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n. 1-2015 - © copyright |
GIANMARCO BERTO
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Il procedimento e la sanzione dopo la
sentenza Grande Stevens: il travaso del (giusto) processo nel
procedimento
Sommario: 1. La sentenza Grande Stevens, le
sue implicazioni dirette e gli ulteriori profili di riflessione per
il diritto amministrativo. - 2. Il giusto processo e il procedimento
amministrativo. - 3. Le regole di esenzione del procedimento dalle
garanzie del giusto processo e la loro dubbia compatibilità con
l’ordinamento italiano. - 4. La necessaria estensione delle garanzie
del giusto processo ai procedimenti amministrativi sanzionatori
italiani, con alcune proposte di adattamento.
1. La
sentenza Grande Stevens, le sue implicazioni dirette e gli
ulteriori profili di riflessione per il diritto
amministrativo.
La recente sentenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo sul caso Grande Stevens[1], per le sue
intuibili implicazioni immediate, ha destato notevole scalpore in
ambiente penalistico: ciò che infatti emerge a una prima e piana
lettura della pronuncia è soprattutto che essa costituisce in mora
l’ordinamento italiano e così la sua tendenza a replicare sanzioni
amministrative in sanzioni penali, formalmente distinguendone le
fattispecie ma in realtà duplicando l’afflizione per le medesime
condotte illecite, senza neppure accedere all’articolazione di
differenti sanzioni (amministrative o penali) in relazione a diversi
gradi di disvalore di comportamenti pur strutturalmente
assimilabili.
E così, interpretando l’art. 4 del settimo
protocollo addizionale della Convenzione[2] e l’ivi implicato
principio di ne bis in idem in chiave sostanziale e dunque
estensiva[3], la Corte arriva a giudicare contrari al giusto
processo enunciato dalla C.e.d.u. gli artt. 185 e 187-ter d.lgs. n. 58/1998 (c.d. testo unico delle disposizioni in
materia di intermediazione finanziaria: in acronimo t.u.f.) in
quanto prevedono che la medesima condotta di manipolazione contra
ius del mercato possa essere colpita da una sanzione penale o da
una sanzione amministrativa, dopo essere stata sanzionata una prima
volta dall’uno o dall’altro ordinamento[4]: e si tratta – come si
vede – di violazione strutturale della Convenzione, dal momento che
la duplicazione sanzionatoria si può ravvisare in numerosi settori
dell’ordinamento interno, essendo invalsa nel legislatore (e molto
spesso da questo rivendicata) la prassi di affiancare, per le
condotte illecite ritenute di maggiore allarme sociale o
maggiormente impattanti sul piano quantitativo o su quello
qualitativo, specie nel diritto dell’economia e dei mercati,
sanzioni penali a sanzioni amministrative, credendo – il legislatore
– di approfondire per tal via, ossia mediante l’aggiunta di sanzione
a sanzione, l’afflittività e quindi l’efficacia general-preventiva
della propria reazione all’illecito.
In forza dell’obbligo
convenzionalmente assunto dall’Italia di osservare e far osservare
le sentenze promananti dalla Corte internazionale deputata alla
salvaguardia dei diritti dell’uomo, e in virtù della violazione
strutturale accertata da tale organo, l’ordinamento nazionale è
dunque chiamato a riordinare tutto il proprio apparato
sanzionatorio, sopprimendo le sovrapposizioni tra sanzioni[5] di
diversa natura: ed è – quello in discorso – un obbligo di
adeguamento vincolante non solo sul piano internazionale, ma anche
su quello costituzionale, in applicazione della dottrina enunciata
dalla Corte costituzionale con le celebri sentenze gemelle del
2007[6] per la quale la difformità tra legge interna e C.e.d.u.,
dichiarata dalla Corte di Strasburgo, costituisce violazione anche
del precetto costituzionale di rispetto degli obblighi
internazionali assunti dall’Italia e perciò dell’art. 117, comma 1,
Cost., salvo che l’obbligo internazionale medesimo, e così la sua
recezione nell’ordinamento interno, non entri in conflitto con altri
princìpi di rango costituzionale (c.d. controlimite costituzionale
all’ingresso di norme internazionali).
Ne consegue che in difetto
dell’(obbligatorio) adattamento dell’ordinamento giuridico nazionale
al parametro C.e.d.u. ritenuto violato dalla Corte europea nella
pronuncia Grande Stevens (e violato in maniera strutturale,
perché per l’appunto da una regola di duplicazione sanzionatoria
assai diffusa nell’ordinamento), tutte le norme giuridiche che così
perseverino a disporre appaiono destinate a cadere sotto la scure
della Consulta in base alla dottrina da essa stessa affermata e
consolidata[7]: con le prevedibili implicazioni pratiche che tutto
ciò comporta, ossia, per sommi capi, la necessità di celebrare
d’ufficio innumerevoli incidenti d’esecuzione penale per la
cessazione delle pene risultanti dalla duplicazione di sanzioni
amministrative, così come la nascita e la lievitazione di tutto un
filone di contenzioso amministrativo per l’eliminazione delle
sanzioni amministrative irrogate in duplicazione di sanzioni penali,
senza trascurare i consequenziali e potenzialmente infiniti giudizi
risarcitori per il fatto illecito commesso dallo Stato nell’irrogare
e mantenere sanzioni strutturalmente incompatibili con i diritti
dell’uomo sanciti dalla Convenzione.
Non è tuttavia scopo di
questo breve scritto contemplare le ricadute del canone europeo di ne bis in idem, così come consacrato da Strasburgo: sia per
ragioni di spazio, sia per ragioni di competenza specialistica, sia
perché su ciò è già stato detto[8].
Si proverà, viceversa, a
sceverare dalla pronuncia della Corte europea un diverso principio,
propriamente attinente al diritto amministrativo delle sanzioni, ma
non direttamente implicato dalla ratio decidendi della
sentenza e anzi da questo apparentemente smentito: che cioè il
procedimento amministrativo irrogativo di sanzioni, ossia di misure
afflittive nel senso rischiarato da Strasburgo, deve necessariamente
“ibridarsi” con il giusto processo per poter stare nell’alveo di
legalità inaugurato (già, per vero, qualche anno orsono e prima di Grande Stevens, ma in essa ben avvertito) dalla Corte
europea.
2. Il giusto processo e il procedimento
amministrativo.
La conformazione dell’ordinamento
amministrativo alle garanzie del giusto processo, da intendersi
innanzitutto quale diritto del cittadino europeo, si mostra infatti,
a una lettura letterale e superficiale della pronuncia, accantonato
chiaramente dalla Corte: e accantonato, per quel che più conta,
proprio in una fattispecie concernente l’Italia e il suo
ordinamento.
I ricorrenti avevano infatti introdotto in causa,
oltre alla domanda di accertamento della violazione dell’art. 7 del
settimo protocollo addizionale, anche quella di accertamento della
violazione dell’art. 6 della C.e.d.u., sotto svariati profili: tutti
respinti salvo quello afferente al carattere non pubblico del
processo di opposizione alla sanzione Consob celebrato dinanzi alla
Corte d’appello di Torino, svoltosi – in ossequio al testuale
dettato di legge (art. 195, comma 7, t.u.f.) – in camera di
consiglio.
Disattesa, in particolare, è rimasta la censura
tramite la quale i ricorrenti miravano a far affermare alla Corte
che nel procedimento amministrativo di applicazione della sanzione
non erano state rispettate dalla Consob (perché, del resto, non
previste e anzi escluse sia dalla legge generale sul procedimento n.
241/1990 e sia dall’apposito regolamento interno di procedura
approvato con delibera 21 giugno 2005, n. 15086[9]) alcune
fondamentali garanzie che debbono connotare tutte le procedure di
contestazione riguardabili come “accuse penali” nei termini
dell’art. 6 C.e.d.u. delucidati dalla Corte a partire dalla sentenza Engel, quali la piena disclosure e facoltà di
contraddittorio e di difesa sugli atti di indagine e sulle
risultanze probatorie acquisite dalla struttura investigativa
(Divisione competente e Ufficio sanzioni amministrative), per essere
stati gli esiti istruttori trasmessi direttamente alla Commissione
(organo collegiale competente per la decisione) con le conclusioni e
le proposte dell’Ufficio requirente, e la terzietà e imparzialità
dell’organo decisorio, per la soggezione dell’intera istruttoria ai
poteri direttivi del Presidente della Commissione (che può dunque
influire sia sulla conduzione dell’indagine e sulla formulazione
della proposta di proscioglimento o di sanzione, sia sulla decisione
finale).
Il rigetto non riposa sull’estraneità del procedimento
alle “accuse penali” di cui all’art. 6 C.e.d.u., né sull’accertata
armonia di tale procedimento sanzionatorio con la norma
convenzionale per insussistenza dei difetti di garanzia eccepiti dai
ricorrenti: la Corte, anzi, non esita ad affermare l’appartenenza
della sanzione Consob alle “misure penali” e si mostra perfettamente
consapevole della distonia esistente con l’art. 6 del procedimento
funzionale ad irrogarle, tant’è che non esita a dichiararla. Ritiene
tuttavia che essa possa essere purgata dal successivo giudizio di
opposizione previsto dal t.u.f. e affidato (dopo la declaratoria di
incostituzionalità[10] per eccesso di delega della precedente
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo[11]) alla
competenza delle Corti d’appello, che consentirebbe il pieno e
sanante dispiegarsi delle garanzie fondamentali in un primo tempo
sacrificate dinanzi all’autorità amministrativa.
La Corte
europea, insomma, esclude la violazione dell’art. 6 C.e.d.u. sub
specie di mancanza di giusto processo; ma solo perché ritiene,
allo stato (ossia sulla base delle risultanze processuali
fornitele), che le suddette garanzie sovvengano a beneficio degli
interessati, destinatari della sanzione amministrativa, nella
successiva ed eventuale fase propriamente giudiziale: e questo in
base a una dottrina surrogatoria sempre elaborata dalla Corte[12]
per i casi in cui, specie di fronte a misure afflittive non
particolarmente pregnanti, il procedimento di accertamento della
violazione e di irrogazione della sanzione sia strutturato in
maniera bilaterale e con connotati prettamente inquisitori, ovvero
sia governato dall’iniziativa e dall’impulso officioso dell’autorità
amministrativa e, quand’anche presidiato da garanzie di
contraddittorio e di difesa in favore dell’ipotetico destinatario
della sanzione e di eventuali altri interessati oltre che, talvolta,
del pubblico, sia destinato a sfociare in un provvedimento adottato
dalla stessa autorità amministrativa responsabile
dell’istruttoria.
A livello superficiale parrebbe insomma che al
diritto amministrativo e ai procedimenti sanzionatori da esso
disegnati nulla abbia da dire la Corte europea: perché, pur quando
(e ciò avviene nella larga maggioranza degli ordinamenti
continentali[13]) denotino struttura puramente bilaterale e
inquisitoria, non abbisognerebbero di proprie garanzie di giustizia
ed equità sul modello dell’art. 6 C.e.d.u. – benché di per sé
immancabili nell’adozione di qualsivoglia misura sanzionatoria di
tipo “penale” (nell’accezione impiegata dalla Corte europea) – ma
potrebbero vederle rinviate al successivo contenzioso
giurisdizionale d’impugnazione.
3. Le regole di esenzione
del procedimento dalle garanzie del giusto processo e la loro dubbia
compatibilità con l’ordinamento italiano.
Se però si esamina
con maggiore attenzione l’orientamento della Corte di Strasburgo
desumibile dalla combinazione tra l’indefettibilità delle garanzie
del giusto processo e la loro rinviabilità al processo vero e
proprio, ci si avvede che, nel rapporto di regola a eccezione che
tale ricostruzione contempla, la seconda è soggetta a premesse che
integrano presupposti del ragionamento facoltizzante e dunque
condizioni essenziali di operatività della relativa eccezione.
È
in primo luogo necessario – come accennato – che le guarentigie del
giusto processo (e giusto processo di tipo penale) siano attribuite
all’incolpato in misura piena e incondizionata all’interno del
giudizio d’impugnazione: il che significa che esso deve celebrarsi
dinanzi a un giudice, costituito per legge e munito di indipendenza
e imparzialità, che le sue udienze debbono essere pubbliche e
pubblica la decisione, che il procedimento deve concludersi in un
termine ragionevole, che l’incolpato dev’essere informato nel più
breve tempo possibile della natura e dei motivi della contestazione
rivoltagli, che egli deve disporre di tutte le opportunità di difesa
sia argomentativa che istruttoria e, infine, che non possa essere
giudicato né sanzionato una seconda volta per la medesima
condotta.
Ancora, dall’art. 6 discende – già a livello di esegesi
testuale confortata dall’interpretazione logico-sistematica della
Corte[14] – che il giudice dell’impugnazione nei riguardi di
sanzione amministrativa dev’essere munito di pleine
jurisdiction/full jurisdiction, ossia deve avere il potere di
accertare e scrutinare per intero il merito della violazione e della
scelta e commisurazione della sanzione: cosa che implica un pieno e
assoluto accesso al fatto costitutivo della violazione e alle sue
circostanze accessorie o eventuali e ai criteri discrezionali di
applicazione della misura afflittiva oltre che, com’è ovvio, alle
norme giuridiche pertinenti, ancorché tutto ciò debba essere già
stato accertato dall’autorità amministrativa comminante.
Il
secondo presupposto condizionante la percorribilità della strada
eccezionale del rinvio delle garanzie alla sede processuale,
esentandone il procedimento irrogativo, è che la misura
sanzionatoria non rivesta rilevante gravità in rapporto e in
proporzione alla persona o al patrimonio del soggetto attinto[15]:
si tratta di requisito pragmatico e strettamente parametrato alla
fattispecie concreta, cui l’ordinamento italiano non è aduso per la
sua natura quantitativa e sfuggente, ma che la Corte europea,
supremo interprete dei diritti umani, impone di considerare nelle
scelte discrezionali cui i legislatori degli Stati membri sono
chiamati nel determinare se una certa condotta sia meritevole di
mera sanzione amministrativa piuttosto che dell’incriminazione
penale, vietata in ogni caso la duplicazione sanzionatoria.
Ecco
che, riguardato in questa luce sistematica, l’orientamento
apparentemente benevolo verso l’approccio dell’ordinamento italiano
all’apparato delle sanzioni amministrative, ed emergente inter
alias dalla sentenza Menarini, e così favorevole o neutrale
rispetto al rinvio pressoché completo delle garanzie proprie del
processo giusto o equo all’eventuale fase giudiziale d’impugnazione
del provvedimento, rivela una profonda crisi di compatibilità con il
sistema convenzionale: perché non si può punto affermare né che le
misure sanzionatorie italiane denotino sempre un’afflittività
modesta o moderata, né che il processo d’impugnazione od opposizione
consenta quel pieno e incondizionato scrutinio del fatto, del
diritto e delle circostanze che l’ordinamento di Strasburgo, mercé
il suo interprete supremo, esige.
Circa la graduazione della
gravità o comunque dell’afflittività della sanzione, che permette
agli Stati membri – stando alla Corte europea – di stabilire più
livelli formali di tutela (da uno, per così dire minore, in cui a
una prima fase procedimentale governata dal principio inquisitorio e
dall’impulso officioso e caratterizzata da una tutela attenuata e da
una dialettica solo bilaterale con l’amministrazione si
susseguirebbe una seconda fase, solo eventuale, propriamente
giurisdizionale con tutte le garanzie del giusto processo, a uno,
maggiore, in cui le predette garanzie sarebbero apprestate ab
initio in un alveo ab origine processuale e accusatorio),
è facile notare come nell’ordinamento italiano siano previste
sanzioni che, benché definite e ritenute meramente amministrative,
risultano assai più pesanti e penetranti, per il patrimonio del
destinatario, rispetto a talune fattispecie penali: si pensi solo
alle misure irrogabili dall’Autorità garante per la concorrenza e il
mercato in relazione a fatti di intesa o abuso di posizione
dominante, in cui si può incidere su frazioni molto rilevanti del
fatturato delle imprese colpite.
Che poi il processo
d’impugnazione od opposizione alle sanzioni amministrative, tanto
che sia celebrato dal giudice ordinario quanto che sia gestito dal
giudice amministrativo, assicuri l’integrale dispiegarsi delle
garanzie del giusto processo (anzi, del processo equo, come si
esprime l’art. 6 C.e.d.u.) nei termini enunciati dalla Corte di
Strasburgo, rimane tutto da dimostrare: e ciò in quanto, alla
stregua del concreto atteggiarsi dell’ordinamento al di là del
diritto scritto (concretezza imposta sempre dalla giurisprudenza
alsaziana), è quanto meno da dubitare che il giudice italiano, così
ordinario come amministrativo, eserciti in concreto quella full
jurisdiction di cognizione e di valutazione imposta dall’art. 6
C.e.d.u. e dall’interpretazione vincolante[16] della sua Corte
perché sia consentito di derogare, in sede di procedimento
applicativo delle sanzioni amministrative, alle garanzie del giusto
processo[17].
Come infatti la dottrina ha immediatamente
rilevato[18], è riscontrabile sia nelle Corti d’appello sia nei
Tribunali amministrativi (e così nelle relative sedi d’impugnazione,
Corte di cassazione e Consiglio di Stato) un profondo, e per certi
versi comprensibile (quand’anche non condivisibile), self-restraint nei confronti dei procedimenti che abbiano
condotto alla comminazione di sanzioni amministrative e dei
consequenziali provvedimenti sanzionatori, pure se di ingente entità
e afflittività, tendendo i giudici ad adagiarsi sull’accertamento
dell’autorità amministrativa e sul suo giudizio sulle circostanze e
l’appropriatezza della sanzione, spesso espressione di expertise tecnica e dunque difficilmente scrutinabile ex se dal
giudice: senza cioè condurre quegli autonomi e indipendenti
accertamenti e valutazioni dei fatti e delle circostanze primarie e
secondarie rilevanti per l’ascrizione di responsabilità e la
commisurazione e l’irrogazione della sanzione ove essi siano già
stati compiuti dall’autorità e nel procedimento amministrativo e
specie laddove costituiscano manifestazione di valutazioni
tecnico-scientifiche[19].
E questo pur quando le regole
processuali, tanto dell’uno quanto dell’altro plesso
giurisdizionale, forgiate dai voti della dottrina più che dai
progressi della giurisprudenza, permettano ormai un sindacato
teoricamente pieno e completo sul fatto e sulle sue circostanze,
oltre che sulla discrezionalità dell’autorità amministrativa
nell’applicare la sanzione.
È indubbio che un simile
atteggiamento deferente dei giudici verso la repressione
amministrativa degli illeciti trovi consonanze in altri ordinamenti
comparabili a quello italiano, quale quelli britannico e
statunitense, sul versante di common law, e quello francese
sul versante di civil law.
Non si possono, tuttavia,
trascurare le divergenze tra quegli ordinamenti e quello italiano,
che lì giustificano in certa misura la deferenza mentre qui la
rendono uno strumento pericoloso di elusione delle garanzie
dell’equo processo.
Nei Paesi di common law, la cui
tradizionale definizione (invero ormai anacronistica) è di
ordinamenti non a diritto amministrativo e in cui quest’ultimo
storicamente nasce per gemmazione dalla giurisdizione e dal
processo, il procedimento amministrativo sanzionatorio, anche
laddove non sia gestito propriamente da Courts bensì da
organi amministrativi, è già processo, perché il soggetto che
istruisce l’affare è diverso da quello che valuta l’accusa e irroga
eventualmente la sanzione e nel suo seno l’incolpato dispone di ogni
potere di difesa e di influenza, in posizione di parità con
l’autorità accusante, sulla decisione finale: l’amministrazione
delle sanzioni, insomma, si esercita strutturalmente in forme
contenziose nell’ambito di un fair trial.
In questa
ipotesi, ove cioè già il procedimento sia tracciato e sia in
concreto amministrato in forme processuali e con il pieno
dispiegarsi dell’apparato di garanzie del giusto processo elencato
dalla C.e.d.u. e affinato dalla sua Corte, il successivo sindacato
giurisdizionale può assumere contorni maggiormente sfumati[20]
oppure, a parere di parte della dottrina, potrebbe persino non
essere previsto[21].
Il caso francese è d’altra parte
emblematico, perché attinente a un ordinamento tradizionalmente
classificato, come quello italiano, a diritto amministrativo: perché
in esso, a fronte della deferenza manifestata dal giudice
amministrativo (Conseil d’Etat in testa), pur in sede di
giurisdizione di plein contentieux[22], per il procedimento e
l’iter logico-giuridico seguito per l’irrogazione di sanzioni
soprattutto da parte di autorità amministrative indipendenti, la
Corte europea non ha esitato a dichiarare l’incompatibilità con la
Convenzione degli organi deputati a decidere le misure sanzionatorie
così come i relativi procedimenti applicativi, per la ragione che
non garantivano la terzietà e imparzialità dell’organo decidente, il
pieno sviluppo delle facoltà di difesa dei destinatari delle
contestazioni, inclusa la trasparente e automatica disponibilità per
costoro dei mezzi di prova e delle evidenze istruttorie, anche a
discarico, e la pubblicità delle udienze[23].
In altri termini,
proprio la verifica in concreto dell’atteggiamento deferente
espresso dai giudici francesi del contentieux administratif nei confronti dei complessi e difficoltosi accertamenti e
valutazioni tecniche rimessi ad apposite autorità amministrative, e
necessari per annoverare determinati comportamenti di soggetti
economici nella liceità piuttosto che nell’illiceità e per
determinarne le succedanee misure di penalizzazione, ha mosso la
Corte europea, nel suo ruolo di supremo garante dei diritti umani
scolpiti nella Convenzione, ad anticipare – nel superiore interesse
dell’equità processuale veicolata dall’art. 6 – le garanzie di
tutela, nella loro interezza, alla fase procedimentale dinanzi
all’autorità. E il legislatore francese si è mostrato ben conscio
sia della questione sistematica sollevata dalla Corte, sia delle
soluzioni necessitate che dall’affrontarlo avrebbero dovuto essere
apprestate, avendo introdotto, a loro riscontro, una rigida
separazione tra organo inquirente e organo decidente, la completa disclosure delle prove raccolte al termine dell’istruttoria e
l’udienza pubblica di discussione dinanzi alla
commissione.
4. La necessaria estensione delle garanzie
del giusto processo ai procedimenti amministrativi sanzionatori
italiani, con alcune proposte di adattamento.
L’ordinamento
italiano, peraltro, già ora non è immune ai precipitati
dell’estensione delle garanzie proprie del giusto processo ex art. 6 C.e.d.u. alla fase procedimentale di applicazione della
sanzione, verso cui tende la giurisprudenza alsaziana: perché la
Corte costituzionale ha già affermato di volersi adeguare e anzi di
condividere l’accezione di “accusa penale” formulata da Strasburgo
ed estesa all’apparato sanzionatorio amministrativo[24]; e perché il
Consiglio di Stato ha già ingiunto alla Consob, sia pure in sede di
incidente cautelare, di adeguare il proprio procedimento
sanzionatorio alle garanzie stabilite come obbligatorie dalla Corte
europea, segnatamente introducendo la piena esplicazione del
contraddittorio tra Commissione (ossia l’organo decidente), Ufficio
sanzioni amministrative (organo inquirente-requirente) e soggetto
incolpato e la pubblicità del procedimento[25]. E le medesime
considerazioni possono valere, com’è ovvio, per tutte le altre
garanzie di equità processuale implicate dall’art. 6 C.e.d.u.[26] e
per tutti gli altri procedimenti sanzionatori, a qualunque autorità
siano intestati.
Vero è, allora, che la Corte europea, in un
attento esercizio di deferenza verso le peculiarità dei singoli
ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa, tende a
modellare le proprie decisioni sul grado di progresso garantistico
rivelato da ciascuno di essi, esigendo di più da “chi può
permetterselo” e ha già manifestato di essere consapevole e
attrezzato a tutele più avanzate, ma altrettanto chiaro appare che
la recezione integrale in Italia dei criteri di giustizia elaborati
da Strasburgo, ritenuta indefettibile dalla Corte costituzionale e
dal Consiglio di Stato, non potrà che provocare, in un futuro non
troppo lontano, la necessaria ristrutturazione dell’ordinamento
italiano secondo un nuovo sistema circolatorio innervato delle
garanzie del giusto processo sancite dalla Convenzione, e comunque
portare la Corte europea a pretenderne da tale ordinamento il
rispetto pieno, anche in sede procedimentale sanzionatoria e senza
contentarsi della loro presenza (non sempre in fatto assicurata)
nell’eventuale susseguente snodo giurisdizionale.
Nell’uno come
nell’altro caso[27] le lacune e le carenze di garanzia tuttora
presenti nell’ordinamento non potrebbero che essere rimosse, o per
autonoma determinazione della Corte costituzionale e dei giudici
interni, se non già del legislatore o dei regolatori di settore, che sua sponte riconoscano la difformità delle relative regole
procedimentali dalla C.e.d.u. così come interpretata dalla sua
Corte, e dunque dall’art. 117 (oltre che 111) Cost.[28], oppure per
la sinergica concatenazione tra accertamento della violazione a
opera della Corte europea e successiva declaratoria
d’incostituzionalità da parte della Consulta (nel caso di leggi) o
del giudice comune (nel caso di norme regolamentari).
Non si
tratterebbe, come del resto il caso francese dimostra, di una
rivoluzione da compiere, ma di una manutenzione da esperire: sia
perché il sistema convenzionale tollera che sanzioni meramente
ripristinatorie o minori siano assistite da inferiori garanzie,
riservabili all’eventuale contenzioso giurisdizionale
d’impugnazione, sia perché l’ordinamento amministrativo italiano non
è alieno dalle garanzie di equità che s’intendono qui affermare come
indefettibili. Ci si riferisce al modello comune dei procedimenti
sanzionatori, articolato dalla legge n. 689/1981, in cui la dualità
e la separazione tra organo accertatore (autorità di polizia
amministrativa) e organo decidente (il Prefetto), in posizione di
terzietà e imparzialità, è già ius posĭtum; e che è modello
che necessita soltanto di essere migliorato e corretto in termini di
maggiore legalità e minore discrezionalità procedimentale: si pensi
solo al fatto che il Prefetto, assunte le eventuali controdeduzioni
scritte dell’interessato, non è obbligato né a consentire repliche,
né ad assumere le prove indicate, né a fissare un’audizione pubblica
nel contraddittorio dell’organo accertatore e dello stesso
incolpato.
Rimangono pertanto coinvolti nell’esigenza,
costituzionalmente e convenzionalmente obbligatoria, di ripensamento ab imis (perché implicante la modificazione della stessa
struttura delle autorità responsabili dell’accertamento degli
illeciti e della comminazione delle penalità) soltanto i
procedimenti amministrativi sanzionatori di competenza di autorità
indipendenti (A.g.c.m., A.g.com., A.n.ac., A.e.e.g.s.i., Banca
d’Italia, Consob, Commissione di garanzia per l’attuazione del
diritto di sciopero, Garante della riservatezza dei dati personali
ecc.), ancora non adeguati alle garanzie del giusto processo[29],
nonché quei procedimenti di competenza di amministrazioni diverse
che, pur potendo produrre misure sanzionatorie gravose, sono tuttora
edificati a struttura bilaterale e inquisitoria, non consentendo
pertanto in radice il dispiegarsi delle garanzie.
Si possono
fare, a quest’ultimo riguardo, gli esempi dei procedimenti in
materia edilizia, rimessi al Comune, per l’applicazione di sanzioni
(non prettamente restitutorie) per abuso edilizio, che possono
giungere fino al doppio del valore venale dell’opera abusiva (art.
34, comma 2, del testo unico dell’edilizia approvato con d.P.R. n.
380/2001) o del contributo di costruzione (art. 36, comma 2, dello
stesso testo unico), e quello, accessorio all’ordine di demolizione
per il caso di inottemperanza al medesimo, di pagamento di
un’ulteriore sanzione pecuniaria fino a € 20.000 (art. 31, comma
4-bis, introdotto dal d.l. n. 133/2014); e, ancora, si
considerino le sanzioni pecuniarie e interdittive, che possono
assumere connotati anche molto pregnanti, contemplate dalla
legislazione sul commercio (art. 22 d.lgs. n. 114/1998) e che sono
irrogate sempre dal Comune. Ma molte altre sono le fattispecie
sanzionatorie esulanti dal modello formale, certamente più
garantistico e conforme alla C.e.d.u., della l. n. 689/1981, e che
esigono quindi urgente ricostruzione pena l’intervento, prima o poi,
della scure delle Corti.
Per i procedimenti affidati alle
autorità indipendenti, potrà essere sufficiente stabilire, pur
all’interno di un’autorità soggettivamente unitaria, una netta e
rigida separazione ordinamentale, organizzativa e funzionale tra
organi inquirenti e collegio decidente, in guisa che non possano
crearsi o perpetuarsi interferenze, neppure di stampo personale o di
carriera, tra i titolari e i collaboratori degli uni e dell’altro e
sia pertanto strutturalmente garantito che chi si occupa
dell’indagine e formula l’accusa non si trovi mai a condizionare o,
all’inverso, a subire condizionamenti da chi è chiamato a
scrutinarla nel contraddittorio dell’accusato.
Quanto ai
procedimenti di competenza di enti territoriali, si potrebbe pensare
all’intervento terzo di un diverso ente, di livello superiore,
munito di competenza concorrente o sussidiaria nella materia in cui
il procedimento e la sanzione sono ricompresi: per tornare agli
esempi dell’edilizia o del commercio, non è inconcepibile che al
solo Comune, che oggi formula la contestazione e poi irroga la
sanzione, si sostituisca il concorso di questo, che potrebbe
svolgere l’istruttoria e avanzare l’accusa e la proposta
sanzionatoria, con la Provincia o la Regione, titolari già ora – per
l’amministrazione attiva – di competenze concorrenti o sussidiarie e
che potrebbero essere chiamate a vagliare la proposta comunale nel
contraddittorio dell’attinto e a decidere di conseguenza.
E lo
stesso paradigma potrebbe con qualche adattamento estendersi anche
ai procedimenti sanzionatori assegnati a enti pubblici non
territoriali e tuttora a struttura bilaterale[30], in cui la
funzione decisoria e comminatoria della sanzione potrebbe essere
intestata al Ministero o al diverso organo o ente pubblico
vigilante.
Ancora una volta, malgrado le apparenze che l’arresto Grande Stevens suggerisce, occorre salutare con gratitudine
quanto giunge da Strasburgo in merito allo sviluppo dei diritti
umani, e segnatamente all’evoluzione del processo equo (concetto che
va dunque ormai esteso anche al procedimento amministrativo,
allorché rivolto all’irrogazione di sanzioni): perché è grazie a
pronunce quali quella in disamina che gli ordinamenti d’Europa si
avvicinano tra loro e, avvicinandosi, affermano e implementano i
diritti di civiltà dei suoi comuni cittadini.
Abstract
La recente sentenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo sul caso Grande Stevens ha destato notevole
scalpore in ambiente penalistico: ciò che infatti emerge a una prima
e piana lettura della pronuncia è soprattutto che essa costituisce
in mora l’ordinamento italiano e così la sua tendenza a replicare
sanzioni amministrative in sanzioni penali, formalmente
distinguendone le fattispecie ma in realtà duplicando l’afflizione
per le medesime condotte illecite, senza neppure accedere
all’articolazione di differenti sanzioni (amministrative o penali)
in relazione a diversi gradi di disvalore di comportamenti pur
strutturalmente assimilabili.Ciò che invece è rimasto sin qui
nell’ombra è che quella pronuncia produce fondamentali risvolti,
così sistematici come pratici, per il diritto amministrativo delle
sanzioni per come l’abbiamo conosciuto sinora, investendone gangli
vitali: il procedimento amministrativo irrogativo di sanzioni, ossia
di misure afflittive nel senso rischiarato da Strasburgo, deve
necessariamente “ibridarsi” con il giusto processo per poter stare
nell’alveo di legalità perimetrato dalla Corte europea, con tutte le
conseguenze giuridiche che da ciò discendono
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[1] Si tratta della sentenza del 4 marzo 2014, resa
su ricorso n. 18640/10, Grande Stevens e altri c/ Italia. La
sentenza si trova pubblicata, per intero o per estratto, in tutte le
riviste giuridiche più diffuse.
[2] Adottato a Strasburgo il 22
novembre 1984, entrato in vigore sul piano internazionale il 1°
novembre 1988 e per l’Italia, in seguito a ratifica con legge 9
aprile 1990, n. 98, il 1° febbraio 1992, senza l’apposizione di
alcuna riserva nei termini dell’art. 57 della C.e.d.u. Quest’ultimo
articolo consente, come noto, a ciascuno Stato aderente di esprimere
riserve motivate, al momento della firma della Convenzione o del
deposito del relativo strumento di ratifica, con riguardo a
particolari disposizioni convenzionali, nel caso e nella misura in
cui una propria legge (ovviamente anche di rango costituzionale) in
vigore in quel momento risulti incompatibile con la norma pattizia,
al fine di mantenerne piena efficacia malgrado l’antinomia. Il fatto
stesso che uno Stato non esprima una riserva sul contenuto di una
norma convenzionale, per generale principio di diritto
internazionale, segnala la sua volontà di accettare per intero il
testo negoziato, firmato e ratificato, e così, prevista che fosse
una corte interprete del trattato, l’interpretazione di questo da
essa promanante.
[3] In base alla quale (sul punto, è già
preclara la sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri c/ Paesi
Bassi, resa sui ricorsi nn. 5100/71, 5101/71 e 5102/71) è da
configurarsi quale “accusa penale” nei termini dell’art. 6 C.e.d.u.,
e pertanto da verificarsi mercé l’ampio apparato di garanzie da esso
enunciato (inclusa ovviamente quella di non subire un secondo
procedimento repressivo per il medesimo fatto), ogni procedimento
che volga all’applicazione di conseguenze afflittive, personali o
patrimoniali, di rilevanza notevole per il destinatario e che
discenda da una valutazione di illiceità compiuta dall’ordinamento.
Per i successi sviluppi, sempre nello stesso alveo, si vedano le
sentenze del 1° febbraio 2005, Ziliberberg c/ Moldova, resa
su ricorso n. 61821/00, e del 24 aprile 2012, Mihai Toma c/
Romania, resa su ricorso n. 1051/06.
[4] Nella fattispecie
scrutinata dalla Corte europea, una condotta manipolativa che aveva
dato luogo alla comminazione di una pesante sanzione amministrativa
da parte della Consob, aveva pure dato luogo a un procedimento
penale.
[5] Ossia misure afflittive per la persona o il
patrimonio dell’attinto, previste a scopo punitivo e deterrente e
non meramente ripristinatorio o risarcitorio della situazione qua
ante (cfr. sentenza Engel, cit.).
[6] Corte cost., 24
ottobre 2007, n. 348 (sull’indennità di espropriazione) e n. 349
(sul risarcimento del danno per occupazione acquisitiva).
[7]
Non pare invece percorribile - e sembra invero assai scivolosa e
pericolosa - la strada dell’utilizzo del freno dei controlimiti
costituzionali prospettata dall’Ufficio massimario della Corte di
cassazione (relazione n. 35/2014 dell’8 maggio 2014, rinvenibile in www.cortedicassazione.it), secondo cui la rigida preclusione
da ne bis in idem scaturente dal dictum di Strasburgo,
nella misura in cui è idonea a interdire lo svolgimento di processi
penali per fatti di rilievo criminoso già colpiti da sanzioni
amministrative, si porrebbe in contrasto con il principio
costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale (enunciato
dall’art. 112 Cost.) e potrebbe dunque essere dichiarata
incostituzionale dalla Consulta. La soluzione appare giuridicamente
impercorribile, perché l’ipotetico controlimite individuato dal
Massimario è un principio né, sul lato interno, della latitudine
implicata da tale argomentazione (e invero esso, ove assoluto e
onnivalente, non potrebbe subire né deroghe legislative né deroghe
in via di prassi, viceversa ben presenti e riconoscibili
nell’ordinamento), né, in proiezione internazionale, rintracciabile
nella maggior parte degli ordinamenti degli Stati membri del
Consiglio d’Europa. Ma la soluzione è anche scivolosa, perché
trascura che è lo stesso Paese, e lo stesso legislatore, che,
recependo nell’ordinamento la C.e.d.u., ha assoggettato il proprio
ordinamento al vincolo di osservanza dell’interpretazione che a tale
documento fornisce la Corte a ciò preposta (cfr. art. 46 della
Convenzione): sicché ben difficilmente potrebbe giustificarsi, a
livello di rapporti internazionali con gli altri Membri del
Consiglio d’Europa, e con la sua stessa assemblea parlamentare, che
l’Italia introduca (e per giunta con strumenti irrituali rispetto a
quelli concepiti dalla stessa Convenzione proprio per ovviare a
potenziali problemi di attrito con le Costituzioni degli Stati
membri, e quale conseguenza di una scelta sanzionatoria prettamente
legislativa) una così ampia e grave riserva di applicazione della
Convenzione, per di più in relazione a un canone che assumerebbe
nella specie connotati non garantistici (e dunque non
conformi allo spirito C.e.d.u.) e nettamente non condiviso tra i Membri. L’ipotesi del controlimite è infine
pericolosa, perché esporrebbe l’Italia - che, si ricordi, né in sede
di adesione né in sede di ratifica parlamentare ha formulato riserve
né sull’art. 6 né sull’art. 46 della Convenzione, né sull’art. 4 del
settimo protocollo addizionale - alle sanzioni del Comitato dei
ministri del Consiglio d’Europa (in cui, in tal caso, essa non
siederebbe), che possono giungere fino alla sospensione o
all’espulsione del Paese dal consesso, ossia da un’istituzione
deputata precipuamente alla tutela dei diritti umani, per la
deliberata volontà di non rispettarli: il che, francamente, appare
un controsenso per quella che suole definirsi “la patria del
diritto”.
[8] Si rinvia al riguardo, per brevità, al commento di
M. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni
Consob alla prova dei principi Cedu, in Giorn. dir. amm.,
2014, 1053 ss., e ai richiami ivi effettuati.
[9] Oggi
sostituito dal nuovo regolamento di procedura adottato con delibera
Consob 19 dicembre 2013, n. 18750.
[10] Con sentenza 27 giugno
2012, n. 162 della Corte costituzionale.
[11] Sorta con l’art.
133 d.lgs. n. 104/2010 (codice del processo amministrativo). In
precedenza la giurisdizione apparteneva, così come successivamente
ripristinata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, al
Giudice ordinario e per esso la competenza era ed è tornata della
Corte d’appello competente per territorio.
[12] A partire dalla
pronuncia del 23 novembre 2006, Jussila c/ Finlandia,
relativa a una sanzione tributaria. Emblematica per la compiutezza
argomentativa e per la sua applicazione a un procedimento
sanzionatorio amministrativo italiano è però la sentenza del 29
settembre 2011, Menarini Diagnostics s.r.l. c/ Italia, resa
su ricorso n. 43509/08, nella quale la Corte ha escluso, per il
motivo indicato nel testo, la violazione dell’art. 6 a opera del
procedimento di comminazione di una sanzione pecuniaria da parte
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
[13] E
anche in Italia, in cui la legge n. 241/1990 prevede bensì il
diritto non solo dei destinatari diretti, ma di tutti coloro che
possono patire influenza negativa dal procedimento o dall’edificando
provvedimento amministrativo di essere avvisati dell’avvio e di
contraddire nel procedimento apportando proprie memorie, documenti e
istanze, ma tutto ciò pur sempre nell’alveo di una procedura in cui
tanto l’iniziativa quanto l’impulso quanto infine la decisione
pertengono all’ufficio dell’autorità amministrativa procedente,
eccezion fatta per le violazioni amministrative che discendono o che
sono costruite sul modello della c.d. depenalizzazione di reati
(disciplinate in via generale dalla l. n. 689/1981), nelle quali vi
è distinzione di competenze tra autorità accertatrice e autorità
decidente. Per la struttura del procedimento amministrativo in
generale, ci si limita a menzionare F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, III ed., Torino, 2014, 209 ss.
[14] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 4 marzo
2004, Silvester’s Horeca Service c/ Belgio. Più di recente,
sentenza 21 luglio 2011, Sigma Radio Television ltd c/ Cipro.
[15] V. ancora Jussila c/ Finlandia, cit.
[16] Cfr.
art. 46 C.e.d.u.
[17] Sulla giurisdizione piena (riguardata
particolarmente sul versante del giudice amministrativo) e sui suoi
requisiti essenziali e caratteristiche proprie, si rinvia
all’esaustivo lavoro di A. Police, Il ricorso di piena
giurisdizione davanti al giudice amministrativo, Vol. I - Profili teorici ed evoluzione storica della giurisdizione
esclusiva nel contesto del diritto europeo, Padova, 2000, e Vol.
II - Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione
esclusiva, Padova, 2001, passim.
[18] G. Guizzi, La sentenza CEDU 4 marzo 2014 e il sistema delle potestà
sanzionatorie delle Autorità amministrative indipendenti: sensazioni
di un civilista, in Corr. giur., 2014, 1323-1325.
[19]
Per un esempio recente, v. Cass., Sez. un., 20 gennaio 2014, n.
1013, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, relativa a
una sanzione pecuniaria irrogata dall’A.g.c.m. per intesa
restrittiva della concorrenza.
[20] Corte europea dei diritti
dell’uomo, Grande camera, sentenza del 22 novembre 1995, Bryan c/
Regno Unito, resa su ricorso n. 19178/91.
[21] Così
M. Allena, Il caso Grande Stevens, cit., in Giorn. dir.
amm., 2014, 1059.
[22] La giurisdizione amministrativa
francese di plein contentieux si caratterizza per la massima
estensione dei poteri istruttori e decisori del giudice
amministrativo, che non solo - in aggiunta all’ordinaria potestà di
annullamento degli atti illegittimi - può sostituire la propria
decisione a quella dell’autorità amministrativa, ma può giungere a
sindacare il merito dell’azione amministrativa riformandone gli
atti.
[23] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza dell’11
giugno 2009, Dubus S.A. c/ Francia, resa su ricorso n.
5242/04 e relativa alla Commission bancaire; sentenza del 20
gennaio 2011, Vernes c/ Francia, resa su ricorso n. 30183/06
e relativa alla Commission des opérations de bourse; sentenza
del 30 giugno 2011, Messier c/ Francia, resa su ricorso n.
25041/07 e relativa sempre alla C.o.b.
[24] Quanto meno nella
sentenza 4 giugno 2010, n. 196, in Giur. cost., 2010, 2320
ss., con nota di A. Travi, Corte europea dei diritti dell’uomo e
Corte costituzionale: alla ricerca di una nozione comune di
“sanzione”.
[25] Ordinanze della Sezione VI 30 settembre
2014, nn. 4491 e 4492.
[26] O, il che è lo stesso, dall’art. 4
del settimo protocollo addizionale.
[27] E salva l’improbabile
applicazione della teoria dei controlimiti costituzionali, finora
sempre prospettata ma mai messa in opera.
[28] In applicazione
della dottrina, elaborata proprio dalla Consulta a partire dalle
sentenze nn. 348/2007 e 349/2007, dell’illegittimità costituzionale
per violazione del parametro interposto integrato dal vincolo
internazionale assunto dall’Italia mercé la ratifica della C.e.d.u.
[29] G. Guizzi, La sentenza CEDU, cit., in Corr.
giur., 2014, 1322-1323, il quale sembra però limitare il
problema di garanzie ravvisato a questi ultimi soltanto.
[30]
Non è il caso, ad esempio, della maggioranza dei procedimenti
disciplinari a carico di professionisti iscritti a ordini o collegi
professionali, nei quali è già ius receptum che il consiglio
o collegio territoriale non possa assumere direttamente
provvedimenti sanzionatori, ma debba invece relazionare ad appositi
collegi di disciplina, spesso d’ambito sovra-circoscrizionale (quali
i collegi di disciplina degli avvocati, costituiti a livello
distrettuale), a ordinamento e composizione distinta.
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(pubblicato il
19.1.2015)
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