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GIANMARCO BERTO

Il procedimento e la sanzione dopo la sentenza Grande Stevens: il travaso del (giusto) processo nel procedimento

 

 


 

 

Sommario: 1. La sentenza Grande Stevens, le sue implicazioni dirette e gli ulteriori profili di riflessione per il diritto amministrativo. - 2. Il giusto processo e il procedimento amministrativo. - 3. Le regole di esenzione del procedimento dalle garanzie del giusto processo e la loro dubbia compatibilità con l’ordinamento italiano. - 4. La necessaria estensione delle garanzie del giusto processo ai procedimenti amministrativi sanzionatori italiani, con alcune proposte di adattamento.


1. La sentenza Grande Stevens, le sue implicazioni dirette e gli ulteriori profili di riflessione per il diritto amministrativo.
La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Grande Stevens[1], per le sue intuibili implicazioni immediate, ha destato notevole scalpore in ambiente penalistico: ciò che infatti emerge a una prima e piana lettura della pronuncia è soprattutto che essa costituisce in mora l’ordinamento italiano e così la sua tendenza a replicare sanzioni amministrative in sanzioni penali, formalmente distinguendone le fattispecie ma in realtà duplicando l’afflizione per le medesime condotte illecite, senza neppure accedere all’articolazione di differenti sanzioni (amministrative o penali) in relazione a diversi gradi di disvalore di comportamenti pur strutturalmente assimilabili.
E così, interpretando l’art. 4 del settimo protocollo addizionale della Convenzione[2] e l’ivi implicato principio di ne bis in idem in chiave sostanziale e dunque estensiva[3], la Corte arriva a giudicare contrari al giusto processo enunciato dalla C.e.d.u. gli artt. 185 e 187-ter d.lgs. n. 58/1998 (c.d. testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria: in acronimo t.u.f.) in quanto prevedono che la medesima condotta di manipolazione contra ius del mercato possa essere colpita da una sanzione penale o da una sanzione amministrativa, dopo essere stata sanzionata una prima volta dall’uno o dall’altro ordinamento[4]: e si tratta – come si vede – di violazione strutturale della Convenzione, dal momento che la duplicazione sanzionatoria si può ravvisare in numerosi settori dell’ordinamento interno, essendo invalsa nel legislatore (e molto spesso da questo rivendicata) la prassi di affiancare, per le condotte illecite ritenute di maggiore allarme sociale o maggiormente impattanti sul piano quantitativo o su quello qualitativo, specie nel diritto dell’economia e dei mercati, sanzioni penali a sanzioni amministrative, credendo – il legislatore – di approfondire per tal via, ossia mediante l’aggiunta di sanzione a sanzione, l’afflittività e quindi l’efficacia general-preventiva della propria reazione all’illecito.
In forza dell’obbligo convenzionalmente assunto dall’Italia di osservare e far osservare le sentenze promananti dalla Corte internazionale deputata alla salvaguardia dei diritti dell’uomo, e in virtù della violazione strutturale accertata da tale organo, l’ordinamento nazionale è dunque chiamato a riordinare tutto il proprio apparato sanzionatorio, sopprimendo le sovrapposizioni tra sanzioni[5] di diversa natura: ed è – quello in discorso – un obbligo di adeguamento vincolante non solo sul piano internazionale, ma anche su quello costituzionale, in applicazione della dottrina enunciata dalla Corte costituzionale con le celebri sentenze gemelle del 2007[6] per la quale la difformità tra legge interna e C.e.d.u., dichiarata dalla Corte di Strasburgo, costituisce violazione anche del precetto costituzionale di rispetto degli obblighi internazionali assunti dall’Italia e perciò dell’art. 117, comma 1, Cost., salvo che l’obbligo internazionale medesimo, e così la sua recezione nell’ordinamento interno, non entri in conflitto con altri princìpi di rango costituzionale (c.d. controlimite costituzionale all’ingresso di norme internazionali).
Ne consegue che in difetto dell’(obbligatorio) adattamento dell’ordinamento giuridico nazionale al parametro C.e.d.u. ritenuto violato dalla Corte europea nella pronuncia Grande Stevens (e violato in maniera strutturale, perché per l’appunto da una regola di duplicazione sanzionatoria assai diffusa nell’ordinamento), tutte le norme giuridiche che così perseverino a disporre appaiono destinate a cadere sotto la scure della Consulta in base alla dottrina da essa stessa affermata e consolidata[7]: con le prevedibili implicazioni pratiche che tutto ciò comporta, ossia, per sommi capi, la necessità di celebrare d’ufficio innumerevoli incidenti d’esecuzione penale per la cessazione delle pene risultanti dalla duplicazione di sanzioni amministrative, così come la nascita e la lievitazione di tutto un filone di contenzioso amministrativo per l’eliminazione delle sanzioni amministrative irrogate in duplicazione di sanzioni penali, senza trascurare i consequenziali e potenzialmente infiniti giudizi risarcitori per il fatto illecito commesso dallo Stato nell’irrogare e mantenere sanzioni strutturalmente incompatibili con i diritti dell’uomo sanciti dalla Convenzione.
Non è tuttavia scopo di questo breve scritto contemplare le ricadute del canone europeo di ne bis in idem, così come consacrato da Strasburgo: sia per ragioni di spazio, sia per ragioni di competenza specialistica, sia perché su ciò è già stato detto[8].
Si proverà, viceversa, a sceverare dalla pronuncia della Corte europea un diverso principio, propriamente attinente al diritto amministrativo delle sanzioni, ma non direttamente implicato dalla ratio decidendi della sentenza e anzi da questo apparentemente smentito: che cioè il procedimento amministrativo irrogativo di sanzioni, ossia di misure afflittive nel senso rischiarato da Strasburgo, deve necessariamente “ibridarsi” con il giusto processo per poter stare nell’alveo di legalità inaugurato (già, per vero, qualche anno orsono e prima di Grande Stevens, ma in essa ben avvertito) dalla Corte europea.

2. Il giusto processo e il procedimento amministrativo.
La conformazione dell’ordinamento amministrativo alle garanzie del giusto processo, da intendersi innanzitutto quale diritto del cittadino europeo, si mostra infatti, a una lettura letterale e superficiale della pronuncia, accantonato chiaramente dalla Corte: e accantonato, per quel che più conta, proprio in una fattispecie concernente l’Italia e il suo ordinamento.
I ricorrenti avevano infatti introdotto in causa, oltre alla domanda di accertamento della violazione dell’art. 7 del settimo protocollo addizionale, anche quella di accertamento della violazione dell’art. 6 della C.e.d.u., sotto svariati profili: tutti respinti salvo quello afferente al carattere non pubblico del processo di opposizione alla sanzione Consob celebrato dinanzi alla Corte d’appello di Torino, svoltosi – in ossequio al testuale dettato di legge (art. 195, comma 7, t.u.f.) – in camera di consiglio.
Disattesa, in particolare, è rimasta la censura tramite la quale i ricorrenti miravano a far affermare alla Corte che nel procedimento amministrativo di applicazione della sanzione non erano state rispettate dalla Consob (perché, del resto, non previste e anzi escluse sia dalla legge generale sul procedimento n. 241/1990 e sia dall’apposito regolamento interno di procedura approvato con delibera 21 giugno 2005, n. 15086[9]) alcune fondamentali garanzie che debbono connotare tutte le procedure di contestazione riguardabili come “accuse penali” nei termini dell’art. 6 C.e.d.u. delucidati dalla Corte a partire dalla sentenza Engel, quali la piena disclosure e facoltà di contraddittorio e di difesa sugli atti di indagine e sulle risultanze probatorie acquisite dalla struttura investigativa (Divisione competente e Ufficio sanzioni amministrative), per essere stati gli esiti istruttori trasmessi direttamente alla Commissione (organo collegiale competente per la decisione) con le conclusioni e le proposte dell’Ufficio requirente, e la terzietà e imparzialità dell’organo decisorio, per la soggezione dell’intera istruttoria ai poteri direttivi del Presidente della Commissione (che può dunque influire sia sulla conduzione dell’indagine e sulla formulazione della proposta di proscioglimento o di sanzione, sia sulla decisione finale).
Il rigetto non riposa sull’estraneità del procedimento alle “accuse penali” di cui all’art. 6 C.e.d.u., né sull’accertata armonia di tale procedimento sanzionatorio con la norma convenzionale per insussistenza dei difetti di garanzia eccepiti dai ricorrenti: la Corte, anzi, non esita ad affermare l’appartenenza della sanzione Consob alle “misure penali” e si mostra perfettamente consapevole della distonia esistente con l’art. 6 del procedimento funzionale ad irrogarle, tant’è che non esita a dichiararla. Ritiene tuttavia che essa possa essere purgata dal successivo giudizio di opposizione previsto dal t.u.f. e affidato (dopo la declaratoria di incostituzionalità[10] per eccesso di delega della precedente giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo[11]) alla competenza delle Corti d’appello, che consentirebbe il pieno e sanante dispiegarsi delle garanzie fondamentali in un primo tempo sacrificate dinanzi all’autorità amministrativa.
La Corte europea, insomma, esclude la violazione dell’art. 6 C.e.d.u. sub specie di mancanza di giusto processo; ma solo perché ritiene, allo stato (ossia sulla base delle risultanze processuali fornitele), che le suddette garanzie sovvengano a beneficio degli interessati, destinatari della sanzione amministrativa, nella successiva ed eventuale fase propriamente giudiziale: e questo in base a una dottrina surrogatoria sempre elaborata dalla Corte[12] per i casi in cui, specie di fronte a misure afflittive non particolarmente pregnanti, il procedimento di accertamento della violazione e di irrogazione della sanzione sia strutturato in maniera bilaterale e con connotati prettamente inquisitori, ovvero sia governato dall’iniziativa e dall’impulso officioso dell’autorità amministrativa e, quand’anche presidiato da garanzie di contraddittorio e di difesa in favore dell’ipotetico destinatario della sanzione e di eventuali altri interessati oltre che, talvolta, del pubblico, sia destinato a sfociare in un provvedimento adottato dalla stessa autorità amministrativa responsabile dell’istruttoria.
A livello superficiale parrebbe insomma che al diritto amministrativo e ai procedimenti sanzionatori da esso disegnati nulla abbia da dire la Corte europea: perché, pur quando (e ciò avviene nella larga maggioranza degli ordinamenti continentali[13]) denotino struttura puramente bilaterale e inquisitoria, non abbisognerebbero di proprie garanzie di giustizia ed equità sul modello dell’art. 6 C.e.d.u. – benché di per sé immancabili nell’adozione di qualsivoglia misura sanzionatoria di tipo “penale” (nell’accezione impiegata dalla Corte europea) – ma potrebbero vederle rinviate al successivo contenzioso giurisdizionale d’impugnazione.

3. Le regole di esenzione del procedimento dalle garanzie del giusto processo e la loro dubbia compatibilità con l’ordinamento italiano.
Se però si esamina con maggiore attenzione l’orientamento della Corte di Strasburgo desumibile dalla combinazione tra l’indefettibilità delle garanzie del giusto processo e la loro rinviabilità al processo vero e proprio, ci si avvede che, nel rapporto di regola a eccezione che tale ricostruzione contempla, la seconda è soggetta a premesse che integrano presupposti del ragionamento facoltizzante e dunque condizioni essenziali di operatività della relativa eccezione.
È in primo luogo necessario – come accennato – che le guarentigie del giusto processo (e giusto processo di tipo penale) siano attribuite all’incolpato in misura piena e incondizionata all’interno del giudizio d’impugnazione: il che significa che esso deve celebrarsi dinanzi a un giudice, costituito per legge e munito di indipendenza e imparzialità, che le sue udienze debbono essere pubbliche e pubblica la decisione, che il procedimento deve concludersi in un termine ragionevole, che l’incolpato dev’essere informato nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi della contestazione rivoltagli, che egli deve disporre di tutte le opportunità di difesa sia argomentativa che istruttoria e, infine, che non possa essere giudicato né sanzionato una seconda volta per la medesima condotta.
Ancora, dall’art. 6 discende – già a livello di esegesi testuale confortata dall’interpretazione logico-sistematica della Corte[14] – che il giudice dell’impugnazione nei riguardi di sanzione amministrativa dev’essere munito di pleine jurisdiction/full jurisdiction, ossia deve avere il potere di accertare e scrutinare per intero il merito della violazione e della scelta e commisurazione della sanzione: cosa che implica un pieno e assoluto accesso al fatto costitutivo della violazione e alle sue circostanze accessorie o eventuali e ai criteri discrezionali di applicazione della misura afflittiva oltre che, com’è ovvio, alle norme giuridiche pertinenti, ancorché tutto ciò debba essere già stato accertato dall’autorità amministrativa comminante.
Il secondo presupposto condizionante la percorribilità della strada eccezionale del rinvio delle garanzie alla sede processuale, esentandone il procedimento irrogativo, è che la misura sanzionatoria non rivesta rilevante gravità in rapporto e in proporzione alla persona o al patrimonio del soggetto attinto[15]: si tratta di requisito pragmatico e strettamente parametrato alla fattispecie concreta, cui l’ordinamento italiano non è aduso per la sua natura quantitativa e sfuggente, ma che la Corte europea, supremo interprete dei diritti umani, impone di considerare nelle scelte discrezionali cui i legislatori degli Stati membri sono chiamati nel determinare se una certa condotta sia meritevole di mera sanzione amministrativa piuttosto che dell’incriminazione penale, vietata in ogni caso la duplicazione sanzionatoria.
Ecco che, riguardato in questa luce sistematica, l’orientamento apparentemente benevolo verso l’approccio dell’ordinamento italiano all’apparato delle sanzioni amministrative, ed emergente inter alias dalla sentenza Menarini, e così favorevole o neutrale rispetto al rinvio pressoché completo delle garanzie proprie del processo giusto o equo all’eventuale fase giudiziale d’impugnazione del provvedimento, rivela una profonda crisi di compatibilità con il sistema convenzionale: perché non si può punto affermare né che le misure sanzionatorie italiane denotino sempre un’afflittività modesta o moderata, né che il processo d’impugnazione od opposizione consenta quel pieno e incondizionato scrutinio del fatto, del diritto e delle circostanze che l’ordinamento di Strasburgo, mercé il suo interprete supremo, esige.
Circa la graduazione della gravità o comunque dell’afflittività della sanzione, che permette agli Stati membri – stando alla Corte europea – di stabilire più livelli formali di tutela (da uno, per così dire minore, in cui a una prima fase procedimentale governata dal principio inquisitorio e dall’impulso officioso e caratterizzata da una tutela attenuata e da una dialettica solo bilaterale con l’amministrazione si susseguirebbe una seconda fase, solo eventuale, propriamente giurisdizionale con tutte le garanzie del giusto processo, a uno, maggiore, in cui le predette garanzie sarebbero apprestate ab initio in un alveo ab origine processuale e accusatorio), è facile notare come nell’ordinamento italiano siano previste sanzioni che, benché definite e ritenute meramente amministrative, risultano assai più pesanti e penetranti, per il patrimonio del destinatario, rispetto a talune fattispecie penali: si pensi solo alle misure irrogabili dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato in relazione a fatti di intesa o abuso di posizione dominante, in cui si può incidere su frazioni molto rilevanti del fatturato delle imprese colpite.
Che poi il processo d’impugnazione od opposizione alle sanzioni amministrative, tanto che sia celebrato dal giudice ordinario quanto che sia gestito dal giudice amministrativo, assicuri l’integrale dispiegarsi delle garanzie del giusto processo (anzi, del processo equo, come si esprime l’art. 6 C.e.d.u.) nei termini enunciati dalla Corte di Strasburgo, rimane tutto da dimostrare: e ciò in quanto, alla stregua del concreto atteggiarsi dell’ordinamento al di là del diritto scritto (concretezza imposta sempre dalla giurisprudenza alsaziana), è quanto meno da dubitare che il giudice italiano, così ordinario come amministrativo, eserciti in concreto quella full jurisdiction di cognizione e di valutazione imposta dall’art. 6 C.e.d.u. e dall’interpretazione vincolante[16] della sua Corte perché sia consentito di derogare, in sede di procedimento applicativo delle sanzioni amministrative, alle garanzie del giusto processo[17].
Come infatti la dottrina ha immediatamente rilevato[18], è riscontrabile sia nelle Corti d’appello sia nei Tribunali amministrativi (e così nelle relative sedi d’impugnazione, Corte di cassazione e Consiglio di Stato) un profondo, e per certi versi comprensibile (quand’anche non condivisibile), self-restraint nei confronti dei procedimenti che abbiano condotto alla comminazione di sanzioni amministrative e dei consequenziali provvedimenti sanzionatori, pure se di ingente entità e afflittività, tendendo i giudici ad adagiarsi sull’accertamento dell’autorità amministrativa e sul suo giudizio sulle circostanze e l’appropriatezza della sanzione, spesso espressione di expertise tecnica e dunque difficilmente scrutinabile ex se dal giudice: senza cioè condurre quegli autonomi e indipendenti accertamenti e valutazioni dei fatti e delle circostanze primarie e secondarie rilevanti per l’ascrizione di responsabilità e la commisurazione e l’irrogazione della sanzione ove essi siano già stati compiuti dall’autorità e nel procedimento amministrativo e specie laddove costituiscano manifestazione di valutazioni tecnico-scientifiche[19].
E questo pur quando le regole processuali, tanto dell’uno quanto dell’altro plesso giurisdizionale, forgiate dai voti della dottrina più che dai progressi della giurisprudenza, permettano ormai un sindacato teoricamente pieno e completo sul fatto e sulle sue circostanze, oltre che sulla discrezionalità dell’autorità amministrativa nell’applicare la sanzione.
È indubbio che un simile atteggiamento deferente dei giudici verso la repressione amministrativa degli illeciti trovi consonanze in altri ordinamenti comparabili a quello italiano, quale quelli britannico e statunitense, sul versante di common law, e quello francese sul versante di civil law.
Non si possono, tuttavia, trascurare le divergenze tra quegli ordinamenti e quello italiano, che lì giustificano in certa misura la deferenza mentre qui la rendono uno strumento pericoloso di elusione delle garanzie dell’equo processo.
Nei Paesi di common law, la cui tradizionale definizione (invero ormai anacronistica) è di ordinamenti non a diritto amministrativo e in cui quest’ultimo storicamente nasce per gemmazione dalla giurisdizione e dal processo, il procedimento amministrativo sanzionatorio, anche laddove non sia gestito propriamente da Courts bensì da organi amministrativi, è già processo, perché il soggetto che istruisce l’affare è diverso da quello che valuta l’accusa e irroga eventualmente la sanzione e nel suo seno l’incolpato dispone di ogni potere di difesa e di influenza, in posizione di parità con l’autorità accusante, sulla decisione finale: l’amministrazione delle sanzioni, insomma, si esercita strutturalmente in forme contenziose nell’ambito di un fair trial.
In questa ipotesi, ove cioè già il procedimento sia tracciato e sia in concreto amministrato in forme processuali e con il pieno dispiegarsi dell’apparato di garanzie del giusto processo elencato dalla C.e.d.u. e affinato dalla sua Corte, il successivo sindacato giurisdizionale può assumere contorni maggiormente sfumati[20] oppure, a parere di parte della dottrina, potrebbe persino non essere previsto[21].
Il caso francese è d’altra parte emblematico, perché attinente a un ordinamento tradizionalmente classificato, come quello italiano, a diritto amministrativo: perché in esso, a fronte della deferenza manifestata dal giudice amministrativo (Conseil d’Etat in testa), pur in sede di giurisdizione di plein contentieux[22], per il procedimento e l’iter logico-giuridico seguito per l’irrogazione di sanzioni soprattutto da parte di autorità amministrative indipendenti, la Corte europea non ha esitato a dichiarare l’incompatibilità con la Convenzione degli organi deputati a decidere le misure sanzionatorie così come i relativi procedimenti applicativi, per la ragione che non garantivano la terzietà e imparzialità dell’organo decidente, il pieno sviluppo delle facoltà di difesa dei destinatari delle contestazioni, inclusa la trasparente e automatica disponibilità per costoro dei mezzi di prova e delle evidenze istruttorie, anche a discarico, e la pubblicità delle udienze[23].
In altri termini, proprio la verifica in concreto dell’atteggiamento deferente espresso dai giudici francesi del contentieux administratif nei confronti dei complessi e difficoltosi accertamenti e valutazioni tecniche rimessi ad apposite autorità amministrative, e necessari per annoverare determinati comportamenti di soggetti economici nella liceità piuttosto che nell’illiceità e per determinarne le succedanee misure di penalizzazione, ha mosso la Corte europea, nel suo ruolo di supremo garante dei diritti umani scolpiti nella Convenzione, ad anticipare – nel superiore interesse dell’equità processuale veicolata dall’art. 6 – le garanzie di tutela, nella loro interezza, alla fase procedimentale dinanzi all’autorità. E il legislatore francese si è mostrato ben conscio sia della questione sistematica sollevata dalla Corte, sia delle soluzioni necessitate che dall’affrontarlo avrebbero dovuto essere apprestate, avendo introdotto, a loro riscontro, una rigida separazione tra organo inquirente e organo decidente, la completa disclosure delle prove raccolte al termine dell’istruttoria e l’udienza pubblica di discussione dinanzi alla commissione.

4. La necessaria estensione delle garanzie del giusto processo ai procedimenti amministrativi sanzionatori italiani, con alcune proposte di adattamento.
L’ordinamento italiano, peraltro, già ora non è immune ai precipitati dell’estensione delle garanzie proprie del giusto processo ex art. 6 C.e.d.u. alla fase procedimentale di applicazione della sanzione, verso cui tende la giurisprudenza alsaziana: perché la Corte costituzionale ha già affermato di volersi adeguare e anzi di condividere l’accezione di “accusa penale” formulata da Strasburgo ed estesa all’apparato sanzionatorio amministrativo[24]; e perché il Consiglio di Stato ha già ingiunto alla Consob, sia pure in sede di incidente cautelare, di adeguare il proprio procedimento sanzionatorio alle garanzie stabilite come obbligatorie dalla Corte europea, segnatamente introducendo la piena esplicazione del contraddittorio tra Commissione (ossia l’organo decidente), Ufficio sanzioni amministrative (organo inquirente-requirente) e soggetto incolpato e la pubblicità del procedimento[25]. E le medesime considerazioni possono valere, com’è ovvio, per tutte le altre garanzie di equità processuale implicate dall’art. 6 C.e.d.u.[26] e per tutti gli altri procedimenti sanzionatori, a qualunque autorità siano intestati.
Vero è, allora, che la Corte europea, in un attento esercizio di deferenza verso le peculiarità dei singoli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa, tende a modellare le proprie decisioni sul grado di progresso garantistico rivelato da ciascuno di essi, esigendo di più da “chi può permetterselo” e ha già manifestato di essere consapevole e attrezzato a tutele più avanzate, ma altrettanto chiaro appare che la recezione integrale in Italia dei criteri di giustizia elaborati da Strasburgo, ritenuta indefettibile dalla Corte costituzionale e dal Consiglio di Stato, non potrà che provocare, in un futuro non troppo lontano, la necessaria ristrutturazione dell’ordinamento italiano secondo un nuovo sistema circolatorio innervato delle garanzie del giusto processo sancite dalla Convenzione, e comunque portare la Corte europea a pretenderne da tale ordinamento il rispetto pieno, anche in sede procedimentale sanzionatoria e senza contentarsi della loro presenza (non sempre in fatto assicurata) nell’eventuale susseguente snodo giurisdizionale.
Nell’uno come nell’altro caso[27] le lacune e le carenze di garanzia tuttora presenti nell’ordinamento non potrebbero che essere rimosse, o per autonoma determinazione della Corte costituzionale e dei giudici interni, se non già del legislatore o dei regolatori di settore, che sua sponte riconoscano la difformità delle relative regole procedimentali dalla C.e.d.u. così come interpretata dalla sua Corte, e dunque dall’art. 117 (oltre che 111) Cost.[28], oppure per la sinergica concatenazione tra accertamento della violazione a opera della Corte europea e successiva declaratoria d’incostituzionalità da parte della Consulta (nel caso di leggi) o del giudice comune (nel caso di norme regolamentari).
Non si tratterebbe, come del resto il caso francese dimostra, di una rivoluzione da compiere, ma di una manutenzione da esperire: sia perché il sistema convenzionale tollera che sanzioni meramente ripristinatorie o minori siano assistite da inferiori garanzie, riservabili all’eventuale contenzioso giurisdizionale d’impugnazione, sia perché l’ordinamento amministrativo italiano non è alieno dalle garanzie di equità che s’intendono qui affermare come indefettibili. Ci si riferisce al modello comune dei procedimenti sanzionatori, articolato dalla legge n. 689/1981, in cui la dualità e la separazione tra organo accertatore (autorità di polizia amministrativa) e organo decidente (il Prefetto), in posizione di terzietà e imparzialità, è già ius posĭtum; e che è modello che necessita soltanto di essere migliorato e corretto in termini di maggiore legalità e minore discrezionalità procedimentale: si pensi solo al fatto che il Prefetto, assunte le eventuali controdeduzioni scritte dell’interessato, non è obbligato né a consentire repliche, né ad assumere le prove indicate, né a fissare un’audizione pubblica nel contraddittorio dell’organo accertatore e dello stesso incolpato.
Rimangono pertanto coinvolti nell’esigenza, costituzionalmente e convenzionalmente obbligatoria, di ripensamento ab imis (perché implicante la modificazione della stessa struttura delle autorità responsabili dell’accertamento degli illeciti e della comminazione delle penalità) soltanto i procedimenti amministrativi sanzionatori di competenza di autorità indipendenti (A.g.c.m., A.g.com., A.n.ac., A.e.e.g.s.i., Banca d’Italia, Consob, Commissione di garanzia per l’attuazione del diritto di sciopero, Garante della riservatezza dei dati personali ecc.), ancora non adeguati alle garanzie del giusto processo[29], nonché quei procedimenti di competenza di amministrazioni diverse che, pur potendo produrre misure sanzionatorie gravose, sono tuttora edificati a struttura bilaterale e inquisitoria, non consentendo pertanto in radice il dispiegarsi delle garanzie.
Si possono fare, a quest’ultimo riguardo, gli esempi dei procedimenti in materia edilizia, rimessi al Comune, per l’applicazione di sanzioni (non prettamente restitutorie) per abuso edilizio, che possono giungere fino al doppio del valore venale dell’opera abusiva (art. 34, comma 2, del testo unico dell’edilizia approvato con d.P.R. n. 380/2001) o del contributo di costruzione (art. 36, comma 2, dello stesso testo unico), e quello, accessorio all’ordine di demolizione per il caso di inottemperanza al medesimo, di pagamento di un’ulteriore sanzione pecuniaria fino a € 20.000 (art. 31, comma 4-bis, introdotto dal d.l. n. 133/2014); e, ancora, si considerino le sanzioni pecuniarie e interdittive, che possono assumere connotati anche molto pregnanti, contemplate dalla legislazione sul commercio (art. 22 d.lgs. n. 114/1998) e che sono irrogate sempre dal Comune. Ma molte altre sono le fattispecie sanzionatorie esulanti dal modello formale, certamente più garantistico e conforme alla C.e.d.u., della l. n. 689/1981, e che esigono quindi urgente ricostruzione pena l’intervento, prima o poi, della scure delle Corti.
Per i procedimenti affidati alle autorità indipendenti, potrà essere sufficiente stabilire, pur all’interno di un’autorità soggettivamente unitaria, una netta e rigida separazione ordinamentale, organizzativa e funzionale tra organi inquirenti e collegio decidente, in guisa che non possano crearsi o perpetuarsi interferenze, neppure di stampo personale o di carriera, tra i titolari e i collaboratori degli uni e dell’altro e sia pertanto strutturalmente garantito che chi si occupa dell’indagine e formula l’accusa non si trovi mai a condizionare o, all’inverso, a subire condizionamenti da chi è chiamato a scrutinarla nel contraddittorio dell’accusato.
Quanto ai procedimenti di competenza di enti territoriali, si potrebbe pensare all’intervento terzo di un diverso ente, di livello superiore, munito di competenza concorrente o sussidiaria nella materia in cui il procedimento e la sanzione sono ricompresi: per tornare agli esempi dell’edilizia o del commercio, non è inconcepibile che al solo Comune, che oggi formula la contestazione e poi irroga la sanzione, si sostituisca il concorso di questo, che potrebbe svolgere l’istruttoria e avanzare l’accusa e la proposta sanzionatoria, con la Provincia o la Regione, titolari già ora – per l’amministrazione attiva – di competenze concorrenti o sussidiarie e che potrebbero essere chiamate a vagliare la proposta comunale nel contraddittorio dell’attinto e a decidere di conseguenza.
E lo stesso paradigma potrebbe con qualche adattamento estendersi anche ai procedimenti sanzionatori assegnati a enti pubblici non territoriali e tuttora a struttura bilaterale[30], in cui la funzione decisoria e comminatoria della sanzione potrebbe essere intestata al Ministero o al diverso organo o ente pubblico vigilante.
Ancora una volta, malgrado le apparenze che l’arresto Grande Stevens suggerisce, occorre salutare con gratitudine quanto giunge da Strasburgo in merito allo sviluppo dei diritti umani, e segnatamente all’evoluzione del processo equo (concetto che va dunque ormai esteso anche al procedimento amministrativo, allorché rivolto all’irrogazione di sanzioni): perché è grazie a pronunce quali quella in disamina che gli ordinamenti d’Europa si avvicinano tra loro e, avvicinandosi, affermano e implementano i diritti di civiltà dei suoi comuni cittadini.

Abstract



La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Grande Stevens ha destato notevole scalpore in ambiente penalistico: ciò che infatti emerge a una prima e piana lettura della pronuncia è soprattutto che essa costituisce in mora l’ordinamento italiano e così la sua tendenza a replicare sanzioni amministrative in sanzioni penali, formalmente distinguendone le fattispecie ma in realtà duplicando l’afflizione per le medesime condotte illecite, senza neppure accedere all’articolazione di differenti sanzioni (amministrative o penali) in relazione a diversi gradi di disvalore di comportamenti pur strutturalmente assimilabili.Ciò che invece è rimasto sin qui nell’ombra è che quella pronuncia produce fondamentali risvolti, così sistematici come pratici, per il diritto amministrativo delle sanzioni per come l’abbiamo conosciuto sinora, investendone gangli vitali: il procedimento amministrativo irrogativo di sanzioni, ossia di misure afflittive nel senso rischiarato da Strasburgo, deve necessariamente “ibridarsi” con il giusto processo per poter stare nell’alveo di legalità perimetrato dalla Corte europea, con tutte le conseguenze giuridiche che da ciò discendono

 

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[1] Si tratta della sentenza del 4 marzo 2014, resa su ricorso n. 18640/10, Grande Stevens e altri c/ Italia. La sentenza si trova pubblicata, per intero o per estratto, in tutte le riviste giuridiche più diffuse.
[2] Adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, entrato in vigore sul piano internazionale il 1° novembre 1988 e per l’Italia, in seguito a ratifica con legge 9 aprile 1990, n. 98, il 1° febbraio 1992, senza l’apposizione di alcuna riserva nei termini dell’art. 57 della C.e.d.u. Quest’ultimo articolo consente, come noto, a ciascuno Stato aderente di esprimere riserve motivate, al momento della firma della Convenzione o del deposito del relativo strumento di ratifica, con riguardo a particolari disposizioni convenzionali, nel caso e nella misura in cui una propria legge (ovviamente anche di rango costituzionale) in vigore in quel momento risulti incompatibile con la norma pattizia, al fine di mantenerne piena efficacia malgrado l’antinomia. Il fatto stesso che uno Stato non esprima una riserva sul contenuto di una norma convenzionale, per generale principio di diritto internazionale, segnala la sua volontà di accettare per intero il testo negoziato, firmato e ratificato, e così, prevista che fosse una corte interprete del trattato, l’interpretazione di questo da essa promanante.
[3] In base alla quale (sul punto, è già preclara la sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri c/ Paesi Bassi, resa sui ricorsi nn. 5100/71, 5101/71 e 5102/71) è da configurarsi quale “accusa penale” nei termini dell’art. 6 C.e.d.u., e pertanto da verificarsi mercé l’ampio apparato di garanzie da esso enunciato (inclusa ovviamente quella di non subire un secondo procedimento repressivo per il medesimo fatto), ogni procedimento che volga all’applicazione di conseguenze afflittive, personali o patrimoniali, di rilevanza notevole per il destinatario e che discenda da una valutazione di illiceità compiuta dall’ordinamento. Per i successi sviluppi, sempre nello stesso alveo, si vedano le sentenze del 1° febbraio 2005, Ziliberberg c/ Moldova, resa su ricorso n. 61821/00, e del 24 aprile 2012, Mihai Toma c/ Romania, resa su ricorso n. 1051/06.
[4] Nella fattispecie scrutinata dalla Corte europea, una condotta manipolativa che aveva dato luogo alla comminazione di una pesante sanzione amministrativa da parte della Consob, aveva pure dato luogo a un procedimento penale.
[5] Ossia misure afflittive per la persona o il patrimonio dell’attinto, previste a scopo punitivo e deterrente e non meramente ripristinatorio o risarcitorio della situazione qua ante (cfr. sentenza Engel, cit.).
[6] Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 (sull’indennità di espropriazione) e n. 349 (sul risarcimento del danno per occupazione acquisitiva).
[7] Non pare invece percorribile - e sembra invero assai scivolosa e pericolosa - la strada dell’utilizzo del freno dei controlimiti costituzionali prospettata dall’Ufficio massimario della Corte di cassazione (relazione n. 35/2014 dell’8 maggio 2014, rinvenibile in www.cortedicassazione.it), secondo cui la rigida preclusione da ne bis in idem scaturente dal dictum di Strasburgo, nella misura in cui è idonea a interdire lo svolgimento di processi penali per fatti di rilievo criminoso già colpiti da sanzioni amministrative, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale (enunciato dall’art. 112 Cost.) e potrebbe dunque essere dichiarata incostituzionale dalla Consulta. La soluzione appare giuridicamente impercorribile, perché l’ipotetico controlimite individuato dal Massimario è un principio né, sul lato interno, della latitudine implicata da tale argomentazione (e invero esso, ove assoluto e onnivalente, non potrebbe subire né deroghe legislative né deroghe in via di prassi, viceversa ben presenti e riconoscibili nell’ordinamento), né, in proiezione internazionale, rintracciabile nella maggior parte degli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Ma la soluzione è anche scivolosa, perché trascura che è lo stesso Paese, e lo stesso legislatore, che, recependo nell’ordinamento la C.e.d.u., ha assoggettato il proprio ordinamento al vincolo di osservanza dell’interpretazione che a tale documento fornisce la Corte a ciò preposta (cfr. art. 46 della Convenzione): sicché ben difficilmente potrebbe giustificarsi, a livello di rapporti internazionali con gli altri Membri del Consiglio d’Europa, e con la sua stessa assemblea parlamentare, che l’Italia introduca (e per giunta con strumenti irrituali rispetto a quelli concepiti dalla stessa Convenzione proprio per ovviare a potenziali problemi di attrito con le Costituzioni degli Stati membri, e quale conseguenza di una scelta sanzionatoria prettamente legislativa) una così ampia e grave riserva di applicazione della Convenzione, per di più in relazione a un canone che assumerebbe nella specie connotati non garantistici (e dunque non conformi allo spirito C.e.d.u.) e nettamente non condiviso tra i Membri. L’ipotesi del controlimite è infine pericolosa, perché esporrebbe l’Italia - che, si ricordi, né in sede di adesione né in sede di ratifica parlamentare ha formulato riserve né sull’art. 6 né sull’art. 46 della Convenzione, né sull’art. 4 del settimo protocollo addizionale - alle sanzioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (in cui, in tal caso, essa non siederebbe), che possono giungere fino alla sospensione o all’espulsione del Paese dal consesso, ossia da un’istituzione deputata precipuamente alla tutela dei diritti umani, per la deliberata volontà di non rispettarli: il che, francamente, appare un controsenso per quella che suole definirsi “la patria del diritto”.
[8] Si rinvia al riguardo, per brevità, al commento di M. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi Cedu, in Giorn. dir. amm., 2014, 1053 ss., e ai richiami ivi effettuati.
[9] Oggi sostituito dal nuovo regolamento di procedura adottato con delibera Consob 19 dicembre 2013, n. 18750.
[10] Con sentenza 27 giugno 2012, n. 162 della Corte costituzionale.
[11] Sorta con l’art. 133 d.lgs. n. 104/2010 (codice del processo amministrativo). In precedenza la giurisdizione apparteneva, così come successivamente ripristinata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, al Giudice ordinario e per esso la competenza era ed è tornata della Corte d’appello competente per territorio.
[12] A partire dalla pronuncia del 23 novembre 2006, Jussila c/ Finlandia, relativa a una sanzione tributaria. Emblematica per la compiutezza argomentativa e per la sua applicazione a un procedimento sanzionatorio amministrativo italiano è però la sentenza del 29 settembre 2011, Menarini Diagnostics s.r.l. c/ Italia, resa su ricorso n. 43509/08, nella quale la Corte ha escluso, per il motivo indicato nel testo, la violazione dell’art. 6 a opera del procedimento di comminazione di una sanzione pecuniaria da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
[13] E anche in Italia, in cui la legge n. 241/1990 prevede bensì il diritto non solo dei destinatari diretti, ma di tutti coloro che possono patire influenza negativa dal procedimento o dall’edificando provvedimento amministrativo di essere avvisati dell’avvio e di contraddire nel procedimento apportando proprie memorie, documenti e istanze, ma tutto ciò pur sempre nell’alveo di una procedura in cui tanto l’iniziativa quanto l’impulso quanto infine la decisione pertengono all’ufficio dell’autorità amministrativa procedente, eccezion fatta per le violazioni amministrative che discendono o che sono costruite sul modello della c.d. depenalizzazione di reati (disciplinate in via generale dalla l. n. 689/1981), nelle quali vi è distinzione di competenze tra autorità accertatrice e autorità decidente. Per la struttura del procedimento amministrativo in generale, ci si limita a menzionare F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, III ed., Torino, 2014, 209 ss.
[14] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 4 marzo 2004, Silvester’s Horeca Service c/ Belgio. Più di recente, sentenza 21 luglio 2011, Sigma Radio Television ltd c/ Cipro.
[15] V. ancora Jussila c/ Finlandia, cit.
[16] Cfr. art. 46 C.e.d.u.
[17] Sulla giurisdizione piena (riguardata particolarmente sul versante del giudice amministrativo) e sui suoi requisiti essenziali e caratteristiche proprie, si rinvia all’esaustivo lavoro di A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, Vol. I - Profili teorici ed evoluzione storica della giurisdizione esclusiva nel contesto del diritto europeo, Padova, 2000, e Vol. II - Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001, passim.
[18] G. Guizzi, La sentenza CEDU 4 marzo 2014 e il sistema delle potestà sanzionatorie delle Autorità amministrative indipendenti: sensazioni di un civilista, in Corr. giur., 2014, 1323-1325.
[19] Per un esempio recente, v. Cass., Sez. un., 20 gennaio 2014, n. 1013, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, relativa a una sanzione pecuniaria irrogata dall’A.g.c.m. per intesa restrittiva della concorrenza.
[20] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, sentenza del 22 novembre 1995, Bryan c/ Regno Unito, resa su ricorso n. 19178/91.
[21] Così M. Allena, Il caso Grande Stevens, cit., in Giorn. dir. amm., 2014, 1059.
[22] La giurisdizione amministrativa francese di plein contentieux si caratterizza per la massima estensione dei poteri istruttori e decisori del giudice amministrativo, che non solo - in aggiunta all’ordinaria potestà di annullamento degli atti illegittimi - può sostituire la propria decisione a quella dell’autorità amministrativa, ma può giungere a sindacare il merito dell’azione amministrativa riformandone gli atti.
[23] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza dell’11 giugno 2009, Dubus S.A. c/ Francia, resa su ricorso n. 5242/04 e relativa alla Commission bancaire; sentenza del 20 gennaio 2011, Vernes c/ Francia, resa su ricorso n. 30183/06 e relativa alla Commission des opérations de bourse; sentenza del 30 giugno 2011, Messier c/ Francia, resa su ricorso n. 25041/07 e relativa sempre alla C.o.b.
[24] Quanto meno nella sentenza 4 giugno 2010, n. 196, in Giur. cost., 2010, 2320 ss., con nota di A. Travi, Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale: alla ricerca di una nozione comune di “sanzione”.
[25] Ordinanze della Sezione VI 30 settembre 2014, nn. 4491 e 4492.
[26] O, il che è lo stesso, dall’art. 4 del settimo protocollo addizionale.
[27] E salva l’improbabile applicazione della teoria dei controlimiti costituzionali, finora sempre prospettata ma mai messa in opera.
[28] In applicazione della dottrina, elaborata proprio dalla Consulta a partire dalle sentenze nn. 348/2007 e 349/2007, dell’illegittimità costituzionale per violazione del parametro interposto integrato dal vincolo internazionale assunto dall’Italia mercé la ratifica della C.e.d.u.
[29] G. Guizzi, La sentenza CEDU, cit., in Corr. giur., 2014, 1322-1323, il quale sembra però limitare il problema di garanzie ravvisato a questi ultimi soltanto.
[30] Non è il caso, ad esempio, della maggioranza dei procedimenti disciplinari a carico di professionisti iscritti a ordini o collegi professionali, nei quali è già ius receptum che il consiglio o collegio territoriale non possa assumere direttamente provvedimenti sanzionatori, ma debba invece relazionare ad appositi collegi di disciplina, spesso d’ambito sovra-circoscrizionale (quali i collegi di disciplina degli avvocati, costituiti a livello distrettuale), a ordinamento e composizione distinta.

 

(pubblicato il 19.1.2015)

 

 

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