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PAOLO BONINI

Cittadinanza, Pubblica amministrazione e diritto dell’Ue. Brevi riflessioni a margine della sentenza del 10 marzo 2015, n. 1210, della Sezione IV, del Consiglio di Stato

 

 


 

 

Con la sentenza del 10 marzo 2015, n. 1210, la IV Sezione del Consiglio di Stato decide una questione che incide su diversi aspetti dei rapporti tra ordinamento interno e dell’Unione. La nomina del cittadino greco Iraklis Haralambidis a presidente dell’Autorità portuale di Brindisi, ha reso necessario individuare la portata e l’esatta applicazione dell’art. 51 Cost., a tenore del quale “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. La nomina è stata dedotta in giudizio sul presupposto che l’Autorità portuale sia un ente pubblico non economico, con poteri del presidente di tipo pubblicistico e dunque l’accesso alla carica di presidente sia subordinata al possesso della cittadinanza. La questione si è complicata tuttavia in seguito al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, operato dal Consiglio di Stato, per verificare l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 45 TFUE al caso di specie, invocato dal cittadino greco appellante. Tale disposizione prevede che libera circolazione dei “lavoratori” nell’UE implichi l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità; al par. 4 si escludono dall’ambito di efficacia di tale disposizione “gli impieghi nella pubblica amministrazione”.
La Corte di giustizia rende superflua ogni argomentazione giuridica di diritto interno, poiché, interpretando la disposizione citata, stabilisce una portata tale del principio di libera circolazione dei cittadini, da non lasciare alcun margine al giudice nazionale. La Corte stabilisce che la nozione di “lavoratore” è da considerare in senso decisamente più ampio rispetto a quello italiano: chiunque svolga attività reali ed effettive, nell’ambito di un rapporto di lavoro, nel quale riceve una retribuzione come contropartita delle prestazioni che presta a favore di una persona fisica, sotto la sua subordinazione, per un certo periodo di tempo. Nel caso del presidente dell’Autorità portuale, la Corte riconosce la ricorrenza di tali elementi: in particolare la subordinazione risulta dalla legge n. 84 del 1994 (recante “Riordino della legislazione in materia portuale”), per la quale il ministro dispone di poteri direttivi e di controllo e di sanzione. La remunerazione invece da un d.m. del 31 marzo 2003, parificata a quella dei dirigenti generali del ministro. Rende così operativo il par. 1 dell’art. 45 TFUE.
Aggiunge poi un’interpretazione di “pubblica amministrazione” (art. 45, par. 4, TFUE), conseguentemente restrittiva: in ragione dell’uniformità del diritto dell’Unione, gli Stati membri devono riconoscere tale qualifica solo in quanto strettamente utile a salvaguardare gli interessi che gli Stati membri vogliono tutelare per mezzo dell’amministrazione medesima. La Corte si spinge anche ad individuare il nesso tra amministrazione e cittadinanza. Questa è necessaria quando sussiste un rapporto di solidarietà nei confronti dello Stato e la reciprocità dei diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza.
Trascurando gli ulteriori rilievi interpretativi della Corte, la sentenza offre un’ottima occasione per rilevare il grado di con-fusione tra l’ordinamento italiano e quello dell’Unione. Il rinvio pregiudiziale[1] per l’interpretazione delle disposizioni del Trattato, rende vana completamente la struttura logico-argomentativa costruita dal giudice di primo grado, la quale ruotava intorno alla natura pubblicistica dell’ente[2], ai poteri pubblici esercitati dal presidente, alla necessità dunque del possesso di cittadinanza (ex art. 51 Cost.). La Corte di giustizia stravolge l’impianto semplicemente vestendo il presidente dell’Autorità della qualifica di lavoratore, così come inteso dall’interprete del Trattato. Importanti le conseguenze processuali e quindi l’efficacia concreta di tale operazione. Il Consiglio di Stato non può che fermarsi e stabilire che “è irrilevante il punto della natura giuridica, alla stregua del diritto interno, delle Autorità portuali” (punto 4, considerando in diritto). Quindi non è necessaria la verifica della portata della cittadinanza dell’Unione, il significato giuridico di questo status derivato, la sua forza maggiore rispetto allo status-base della cittadinanza nazionale[3]. Eppure è centrale, anche per chi osserva il percorso dell’ordinamento europeo in termini di teoria dello Stato, il fatto che un cittadino in virtù del suo status europeo, possa ricevere dalle istituzioni dell’Unione una interpretazione vincolante i giudici nazionali, tanto rispetto alla sua attività entro i confini dello Stato membro di cui è cittadino, tanto quanto in altri Stati membri. La riflessione tuttavia sarebbe priva di risvolti pratici.
Ciò che conta è che in materia di rapporto di lavoro, ormai da tempo, è stato stabilito il principio secondo cui devono essere abbattuti i limiti che precludono l’accesso dei cittadini degli Stati membri al lavoro in altri Stati dell’Unione[4]. In effetti la giurisprudenza dell’Unione ha dato vita al nuovo concetto di pubblica amministrazione “a geometria variabile”: l’ente può essere considerato tale a seconda del settore in cui opera, ma non alla luce dell’interesse dello Stato che lo ha creato[5]; bensì rispetto alla rilevanza dell’interesse dell’Unione in quel settore. Questo assunto può verificarsi tracciando in quali settori la Corte restringe e amplia la nozione di pubblica amministrazione. È ristretta quando si deducono in giudizio i rapporti di lavoro, o quando si tratta di enti che svolgono attività di impresa, le società pubbliche e gli enti pubblici economici. È ampliata in materia di contratti pubblici e di responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione. È agevole considerare il perché. In tutti questi settori si determina la libertà di circolazione di persone, capitali o servizi. Per tutelare queste libertà, la giurisprudenza dell’Unione ha bisogno di favorire la non discriminazione del lavoratore, del partecipante alla gara, del cittadino innanzi allo Stato. Per questo amplia o restringe le maglie della natura pubblica a seconda del rapporto dedotto in giudizio. La prospettiva, si rileva a margine, è del tutto coerente con la progressiva evoluzione del giudizio amministrativo come giudizio sul “rapporto” invece di giudizio meramente “sull’atto”, determinata con l’adozione e la progressiva applicazione e stabilizzazione dei principi e delle disposizioni contenute nel codice del processo amministrativo. La logica di fondo a cui può ridursi questa breve ricostruzione, è il principio del c.d. “effetto utile”[6] in termini europei. La distonia però emerge leggendo nella sentenza del Consiglio di Stato in commento, quanto sostenuto dalla Corte per giustificare in questo caso la restrizione del concetto di pubblica amministrazione. Per la Corte, ai sensi dell’art. 45, par. 4, TFUE, si dovrebbe considerare la partecipazione del soggetto, diretta o indiretta “all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno a oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato”; quindi non si applica la deroga agli impieghi che “non implicano alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta”[7]. In sostanza è la Corte di Giustizia dell’Unione europea a stabilire che il presidente dell’Autorità portuale non eserciti pubblici poteri e mansioni per la tutela dell’interesse generale dello Stato. E lo stabilisce verificando[8] la qualifica di lavoratore e di amministrazione alla luce del proprio interesse generale (libertà di circolazione), traducendo questa prevaricazione anche in termini processuali, con una pregiudiziale interpretativa. Merita poi un breve cenno la ricostruzione della Corte circa la natura del rapporto di lavoro del presidente dell’Autorità portuale. In breve dalla sentenza emerge una nozione congrua con l’art. 38, comma 1, d.gls. n. 165 del 2001 (recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) in virtù del quale non si deve discriminare in base alla cittadinanza per l’accesso al posto di lavoro presso le amministrazioni pubbliche, “che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengano alla tutela dell’interesse nazionale”. Rovesciando la disposizione potrebbe ammettersi l’esclusione per i dirigenti generali, cui la stessa Corte fa riferimento per sostenere l’elemento della remunerazione ai fini della ricostruzione del rapporto di lavoro. Il dirigente generale del ministero, sembra esercitare il potere pubblicistico, soprattutto verso l’esterno[9]; l’indagine comunque esula dai limiti di questa breve analisi.
Il funzionamento della questione pregiudiziale[10] ex art. 267, par. 1, lett. a) e par. 3, vincolante per la “giurisdizione nazionale”, consente alla Corte di sussumere una fattispecie nell’alveo di una categoria dogmatica altra rispetto a quella nazionale, con conseguente esportazione della stessa nell’ordinamento da cui deriva la questione. Sarebbe interessante comprendere quali siano i limiti all’operazione ermeneutica della Corte, unico organo competente a “pronunziarsi sull’interpretazione dei Trattati” (punto 5, considerando in diritto; art. 267, par. 1, lett. a), TFUE, richiamato dalla sentenza); anche perché, come osserva il Consiglio di Stato nella sentenza in commento, ottenuta l’interpretazione dalla Corte, non residua spazio per una sorta di “appello improprio” avverso la decisione della pregiudiziale[11].
Si avverte la necessità di definire meglio il rapporto tra gli ordinamenti, anche perché tale sussunzione a categorie dogmatiche proprie del diritto dell’Unione di fattispecie che seguendo l’iter logico di diritto interno non vi accederebbero, può incidere non solo sul diritto del singolo cittadino, ma anche sulla ripartizione e sul senso dei pubblici poteri in uno Stato membro.
La sentenza dunque segna un’importante tappa nell’espansione dei diritti del cittadino dell’Unione, nella ridefinizione di pubblica amministrazione in senso europeo e infine per quanto riguarda la pratica relazione tra gli ordinamenti. Quest’ultimo punto meriterebbe un’operazione di ridefinizione più complessa, che tenga conto della fuga in avanti propria di questo secolo[12].

 

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[1] Per un’agevole ed efficace ricostruzione dei salienti profili giuridici dell’istituto si rinvia alla ordinanza n. 207 del 2013 della Corte costituzionale.
[2] La questione della natura giuridica delle Autorità portuali è stata dibattuta nel corso degli ultimi anni; per approfondimenti v. M. Calabro, Il controverso inquadramento giuridico delle autorità portuali, in Foro amm.-Tar, 2011, 2923; D. Gennari, L’autorità portuale: inquadramento e natura giuridica, in Riv. dir. navigaz., 2013, 189, C. Capuano, Sulle autorità portuali, in www.astrid-online.it, 2013. Cfr. anche D. Maresca, L’integrazione delle attività degli operatori portuali alla luce della contrattualizzazione della concessione portuale (Nota a T.a.r. Liguria, 24 maggio 2012, n. 747, Cons. Bettolo c. Autorità portuale Genova), in Dir. maritt., 2012, 1252; E. Stefanini, Il riparto di competenze tra autorità marittime ed autorità portuali, in Quad. reg., 2009, 1035; D. Gennari, Verso il «federalismo portuale»? Mala tempora currunt (Nota a T.a.r. Liguria, sez. II, 27 maggio 2010, n. 3551, Autorità portuale Genova c. Min. infrastrutture e trasp.), in Appalti & Contratti, 2010, fasc. 7, 91.
[3] Si rinvia a C. Pinelli, Cittadinanza europea, in Enc. Dir., 2007, parr. 4, 5 e 6 e alla bibliografia ivi citata.
[4] Cfr. la risalente Corte di giustizia, 30 maggio 1989, C-33/88.
[5] Come noto non esiste una disposizione di diritto italiano che disciplini esattamente gli enti pubblici. Dottrina e giurisprudenza maggioritari sono comunque concordi sul requisito per l’esistenza, della esistenza di una legge come presupposto. Il dibattito prevalente si radica intorno all’art. 4 della legge n. 70 del 1975, recante Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente, il quale prevede per l’istituzione o il riconoscimento di nuovi enti, lo strumento della legge. La maggioranza degli interpreti riconosce valore attuativo alla disposizione rispetto all’art. 97 Cost. Ma ciò potrebbe semplicemente escludere la creazione e il riconoscimento con un atto amministrativo. Infatti la giurisprudenza ha elaborato una serie di indici di riconoscimento che, a partire dalla normativa, permettano di individuare la natura pubblica di un ente: v. la sent. Cons. Stato, Sez. V, 28 giugno 2012, n. 3820.
[6] Nell’accezione per cui la miglior soluzione del caso concreto deve essere quella più aderente al fine che la disposizione dell’Unione persegue. Dedotto spesso in giurisprudenza; sul tema in generale v. C. Pesce, Il principio dell’effetto utile e la tutela dei diritti nella giurisprudenza dell’Unione, in Studi integrazione europea, 2014, 2, 359.
[7] Punto 3, al. 12, 13 e 14, del considerando in diritto.
[8] Nel senso proprio di “rendere vero”, rendere effettivo un concetto che in Italia non sarebbe tale.
[9] Cfr. l’art. 16 d.lgs. 165 del 2001: i dirigenti di uffici generali, “curano i rapporti con gli uffici dell’Unione europea e degli organismi internazionali nelle materie di competenza secondo le specifiche direttive dell’organo di direzione politica, sempreché tali rapporti non siano espressamente affidati ad apposito ufficio o organo.
[10] Sul tema la bibliografia è piuttosto vasta; in generale v. D.P. Domenicucci, Circa il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in Foro it., 2011, IV, 484; P. Adonnino, Il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia della Comunità europea, in Rass. trib., 2005, 1462.
[11] Punto 5, secondo periodo del considerando in diritto.
[12] Il punto, decisivo e centrale, non può essere sviluppato in questa sede, da chi scrive. Sommessamente ci si limita a sottolineare come la questione del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, pone innanzi il mai sopito dibattito sulla natura monistica o dualistica del rapporto tra ordinamento nazionale e sovranazionale. Già negli anni Novanta dello scorso secolo, parte della dottrina aveva evidenziato la svolta verso concezioni monistiche: tra gli altri cfr. A. Celotto, Dalla "non applicazione" alla "disapplicazione" del diritto interno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur.it. 1995, I, 341 ss.; F. DONATI, Diritto comunitario e sindacato di costituzionalità, Milano 1995, 131 s.; A. Marzanati, Prime note a Corte cost., sentenza 20-30 marzo 1995, n. 94, in Riv.it.dir.pubbl.com. 1995, 568 ss., 570; A. Barone, La Corte costituzionale ritorna sui rapporti fra diritto comunitario e diritto interno, in Foro it. 1995, I, 2050 ss. Interessante osservare come la dottrina abbia preso progressivamente coscienza della pratica inefficacia del principio dualistico, anche se formalmente utilizzato dalla Corte costituzionale come base per le proprie argomentazioni fin dalla storica sentenza n. 183 del 1973; sul punto cfr. R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2014, cap. XI, par. 2.4 (la forma dell’ordinamento dell’Unione è “mutante, non rientrante in nessuna delle forme tradizionali, né in quella dell’organizzazione internazionale, né in quella dello Stato federale. Per questa ragione la teoria dualistica sembra inadeguata a descrivere i reali rapporti che intercorrono tra i due ordinamenti”). Nella pratica relazione tra le Corti, infatti, le due impostazioni si dilatano o restringono in dipendenza delle necessità concrete. È quanto accaduto in Francia all’indomani della storica riforma delle funzioni del Consiglio costituzionale del primo luglio 2008, entrata in vigore nel marzo del 2010. In questo caso, nel decidere una questione pregiudiziale interpretativa, la Corte di giustizia ammette che la legge nazionale possa condizionare il rinvio pregiudiziale, ma pone alcune condizioni, come la necessità di uno sforzo da parte dei giudici di una interpretazione conforme al diritto dell’Unione. Sul tema cfr. R. Bin, Gli effetti del diritto dell’Unione nell’ordinamento italiano e il principio di entropia, in Aa.Vv. Studi in onore di Franco Modugno, I, Napoli, 2011, 363 ss. cui si rinvia anche per ulteriori spunti bibliografici. In sostanza, risalendo la catena dogmatica, il tema davvero in gioco non sembra nemmeno l’adesione all’una o all’altra prospettiva teorica; bensì l’esatta ricostruzione a monte, in termini di teoria generale, della natura stessa dell’ordinamento dell’Unione. L’ampio e complesso argomento esula dai limiti e dalla profondità di questa breve analisi, ma palesa il nesso tra questioni drammaticamente pratiche e posizioni teoriche su cui ancora si tergiversa. Potrebbe essere arrivato il momento di scegliere definitivamente tra concezioni normativistiche o istituzionalistiche, provando a verificare se oggi sia possibile declinare l’ordinamento dell’Unione come un insieme generale: v. H. Kelsen, Il primato del parlamento, Milano, 1982, 91: “poiché il contenuto tra individuale e generale, concreto e astratto, non è assoluto ma relativo e poiché il modo d’individualizzazione e di concretizzazione può avere quanti gradi si voglia, anche l’articolazione positiva del processo di produzione del diritto – e sotto questo profilo, l’intero ordinamento giuridico è solo un processo di produzione del diritto – può avere qualsiasi numero di gradi”. Per l’Autore, come noto, non si pone un problema di “sovranità”; cfr. H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una teoria pura del diritto (1920), tr. it. di A. Carrino, Milano, 1989, 469: “il concetto di sovranità deve essere radicalmente rimosso. È questa la rivoluzione della coscienza culturale di cui abbiamo per prima cosa bisogno”. È pur vero che un’interpretazione autentica sulla natura del rapporto tra ordinamenti non potrebbe arrivare da Bruxelles, proprio perché formalmente l’Unione europea difetta di quell’elemento teorico, astratto e forse superato (cfr. L. Ferrajoli, Lo Stato di diritto tra passato e futuro, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano 2002, 351ss. e Id., La sovranità nel mondo moderno, 2004, 7 ss.) ma di cui si sente sempre il bisogno per argomentare l’esistenza di un particolare ordinamento. In termini più ampli è il tema del c.d. federalizing process europeo, sul quale v. B. Caravita, Il federalizing process europeo, in federalismi.it, 17, 2014. Ad altra e migliore sede, dunque, (pregiudizialmente) si rinvia.

 

(pubblicato il 4.5.2015)

 

 

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