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n. 4-2015 - © copyright

 

FEDERICO BACCOLINI

Prospettive della riorganizzazione dei servizi pubblici locali nelle recenti disposizioni di legge

 

 


 

 

Sommario: 1. La nozione di servizio pubblico locale ed i riflessi sul tema trattato; 2. (segue): i servizi di interesse economico generale; 3. (segue): i servizi pubblici locali di rilevanza economica: convergenza sul punto tra diritto interno e diritto comunitario; 4. Rilievo assorbente della legislazione statale nella disciplina dei servizi pubblici locali; 5. La (possibile) liberalizzazione dei servizi pubblici locali e le potestà degli enti locali di riferimento; 6. La novità rappresentata dalla riorganizzazione generale per ambiti territoriali ottimali in tutti i casi di servizi a rete di rilevanza economica; 7. Le società partecipate nella legge di stabilità 2015; 8. (segue): Le società quotate in mercati regolamentati a partecipazione pubblica locale: i meccanismi incentivali.


1. La nozione di servizio pubblico locale ed i riflessi sul tema trattato
Alcune recenti disposizioni dedicate ai servizi pubblici locali, contenute nel decreto c.d. “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133) e nella legge di stabilità per il 2015 (l. 23 dicembre 2014, n. 190) suggeriscono una riflessione sulla attuale disciplina in materia e sulle prospettive della sua attuazione sul piano dell’effettività.
Ci si trova, infatti, di fronte ad una disciplina che è il risultato di numerosi e ripetuti interventi del legislatore, che si registrano in particolare dall’anno 2001 a questi giorni[1].
Per cogliere esattamente il significato di tali numerosi e ripetuti interventi del legislatore, è necessario procedere ad un preliminare inquadramento della materia.
All’interno della categoria dei servizi pubblici locali rientrano tutte quelle attività volte alla produzione di beni e servizi che risultano essere espressione di una dimensione locale sia dal punto di vista dell’affidamento e della gestione, sia dal punto di vista del tipo di interessi che essi mirano a soddisfare.
La materia è sempre stata caratterizzata da una vivace produzione legislativa sia di carattere generale sia di tipo settoriale che, sul piano dell’affidamento del servizio, più volte ha espresso un maggiore favore del legislatore verso una gestione “pubblica” dei servizi pubblici locali e, in altre occasioni, ha preferito aprire le porte del settore all’intervento di soggetti privati. Tale apertura, realizzata mediante il ricorso allo schema della concessione di servizi già prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948, trova nella Carta costituzionale nonché nel recepimento delle fondamentali libertà comunitarie circolazione dei capitali, dei beni e dei servizi nuovo ed ulteriore impulso.
“Per «servizio pubblico» si intende qualsiasi attività che si concretizzi nella produzione di beni o servizi in funzione di un’utilità per la comunità locale, non solo in termini economici ma anche in termini di promozione sociale, purché risponda ad esigenze di utilità generale ad essa destinata in quanto preordinata a soddisfare interessi collettivi”: così si esprime il Consiglio di Stato[2] quando è chiamato ad affermare il nucleo concettuale della nozione di servizio pubblico. Fin da questa prima definizione giurisprudenziale di servizio pubblico è possibile individuare due elementi caratteristici: da un lato infatti l’attività di servizio pubblico non si esplica solamente nella prestazione di servizi ma abbraccia anche la produzione di beni; dall’altro, il soddisfacimento di interessi della collettività, siano essi economici o sociali, è l’imprescindibile scopo al quale deve essere volta l’attività di servizio pubblico.
Per quanto concerne in specifico la figura del servizio pubblico locale, l’art. 112 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, fornisce una definizione legislativa dell’istituto che ricomprende al proprio interno tutte quelle attività che “abbiano per oggetto [la] produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”[3]. Risulta evidente la somiglianza con la più generale figura di servizio pubblico, dalla quale la definizione di servizio pubblico locale differisce esclusivamente per l’ambito territoriale che deve essere considerato al fine di individuare le necessità e gli interessi collettivi che devono essere perseguiti nell’erogazione delle prestazioni di servizio[4].
È ben evidente in materia l’influenza del diritto comunitario; una nozione così ampia dell’attività di servizio pubblico, nonché di servizio pubblico locale, trova infatti diretto riscontro nei Trattati comunitari: in particolare l’art. 57 Tfue (ex art. 50 Tue) ricomprende nella nozione di servizio qualsiasi prestazione fornita dietro corrispettivo, includendo espressamente tutte quelle attività avente carattere industriale, artigiano e commerciale il cui oggetto tipico è costituito appunto dalla produzione di beni[5].

2. (segue): i servizi di interesse economico generale.
Si registra poi una classificazione dei servizi pubblici sulla base del tipo di interesse sotteso. A questi fini, assume rilievo l’aspetto economico del servizio reso, da intendersi non tanto come onerosità richiesta agli utenti per la fruizione del servizio, quanto piuttosto come importanza economica che tale servizio assume per l’intera collettività. Accanto, dunque, a quei servizi che, per la loro intrinseca natura e per le relative caratteristiche dell’attività entro la quale si concretizzano, sono connotati di una particolare importanza economica, si affiancano quelli sprovvisti di tale carattere.
A riguardo, il diritto comunitario individua la categoria dei servizi di interesse generale alla quale si affianca quella dei servizi di interesse economico generale (S.I.E.G.)[6]: se all’interno della prima rientrano tutte le attività di servizio, commerciali o non commerciali, chiamate a soddisfare esigenze di interesse generale e pertanto soggette ad obblighi specifici di servizio, la seconda ricomprende quelle attività commerciali che assolvono missioni di interesse generale. Pertanto, i S.I.E.G. possono essere visti come un sottoinsieme della più ampia figura dei servizi di interesse generale ed il tratto distintivo rispetto a questi ultimi consiste nella “commercialità” dell’attività di servizio prestata e non in un diverso tipo di interesse collettivo perseguito.
Nonostante l’esplicito richiamo operato dal Tfue, all’interno dello stesso non esiste una definizione normativa di servizio di interesse economico generale: è quindi solo grazie all’attività interpretativa della Corte di Giustizia che è possibile comprendere il significato e l’estensione di tale categoria di servizi. La Corte, infatti, giunge ad una definizione di servizio di interesse economico generale che comprende tutti quei servizi destinati a soddisfare un interesse essenziale per la collettività, prestati a chiunque ne faccia richiesta a prezzi ragionevoli ed uniformi, nulla rilevando l’effettiva redditività di ogni singola prestazione[7]; ciò che invece risulta essere di primaria importanza è l’equilibrio economico del servizio. Pertanto, rientrano nella figura dei servizi di interesse economico generale tutti quei servizi offerti, in vista del soddisfacimento di un interesse collettivo, attraverso un metodo di gestione che tenga conto della necessità di giungere quantomeno ad una situazione generale di equilibrio tra ricavi e costi sostenuti per erogare il servizio[8].
È proprio sulla base dell’elemento della commercialità, da intendersi come imprenditorialità nel rendere un servizio, che si giustifica l’applicazione di una disciplina differente tra le due tipologie di servizi – di interesse economico generale e di interesse generale - in questione: solo ai servizi di interesse economico generale infatti si applica, l’art. 106 Tfue che sottopone le imprese che gestiscono tali servizi alle norme dei Trattati ed in particolare a quelle relative alla tutela della concorrenza, con l’unico limite della compatibilità della disciplina concorrenziale con le missioni di servizio pubblico ad esse affidate. Inoltre, in virtù dell’importanza riconosciuta ai servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione è affidato all’Unione e agli Stati membri il compito di assicurare il funzionamento dei suddetti servizi sulla base di principi e condizioni che permettano loro di perseguire concretamente ed efficacemente i relativi interessi collettivi[9].

3. (segue): i servizi pubblici locali di rilevanza economica: convergenza sul punto tra diritto interno e diritto comunitario.
Sempre con riferimento al particolare genere di interesse perseguito nell’erogazione dei servizi pubblici, il legislatore italiano individua la categoria dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, distinguendola da quella dei servizi che risultano essere privi di tale caratteristica[10].
L’istituto della rilevanza economica è stato introdotto dal d.l. 30 settembre 2003, n. 269 per sostituire il precedente concetto di rilevanza industriale[11], con lo scopo di recepire le direttive comunitarie volte all’omogeneizzazione del diritto degli Stati membri in tema di servizi pubblici.
Giunti a questo punto si potrebbe pensare che non sussista una piena coincidenza tra la figura dei S.I.E.G. e quella dei servizi di rilevanza economica, stante la diversa terminologia lessicale utilizzata dal legislatore italiano rispetto a quello comunitario. L’attenzione del diritto comunitario infatti è incentrata sulle imprese che erogano tali servizi, nell’ambito della più ampia ottica di tutela della concorrenza: è l’ingresso e la permanenza sul mercato delle imprese eroganti il servizio che viene considerato dal legislatore comunitario come caratteristica legittimante per l’applicazione della disciplina relativa alla tutela della concorrenza.
Ciò nonostante, l’affinità tra il concetto di rilevanza economica e quello (di derivazione comunitaria) di interesse economico generale è immediata. Possono essere definiti servizi aventi rilevanza economica tutti quei servizi che vengono prestati seguendo uno schema organizzativo e gestionale che consenta, quantomeno astrattamente, la copertura dei costi sostenuti per la fornitura del servizio attraverso i ricavi generati dalla “vendita” dello stesso. Entrambe le nozioni sono incentrate sull’economicità che deve contraddistinguere il momento della gestione e quindi dell’erogazione dei servizi pubblici; se per la figura di interesse economico generale la Corte di Giustizia e la Commissione europea hanno più volte ribadito che il significato da attribuire a tale espressione è intrinsecamente legato al concetto di imprenditorialità, allo stesso modo sussistono numerosi indicatori che rivelano la stretta connessione intercorrente tra rilevanza economica ed impresa.
Infatti, la definizione di servizi pubblici locali di rilevanza economica si può desumere indirettamente dalla lettera dell’art. 2082 c.c. che definisce l’imprenditore come colui che esercita “un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Emerge immediatamente la stretta correlazione intercorrente tra la nozione di imprenditore – e, conseguentemente quella di impresa- e l’economicità della attività nella quale si sostanzia l’attività imprenditoriale, per cui si può logicamente giungere alla conclusione che il concetto di rilevanza economica non risulta essere altro che un sinonimo di “interesse economico generale”[12].

4. Rilievo assorbente della legislazione statale nella disciplina dei servizi pubblici locali.
L’individuazione del quadro normativo entro il quale considerare i servizi pubblici locali non può che partire dall’analisi dell’art. 2, comma 1 e 2, del R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578, il quale esplicita le facoltà concesse agli enti locali – individuati in Comuni e Province – nell’adottare il modello dell’assunzione diretta come schema di gestione dei servizi pubblici locali[13]. Più nello specifico, dopo aver fornito all’art. 1 un’ampia elencazione dei servizi i cui impianti ed esercizi diretti risultino essere di competenza di Comuni e Province, il regio decreto prosegue introducendo un duplice metodo di gestione del servizio, imperniato sulla importanza che i servizi pubblici locali rivestono nella vita della comunità locale nella quale vengono erogati: per i servizi caratterizzati da una tenue importanza è prevista la possibilità di gestione in economia mentre, per quei servizi che per la loro intrinseca natura, rivestono un ruolo primario per l’ente locale erogatore è individuato come obbligatorio il modello gestionale della costituzione della c.d. azienda speciale.
L’elemento distintivo per la scelta del modello di gestione è dunque costituito dall’importanza del servizio pubblico per l’ente locale, da intendersi non solo come importanza “sociale” del servizio ma anche, e soprattutto, come rilevanza economica e finanziaria dello stesso[14].
È infine fondamentale sottolineare come nell’architettura prevista dal regio decreto summenzionato l’individuazione dei servizi pubblici locali sia effettivamente legata ad un dimensione territoriale locale, sia dal punto di vista normativo – dal momento che i regolamenti che reggono le aziende speciali sono predisposti ed emanati dagli enti locali a cui le aziende afferiscono – sia dal punto di vista della gestione e dell’erogazione.
Con l’entrata in vigore della Costituzione e la successiva effettiva operatività delle Regioni, l’assetto istituzionale, entro il quale la disciplina dei servizi pubblici locali si muove, muta radicalmente: le Regioni assumono progressivamente un ruolo centrale nella definizione della legislazione relativa ai servizi pubblici locali, fino a giungere alla riforma del Titolo V della Costituzione che cristallizza definitivamente i nuovi rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali[15].
La legge 8 giugno 1990, n. 142, recante norme per l’ordinamento degli enti locali, segna l’inizio del lungo percorso di riforma che interessa ancora oggi i servizi pubblici locali: in essa, all’art. 22 vengono individuate le specifiche forme di gestione che sono concesse ai Comuni ed alle Province per l’erogazione dei servizi pubblici di loro competenza[16].
La definitiva apertura, dal punto di vista della gestione dei servizi pubblici locali, a logiche di mercato ed imprenditoriali avviene con la l. 15 maggio 1997, n. 127, la quale all’art. 17, comma 51, prevede la possibilità per i Comuni e per gli altri enti locali di «trasformare le aziende speciali costituite ai sensi dell'articolo 22, comma 3, lettera c), della legge 8 giugno 1990, n. 142, in società per azioni, di cui possono restare azionisti unici per un periodo comunque non superiore a due anni dalla trasformazione. Il capitale iniziale di tali società è determinato dalla deliberazione di trasformazione in misura non inferiore al fondo di dotazione delle aziende speciali risultante dall'ultimo bilancio di esercizio approvato e comunque in misura non inferiore all'importo minimo richiesto per la costituzione delle società medesime. L'eventuale residuo del patrimonio netto conferito è imputato a riserve e fondi, mantenendo ove possibile le denominazioni e le destinazioni previste nel bilancio delle aziende originarie. Le società conservano tutti i diritti e gli obblighi anteriori alla trasformazione e subentrano pertanto in tutti i rapporti attivi e passivi delle aziende originarie»[17];
A tale disciplina è succeduta quella prevista dalla formulazione originaria dell’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nel quale si stabiliva che « I servizi pubblici locali sono gestiti nelle seguenti forme:
a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una azienda;
b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale;
c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale;
d) a mezzo di istituzione, per l'esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale;
e) a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall'ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all'ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati;
f) a mezzo di società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria a norma dell'art. 116».

È con l’art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448 – legge finanziaria 2002 – che si introduce una differenziazione dei metodi di gestione del servizio basata sulla rilevanza industriale del servizio stesso[18]. L’art. 35, comma 5, prevedeva che «l'erogazione del servizio, da svolgere in regime di concorrenza, avviene secondo le discipline di settore, con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica».
Da un siffatto quadro normativo emerge prepotentemente la non piena coincidenza del diritto italiano con i principi comunitari di tutela della concorrenza e del libero mercato pertanto, anche a seguito di una procedura di infrazione avanzata dalla Commissione europea nel 2002, il legislatore italiano è intervenuto nuovamente con il decreto legge n. 269/2003 che ha sancito la piena e completa equiparazione dei diversi modelli di gestione dei servizi pubblici locali nonché l’obbligatorio “rispetto della normativa dell’Unione europea”[19].
Infatti, a seguito della citata novella legislativa, il nuovo art. 113, comma 5, Tuel, così recitava: «L'erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:
a) a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano»
.
Confrontando questa formulazione con il precedente testo del medesimo art. 113 si nota immediatamente che lo Stato ha nettamente circoscritto il novero dei modelli di gestione utilizzabili, anche per effetto della necessità di rispettare i principi comunitari, ed ha molto accentuato le forme concorrenziali di organizzazione dei servizi pubblici locali.
La norma è stata poi abrogata, per essere sostituita da altre disposizioni ancor più orientate alla concorrenza (art. 23-bis, d.l. 25 giugno 2008, n.112; art. 4, d.l. 13 agosto 2011, n. 138), a loro volta caducate per vicende referendarie[20]. Oggi la tipologia delle società utilizzabili dagli enti locali per i servizi pubblici locali corrisponde alle forme ammesse dal diritto comunitario e coincide con quelle già indicate nel riportato art. 113, comma 5, Tuel, nel testo pro tempore vigente.

5. La (possibile) liberalizzazione dei servizi pubblici locali e le potestà degli enti locali di riferimento.
Il successivo passo effettuato dal legislatore all’interno del processo di riforma dei servizi pubblici locali, mediante l’emanazione del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, così come convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133, è di interesse sotto un duplice punto di vista: da un lato infatti si giunge ad affermare la natura derogatoria dell’affidamento diretto rispetto alle procedure di affidamento mediante gara[21]; dall’altro una siffatta impostazione apre la breccia per una sempre più ampia concorrenza ed apertura del mercato, limitando il ricorso alla forma in house per la gestione dei servizi.
In particolare, il sopra citato d.l. 112/2008, all’art. 23-bis prevedeva come forma di conferimento ordinaria della gestione il ricorso ad imprenditori e società, fermo restando l’osservanza di procedure di scelta del soggetto gestore competitive e ad evidenza pubblica[22].
In questa prospettiva si percepisce immediatamente la volontà del legislatore di costruire un sistema di gestione dei servizi pubblici locali incentrato sulla liberalizzazione della gestione, individuato come strumento per addivenire ad una piena tutela della concorrenza. Di conseguenza, veniva ridimensionato profondamente il ruolo dell’affidamento del servizio a società di capitali a totale partecipazione pubblica – c.d. in house providing[23] - al punto che ai sensi del comma 3 dell’art. 23-bis tale modalità di affidamento aveva assunto un carattere di eccezione rispetto alla regola del conferimento dei suddetti servizi ad imprenditori o a società in qualunque forma costituite[24].
L’art. 23-bis del d.l. 112/2008 è stato poi oggetto del referendum popolare tenutosi nel giugno 2011, all’esito del quale si è proceduto all’abrogazione della disposizione citata[25]; il vuoto normativo generato è stato colmato con l’emanazione del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 dove, all’art. 4, è introdotta una disciplina relativa alla gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica in larga parte corrispondente a quella appena abrogata – con conseguente censura di illegittimità costituzionale per violazione del “divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’articolo 75 della Costituzione”[26] – ai sensi della quale: «Gli enti locali, nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, verificano la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, di seguito "servizi pubblici locali", liberalizzando tutte le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità. All'esito della verifica l'ente adotta una delibera quadro che illustra l'istruttoria compiuta ed evidenzia, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e, viceversa, i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all'interno della comunità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio».
Il legislatore prevedeva pertanto una disciplina pressoché totalmente coincidente con quella contenuta nell’abrogato art. 23-bis, d.l. 112/2008, caratterizzata da un’elevata specificità con riferimento al momento di scelta del modello gestorio dei servizi pubblici: nessuno spazio di manovra veniva lasciato agli enti locali che si vedevano obbligati a ricorrere all’esternalizzazione della gestione – liberalizzando tutte le attività economiche.
Per quanto concerne, infine, l’affidamento in house la normativa risultava ancor più restrittiva di quella prevista dal d.l. 112/2008: si introduceva una soglia economica di valore del servizio relativamente modesta (900.000,00 euro annui) al superamento della quale il ricorso al modello in house era vietato.
Si noti, dunque, come l’art. 4 del d.l. 138/2011 individuasse obblighi più stringenti di quelli previsti dal diritto comunitario sia relativamente alla necessità di ricorrere a soggetti privati nella gestione dei servizi, sia in riferimento ai requisiti richiesti per potersi avvalere del modello di gestione in house.
Pur perseguendo l’obiettivo di una piena ed effettiva tutela della concorrenza, la giurisprudenza comunitaria non arrivava ad affermare una preferenza per la gestione privatizzata dei servizi; anzi, in più occasioni la Corte di Giustizia dell’Unione europea era giunta a riconoscere una totale equiparazione delle forme di gestione[27], lasciando all’ente locale la possibilità di scelta, tra le forme di gestione possibili, di quella più adeguata al caso concreto.
Anche in relazione all’affidamento in house la Corte non imponeva alcun limite al di sopra del quale l’affidamento ad una società a totale partecipazione pubblica non fosse ammissibile, essa si limitava a richiedere una partecipazione interamente pubblica della società, un controllo dell’ente locale analogo a quello esercitato sui propri servizi e che l’attività della società fosse realizzata in maggioranza con l’ente (o gli enti) controllanti[28].
Da tutto ciò traspaiono l’esigenza e la volontà di riconoscere a livello statale i principi comunitari in materia di servizi pubblici locali. Conseguentemente si assiste, sul piano normativo, ad una ridefinizione degli assetti di competenza che svuota, da un lato, l’importanza degli enti locali alla discrezionalità dei quali rimangono il momento della scelta del modello di gestione e una potestà organizzativa in riferimento alla strutturazione dell’erogazione del servizio; dall’altro lato, acquisiscono maggiore peso e spessore le istituzioni regionali, statali e comunitarie nonché altri soggetti – quali, ad esempio, le Autorità nazionali – che concretamente non risultano essere titolari di un rapporto di connessione con le comunità locali tale per cui si potrebbero definire come diretti portatori degli interessi delle comunità locali entro le quali i servizi pubblici locali vengono prestati. Risulta pertanto fuorviante, perlomeno sotto l’aspetto normativo, continuare a considerare tali servizi come servizi pubblici locali.
L’art. 4 del summenzionato decreto legge prescrive, dunque, come regola di carattere generale, la liberalizzazione di tutte le attività economiche nelle quali si sostanziano i servizi pubblici locali[29], relegando, al contempo, l’attribuzione di diritti di esclusiva nella gestione dei servizi ai soli casi in cui l’iniziativa economica privata non risulti essere idonea a prestare un servizio adeguato alle esigenze della collettività[30].
Spetta all’ente titolare del potere di assegnazione del servizio stabilire, sulla base di un’analisi di mercato, i singoli settori da sottrarre alla libera iniziativa privata; tale attività istruttoria risulta di primaria importanza anche alla luce dell’espressa previsione di motivazione della delibera con la quale l’ente esclude attribuire diritti di esclusiva per uno specifico servizio pubblico locale[31]. Anche in questa evenienza, il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene mediante procedure competitive ad evidenza pubblica[32].
Da ciò si evince come la disciplina contenuta nel d.l. 138/2011 voglia continuare il processo di apertura del settore dei servizi pubblici locali all’iniziativa privata e, in tale ottica, il ricorso all’autoproduzione dei servizi da parte della pubblica amministrazione assume conseguentemente un ruolo marginale, tanto da arrivare ad essere considerato una deroga rispetto alla regola generale dell’esternalizzazione[33].

6. La novità rappresentata dalla riorganizzazione generale per ambiti territoriali ottimali in tutti i casi di servizi a rete di rilevanza economica
Le più recenti riforme intervenute in materia sono da individuare nel d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (c.d. decreto “Sblocca Italia”), così come convertito dalla l. 11 novembre 2014, n. 164, recante "Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività' produttive" e nella l. 23 dicembre 2014, n. 190 (c.d. “legge di stabilità per l’anno 2015”).
Il d.l. 133/2014, in materia di servizi pubblici locali, contiene disposizioni di natura settoriale relative, principalmente, al servizio idrico integrato tese a velocizzare il processo di aggregazione sul piano gestionale del suddetto servizio. Tutto ruota attorno all’individuazione – di competenza regionale – degli enti di governo dell’ambito entro il termine perentorio del 31 dicembre 2014 e alla conseguente partecipazione obbligatoria degli enti locali agli stessi.
Agli enti di governo dell’ambito sono devolute tutte le competenze in precedenza spettanti agli enti locali in materia di gestione del servizio: è in tale prospettiva che deve essere letta l’obbligatorietà della partecipazione degli enti locali stessi all’organismo di governo dell’ambito[34]. La ratio di questa aggregazione – sia decisionale sia gestionale – è da individuare nel principio dell’unicità di gestione che caratterizza il Servizio Idrico Integrato; sulla base di tale istituto la gestione del servizio viene, di regola, affidata ad unico soggetto scelto attraverso procedure ad evidenza pubblica. Solo nel caso in cui l’ambito territoriale ottimale coincida con l’intero territorio regionale è prevista la possibilità di organizzare la gestione del servizio su ambiti territoriali più circoscritti, ma comunque non inferiori al territorio provinciale o della città metropolitana[35]; sono invece mantenute le gestioni autonome dei servizi idrici integrati dei Comuni montani con popolazione inferiore ai 1000 abitanti.
Le due ipotesi da ultime considerate sono connotate di un carattere di eccezionalità rispetto alla regola della gestione unica ed aggregata del servizio all’interno dell’ambito territoriale.
Per quel che concerne invece la l. 190/2014, essa si inserisce all’interno del dettato normativo dell’art. 3-bis del d.l. 138/2011, a sua volta introdotto dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (“Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”) così come convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27.
Nella formulazione vigente sino all’entrata in vigore della legge di stabilità 2015, l’art. 3-bis del summenzionato decreto-legge si limitava a prevedere l’organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica[36] sulla base di ambiti o bacini territoriali ottimali individuati dalle Regioni – o dalle Province Autonome di Trento e Bolzano – e di norma non inferiori alla dimensione del territorio provinciale[37]. L’importanza dell’osservanza della procedura di affidamento dei servizi ad evidenza pubblica era accentuata dal fatto che essa costituiva il parametro sul quale valutare la virtuosità dei soggetti competenti ad assegnare il servizio.
La l. 190/2014 introduce disposizioni similari a quelle contenute nel decreto-legge c.d. “Sblocca Italia”: in particolare, tutte le funzioni di organizzazione, di scelta della forma di gestione, di affidamento della gestione e del relativo controllo, oltre che la determinazione delle tariffe, sono attribuite agli enti di governo dei bacini o degli ambiti; allo stesso tempo è ribadito l’obbligo per tutti gli enti locali territorialmente ricompresi negli ambiti (o nei bacini) di partecipazione ai suddetti enti di governo[38].
Si individua così un meccanismo di aggregazione decisionale tale per cui le deliberazioni sulle materie di competenza dell’ente di governo vincolano automaticamente tutti gli enti pubblici partecipanti.
Si afferma, dunque, un sistema di gestione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica imperniato sulla figura dell’aggregazione da intendersi sia da un punto di vista decisionale sia da un punto di vista gestionale. Le differenze rispetto ai precedenti tentativi di aggregazione o, più correttamente, di gestione associata del servizi pubblici locali a rilevanza economica sono evidenti. In passato[39] si prevedeva, per quei servizi la cui disciplina settoriale lo ammettesse, una gestione associata sulla base di ambiti territoriali sovracomunali; tuttavia, sotto l’aspetto decisionale si lasciava ai Comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti la possibilità di stipulare singoli contratti di servizio con il soggetto gestore del servizio.
Si deve osservare che l’art. 1, comma 609, lett. b) della citata legge n. 190/2014 ha introdotto un nuovo comma 2-bis all’art. 3-bis del d.l. 138/2011 che così recita: «l'operatore economico succeduto al concessionario iniziale, in via universale o parziale, a seguito di operazioni societarie effettuate con procedure trasparenti, comprese fusioni o acquisizioni, fermo restando il rispetto dei criteri qualitativi stabiliti inizialmente, prosegue nella gestione dei servizi fino alle scadenze previste. In tale ipotesi, anche su istanza motivata del gestore, il soggetto competente accerta la persistenza dei criteri qualitativi e la permanenza delle condizioni di equilibrio economico-finanziario al fine di procedere, ove necessario, alla loro rideterminazione, anche tramite l'aggiornamento del termine di scadenza di tutte o di alcune delle concessioni in essere, previa verifica ai sensi dell'articolo 143, comma 8, del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni, effettuata dall'Autorità di regolazione competente, ove istituita, da effettuare anche con riferimento al programma degli interventi definito a livello di ambito territoriale ottimale sulla base della normativa e della regolazione di settore». Si tratta di una norma che incentiva le aggregazioni societarie, anche quelle eterogenee, in quanto l’aggregazione non solo non avrà ripercussioni negative sull’affidamento in corso ma potrà comportare anche un prolungamento della durata degli affidamenti al fine di assicurare l’equilibrio economico-finanziario del rapporto concessorio.
Se invece la norma dovesse essere interpretata come relativa solamente ad aggregazioni omogenee (tra due o più società in house; tra due o più società miste con socio privato scelto con gara a doppio oggetto; tra due o più società che hanno ottenuto le concessioni di servizi previa gara; tra due o più società quotate in borsa), allora la disposizione sarebbe inutile e pleonastica perché le fattispecie troverebbero già soluzione applicativa nelle disposizioni di cui all’art. 2504-bis, comma 1, cod. civ. («La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione»).
Il livello di aggregazione perseguito e perseguibile in seguito all’entrata in vigore della l. 190/2015, invece, è molto più elevato: accanto alla gestione aggregata dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica – prospettata sia in legislazioni di carattere generale sia in discipline settoriali[40] - si giunge ad una vera e propria aggregazione decisionale, ottenuta attraverso l’introduzione dell’obbligatorietà della partecipazione agli enti di governo d’ambito nonché mediante la contestuale attribuzione a questi ultimi di tutte le funzioni – organizzative e gestionali – in precedenza attribuite agli enti locali.
I suddetti interventi normativi, inseriti all’interno di un percorso di riforma volto a razionalizzare la spesa pubblica e a garantire l’erogazione di servizi sempre più elevati dal punto di vista della qualità, dell’efficacia e dell’efficienza, impongono un’attenta riflessione sulla figura stessa di servizio pubblico locale.
L’istituto nasce ancorato alla base territoriale locale entro la quale il servizio pubblico viene prestato e lo stesso legislatore lo lega fortemente agli enti pubblici – Comuni e Province[41] - in quanto espressivi delle esigenze e degli interessi della società “locale” destinataria del servizio; tuttavia, prevedere meccanismi di aggregazione – decisionale e gestionale - obbligatori imperniati sulle figure degli ambiti territoriali ottimali e dei relativi enti di governo, materialmente costituiti dall’unione di più territori comunali che possono addirittura coincidere, a certe condizioni, con il territorio di una intera Regione[42], portano a chiedersi fino a che punto si possa ancora oggi parlare di servizio pubblico locale.

7. Le società partecipate nella legge di stabilità 2015.
Nel più recente periodo, le società partecipate sono state interessate da un disegno di razionalizzazione introdotto dalla l. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) la quale, all’art. 3, comma 27, prevedeva per gli enti locali il divieto di costituzione o di mantenimento di partecipazione in società aventi ad oggetto attività di beni o servizi non strettamente attinenti alle proprie finalità istituzionali nei seguenti termini: «Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E' sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e l'assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001,n. 165, nell'ambito dei rispettivi livelli di competenza».
Fermo restando l’obbligo di cessione delle summenzionate partecipazioni societarie, l’art. 1, comma 611, l. 23 dicembre 2014, n.190, statuisce che «al fine di assicurare il coordinamento della finanza pubblica, il contenimento della spesa, il buon andamento dell'azione amministrativa e la tutela della concorrenza e del mercato, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le università e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali, a decorrere dal 1º gennaio 2015, avviano un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, in modo da conseguire la riduzione delle stesse entro il 31 dicembre 2015, anche tenendo conto dei seguenti criteri:
a) eliminazione delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali, anche mediante messa in liquidazione o cessione;
b) soppressione delle società che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti;
c) eliminazione delle partecipazioni detenute in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali, anche mediante operazioni di fusione o di internalizzazione delle funzioni;
d) aggregazione di società di servizi pubblici locali di rilevanza economica;
e) contenimento dei costi di funzionamento, anche mediante riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali, nonché attraverso la riduzione delle relative remunerazioni».
Allo stesso tempo, il compito di predisporre un piano di individuazione delle partecipazioni azionarie da razionalizzare, nonché i modi ed i tempi di attuazione dello stesso, è affidato agli organi di vertice delle amministrazioni titolari delle partecipazioni[43].
La ratio ispiratrice di questo piano di riorganizzazione delle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, da attuare non solo mediante la soppressione delle partecipazioni non utili agli scopi istituzionali ma anche attraverso l’aggregazione delle società che gestiscono i servizi pubblici locali di rilevanza economica[44], è riscontrabile sempre nella necessità di tutelare la concorrenza: è per tale motivo che, pur in assenza di un esplicita previsione legislativa, anche per le procedure di alienazione previste dal comma 611 dell’art. 1, l.190/2014, si dovranno applicare le procedure ad evidenza pubblica.

8. (segue): Le società quotate in mercati regolamentati a partecipazione pubblica locale: i meccanismi incentivali.
Come è stato possibile osservare, i numerosi interventi normativi che si sono succeduti negli ultimi anni sono sempre stati caratterizzati dalla volontà di adeguare la normativa legislativa italiana ai principi comunitari di tutela della concorrenza. La stessa disciplina comunitaria della concorrenza applicabile alle imprese si inserisce all’interno della più generale e fondamentale tutela della libertà di circolazione dei beni e dei servizi[45].
Procedendo nell’analisi degli interventi di riforma afferenti i servizi pubblici locali e concentrandosi su quelli riguardanti le società partecipate da enti locali quotate in mercati regolamentati, emerge immediatamente la duplice importanza rivestita da tale categoria: le partecipate quotate, infatti, oltre a perseguire un adeguato livello di tutela della concorrenza, vengono in considerazione anche sotto il punto di vista della libera circolazione dei capitali.
Esse sottostanno ad un controllo quotidiano effettuato dal mercato che si sostanzia nell’andamento del titolo in borsa, i cui risultati sono ancorati a valutazioni delle attività delle società stesse sulla base di criteri di efficienza, qualità ed efficacia: un controllo più ampio e penetrante di quello riguardante le società partecipate non quotate, dal quale poter ricavare benefici sia per i cittadini destinatari dei servizi, sia per le amministrazioni pubbliche.
Con ciò si spiega l’introduzione di meccanismi premiali o di discipline derogatorie più favorevoli rispetto a quelle dettate per le società partecipate da enti pubblici non presenti in mercati regolamentati.
Un primo esempio del favore del legislatore per questo particolare tipo di società, si rinviene nel testo dell’art. 35, comma 11, della l. 448/2001 per il quale: «limitatamente al caso di società per azioni quotate in borsa e di società per azioni i cui enti locali soci abbiano già deliberato al 1º gennaio 2002 di avviare il procedimento di quotazione in borsa, da concludere entro il 31 dicembre 2003, di cui, alla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti locali detengano la maggioranza del capitale, è consentita la piena applicazione delle disposizioni di cui al comma 12 dell’articolo 113 [secondo il quale l’ente locale può cedere in tutto o in parte la propria partecipazione nelle società erogatrici di servizi. Tale cessione non comporta effetti sulla durata delle concessioni e degli affidamenti in essere] del citato testo unico». Se infatti, al fine di conformare la legislazione italiana agli obblighi derivanti dal diritto comunitario, l’art. 35, l. 448/2001, modificando l’art.113 Tuel, introduceva le procedure ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi a rilevanza economica e corrispondentemente prevedeva la cessazione anticipata delle concessioni in essere[46], nel caso in cui gli enti locali avessero ceduto la propria partecipazione – o parte di essa – in società quotate, gli affidamenti delle suddette società sarebbero proseguiti sino alla loro naturale scadenza.
Il ricorso a meccanismi premiali relativi alle società quotate partecipate dagli enti locali è stato poi riconfermato dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179[47], convertito in l. 17 dicembre 2012, n. 221. L’art. 34, comma 15, del summenzionato decreto-legge infatti per gli affidamenti diretti alle società partecipate quotate in borsa (prima del 1 ottobre 2003) stabiliva come data di scadenza del rapporto quella risultante dal contratto di servizio che la disciplinava e, nel caso in cui non fosse stata individuata una data certa, essi sarebbero cessati il 31 dicembre 2020.
Infine, la disciplina sopra richiamata, pur risultando estranea a logiche di concorrenza nella libera prestazione di servizi, non risulta essere in contrasto con il diritto europeo per tre ordini di ragioni: in primo luogo, a ben vedere, la previsione di un meccanismo premiale che consenta la prosecuzione delle concessioni in essere altro non è che la concretizzazione nell’ordinamento italiano del principio - di matrice comunitaria - di salvaguardia del rapporti concessori[48]; in secondo luogo, la deroga all’esperimento di procedure ad evidenza pubblica nell’affidamento di servizi pubblici locali riguarda esclusivamente le concessioni già in essere, pertanto una nuova concessione di servizio pubblico non potrà che essere disciplinata attraverso gli ordinari metodi di affidamento dei servizi pubblici locali. In ultima analisi mediante la quotazione in mercati regolamentati delle società in oggetto, aumenta l’apertura del settore al capitale privato: sottoponendo l’operato delle società ad una valutazione di mercato che si riflette nell’andamento del titolo azionario, si accentua la contendibilità stessa della governance societaria, affiancando così, alla tutela della concorrenza, l’ulteriore tutela della libera circolazione dei capitali.

 

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[1] Cfr. i commenti introduttivi e la raccolta di tali interventi normativi in D.Masetti, Rassegna delle norme in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica e di società con partecipazione degli enti locali, 2013, in www.giustamm.it.
[2] Cons. Stat., Sez. V, 9 maggio 2001, n. 2605 in www.giustizia-amministrativa.it; per l’individuazione della nozione di servizio pubblico si richiamano anche, ex multis, Cons. Stat., Sez. VI, 5 aprile 2012, n. 2021 in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stat., Sez. V, 20 dicembre 2013, n. 6131 in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia, Sez. III, 20 dicembre 2012, n. 1757 in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Sardegna, sez. I, 30 gennaio 2014, n. 80 in www.giustizia-amministrativa.it; Cass. Pen., Sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 45908 in www.foroitaliano.it (la validità della nozione di servizio pubblico fornita dal giudice penale, si ricorda, è da riferirsi ai soli effetti della legge penale).
[3] La definizione di servizio pubblico locale contenuta nell’art. 112 del T.U.E.L. riprende la precedente definizione fornita dall’art. 22 della l. 8 giugno 1990, n. 142.
[4] Per l’individuazione della nozione di servizio pubblico locale v., in particolare, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 1 settembre 2014, n. 9264 in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2013, n. 5532 in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2004, n. 1547 in www.giustizia-amministrativa.it; in dottrina, la nozione è efficacemente illustrata nei contributi raccolti in R. Villalta (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, 2011, Torino.
[5] Anche il diritto derivato dell’Unione europea richiama espressamente l’art. 57 del Tfue; v., ad esempio, dir. 2006/123/CE, relativa alla libera circolazione dei servizi nel mercato comunitario.
[6] Accanto a questa bipartizione, il diritto comunitario affianca un’ulteriore figura: il c.d. servizio universale. In esso sono ricompresi quei servizi che rispondono ad esigenze di interesse generale caratterizzati dalla particolarità di garantire a tutti e dappertutto, quantomeno in linea teorica, l’accesso a determinate prestazioni ritenute essenziali nonché un elevato standard qualitativo a prezzi ragionevoli.
[7] Ex multis, v. Corte Giust. U.E., 19 maggio 1993, C-320/91 in www.curia.europa.eu. La Corte ha intenzionalmente preferito giungere ad una definizione che fosse flessibile e mutevole al fine di permettere un rapido adeguamento della stessa all’evolversi degli interessi collettivi e delle esigenze della società.
[8] Per il concetto di imprenditorialità cfr. L.E.Fiorani, Società “Pubbliche” e fallimento, in Giur. Comm., 2012, fasc. 4, p. 532.
[9] Questo è quanto emerge da una lettura combinata dell’art. 14 Tfue con il Protocollo n. 26 (Sui servizi di interesse generale) introdotto come allegato dal Trattato di Lisbona. Il Protocollo contribuisce a meglio definire i limiti entro i quali i servizi di interesse economico generale vengono prestati: in particolare è ribadita l’ampia discrezionalità concessa alle autorità nazionali, regionali e locali nel fornire, commissionare ed organizzare i servizi di interesse economico generale che siano il più possibile vicini e corrispondenti alle esigenze degli utenti, assicurando, al tempo stesso, un alto livello di qualità, sicurezza ed accessibilità economica nonché la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale ai servizi.
[10] V. D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (“Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”), artt. 113 e 113-bis. In riferimento a quest’ultimo articolo si ricorda come la Corte Costituzionale ne abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale: cfr. Corte Cost., 27 luglio 2004, in www.cortecostituzionale.it.
[11] Le modifiche, apportate dall’art. 14 del d.l. n. 269/2003, interessano l’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 nel quale ogni precedente riferimento alla rilevanza industriale è stato sostituito dal concetto di rilevanza economica. Per la definizione di rilevanza industriale, v., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 2004, n.21555 in www.giustizia-amministrativa.it.
[12]Cfr. Corte Cost., 17 novembre 2010, n. 325 in www.cortecostituzionale.it. In tale sede la Corte giunge a riconoscere il “contenuto omologo” delle nozioni di servizi pubblici locali di rilevanza economica e di servizio di interesse economico generale limitato all’ambito locale, riconoscendo la derivazione comunitaria della prima. La Corte afferma inoltre che entrambe le nozioni si riferiscono ad un servizio reso mediante un’attività economica intesa in senso ampio che sia volto a soddisfare interri “sociali” di un’indifferenziata generalità di cittadini.
[13] L’art. 2, r.d. 2578/1925 così recita: “Ciascuno dei servizi assunti direttamente deve, salvo ciò che è disposto dall'articolo 15, costituire un'azienda speciale, distinta dall'amministrazione ordinaria del comune, con bilanci e conti separati, e regolata dalle disposizioni del presente testo unico.
Quando però si tratti di servizi di non grande importanza o di tal natura da potersi riunire convenientemente, potrà essere costituita una azienda sola che provveda a più servizi, tenendo contabilità separate.”
[14] Un’interpretazione ampia della nozione di “importanza” che arrivi a ricomprendere non solo l’aspetto sociale del servizio ma anche quello economico-finanziario è supportata da una lettura sistematica del R.D. 2578/1925. La previsione dell’azienda speciale come metodo per l’erogazione dei servizi nonché la predisposizione di un sistema di cassa e contabilità separato per questa rispetto a quello dell’ente locale evidenziano come l’aspetto finanziario dell’erogazione del servizio sia di primaria importanza.
[15] Per quanto concerne i rapporti tra Stato e Regioni i materia di servizi pubblici locali cfr. Corte Cost., 27 luglio 2004, n. 272, in www.cortecostituzionale.it. Nello specifico la Corte legittima l’intervento statale in materia nella misura in cui esso si sostanzi nell’introduzione di una disciplina che possa “essere agevolmente ricondotta nell'ambito della materia “tutela della concorrenza”, riservata dall'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato” (da intendersi in maniera dinamica: v. Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 14, in www.cortecostituzionale.it).
[16] Le forme di gestione originariamente previste dall’art. 22 erano individuate nella gestione in economia, nella concessione a terzi, nell’azienda speciale, nelle istituzioni e nelle società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall'ente titolare del pubblico servizio.
[17] I commi 52-59 dell’art. 17, l. 127/1997, dettano ulteriori disposizioni relative alla procedura di trasformazione delle municipalizzate in società di capitali prevedendo in particolare, al comma 57, che “la deliberazione di cui al comma 51 potrà anche prevedere la scissione dell'azienda speciale e la destinazione a società di nuova costituzione di un ramo aziendale di questa. Si applicano, in tal caso, per quanto compatibili, le disposizioni di cui ai commi da 51 a 56 e da 60 a 61 del presente articolo nonché agli articoli 2504-septies e 2504-decies del codice civile”.
[18] Il concetto di rilevanza industriale è stato poi sostituito con l’istituto della rilevanza economica dall’art. 14 del d.l. 269/2003.
[19] Art. 14, d.l. 30 settembre 2003, n. 269 recante “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici”.
[20] Il quadro evolutivo della normativa sul punto si ricava da D.Masetti, Rassegna delle norme in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica e di società con partecipazione degli enti locali, 2013, in www.giustamm.it.
[21]La normativa in oggetto, che detta regole più restrittive rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario per l’affidamento in house, ha ricevuto l’avvallo della Corte Costituzionale: v. Corte Cost. 17 novembre 2010, n. 325 in www.cortecostituzionale.it. Sui requisiti richiesti dal diritto comunitario in tema di in house providing: cfr. Corte di Giustizia 6 aprile 2006, C- 410/04 in www.curia.europa.eu.
[22] L’art. 23-bis, introdotto in fase di conversione del d.l. 112/2008, così come modificato dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito in l. 20 novembre 2009, n. 166, così disponeva, al comma 2: “il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità”.
[23] Per la definizione di in house providing: v. CG, 18 novembre 1999, C-107/1998, Teckal c. Comune di Viano in www.curia.europa.eu; - CG, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle in www.curia.europa.eu; - CG, 10 novembre 2005, C-20/04, Modling in www.curia.europa.eu;; - CG, 11 maggio 2006, C-340-04, Carbotermo in www.curia.europa.eu; - CG, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen in www.curia.europa.eu; - CG, 19 aprile 2007, C-295/05, Asemfo in www.curia.europa.eu; - CG, 13 novembre 2008, C-324/07, Coditel Brabant in www.curia.europa.eu;; - CG, 10 settembre 2009, C-573/07, Sea Srl in www.curia.europa.eu; - CG, 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord SpA in www.curia.europa.eu.
[24]Cfr. art. 23-bis, d.l. 112/2008:” In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria.
Nei casi di cui al comma 3, l'ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l'espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione”.
[25] D.P.R. 113, 18 luglio 2011.
[26] V. Corte Cost. 20 luglio 2012, n. 199 in www.cortecostituzionale.it.
[27] V., ad esempio, Corte Giust. CE, 6 aprile 2006, C-410/04, in www.giustamm.it.
[28] In seguito all’abrogazione dell’art. 4 del d.l. 138/2011 ad opera della Corte Costituzionale (Corte Cost, 20 luglio 2012, n. 199, in www.cortecostituzionale.it) sembra ristabilita una tendenziale equiordinazione delle forme di gestione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 11 febbraio 2013, in www.dirittodeiservizipubblici.it; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 11 aprile 2013, n. 1925, in www.giustizia-amministrativa.it;
[29] A tal proposito, si ricorda che il comma 33-ter dell’art. 4 del d.l. 138/2011 demandava ad un decreto del Ministro degli affari regionali, il turismo e lo sport il compito di definire i criteri per la verifica di liberalizzabilità. Tale regolamento ministeriale, pur essendo stato predisposto e pur essendoci stato un parere favorevole del Cons. Stato, sez. consultiva, 11 giugno 2012, n. 2805, non fu mai emanato giacché intervenne la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012 che dichiarava incostituzionale l’intero art. 4 del d.l. 138/2011.
[30] Per garantire la qualità delle prestazioni offerte dai privati, l’art. 4, comma 5, d.l. 138/2011 prevede la possibilità di definire in via preliminare una serie di obblighi di servizio e la relativa compensazione economica da attribuire alle imprese esercenti i servizi stessi.
[31] Sull’importanza della fase istruttoria e della motivazione del momento della scelta del modello di gestioni: v. Cons. Stato, sez. II, 11 febbraio 2013, n. 762 in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. V, 8 febbraio 2011, n. 754 in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. VI, 12 marzo 1990, n. 374 in Foro it., 1991, III, p. 270; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 12 dicembre 2014, n. 3005 in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 1 febbraio 2012, n. 225 in www.giustizia-amministrativa.it.
[32] L’individuazione delle caratteristiche della procedura ad evidenza pubblica è ricavabile dall’opera interpretativa della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo la quale non vi è necessità di confronto concorrenziale competitivo tra i diversi partecipanti attraverso il ricorso ad una gara ma è sufficiente il rispetto del principio di non discriminazione garantendo adeguata pubblicità e trasparenza alla procedura. Cfr., ex multis, Corte Giust. U.E., sez. I 7 dicembre 2000, C-324/98 in www.curia.europa.eu; Corte Giust. U.E., sez. IV,13 settembre 2007, C-260/04 in www.curia.europa.eu.
[33] La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale di tale normativa, ha ravvisato nell’art. 4 un tentativo volto a reintrodurre principi normativi analoghi a quelli abrogati a seguito del Referendum del 2011 e, quindi, ha abrogato il suddetto articolo per violazione del “divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’articolo 75 della Costituzione”. Cfr. Corte Cost., 20 luglio 2012, n. 199 in www.cortecostituzionale.it.
[34] L’obbligatorietà della partecipazione agli enti di governo dell’ambito è assistita dalla attribuzione, in capo al Presidente della Regione territorialmente competente, del potere di sostituirsi, previa diffida ad adempiere, agli enti locali nel esplicitare la propria partecipazione all’ente di governo. Cfr. art. 147, comma 1-bis, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 così come modificato dall’art. 7, comma 1, d.l. 13 settembre 2014, n. 133.
[35] Sul punto è intervenuta la l. 7 aprile 2014, n. 56 recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni.
[36] In riferimento alla categoria dei servizi a rete di rilevanza economica cfr., tra gli altri, E. Ferrari, I servizi a rete in Europa, Milano, 2000.
[37] L’individuazione di bacini di ampiezza diversa da quella del territorio provinciale è ammessa ma deve essere supportata da una motivazione basata su criteri di differenziazione territoriale e socio-economica; è fatta salva poi l’organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali già prevista in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore vigenti (art. 3-bis, comma 1, d.l. 138/2011).
[38] Nel caso di mancata partecipazione agli enti di governo da parte degli enti locali, così come nel caso delle partecipazioni previste dall’art. 7, d.l. 13 settembre 2014, n. 133, sono attribuiti poteri sostitutivi in capo al Presidente della Regione volti ad obbligare la partecipazione dei summenzionati enti locali agli organi di governo.
[39] Art. 35, comma 6, l. 28 dicembre 2001, n. 448.
[40] Ci si riferisce, ad esempio, alla disciplina dettata dalla l. 448/2001 appena analizzata nonché, ad esempio, al lungo processo di riforma del Servizio Idrico Integrato che a partire dalla l. 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche) fino ad arrivare (alle modifiche introdotte dal d.l. 133/2014) al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 impernia la gestione del servizio sulla base del principio dell’unicità di gestione.
[41] Cfr. r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578 titolato “Approvazione del testo unico della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e delle provincie”.
[42] V. art. 3-bis, comma 1, d.l. 13 agosto 2011, n. 138.
[43] Art. 1, comma 612, l. 24 dicembre 2014, n. 190.
[44] Sul punto, in vista di un’interpretazione di sistema dell’art. 1, comma 611 della l.190/2014, cfr. art. 3-bis, d.l. 138/2011, così come novellato dall’art. 1, comma 609, l.190/2014.
[45] La Corte di Giustizia ha riconosciuto in più occasioni la strumentalità della concorrenza rispetto al c.d. mercato comune e, conseguentemente rispetto alla libertà di circolazione dei servizi e delle persone di cui il mercato comune costituisce primaria estensione. Cfr., ex multis, Corte Giust. CE, 25 ottobre 1997, C-26/1976, in Racc., p. 1875.
[46]Cfr. art. 35, comma 2, l.448/2001.
[47] La prosecuzione degli affidamenti concessi alle società partecipate locali quotate in borsa era stata prevista anche dall’art. 23-bis del d.l. 112/2008 a condizione che la partecipazione in mano pubblica subisse una progressiva riduzione mediante la cessione di pacchetti azionari per mezzo di procedure ad evidenza pubblica oppure attraverso forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali.
[48] Cfr. Corte Giust. UE, 17 luglio 2008, C-347/06, in www.curia.europa.eu; Corte Giust. UE, 19 giugno 2008, C-454/06, in www.curia.europa.eu.

 

(pubblicato il 9.4.2015)

 

 

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