia di impianti costituenti parte della rete energetica nazionale[4]. Le richiamate disposizioni, sulla scorta degli insegnamenti espressi dalla Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 303 del 2003, in virtù del principio di legalità, hanno l’effetto della conseguente attrazione anche della indispensabile competenza legislativa per la disciplina delle funzioni “chiamate in sussidiarietà”.
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire in più occasione che il soddisfacimento di una esigenza unitaria, sebbene giustifichi l’attrazione allo Stato, per ragioni di sussidiarietà, sia dell’esercizio concreto della funzione amministrativa che della relativa regolamentazione nelle materie di competenza regionale, deve tuttavia obbedire alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza costituzionale, fra le quali la Corte sovrana ha sempre annoverato la presenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni. In particolare, si è affermato che «l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa»[5] e che tali «intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la “chiamata in sussidiarietà” di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese “in senso forte”, ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti»[6]. In tali casi, ha inoltre precisato la Corte, «il secondo comma dell’art. 120 Cost. non può essere applicato». Di tal ché, la previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una «drastica previsione» della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, ma che siano necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze»[7].
Con sentenza n. 331/2010, inoltre, il Giudice delle leggi ha affermato che: «la disciplina normativa di queste forme di collaborazione e dell’intesa stessa, spetta […] al legislatore che sia titolare della competenza legislativa in materia: si tratta, vale a dire, del legislatore statale, sia laddove questi sia chiamato a dettare una disciplina esaustiva con riferimento alla tutela dell’ambiente, sia laddove la legge nazionale si debba limitare ai principi fondamentali, con riferimento all’energia. Anche in quest’ultimo caso, infatti, determinare le forme ed i modi della collaborazione, nonché le vie per superare l’eventuale stallo ingenerato dal perdurante dissenso tra le parti, caratterizza, quale principio fondamentale, l’assetto normativo vigente e le stesse opportunità di efficace conseguimento degli obiettivi prioritari, affidati dalla Costituzione alle cure del legislatore statale».


L’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 241/90
Il superamento del dissenso, nella disciplina generale della conferenza di servizi contenuta nella legge 241/90, è regolato dal comma 6-bis dell’articolo 14-ter, che definisce la fase conclusiva della conferenza, nell’ipotesi in cui non siano stati espressi dissensi qualificati, e dall’ articolo 14-quater, che contiene viceversa la disciplina per il superamento del dissenso qualificato.
Il dissenso, infatti, può essere ordinario o qualificato, a seconda che venga o meno espresso da una amministrazione preposta alla cura di interessi c.d. sensibili ovvero da un regione o provincia autonoma nelle materie di propria competenza. Il dissenso qualificato, conseguentemente, può distinguersi secondo due criteri: uno oggettivo, che ha riguardo al singolo interesse pubblico curato dall’amministrazione che lo manifesta, l’altro soggettivo, il quale, viceversa, tiene conto dell’ ente pubblico (regione o provincia autonoma) da cui promana, prescindendo dalla natura degli interessi tutelati e potendo riguardare materie di competenza della regione o provincia autonoma.
La particolare posizione riconosciuta a regioni e province autonome dall’articolo 14-quater, è certamente conseguenza dell’ esigenza di tenere conto della nuova situazione conseguente alla modifica del titolo V della Costituzione e della compatibilità con i principi della superabilità del dissenso delle regioni espresso nelle materie di propria competenza. Infatti, nel modello prodotto dalla legge 340/2000, le uniche amministrazioni titolari del potere di remissione della decisione alla seconda istanza erano quelle preposte alla cura di interessi c.d. sensibili[8].
Di recente, con sentenza 11 luglio 2012, n. 179, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 49, comma 3, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui, modificando l’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, prevedeva che, se in sede di conferenza di servizi il motivato dissenso fosse espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, «il Consiglio dei Ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate».
I giudici, infatti, sono pervenuti alla declaratoria di incostituzionalità osservando che la norma impugnata recava la «drastica previsione» della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, posto che il Consiglio dei ministri avrebbe deliberato unilateralmente in materie di competenza regionale, allorquando, a seguito del dissenso espresso in conferenza dall’amministrazione regionale competente, non si fosse raggiunta l’intesa con la Regione interessata nel termine dei successivi trenta giorni.
La Corte sovrana ha obiettato non solo che il termine fosse così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, ma come dal suo inutile decorso si facesse automaticamente discendere l’attribuzione al Governo del potere di deliberare, senza che fossero previste le necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze».
In ossequio agli insegnamenti della giurisprudenza costituzionale, il legislatore ha, dunque, posto nuovamente mano al comma 3 dell’art. 14-quater della legge 241/90, da un lato, enfatizzando il riferimento al dissenso espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, dall’altro, elaborando un articolato procedimento, da radicarsi su iniziativa dell’amministrazione procedente, innanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, suddiviso in fasi, ove tentare mediazioni di tipo tecnico progressivamente più incisive, fino al raggiungimento dell’intesa. Tuttavia, nell’ipotesi in cui decorrano infruttuosamente novanta giorni dalla rimessione, secondo quella cadenza tripartiva divisata dal legislatore, la Presidenza investe della questione il Consiglio dei Ministri per il superamento del dissenso, il quale adotta la propria deliberazione con la partecipazione dei Presidenti delle regioni o delle province autonome interessate.


Il procedimento dell'art. 1, comma 8-bis, della legge n. 239 del 2004 sulle grandi opere nel settore energetico
Il comma 8-bis, dell'art. 1 cit., è una disposizione dettata per la realizzazione di opere che riguardano il settore energetico e, segnatamente, d’infrastrutture lineari energetiche facenti parte della rete nazionale di trasmissione dell'energia. Esso, come incidentalmente ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 239 del 2013, è stato introdotto dal legislatore (art. 38. comma 1, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n, 134) con l'intenzione «di superare con la norma in questione le situazioni di stallo nel settore energetico», come dimostrato dall'andamento dei lavori parlamentati e dal fatto che la relazione illustrativa «evidenzia come molti procedimenti relativi alla realizzazione di infrastrutture energetiche strategiche risultino fortemente rallentati o sospesi, anche per anni, a causa dell'inerzia delle amministrazioni regionali aventi competenza concorrente nell’autorizzazione o concessione relativa alle opere da realizzare».
La disposizione ha una portata piuttosto ampia, che, in coerenza con tale ratio, è finalizzata a dettare i criteri per risolvere il problema che nasce dall’opposizioni degli enti territoriali alla realizzazione di opere in questo settore, e specialmente quelle opposizioni che, lontane da una fisiologica attuazione del principio di leale collaborazione, appaiono indirizzate ad esprimere un diniego aprioristico ed assoluto, legato anzitutto, se non esclusivamente, ad una protezione del territorio di riferimento. Essa, quindi, fatte salve le disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale (dato che queste ultime assumono una rilevanza a sé stante), detta un procedimento nel quale si percorre una strada che può portare ad una determinazione positiva e risolutiva assunta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il percorso presuppone che vi sia la «mancata espressione da parte delle amministrazioni regionali degli atti di assenso o di intesa, comunque denominati, inerenti alle funzioni di cui ai commi 7 e 8 del presente articolo, entro il termine di 150 giorni dalla richiesta, nonché nel caso di mancata definizione dell'intesa di cui al comma 5 dell'articolo 52-quinquies” del T.U. n. 327/2001 […] nei casi di cui all'art. 3, comma 4, del decreto legislativo 1 giugno 2011, n. 93». In tali circostanze, il Ministro dello Sviluppo Economico invita l'ente a provvedere entro un termine non superiore a 30 giorni. In caso di ulteriore inerzia da parte delle amministrazioni regionali interessate, lo stesso Ministero rimette gli atti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale, entro ulteriori 60 giorni dalla rimessione, provvede in merito, con la partecipazione della regione interessata.
Ebbene, la disposizione, anzitutto, non sembra riferirsi, in senso stretto, solo al caso del “silenzio” della regione, sia perché una tale lettura non sarebbe per nulla coerente con la sua ratio, cosi come prima individuata, sia perché, anche sul piano letterale, non sembra potersi evincete una restrizione di questo tipo.
Può ritenersi che il meccanismo di composizione delle divergenze tra Stato e regione, di cui all’art. 1, comma 8-bis della legge Marzano, è da ravviarsi in tutti quei casi in cui la regione non abbia tenuto un atteggiamento ispirato al principio di leale collaborazione ed abbia, viceversa, mantenuto una mera e assoluta inerzia ovvero abbia opposto atteggiamenti dilatori o elusivi volti ad effettuare un'opposizione di tipo assoluto e incondizionato, senza lasciare alcuno spazio al dialogo con to Stato. Dubbi, tuttavia, permangono nel caso in cui la regione abbia espresso atti di diniego. Secondo taluni, infatti, la disposizione si riferirebbe anzitutto al caso in cui sia mancata l'espressione dell'assenso, il ché, comprensibilmente, può avvenire sia quando vi sia stata mera e pura inerzia, sia quando vi sia stato un perentorio diniego, dovendosi, anche in tale evenienza, ritenersi mancante l'assenso. Essa, vieppiù, oltre al caso in cui non vi sia stato l'assenso, contempla l'ipotesi in cui sia mancata l'intesa. Quest'ultima, come chiarito in molte occasioni dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale è atto bilaterale, sicché una tale aggiunta non può che volersi riferire al caso in cui, appunto, l'atto a struttura bilaterale non si sia potuto perfezionare; il che potrebbe accadere proprio quando, dopo il fisiologico dialogo procedimentale e istituzionale (e quindi in contesti ben lontani dal mero silenzio) la regione abbia, per l'appunto, opposto il suo diniego all'intesa.
Tuttavia, in senso contrario, si osserva che è la stessa Corte Costituzionale a chiarire, con la citata sentenza interpretativa di rigetto 7-11 ottobre 2013, n. 239, che la norma si riferisce a tre ipotesi: la prima riguarda la mancata espressione, da parte delle amministrazioni regionali, degli atti di assenso o di intesa in ordine alle funzioni di cui ai commi 7 e 8 del medesimo articolo entro il termine di centocinquanta giorni dalla richiesta (i citati commi 7 e 8 affidano allo Stato, in forza del principio di sussidiarietà, l'esercizio di numerosi compiti e funzioni amministrativi nel settore energetico, con previsione dell'intesa); la seconda, regola il caso di mancata definizione dell'intesa di cui all'art. 52-quinquies, comma 5, del d.P.R. n. 327 del 2001, alla stregua del quale «Per le infrastrutture lineari energetiche di cui al comma 2, l'atto conclusivo del procedimento di cui al comma 2 è adottato d'intesa con le regioni interessate» (il successivo comma 6, sostituito dalla norma in esame, disciplina il procedimento in caso di mancata definizione dell'intesa nel termine prescritto per il rilascio dell'autorizzazione); la terza, concerne «il mancato rispetto da parte delle amministrazioni regionali competenti dei termini per l'espressione dei pareri o per l'emanazione degli atti di propria competenza».
Il Giudice delle leggi, quindi, viene in soccorso dell’interprete, quando, chiarendo la ratio della norma in esame, afferma che essa mira a superare le forme di inerzia che danno luogo ad ingiustificate stasi del procedimento. Tant’è che fa salve le posizioni eventualmente assunte, quando precisa: «(…) ferma restando la libertà dello Stato e della regione di esprimere senza alcun vincolo i propri punti di vista e le proprie determinazioni favorevoli o contrarie a certe scelte - l'adozione, da parte della regione, di una condotta meramente passiva, che si traduca nell'assenza di ogni forma di collaborazione, si risolve in una inerzia idonea a creare un vero e proprio blocco procedimentale con indubbio pregiudizio per il principio di leale collaborazione e per il buon andamento dell'azione amministrativa», ribadendo che essa fa riferimento al caso di «mancata espressione da parte delle amministrazioni regionali degli atti di assenso o di intesa comunque denominati», al caso «di mancata definizione dell'intesa» e ai casi «di mancato rispetto da parte delle amministrazioni regionali dei termini per l'espressione dei pareri o per l'emanazione degli atti di propria competenza».


Abrogazione o vigenza del comma 6 dell’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001
Con l’ultimo inciso, il comma 8-bis citato parrebbe abbia disposto l'abrogazione della disciplina sancita dal comma 6 dell’art. 52-quinquies, applicabile a tutti i casi di «mancata definizione dell’intesa con la regione o le regioni interessate nel termine prescritto per il per il rilascio dell’autorizzazione». Il comma citato, infatti, recita: «Le disposizioni del presente comma si applicano anche ai procedimenti amministrativi in corso e sostituiscono il comma 6 del citato articolo 52-quinquies del testo unico di cui al d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327».
Tuttavia, potrebbe avanzarsi l’ipotesi (come in effetti da taluni teorizzato) di una perdurante vigenza della norma contenuta nel comma 6 dell’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001, sulla base del fatto che vi siano state recenti sentenze della Corte Costituzionale[9] che, occupandosi dell'art. 52-quinquies, non ne abbiano rilevato l’abrogazione e che, nelle fonti di cognizione più diffuse, non si dia espresso conto di tale abrogazione.
La questione merita chiarezza, in quanto l’opzione interpretativa cui si accede riverbera i propri esiti sul tema in esame, sancendo l’applicabilità o meno dell’art. 14-quater, comma 3, della legge 241/90, ove a conclusione del procedimento di cui all’art. 52-quinquies del T.U. Espropri si registri la mancata definizione dell’intesa Stato/Regione. Il comma 6 dell’articolo citato, infatti, è norma speciale ed, in quanto tale, prevalente al cospetto d’una disposizione con essa contrastante di portata generale.
A riguardo devono, dunque, analizzarsi, in via preliminare, le tipologie degli effetti abrogativi. Secondo un'interpretazione ormai consolidatasi[10] dell'art. 15 disp. prel. cod. civ, questa disposizione prevede due generi e tre specie di atti abrogativi (cui una quarta specie tende ad affiancarsi nella prassi legislativa). L'atto abrogativo può essere espresso, ossia eseguito mediante l'emanazione di una disposizione abrogatrice. Questa può dirsi “nominata” allorché la disposizione abrogatrice identifica con precisione il suo oggetto: “E' abrogato l'articolo x della legge y”; “innominata”, allorché la disposizione abrogatrice ha un oggetto indeterminato: “Sono abrogate tutte le norme incompatibili con la presente legge”. E' quest'ultima la specie di atto abrogativo non prevista dall'art. 15 disp. prel. cod. civ., ma affermatasi nella prassi legislativa.
L'atto abrogativo è definito invece tacito quando l'effetto abrogativo discende non dall'emanazione di disposizioni specificatamente abrogatrici, bensì da disposizioni di altra natura. Si parla allora di abrogazione per “incompatibilità”, allorché viene emanata una disposizione che, per una determinata fattispecie, detta una disciplina che sia incompatibile con la disciplina dettata, per quella stessa fattispecie, da una disposizione cronologicamente antecedente. Talché, la disposizione antecedente viene considerata abrogata anche in mancanza di un atto abrogativo espresso in tal senso.
Si può parlare ancora di abrogazione “per nuova disciplina” allorché venga emanata una serie di disposizioni che, per un determinato insieme di fattispecie tra loro connesse (“una intera materia”), dettano una disciplina nuova (non necessariamente incompatibile) rispetto a quella dettata da una o più disposizioni cronologicamente antecedenti. Anche in tale ipotesi le disposizioni antecedenti vengono considerate abrogate pur in assenza di un atto abrogativo espresso in tal senso.
Tali figure altro non sono che l'esplicazione di uno stesso fenomeno e istituto giuridico, uno ed unico essendo l'effetto che da esse si genera, riconducibili tutte allo stesso comune denominatore della incompatibilità (in senso ampio). In sostanza, come correttamente rileva Crisafulli[11], in entrambe le ipotesi (abrogazione espressa e abrogazione tacita), l'effetto abrogativo presuppone incompatibilità tra norme anteriori e norme successive: solo che, nella abrogazione espressa, tale incompatibilità è autoritativamente accertata dallo stesso legislatore, e deve quindi presumersi juris et de jure; mentre, nell'abrogazione tacita, l'accertamento dell'incompatibilità è rimesso all'interprete, ed in ultima analisi al giudice, cui spetta dichiarare caso per caso l'abrogazione e precisarne i limiti.
Per vero, la circostanza che le fonti di cognizione del diritto non diano riscontri circa l’abrogazione della disposizione dell’art. 52-quinquies, comma 6, del D.P.R. 327/2001, potrebbe indurre a ritenere o che vi sia abrogazione tacita o che l’abrogazione non vi sia affatto. D’altro canto, non può fondatamente ritenersi l’esistenza di una abrogazione tacita del comma 6 dell’articolo citato ad opera del comma 8-bis della legge Marzano. Infatti, riferendosi il primo ad ipotesi, anche, di dissenso espresso ed il secondo a contegni inerti o dilatori ed elusivi della regione dissenziente, la successione normativa non presenterebbe l’indefettibile carattere dell’incompatibilità. Di tal ché, parrebbe consentito desumerne un effetto, al più, derogatorio, in parte qua, ma non anche abrogativo.
Tuttavia, diversamente opinando, non può sottacersi che l’ultimo inciso del comma 8-bis della legge 239/2004, introdotto dal legislatore con l’art. 38, comma 1, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 134, identifica con precisione la disposizione da sostituire con quella prevista nel medesimo comma, con ciò acclarandone una incompatibilità juris et de jure. La vicenda normativa in esame, è dunque da qualificarsi, più correttamente, in termini di abrogazione espressa nominata.
E’ bene precisare, a riguardo, che spesso il momento del togliere, della abrogazione, viene assorbito all’interno di una vicenda pratica e linguistica più ricca che comprende tacitamente il togliere come momento logicamente e praticamente preliminare rispetto all’obiettivo finale. Siffatta vicenda può essere chiamata col nome generale e onnicomprensivo di “modificazione” di una precedente legge. Il caso più semplice ed evidente si ottiene con le cosiddette novelle: il legislatore dice espressamente, e rende chiaro anche con opportuni segni grafici (le virgolette), che un certo articolo che egli designa, o un comma, o un titolo, “è così modificato”: seguono un a capo e, tra le virgolette, il nuovo testo. In che cosa consiste la modificazione dipende dalla lettura del nuovo testo, comparandolo col vecchio che viene modificato. Questo spiega perché il fenomeno venga nominato anche con le parole “integrazione” e “sostituzione”.
In tutti questi casi sarebbe un errore se la legge, dopo aver novellato un precedente testo, contenesse una disposizione che dicesse che il vecchio testo viene abrogato. L’abrogazione di parte del vecchio testo, infatti, è già idealmente contenuta nel nuovo testo che prende il posto del precedente[12].
Il caso descritto è quello ideale, propugnato dai testi di legistica, mediante il quale la sostituzione da parte di un nuovo testo al posto del vecchio viene compiuta in modo testuale ed espresso. Purtroppo, talvolta, il legislatore opera seconda prassi meno chiare e coerenti, come nel caso in esame, con ciò rendendo di difficile attuazione la materiale modifica del testo novellato. In simili circostanze è l’operatore giuridico che mette a confronto il vecchio testo e le modificazioni che il secondo legislatore vuole apportarvi, costruendo un terzo testo che è la risultante del confronto tra i due precedenti. Il ché spiega la ragione per la quale la “sostituzione” divisata dal legislatore del 2012 del comma 6 dell’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001 non abbia riscontro grafico nelle fonti di cognizione. Né può valere, a suffragio della tesi avversata, il fatto che la Corte Costituzionale nelle citate sentenze del 2013 e 2014 non abbia rilevato l’abrogazione de qua, in quanto tale questione esondava dagli argini del giudizio costituzionale, il quale viceversa attingeva dubbi di legittimità costituzionale di leggi regionali con le quali si impedivano tout court localizzazioni di infrastrutture energetiche.


Le contrastanti valutazioni sull’applicabilità dell’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 241/90 e sull’efficacia del modello di componimento del dissenso introdotto dall’art. 33-octies, comma 1, legge n. 221 del 2012: il caso del gasdotto d’importazione “Trans Adriatic Pipeline”
Premesso quanto osservato circa l’abrogazione espressa della disposizione contenuta nell’art. 52-quinquies, comma 6, del D.P.R. 327/2001, a seguito del ricordato intervento riformatore di cui all’art. 38, comma 1, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 134, è d’uopo valutare se, a seguito della mancato raggiungimento dell’intesa Stato/Regione, debba tentarsi il componimento del dissenso secondo la procedura aggravata disciplinata dal comma 8-bis, dell'art. 1, legge 239/2004, ovvero quella dell'art. 14-quater, comma 3, della legge 241/90.
Potrebbe ritenersi, ad una prima analisi, che la disciplina del comma 3 dell'art, 14-quater, non sia applicabile al caso di un'opera infrastrutturale la cui portata (e il cui procedimento autorizzativo) rientri nella competenza statale. Tale chiave interpretativa è stata da taluni dedotta dal primo periodo del comma 3, rispondendo ad una disposizione che nel suo prosieguo si adatterebbe al caso di interventi sui quali vi sia una competenza amministrativa prevalentemente di una regione od anche di un ente locale e/o un interesse di tali enti territoriali.
Per vero, la tesi, sebbene suggestiva, non convince in quanto l'esclusione posta nell'incipit del comma 3 dell'art. 14-quater, non può riferirsi alle infrastrutture il cui progetto sia sottoposto al procedimento di autorizzazione di cui all'art. 52-quinquies T.U. Espropri, in quanto tali infrastrutture, nonostante l'art. 37 del d.l. 133/2014 ne abbia riconosciuto il carattere strategico e di preminente interesse nazionale, tuttavia, non rientrano ipso facto tra quelle di cui alla parte seconda, titolo terzo, capo quarto del codice degli appalti, necessitando, in ragione della loro natura di opere private, di essere inserite nel programma di cui alla c.d. legge “Obbiettivo”; né rientrano nell'alveo disciplinare di cui al D.P.R. 616/77 e del D.P.R. 383/ 94 per la localizzazione di opera di interesse statale, né, infine, tra le ipotesi di cui all'art.117, comma 8, Cost., le quali, sebbene si riferiscano alle materie di competenza delle Regioni, sono tuttavia afferenti al procedimento di ratifica di intese tra regioni.
In secondo luogo, la tesi avversata, ritenendo applicabile la procedura della seconda parte del comma 3 dell'art. 14-quater alle sole ipotesi di procedimenti caratterizzati da una prevalente competenza delle regioni, ne svuoterebbe di fatto il contenuto normativo elaborato proprio al fine di regolare il procedimento aggravato teso al superamento del dissenso soggettivamente qualificato nell'ambito dei procedimenti che diano forma a funzioni amministrative attratte in sussidiarietà.
Atteso che, come appena detto, il comma 8-bis, art. 1 cit., è testualmente destinato a regolare infrastrutture in campo energetico e che invece l'art. 14-quater, comma 3, è norma rientrante nella legge generale sul procedimento, in virtù del principio di specialità, la disciplina della prima prevarrebbe, comunque, su quella della seconda ove la fattispecie fosse riconducibile anche all’ambito applicativo dell’art. 1, comma 8-bis, legge Marzano. Tale analisi e specificazione scende all'esame del tipo di diniego manifestato dalla Regione, allo scopo di valutare se esso rientri o meno nel concetto di cui la Cotte Costituzionale ha avuto modo di riferirsi nella sentenza n. 239 del 2013. Più chiaramente, si intende chiarire se sia ragionevole o meno ritenere che il diniego perentorio ad ogni intesa espresso dalla regione entro i termini procedimentali possa, in ogni caso, esprimere proprio quella forma di opposizione di tipo assoluto e incondizionato, la quale, non lasciando alcuno spazio al dialogo con lo Stato, non possa ritenersi in sintonia col principio di leale collaborazione, e sia, conseguentemente, idonea a legittimare, secondo il recente insegnamento della Corte Costituzionale, l'attuazione del percorso descritto dal comma 8-bis, art. 1 cit.
Il dubbio circa la corretta qualificazione del contegno manifestato dalla regione si è, in concreto, posto in occasione della rimessione alla deliberazione del Consiglio dei Ministri degli atti del procedimento autorizzativo del gasdotto d’importazione Albania-Italia denominato “Trans Adriatic Pipeline”, avviato ex art. 52-quinquies, D.P.R. 327/2001, dall’omonima società di progetto.
L’Ufficio legislativo del Ministero dello Sviluppo Economico, al fine del regolare svolgimento del proseguo dell’iter, con nota assunta a fondamento della determinazione ministeriale conclusiva del procedimento autorizzatorio, ha ritenuto opportuno fornire alla Presidenza del Consiglio i principi e le ragioni giuridiche sui quali era fondare la scelta di remissione degli atti alla seconda istanza innanzi alla Presidenza del Consiglio.
Orbene, per quanto riguarda il caso in esame, il predetto Ufficio legislativo ricorda come, in seguito all’espressione del giudizio favorevole di compatibilità ambientale (Decreto n. 223 dell’11.09.2014, emanato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, previa Deliberazione del Consiglio dei Ministri prot. DICR 0019634 del 10.09.2014), il giorno 3 dicembre 2014 si sia tenuta presso il Ministero dello Sviluppo Economico, autorità responsabile del procedimento, la riunione della “conferenza di servizi” per l’autorizzazione del metanodotto di interconnessione Albania – Italia “Trans Adriatic Pipeline”.
I lavori della conferenza sono stati abbastanza complessi, per le problematiche da superare sollevate dagli enti territoriali, segnatamente, Regione e Comune interessato. Al riguardo la Regione Puglia ha deliberato il diniego all’intesa Stato – Regione, con deliberazione di Giunta n. 2566 del 02.12.2014, consegnata agli atti della conferenza di servizi.
La Regione ha, quindi, espresso entro i termini del procedimento, in sede di conferenza di servizi, l’esplicito diniego di intesa, non indicando, fra l’altro alcuna ipotesi di modifica del progetto (nemmeno, a suo tempo, tra le alternative prospettate in sede di VIA) che avrebbe potuto essere oggetto di ulteriori approfondimenti istruttori finalizzati al superamento del dissenso.
A questo punto il responsabile del procedimento ha inevitabilmente dovuto qualificare la natura della delibera di giunta regionale, in quanto essa avrebbe comportato due iter procedimentali diversi. In particolare, risultava dirimente chiarire se l’atto amministrativo fosse configurabile come un comportamento di inerzia dell’amministrazione regionale o viceversa come una determinazione espressa di volontà.
La delibera regionale, in verità, sembra non manifestare alcuna apertura al confronto con lo Stato, trincerandosi dietro un rifiuto che finisce per apparire di tipo preliminare e assoluto.
La parte del “Considerato” che contiene la motivazione si riferisce a cinque punti: (1) il non corretto inquadramento dell'opera sotto il profilo progettuale quanto agli allacci funzionali; (2) l'elusione della normativa sulla VIA; (3) il giudizio negativo di compatibilità ambientale espresso dalla Regione Puglia con DGR n. 12 del 2014; (4) i problemi relativi alla disciplina sui Rischi di Incidente Rilevante; (5) le criticità ambientali relative all'approdo sulla costa prescelto e alle opere funzionalmente connesse.
Si consideri, a tal proposito, che il comma 8-bis esordisce facendo salve le disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale. Questa specifica previsione, che, rispetto questo tipo di inerzia/dissenso regionale, mette da parte il procedimento VIA ed i suoi contenuti, lungi dal voler "alleviare" il percorso procedimentale che lo Stato può seguire per far prevalere il suo punto di vista, pone una sorta di presidio a protezione delle ragioni di carattere ambientale. Per queste ultime, infatti, esiste un binario separato e autonomi procedimenti volti a superate eventuali dissensi. Questo però, fa si che, nel contempo, una volta che la VIA sia autonomamente conseguita, non si possa basare il dissenso regionale, né giustificarne l'inerzia, adducendo questioni che rilevano sotto il profilo VIA. D’altro canto, la materia della tutela ambientale è elencata, nell’art. 117 Cost., tra quelle a legislazione esclusiva, con la conseguenza che l’esercizio della relativa funzione amministrativa da parte dello Stato non necessita di forme di condivisione regionale che si sostanzino in un intesa c.d. “forte”.
Ciò detto, nel caso di specie, il provvedimento regionale è imperniato esclusivamente su cinque richiami ad altrettanti temi che erano stati già oggetto di approfondita valutazione nell’ambito del procedimento VIA. Dal secondo al quarto punto testé menzionati, sembra evidente il richiamo al tema della tutela ambientale. Inoltre, in verità, anche il primo punto è stato specifico oggetto della VIA, perché il problema degli “allacci” era stato abbondantemente trattato, proprio per il fatto che ne sarebbe derivata, secondo le amministrazioni dissenzienti, una violazione delle norme in materia di VIA.
Questa notazione potrebbe indurre a ritenere che gli argomenti dedotti dalla regione, non rientrando tra quelli che possano essere sollevati e discussi nel doveroso dialogo volto al raggiungimento di un'intesa, ne mal celino un attività elusiva, volta a sottrarsi dal confronto con lo Stato su alternative progettuali capaci di attrarre consensi da ambo le parti. Il ché, potrebbe giustificare l’adozione del procedimento disciplinato dal comma 8-bis, dell'art 1 cit.
Tuttavia, con la determina di rimessione degli atti adottata al termine del procedimento radicato innanzi al Ministero dello Sviluppo Economico, si è ritenuto che il diniego dell’Intesa della Regione Puglia venga a configurarsi come un dissenso “espresso” sull’opera. Dissenso di natura vincolante tra Stato e Regione, con il conseguente e necessario rinvio degli atti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 3, seconda parte, della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Il responsabile del procedimento ha ritenuto, infatti, non percorribile l’applicazione della normativa speciale e cioè, nel caso di specie, del comma 8-bis dell’art. 1 della L. 239/2004, alla stregua di una ponderata valutazione del contenuto normativo dell’articolo citato, interpretato per il fuoco della recente sentenza della Corte Costituzionale 239/2013.
Infatti, con la citata sentenza, la Corte precisa il proprio orientamento con la seguente espressione: «ferma restando la libertà dello Stato e della regione di esprimere senza alcun vincolo i propri punti di vista e le proprie determinazioni favorevoli o contrarie a certe scelte». Di tal ché, secondo l’arresto giurisprudenziale del Giudice della leggi, la norma citata, nel tentativo di superare le forme di inerzia che danno luogo ad ingiustificate stasi del procedimento, fa salve tuttavia le posizioni eventualmente assunte.
Dunque, per le ragioni esposte il responsabile del procedimento ha ritenuto che il “dissenso espresso” dalla Regione Puglia non fosse riconducibile alle forme di inerzia descritte, ma costituisse tout court una “determinazione contraria”, espressione della libertà costituzionalmente garantita della Regione, con la conseguenza che, in atti a struttura necessariamente bilaterale (cosiddette intese forti), in ossequio agli insegnamenti della giurisprudenza costituzionale, si sarebbero dovute attuare quelle « idonee procedure per consentire reiterate trattative […]» volte a superare le «divergenze»[13].
A conclusione dell’analisi, a sostegno della tesi da ultimo sostenuta, può rilevarsi che il legislatore statale, con la legge n. 190/2014 (c.d. Legge di stabilità 2015), al fine di semplificare la realizzazione delle infrastrutture energetiche strategiche, ancorché afferenti al settore petrolifero, e di promuoverne i relativi investimenti, all'articolo 57 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, ha inserito il comma 3-bis, che con riferimento ai procedimenti di autorizzazione recita: «in caso di mancato raggiungimento delle intese si provvede con le modalità di cui all'articolo 1, comma 8-bis, della legge 23 agosto 2004, n. 239, nonché con le modalità di cui all'articolo 14-quater, comma 3, della legge 7 agosto 1990, n. 241».
È così che il legislatore ha distinto i possibili percorsi, relativamente al comportamento delle amministrazioni regionali nell’ambito del procedimento unico: il primo nei casi di inerzia tout court, il secondo in caso di dissenso espresso in conferenza di servizi.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi anche nell’ipotesi in cui la regione, inizialmente silente, esprima il proprio dissenso oltre i termini di conclusione del procedimento. In tale evenienza, infatti, l’amministrazione procedente, prima di dare corso al procedimento aggravato di cui all’art. 1, comma 8-bis, della legge 23 agosto 2004, n. 239, dovrà in ogni caso notificare alla regione l’invito a deliberare, e solo ove ne permanga l’inerzia, potrà seguire la remissione della decisione alla seconda istanza ex comma 8-bis, art. 1 cit. Viceversa, a fronte dell’espressione di dissenso regionale conseguente alla notifica de qua, ancorché deliberato oltre i termini di conclusione del procedimento, dovrà procedersi sulla base dell’art. 14-quater, comma 3, legge 241/90, seguendo un percorso più articolato e caratterizzato da tempi più ampi e maggiori garanzie partecipative, elaborato al fine di accrescerne la valenza sul piano dell’effettiva idoneità a conseguire un componimento tra interessi confliggenti.
Tuttavia, proprio sul crinale dell’effettività, il procedimento aggravato di cui all’art. 14-quater, comma 3, cit., si manifesta inappagante, ove le scelte localizzative dell’infrastruttura siano condizionate da valutazioni di compatibilità ambientale raggiunte all’esito di un subprocedimento il cui puntuale rispetto restringe significativamente i margini del dialogo istituzionale, sia nella sede procedimentale propria, sia in quella aggravata innanzi la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La valutazione d’impatto ambientale, infatti, è diretta ad accertare la compatibilità ambientale di specifici progetti, valutandone gli impatti significativi e negativi che questi potrebbero produrre sulle componenti ambientali coinvolte dalla loro realizzazione. Nella VIA, complesse valutazioni di carattere tecnico, volte a determinare la compatibilità ambientale della realizzazione di opere infrastrutturali, si uniscono all’esercizio di discrezionalità amministrativa, volta a considerare tutti gli interessi pubblici coinvolti[14]. L’integrazione dei procedimento ambientali negli iter autorizzativi di opere ed interventi mostra la posizione privilegiata degli interessi ambientali e la loro astratta idoneità a bloccare la realizzazione di infrastrutture ovvero a dare la stura al loro insediamento nel contesto ambientale impattato. Tuttavia, a fronte dell’ampio spettro degli interessi regionali coinvolti, la regione, nell’ambito del procedimento di VIA statale, esprime un mero parere non vincolante. Di tal ché, eventuali posizione contrarie originate in quella sede, tendono a riverberarsi, all’esito del procedimento di autorizzazione unica, come intese negative, per rivendicare, a valle del procedimento principale, quella rilevanza nel dibattito istituzionale che alla regione è stata negata nell’ambito del subprocedimento ambientale. Tuttavia, nel procedimento di composizione del dissenso, il riconoscimento di una diversa localizzazione dell’opera o, in genere, di variazioni progettuali qualificabili come modifiche sostanziali, comporterebbe una nuova necessaria sottoposizione a VIA dell’opera, con conseguente vanificazione dell’intera disciplina acceleratoria sancita dal legislatore per infrastrutture delle quali si riconosce, expressis verbis (art. 37, legge 11 novembre 2014, n.164 di conversione del D.L. n. 133 del 12 settembre 2014), il carattere strategico e di preminente interesse nazionale. Ecco, dunque, come l’intesa in senso “forte”, che nella visione della Corte Costituzionale rappresenta «lo strumento necessario ai fini dell’identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento all’articolazione territoriale delle reti infrastrutturali energetiche dichiarate di interesse nazionale ai sensi delle leggi vigenti, inclusa la rete dei gasdotti»[15], scema, nel concreto dipanarsi del complessivo iter autorizzativo, a mero parere non vincolante, ed il percorso di cui all’art. 14-quater, comma 3, cit. ad onere formale prima dell’ineludibile deliberazione del Consiglio dei Ministri. Tale conclusione è ancora più evidente, ove si rifletta sulla possibilità di giungere innanzi alla Presidenza del Consiglio, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 3, cit., per il superamento del dissenso regionale, nonostante il Consiglio dei Ministri abbia già deliberato in via definitiva sulla VIA, a seguito di una rimessione degli atti del subprocedimento ambientale in ragione di un contrasto tra Ministero dell’Ambiente e Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Tali ipotesi, d’altro canto, si è concretamente realizzata in occasione del procedimento innanzi alla Presidenza del Consiglio per superare il dissenso della Regione Puglia in merito alla realizzazione del progetto “Tras Adriatic Pipeline”.
Sebbene la Corte Costituzionale, con sentenza n.179/2012 (nella quale si stigmatizza l’esiguità del termini il cui inutile decorso attribuisce al Governo il potere di deliberare), abbia rilevato, proprio sul crinale dell’ineffettività, l’illegittimità costituzionale del vecchio testo dell’art. 14-quater, comma 3, tuttavia, non sembra che l’intervento della novella del 2012 (art. 33-octies, comma 1, legge n. 221 del 2012) abbia creato un contesto realisticamente capace di favorire un componimento di interessi confliggenti tra Stato e Regione. Può, infatti, dubitarsi della legittimità costituzionale del nuovo testo del comma 3 cit., ove si volga lo sguardo, in sintonia con quanto divisato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 179/2012, al fatto che non solo un termine possa essere così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, ma che ad analogo risultato si pervenga ove parimenti esigui siano i margini di discussione che concretamente residuano nel procedimento radicato, ai sensi del novellato art. 14-quater, innanzi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Plastico esempio della lamentata ineffettività è offerto proprio dalla delibera con cui il Consiglio dei Ministri, condividendo le posizioni espresse a favore del progetto Trans Adriatic Pipeline, dà atto della possibilità di procedere all’autorizzazione dell’infrastruttura. Dall’analisi della parte motiva del provvedimento, infatti, sembra rilevarsi l’assenza di un reale confronto istituzionale su alternative di progetto, vestendo la Regione e le amministrazioni locali il ruolo di convitati di pietra.
Il punctum pruriens del deliberato sembra annidarsi proprio in quel confronto tra le istanze locali di delocalizzazione del punto di approdo del gasdotto, a tutela dei valori ambientali e della vocazione turistica dell’area impattata, con l’esigenza d’una tempistica accelerata per la conclusione del procedimento di autorizzazione di una infrastruttura strategica, di per sé incompatibile con una nuova valutazione d’impatto ambientale.
Vieppiù significativa è la sensazione che l’elaborato procedimento svoltosi innanzi alla Presidenza del Consiglio sia servito, contrariamente alla sua vocazione, non tanto a mediare tra interessi confliggenti alla ricerca di soluzioni condivise, ma ad attenuare, in aperto contrasto ed accentuando i motivi di conflitto con la Regione, la portata precettiva della VIA, sancendo il superamento della prescrizione che imponeva la sottoposizione del progetto a Nulla Osta di Fattibilità, ai sensi della c.d. normativa “Seveso” (D. Lgs. 334/99), spianando così la strada verso il raggiungimento del mal celato obbiettivo dello Stato: la rapida definizione del procedimento autorizzativo.

 

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[1] ex plurimis: C.Cost., sent. 13 gennaio 2004, n. 6;
[2] cfr. C.Cost., sent. 1 ottobre 2003, n. 303;
[3] tra le tante, C.Cost., sent. n. 124/ 2010, n. 282/ 2009 e n. 383/ 2005;
[4] C. Cost., sent. n. 313/2010 e n. 383/2005;
[5] C. Cost., sent. n. 383/2005;
[6] C. Cost., sent. cit.;
[7] ex plurimis, C. Cost. sentenze n. 121/ 2010, n. 24/2007, n. 339/2005;
[8] D. Casalino, Primo commento all’art. 30 del d.d.l. SEMPLIFICAZIONI BIS, Diritto.it, http://www.diritto.it/docs/34105-primo-commento-all-art-30-del-ddlsemplificazioni-bis,
[9] C. Cost. sent. n. 182/2013 e n. 119/2014;
[10] R. Guastini, Abrogazione, in Glossario, Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Giuffrè, 1994, p. 5 e ss.;
[11] V.Crisafulli, voce Fonti del Diritto (Diritto Costituzionale), in Enciclopedia del Diritto, Milano, XVII, 1968, pag. 953 e ss;
[12] G.U. Rescigno, Abrogazione, in Dizionario di diritto pubblico, vol. I, a cura di S. Cassese, Milano, 2006;
[13] C. Cost., sent. n. 179/ 2012.
[14] N. Lugaresi, Diritto dell’ambiente, IV ed. CEDAM, p. 74;
[15] C. Cost., sent. N. 182/2013.

 

(pubblicato il 20.5.2015)

 

 

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