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n. 11-2014 - © copyright |
T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI -
SEZIONE I - Ordinanza 30 ottobre 2014 n. 1801
Pres. Mastrocola,
est. Corciulo
Luigi De Magistris (Avv.ti Giuseppe Russo, Stefano
Montone e Lelio Della Pietra) c. Ministero dell’Interno – U.T.G.
Prefettura di Napoli (Avvocatura Distrettuale dello Stato) e con
l’intervento ad adiuvandum di Comune di Napoli (Avv.ti Fabio Maria
Ferrari, Anna Pulcini, Bruno Crimaldi, Antonio Andreottola), ad opponendum
di Manfredi Nappi, (Avv. Alberto Saggiomo) |
1. Giurisdizione e competenza - Comuni e province – Atto
prefettizio di sospensione dalla carica di Sindaco– Emesso sulla scorta di
una condanna penale – Ha natura provvedimentale – Conseguenze –
Giurisdizione del G.A.
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2. Comuni e Province – Sindaco – Sospensione dalla carica
– Per condanna penale – D.lgs. 235/2012 (Legge Severino) – Contestato
aggravamento dei presupposti di accesso alle cariche elettive - Questione
di legittimità costituzionale – Manifestamente infondata – Ragioni –
Indirizzata a un mero controllo di costituzionalità.
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3. Comuni e Province – Sindaco – Sospensione dalla carica
– Per condanna penale – D.lgs. 235/2012 (Legge Severino) – Ipotesi di
sospensione – Mancata distinzione tra condanne penali definitive e non
definitive – Discrezionalità del legislatore – Sussiste – Conseguenza –
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
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4. Comuni e Province – Sindaco – Sospensione dalla carica
– Per condanna penale non definitiva – D.lgs. 235/2012 (Legge Severino) –
Questione di legittimità costituzionale – Violazione dell’art. 76 Cost. –
Eccesso di delega – Non sussiste – Ragioni – Differenziazione tra le
ipotesi di decadenza e le ipotesi di sospensione.
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5. Comuni e Province – Sindaco – Sospensione dalla carica
– Per condanna penale non definitiva – D.lgs. 235/2012 (Legge Severino) –
Questione di legittimità costituzionale – Violazione dell’art. 76 Cost. –
Eccesso di delega – Per aver previsto l’abuso di ufficio tra i delitti di
grave allarme sociale – Non sussiste – Ragioni – Mancato esplicito
riferimento della legge delega ai reati di cui all’art. 51 cpp.
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6. Comuni e Province – Sindaco – D.lgs. 235/2012 (Legge
Severino) - Sospensione dalla carica – Per condanna penale non definitiva
relativa a fatti avvenuti prima dell’elezione –Questione di legittimità
costituzionale – Violazione del principio di irretroattività della norma –
Non è manifestamente infondata – Ragioni – Natura sanzionatoria della
misura.
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7. Comuni e Province – Sindaco – Sospensione dalla carica
– Sindaco del Comune di Napoli – Provvedimento prefettizio di sospensione
dalla carica – Adottato in applicazione dell’art. 11, comma 1, lett. a),
del D.L.vo n. 235 del 2012, applicato in via retroattiva – Domanda
cautelare di sospensione – Va accolta sino alla data della pronuncia della
Corte costituzionale.
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1. Le controversie in cui si faccia questione della
legittimità del provvedimento prefettizio di sospensione dalla carica di
Sindaco rientrano nella giurisdizione del G.A. atteso che il provvedimento
penale di condanna del titolare della carica è condizione necessaria ma
non sufficiente per la limitazione del diritto di elettorato passivo,
mentre la successiva attività di verifica e di controllo del Prefetto
converge in un atto di natura provvedimentale di fronte al quale la
posizione giuridica soggettiva del ricorrente si configura come interesse
legittimo.
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2. Deve ritenersi manifestamente infondata la questione
di costituzionalità proposta in ordine al D.lgs. 235/2012 (cd. Legge
Severino) nella parte in cui tale norma prevede un aggravamento dei
presupposti per l’accesso e per la conservazione delle cariche pubbliche
elettive, atteso che il ricorso alla Corte Costituzionale si giustifica in
ragione della denuncia di uno specifico ed oggettivo contrasto con
principi e valori della Carta, ma non può risolversi in una generica
richiesta di verifica della tenuta costituzionale della norma denunciata,
per il solo fatto che abbia modificato in senso restrittivo il regime
giuridico previgente.
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3. Deve ritenersi manifestamente infondata la questione
di costituzionalità sollevata in ordine al D.Lgs. 235/2012 per presunta
violazione del principio di proporzionalità laddove tale norma avrebbe
incluso tra le cause di sospensione dalla carica, la condanna per il
delitto di cui all’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio), senza distinguere tra
cause di sospensione collegate a sentenze non definitive di primo e
secondo grado. Infatti, rientra nella piena discrezionalità del
Legislatore individuare, quali cause di indegnità morale, fattispecie di
reato che sebbene aventi pena edittale diversa, ai fini del venir meno
delle condizioni soggettive di accesso e conservazione della carica,
presentano una non dissimile sintomaticità indiziaria.
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4. Deve ritenersi manifestamente infondata la questione
di costituzionalità per violazione dell’art. 76 Cost. (eccesso di delega)
dell’art. 11, co. 1, lett. a) e dell’art. 10, co. 1, lett. c) del D.lgs.
235/2012 nella parte in cui prevedendo ipotesi di sospensione dalla carica
anche per condanne non definitive avrebbero oltrepassato i limiti previsti
dall’art. 1, co. 64, L. 190/2012 (Legge delega), poiché tale norma deve
essere interpretata nel senso che è riferibile ad una sentenza di condanna
definitiva l’istituto della decadenza, inteso come misura finale di cui la
sospensione costituisce un effetto inibitorio che, in quanto tale, deve
necessariamente riferirsi a presupposti storicamente antecedenti la
definitività della pronuncia del giudice penale. (1)
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5. L’art. 1, co. 64, lett. h) L. 190/2012, nel delegare
il Governo ad introdurre tra le ipotesi di incandidabilità le sentenze
definitive di condanna per delitti di grave allarme sociale, non fa
esplicito riferimento alle fattispecie delittuose previste dall’art. 51,
commi 3bis e 3quater del codice di procedura penale. Pertanto, laddove il
D.lgs. 235/2012 prevede tra i delitti di grave allarme sociale che
giustificano la sospensione dalla carica di Sindaco, anche le condanne per
delitti contro la Pubblica Amministrazione, come l’abuso di ufficio ex
art. 323 c.p. non si realizza un eccesso di delega e la relativa questione
di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost. deve
ritenersi manifestamente infondata.
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6. Gli istituti dell’incandidabilità, della sospensione e
della decadenza dalla carica previsti dal D.lgs. 235/2012 costituiscono,
pur nel perseguimento degli obiettivi di imparzialità e trasparenza
dell’amministrazione pubblica, delle misure sanzionatorie e afflittive.
Pertanto, nel momento in cui l’art. 11 D.lgs. 235/2012 contempla la
possibile sospensione dalla carica di un amministratore gravato da una
condanna penale non definitiva per fatti precedenti all’entrata in vigore
della norma, e avvenuti prima delle elezioni, ciò comporta un’oggettiva
applicazione retroattiva di una norma a carattere sanzionatorio che va ad
incidere su una fase, quella delle candidature, in cui il candidato e il
corpo elettorale non potevano avere contezza di tali ipotesi di decadenza
o sospensione dalla carica. Ne discende la non manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 D.lgs. 235/2012
relativamente agli artt. 2, 4 secondo comma, 51 primo comma e 97 della
Costituzione. (Nella specie il TAR ha ritenuto che l’art. 51 della
Costituzione nell’affidare alla legge l’individuazione dei requisiti per
l’accesso alle cariche pubbliche, fa riferimento comunque ai limiti
fisiologici entro cui alla legge stesse è consentito operare, cioè non
retroattivamente.)
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7. Va accolta sino alla pronuncia della Corte
Costituzionale l’istanza cautelare avverso il provvedimento prefettizio di
sospensione dalla carica di Sindaco laddove sia stata sollevata questione
di legittimità costituzionale relativamente alla norma applicata e,
inoltre, sussista il pregiudizio grave ed irreparabile, ascrivibile
all’irrecuperabilità del tempo di mancato esercizio della funzione di
Sindaco.
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(1) Cfr. Cons. Stato Sez. III, Sent. 14/2/2014 n. 730 |
REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo
Regionale della Campania
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso n. 4798/ 14 R.G., proposto da:
Luigi De Magistris, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe
Russo, Stefano Montone e Lelio Della Pietra, con domicilio eletto presso
Giuseppe Russo in Napoli, via Cesario Console n. 3;
contro
Ministero dell’Interno - U.T.G. - Prefettura
di Napoli, in persona del Prefetto p.t. rappresentato e difeso ex lege
dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso cui domicilia
in Napoli, via Diaz, 11;
e con l'intervento di
ad adiuvandum: Comune di Napoli,
rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Maria Ferrari, Anna Pulcini,
Bruno Crimaldi, Antonio Andreottola, domiciliata in Napoli, piazza
Municipio, Palazzo San Giacomo, presso gli uffici dell’Avvocatura
comunale; ad opponendum: Manfredi Nappi, rappresentato e difeso
dall'avvocato Alberto Saggiomo, con domicilio eletto in Napoli, piazzetta
Terracina n.1;
per l'annullamento
previa sospensione
dell'efficacia,
del provvedimento del Prefetto di Napoli
emesso in data 1.10.2014 prot.n. 87831, di accertamento costitutivo della
sussistenza della causa di sospensione del ricorrente dalla carica di
Sindaco del Comune di Napoli.
Visti il ricorso e i relativi
allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero
dell’Interno e della Prefettura di Napoli, nonché del Comune di Napoli e
di Manfredi Nappi;
Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del
provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte
ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti
della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e
competenza;
Data per letta nella camera di consiglio del 22 ottobre
2014 la relazione del consigliere Paolo Corciulo e uditi per le parti i
difensori come specificato nel verbale;
Con provvedimento n. 87831
del 1° ottobre 2014 il Prefetto della Provincia di Napoli ai sensi
dell’art.11, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 ha dichiarato di
aver accertato nei confronti del Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, la
sussistenza della causa di sospensione dalla carica di cui al medesimo
art. 11, primo comma, lettera a) del medesimo decreto legislativo.
Nel
decreto prefettizio si rappresenta che con sentenza n. 3928/12 Reg. Gen.
la Seconda Sezione del Tribunale di Roma ha condannato in primo grado il
predetto Sindaco di Napoli alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione
ed all’interdizione dai pubblici uffici per anni uno, con il beneficio
della sospensione condizionale della pena, per i delitti ascritti ai capi
A, B, C,D, E, F, G ed H della rubrica, che, dal decreto che dispone il
giudizio n. 23078/09/GIP del 21 gennaio 2012, risultavano essere reati di
cui all’art. 323 c.p.
Trattandosi di fattispecie delittuosa per cui è
prevista la sospensione di diritto dalle cariche elettive nei confronti di
chi abbia riportato condanna, omessa la garanzia partecipativa di cui
all’art 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241, per esigenze di celerità ed
attesa la natura vincolata del potere, il Prefetto di Napoli ha notificato
all’organo che aveva proceduto alla convalida dell’elezione l’avvenuto
accertamento dei presupposti di legge per la sospensione del Sindaco dalla
carica.
Con ricorso ritualmente notificato e depositato il giorno 8
ottobre 2014, il dottor Luigi De Magistris ha impugnato innanzi a questo
Tribunale il provvedimento prefettizio, chiedendone l’annullamento, previa
concessione di idonee misure cautelari.
Si sono costituiti in giudizio
il Prefetto di Napoli, che, oltre a svolgere difese nel merito della
controversia, ha eccepito il difetto di giurisdizione amministrativa,
assumendo trattarsi di questioni inerenti alla tutela di un diritto
soggettivo la cui lesione sarebbe direttamente riconducibile alla legge.
Si è costituito in giudizio anche il Comune di Napoli. sostenendo le
ragioni di parte ricorrente.
Ha spiegato altresì intervento ad
opponendum il signor Manfredi Nappi, in qualità di cittadino
elettore.
Alla camera di consiglio del 22 ottobre 2014, all’esito della
discussione, la causa è stata trattenuta per la decisione.
Deve essere
preliminarmente esaminata l’eccezione di difetto di giurisdizione
amministrativa sollevata dalla difesa erariale, secondo la quale la
controversia avrebbe ad oggetto la tutela del diritto soggettivo di
elettorato passivo di cui all’art. 51 della Costituzione, di guisa che
ogni questione di eleggibilità e decadenza – di cui la sospensione
costituirebbe fattispecie connessa – rientrerebbe nella cognizione del
giudice civile ai sensi degli artt. 9 bis e 82 del d.p.r.16 maggio 1960 n.
570, ov’anche la limitazione al relativo esercizio fosse riconducibile
all’adozione di un provvedimento amministrativo.
L’eccezione è
infondata.
Osserva il Collegio che, esclusa la configurabilità
nell’ordinamento di un regime eccezionale di favor per i diritti di
elettorato passivo, tali da renderli impermeabili rispetto agli effetti di
un’azione amministrativa autoritativa idonea a conformarli - tanto, anche
nella scia dell’inconfigurabilità generale di diritti soggettivi
resistenti – ai fini della verifica della giurisdizione occorre guardare
alla struttura della fattispecie normativa e, in particolare,
all’intensità che la legge nel caso di specie riconosce
all’intermediazione provvedimentale; ad avviso del Collegio, non si tratta
di verificare se l’effetto compressivo del diritto di elettorato passivo
sia o meno conseguenza di una scelta discrezionale del Prefetto e nemmeno
se l’attività di accertamento a questo richiesta circa la sussistenza dei
presupposti sia connotata da profili tecnico-discrezionali, dovendosi
invece accertare se l’effetto sospensivo si determini soltanto una volta
emanato il decreto prefettizio. Al quesito non può che rendersi risposta
positiva; invero, che il provvedimento giudiziario di condanna penale del
titolare della carica sia condizione necessaria, ma non sufficiente per la
limitazione del diritto di elettorato passivo trova conferma nella stessa
costruzione della fattispecie generale ed astratta in cui si affida al
Prefetto, quindi ad un organo distinto da quello dell’ente di appartenenza
del titolare della carica, la verifica esterna delle condizioni ostative
al mantenimento della stessa, e quindi il compimento di un’indefettibile
presupposta attività di verifica e di controllo i cui esiti convergono in
un atto di natura provvedimentale che, integrando il precetto normativo,
ne determina l’applicazione al caso concreto, così consentendo la
produzione dell’effetto sospensivo; e poiché, secondo principi ormai da
tempo consolidati, la giurisdizione amministrativa generale di legittimità
si radica in funzione del solo fatto dell’immanenza di un potere
autoritativo il cui esercizio la legge richiede per il prodursi
dell’effetto tipico considerato, senza, cioè, che a tal fine assumano
decisivo rilievo anche sue possibili caratteristiche intrinseche, la
posizione giuridica soggettiva del ricorrente non può che essere quella
“naturale” di interesse legittimo, la cui cognizione appartiene a questo
Tribunale, anche dal punto di vista della competenza
territoriale.
Passando al merito, va rilevato che ,a sostegno
dell’impugnazione, il ricorrente ha proposto sette mezzi di censura, i
primi tre avverso l’atto prefettizio di accertamento, gli altri volti a
prospettare questioni di legittimità costituzionale della normativa
applicata.
Con il primo motivo di ricorso è stato dedotto che la
sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco sarebbe illegittima, in
quanto non fondata su un provvedimento giudiziario, come invece previsto
dall’art.11, comma quinto del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235; invero, al
momento in cui ha provveduto, il Prefetto di Napoli non avrebbe potuto che
fare riferimento ad un dispositivo di sentenza, atto che non figura tra i
provvedimenti giudiziari che l’art.125 c.p.p. circoscrive alle sole
categorie della sentenza, dell’ordinanza e del decreto; d’altronde, nel
dispositivo non sono specificati i capi di imputazione, tanto è vero che
il Prefetto, per accertare la sussistenza di quelle imputazioni ai sensi
dell’art. 323 c.p. la cui condanna è stata causa di sospensione, ha dovuto
richiamare il decreto che dispone il giudizio, atto ben distinto dalla
sentenza. Rileva poi il ricorrente che la questione non sarebbe di ordine
meramente formale, dal momento che la conformazione strutturale e la
caratterizzazione funzionale del procedimento disciplinato dall’art.11 del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 tendono al raggiungimento di un punto di
equilibrio tra la tutela dei diritti di elettorato attivo e passivo e la
salvaguardia di valori costituzionali volti ad assicurare l’idoneità
morale dei pubblici amministratori, proprio attraverso l’emanazione di una
sentenza, la pubblicazione della cui motivazione costituisce il primo
momento dal quale sarebbe possibile per l’autorità competente verificare
la sussistenza della causa di sospensione dalla carica pubblica.
Con
la seconda censura è stata contestata la carenza di motivazione dell’atto
impugnato, dal momento che le cause di sospensione sono state rintracciate
in un atto diverso dalla sentenza di condanna, come invece previsto dalla
norma.
Infine, sul presupposto della fondatezza dei primi due motivi di
impugnazione, è stata lamentata l’intempestività dell’accertamento della
causa di sospensione, la cui celerità si colora di illegittimità alla luce
del fatto che il Prefetto si sarebbe riferito al solo dispositivo, senza
attendere anche la pubblicazione della motivazione della decisione del
Giudice penale.
Con il quarto motivo è stato dedotto che la
sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco di Napoli sarebbe
conseguenza di un’interpretazione retroattiva degli artt. 10, comma 1,
lettera c) e 11, comma 1, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 e
quindi non conforme ai diritti di elettorato ed ai principi di cui agli
artt. 2, 51 e 97 della Costituzione.
Al riguardo, il ricorrente ha
evidenziato che al tempo in cui aveva deciso di candidarsi e fino alla sua
proclamazione a Sindaco, avvenuta il 1° giugno 2011, non figurava tra le
cause di incandidabilità e di sospensione da tale carica l’aver riportato
una condanna per il delitto di cui all’art. 323 c.p. Solo con l’entrata in
vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia dal 5 gennaio 2013,
nell’ordinamento è stata introdotta, come causa ostativa la condanna anche
per tale fattispecie delittuosa; e poiché costituisce principio generale
dell’ordinamento quello di irretroattività della legge, altra sarebbe la
disciplina legislativa applicabile al tempo della candidatura del
ricorrente e differenti i requisiti prescritti per l’accesso agli uffici
pubblici ed alle cariche elettive cui si riferisce l’art. 51 della
Carta.
Sulla base dell’appartenenza del diritto di elettorato passivo
alla sfera dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione, è
stato altresì rilevato come ogni operazione interpretativa debba ispirarsi
ad un regime di favor per chi intenda accedere a cariche pubbliche ed
elettive; del resto, non potrebbe negarsi rilevanza alla situazione di
chi, intenzionato a candidarsi in una competizione elettorale, debba
essere consapevole fin da tale momento delle condizioni ostative alla
nomina o al mantenimento della carica; in altre parole, un’interpretazione
della lettera della legge conforme alla Costituzione dovrebbe essere nel
senso non già di limitarne l’applicazione a sentenze di condanna che
sopravvengano rispetto alla candidatura, ma di ritenere irrilevanti quelle
riportate per fattispecie delittuose che in quel momento storico non
costituivano cause di incandidabilità o sospensione; pertanto, una
sopravvenienza incidente sulla candidatura o sul mantenimento della carica
è costituzionalmente legittima, solo se riferita al suo presupposto
fattuale, inteso come sentenza di condanna, e non anche all’applicabilità
della previsione normativa generale ed astratta, stante il principio
generale di irretroattività della legge.
Diversamente opinando, il
ricorrente ha chiesto trasmettersi gli atti alla Corte Costituzionale per
l’esame della questione di costituzionalità in relazione agli artt. 2, 51
e 97 della Costituzione da parte della norma legislativa applicata al caso
esame.
Inoltre, l’interpretazione della norma legislativa che regge
l’adozione del provvedimento prefettizio impugnato si rivelerebbe anche in
contrasto il diritto di elettorato attivo, potendo determinare
un’alterazione dei risultati del procedimento elettorale, e, quindi, della
libera espressione di voto, principio consacrato dall’art.3 del Protocollo
Addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle Libertà Fondamentali e recepito nell’ordinamento interno attraverso
la valvola di cui all’art. 117 della Costituzione; invero, la modifica dei
requisiti di candidabilità dell’eletto successivamente all’espressione del
voto finisce per vanificare la volontà espressa dal corpo elettorale
eliminandone gli effetti per cause irrilevanti al momento in cui la scelta
elettorale si era manifestata in favore di determinati candidati, in
seguito dichiarati non più idonei. Anche in questo caso, se condivisa dal
giudice adito l’interpretazione della legge fatta propria nel
provvedimento impugnato e ove non ritenuta la stessa disapplicabile
sebbene in contrasto con la CEDU, è chiesta la sottoposizione all’esame
della Corte Costituzionale della questione di compatibilità costituzionale
dell’art.10, comma 1, lettera c) e 11, comma, 1 lettera a) del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235 con l’art. 117 della Carta.
Con la quinta censura
vengono sollevati dubbi di costituzionalità del d.lgs. 31 dicembre 2012 n.
235 sotto il profilo della ragionevolezza e proporzionalità. Al riguardo,
ha osservato il ricorrente che la disciplina legislativa previgente –
segnatamente, l’art. 15 della legge 19 marzo 1990 n. 55 e successivamente
gli artt. 58 e 59 del d.lgs. 8 agosto 2000 n. 267 - aveva raggiunto un
apprezzabile punto di equilibrio tra il diritto di elettorato attivo e
passivo e le esigenze di tutela dell’imparzialità e del buon andamento
degli uffici pubblici, ove confliggenti in relazione ad un determinato
soggetto; a tal fine, infatti, erano state individuate specifiche
fattispecie di reato che, in considerazione del loro oggettivo indice di
pericolosità, ben avrebbero potuto giustificare la cedevolezza dei
richiamati diritti di elettorato, nel caso in cui una sentenza di condanna
divenuta definitiva fosse stata pronunciata nei confronti di un candidato,
anche dopo la sua elezione. Ancora, la medesima disciplina legislativa,
nel porre il divieto di candidarsi per le descritte ipotesi, aveva anche
proporzionalmente calibrato la conseguenze dell’intervento di una sentenza
di condanna nei confronti di chi fosse divenuto pubblico amministratore,
disponendo che la misura cautelare della sospensione operasse nei casi di
reati più gravi fin dalla condanna di primo grado, mentre per fattispecie
delittuose minori occorreva attendere la pronuncia di secondo grado; in
altri termini, si rapportava l’astratta gravità del titolo di reato al
maggiore - e, quindi, presumibilmente più affidabile - livello di
stadiazione dell’accertamento processuale.
Ebbene, l’attuale
disciplina legislativa, applicata al ricorrente non solo avrebbe aggravato
tale regime introducendo nuove figure delittuose ritenute sintomatiche di
esposizione a pericolo dei valori costituzionali che presidiano la qualità
dell’organizzazione e dell’azione dei pubblici uffici, quali il delitto di
abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 c.p., ma avrebbe anche eliminato,
specificamente sotto il profilo della proporzionalità, la distinzione tra
cause di sospensione collegate a sentenze non definitive di primo e
secondo grado.
Tale inasprimento delle cause ostative all’ottenimento
ed alla conservazione delle cariche pubbliche eccederebbe, a giudizio del
ricorrente, i precedenti limiti di compatibilità con i diritti di
elettorato attivo e passivo già ritenuti conformi a Costituzionale da
parte della Consulta nella sentenza n. 25 del 2002.
Con la sesta
censura è stata dedotta l’incostituzionalità degli artt. 11, comma primo,
lettera a) e 10, comma 1, lettera c) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235
per violazione dell’art. 76 della Costituzione; invero, la legge 6
novembre 2012 n. 190, all’art. 1, comma 64, nell’affidare al Governo il
compito di procedere al riordino ed all’armonizzazione della normativa in
materia di incandidabilità alle cariche indicate nel comma 63, stabiliva
tra i principi e criteri di direttivi per il legislatore delegato quello
di disciplinare ipotesi di sospensione e decadenza di diritto in caso di
sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla
candidatura o all’affidamento della carica; l’aver il d.lgs. 31 dicembre
2012 n. 235 previsto cause di sospensione dalla carica anche per l’ipotesi
di sentenza di condanna non definitiva costituiva un eccesso di delega
legislativa; e di limitare la sospensione dalla carica nei soli di casi di
sentenza definitiva sarebbe stata, a giudizio del ricorrente, anche
l’effettiva volontà del legislatore delegante, come si evincerebbe dalla
documentazione degli atti preparatori alla legge delega 6 novembre 2012 n.
190; in particolare, in caso di condanna definitiva, mentre per le cariche
non elettive era stata proposta la decadenza tout court, per quelle
elettive, quale quella di Sindaco, la misura applicabile sarebbe stata la
sospensione, volendosi, più limitatamente, circoscrivere l’effetto
inibitorio ad un temporaneo allontanamento dalla carica, senza con ciò
anche determinare lo scioglimento dell’assembla, come accadrebbe in caso
di decadenza.
Il ricorrente ha anche esaminato la possibilità di
pervenire ad un’interpretazione conforme a Costituzione della legge
delegata, sebbene escludendo tale eventualità proprio in ragione della
chiara formulazione del dictum normativo.
A tal proposito, non si
ritiene accettabile il presupposto per cui la sospensione sarebbe misura
cautelare rispetto alla successiva decadenza, configurandosene la funzione
anticipatoria rispetto all’ipotesi di condanna definitiva; invero, nessun
collegamento vi sarebbe nella legge delega tra durata della sospensione ed
esito del giudizio di appello in sede penale; sospensione che, in caso di
sentenza definitiva, si giustificherebbe non solo con le richiamate
esigenze di conservazione della volontà elettorale, almeno per il periodo
successivo alla scadenza della misura cautelare, ma anche con esigenze di
proporzionalità riconducibili alla circostanza che l’ipotesi della
condanna per il delitto di abuso d’ufficio, fattispecie indubbiamente di
minore gravità rispetto ad altre previste dalla legge delegata, mai era
stata in precedente presa in considerazione dal legislatore come causa
ostativa all’accesso ed alla conservazione di una carica pubblica.
Pertanto, l’inconfigurabilità di un’interpretazione dell’art.11, primo
comma lettera a) e dell’art. 10, primo comma, lettera c) del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235 che possa rendere tali disposizioni conformi ai
principi della legge delega, impone la devoluzione della questione alla
Corte Costituzionale.
Con la settima ed ultima censura è stato
denunciata la mancata copertura di delega legislativa per l’introduzione
dell’ipotesi di condanna per il delitto di cui all’art. 323 c.p. quale
causa di sospensione e decadenza dalla carica di Sindaco; invero, la legge
6 novembre 2012 n. 190 all’art. 1, comma 64, lettera h) aveva consentito
al legislatore delegato di individuare ulteriori ipotesi di
incandidabilità per tale carica, ma solo per delitti di grave allarme
sociale, ossia quelli di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p.;
il ricorrente ha così evidenziato che se la delega legislativa era stata
correttamente esercitata con l’art. 10, comma 1, lettera b) del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235, altrettanto non poteva ritenersi per la norma di cui
alla successiva lettera c), non figurando il delitto di abuso d’ufficio
tra le fattispecie indicate dall’art. 51 c.p.p.
In disparte i primi tre
motivi di impugnazione, che hanno ad oggetto vizi inerenti esclusivamente
all’impugnato provvedimento prefettizio di sospensione, occorre
preliminarmente esaminare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati
da parte ricorrente.
Invero, è manifesta la pregiudizialità logica che
impone al giudice adito di anteporre la verifica della rilevanza e non
manifesta infondatezza di questioni di legittimità costituzionale degli
artt.10 e 11 del d.lgs. 31dicembre 2012 n. 235, che ove fondate, si
rivelerebbero decisive ai fini dell’esercizio stesso del potere di
sospensione, a prescindere, cioè, dal positivo accertamento di condizioni
patologiche direttamente ascrivibili al decreto prefettizio di
sospensione, siccome sanabili e comunque superabili, una volta avvenuto il
deposito della motivazione della sentenza del giudice penale.
Innanzitutto, si evidenzia che tutte le questioni di costituzionalità
proposte nei motivi quarto, quinto, sesto e settimo del ricorso assumono
carattere di rilevanza per la definizione nel merito della controversia;
invero, risolvendosi in distinti ed autonomi mezzi di impugnazione,
ciascuno idoneo, ove ritenuto fondato, a determinare l’illegittimità
dell’impugnato provvedimento di sospensione, e quindi il suo annullamento,
degli stessi occorre procedere ad una compiuta delibazione.
Deve essere
ritenuta manifestamente infondata la questione proposta con il quinto
motivo.
Invero, non può essere sufficiente a provocare un incidente di
costituzionalità il mero aggravamento da parte del d.lgs. 31 dicembre 2012
n. 235 delle condizioni e dei presupposti per l’accesso e per la
conservazione delle cariche pubbliche elettive, dal momento che il ricorso
alla Corte Costituzionale si giustifica in ragione della denuncia di uno
specifico ed oggettivo contrasto con principi e valori della Carta da
parte del potere legislativo statale o regionale, senza che si possa
risolvere, come proposto nel caso di specie, in una generica richiesta di
verifica della tenuta costituzionale della norma denunciata, per il solo
fatto che abbia modificato in senso restrittivo il regime giuridico
previgente; d’altronde, senza entrare nel merito della discrezionalità
legislativa, è sufficiente osservare che, sotto il profilo della
ragionevolezza, l’elevazione della soglia di protezione in materia di
accesso alle cariche pubbliche non confligge con i valori costituzionali
di cui all’art. 51 della Carta, ove sia giustificata dall’esigenza di
allontanare da tali munera chi sia reso responsabile anche di delitti
contro l’amministrazione pubblica, fatti il cui verificarsi è stato
accertato in sede giudiziaria con sentenza definitiva, ai fini della
decadenza, o non definitiva ai fini della sospensione cautelare dalla
carica. Quanto, poi, alla violazione del principio di proporzionalità, la
questione di costituzionalità è manifestamente infondata, dal momento che
si pretende di qualificare la gravità del fatto ostativo alla sola
qualificazione operatane dalla norma penale, mentre rientra nella piena
discrezionalità del legislatore individuare, quali causa di indegnità
morale, fattispecie di reato che sebbene, aventi pena edittale diversa, ai
fini del venir meno delle condizioni soggettive di accesso e conservazione
della carica, presentano una non dissimile sintomaticità
indiziaria.
Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata
nella sesta censura è manifestamente infondata.
Al riguardo, non
possono che essere condivise le considerazioni espresse nella sentenza 14
febbraio 2014 n. 730 della III Sezione del Consiglio di Stato; investito
della questione, quel Collegio ha superato la formale contraddizione
esistente nell’art.1, comma 64, lettera m) della legge 6 novembre 2012 n.
190, accedendo ad un’interpretazione logico sistematica del dato normativo
letterale, rendendone coerente il contenuto con il principio di cui
all’art. 76 della Costituzione.
Innanzitutto, anche in ragione di
quanto si andrà ad esporre nel prosieguo, è ampiamente condivisibile
l’assunto per cui gli istituti della sospensione e della decadenza
costituiscono species di un più ampio genus, costituito dalle misure
inibitorie dell’accesso e della conservazione della carica pubblica; altro
non è dato evincere dal dato normativo attuale che, a prescindere dai
lavori preparatori, costituisce senza dubbio l’effettiva ultima volontà
del legislatore, ratione temporis. E se la sospensione, per sua natura,
non può che essere misura anticipatoria, la sua stessa strumentalità non
può difettare di un istituto di cui costituisce complemento e che ne è
volto a confermare gli effetti sostanziali, tendenzialmente senza
soluzione di continuità, effetti in un primo momento inevitabilmente
temporanei, proprio per la natura strumentale della sua intima funzione.
Né valga obiettare che nell’ordinamento sono presenti anche fattispecie di
sospensione autonome, cioè che risolvono nella loro temporanea efficacia
la ratio legis; invero, nel caso di specie, tale soluzione interpretativa
non si rivela percorribile, in ragione del dato letterale della norma che
rivela senz’altro la volontà del legislatore di collegare funzionalmente
entrambi gli istituti ad un unico presupposto, ossia l’esistenza di una
condanna penale per determinate categorie di reati.
Quanto alla
prospettata lettura del dato normativo tale da esigere una condanna
definitiva come presupposto per l’operatività sia della sospensione che
della decadenza, oltre a richiamare quanto ritenuto dal Consiglio di Stato
riguardo al principio della continenza del primo istituto nel secondo, per
effetto del richiamato vincolo di strumentalità, va evidenziato che la
volontà del legislatore delegante, quale emerge dall’art. comma 64,
lettera g) della legge 6 novembre 2012 n. 190, è stata nel senso di
affidare il compito di operare una ricognizione nella normativa vigente in
materia di incandidabilità, limitando l’introduzione di una vera e propria
novella ai soli casi di cui alla successiva lettera h), tra cui non
figurano interventi sull’istituto della sospensione come fino a quel
momento disciplinata, cioè come misura temporanea e strumentale rispetto
alla decadenza (art.15 legge 19 marzo 1990 n.55, artt. 58 e 58 d.lgs. 8
agosto 2000 n. 267).
Ne consegue che del dato normativo non può che
offrirsi un’interpretazione che lo renda riferibile ad una sentenza di
condanna “che sia divenuta definitiva” rispetto all’applicazione della
decadenza dalla carica, intesa come misura finale, di cui, pertanto, la
sospensione costituisce effetto inibitorio di stadiazione che, in quanto
tale, non può che riferirsi a presupposti storicamente antecedenti
rispetto alla definitività della pronuncia del giudice penale.
In tale
prospettiva non può condividersi l’assunto di parte ricorrente che, al
fine di configurare l’operatività della sospensione come istituto distinto
ed alternativo rispetto alla decadenza, e quindi anch’esso fondato sul
presupposto di una sentenza penale di condanna definitiva, afferma che non
esisterebbero collegamenti rispetto all’esito del giudizio penale
d’appello sulla sentenza di primo grado.
Invero, che sospensione e
decadenza non siano in rapporto parallelo di alternatività, ma di omogenea
relazione di stretta consecutività è confermato dall’art.11, quarto comma
del d.Lgs 31 dicembre 2012 n. 235 che, in caso di rigetto dell’appello,
prevede un ulteriore periodo di sospensione; nemmeno può essere negata
l’interferenza esistente tra progressione del processo penale e ricadute
sulla attuale conservazione della carica pubblica, come risulta confermato
dai successivi commi sesto e settimo della medesima disposizione, il primo
dei quali disciplina la cessazione della sospensione al venir meno di una
misura coercitiva emessa nei confronti dell’interessato o sentenza anche
non definitiva favorevole, il secondo che stabilizza gli effetti inibitori
nella decadenza al passaggio in giudicato della sentenza; precisazione che
sarebbe stata pleonastica, ossia iterativa della già prevista natura
definitiva della condanna, ove ritenuta non di natura procedimentale, cioè
riferita alla mutazione in decadenza di una precedente sospensione dalla
carica.
Manifestamente infondata è anche la questione di legittimità
costituzionale proposta nel settimo motivo di ricorso, per eccesso di
delega relativamente all’art. 1, comma 64, lettera h) della legge 6
novembre 2012 n. 190 che, per le cariche di cui alla precedente lettera g)
– tra cui quella di Sindaco – consentiva al legislatore delegato di
introdurre ulteriori ipotesi di incandidabilità, ma solo per delitti di
grave allarme sociale. A giudizio del ricorrente, tale categoria di reati
si identificherebbe con le sole fattispecie di cui all’art. 51, commi 3
bis e 3 quater c.p.p., ipotesi per le quali, coerentemente con la legge
delega, in caso di condanna, il d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 aveva
previsto agli artt. 10, primo comma lettere a) e b) e 11, primo comma,
lettera a), la decadenza e la sospensione di diritto dalla carica
pubblica. Non figurando in tale categoria anche il delitto di abuso di
ufficio di cui all’art. 323 c.p., la sua assunzione come fattispecie di
decadenza e di sospensione in caso di condanna penale eccederebbe i limiti
posti dal legislatore delegante.
Osserva il Collegio che nessun utile
riferimento di diritto positivo esiste nel senso di limitare i delitti di
grave allarme sociale di cui alla legge delega alle sole fattispecie di
cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater del codice di procedura penale;
pertanto, nel sottenderne l’ampia discrezionalità, la legge di delegazione
consente al legislatore delegato di ricondurre alla categoria dei delitti
di grave allarme sociale, non solo le fattispecie associative finalizzate
al traffico di sostanze stupefacenti, armi, criminalità organizzata e
terrorismo – e tutti quelli a cui si riconduce la competenza del
procuratore della Repubblica distrettuale - ma anche differenti ipotesi
delittuose, la cui commissione si ritiene idonea a destare preoccupazione
nella generalità della popolazione, costituendo manifestazione o,
comunque, sintomo di mancato o cattivo funzionamento di settori nevralgici
della vita sociale; e non appare irragionevole l’aver compreso in tale
categoria anche fattispecie di delitti contro la pubblica amministrazione
connotati da una certa gravità, proprio nell’ottica del riordino della
materia dell’incandidabilità, a cui sottendono obiettivi di riassetto
organizzativo e di moralizzazione della amministrazione pubblica voluti
dalla stessa legge 6 novembre 2012 n. 190; d’altronde, l’accostamento tra
delitti rientranti nella categoria di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3
quater c.p.p. ed ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione non è
soluzione nuova nella legislazione interna, essendo sufficiente il rinvio
alla disciplina di cui al d.p.r. 6 settembre 2011 n. 159 in materia di
antimafia che tende ad esaltare la stretta correlazione tra criminalità
organizzata e cattiva amministrazione ai fini della rilevazione degli
elementi indiziari necessari per l’applicazione di misure amministrative
di prevenzione.
Non manifestamente infondata è invece la questione di
legittimità costituzionale proposta nel quarto motivo di ricorso,
relativamente all’efficacia retroattiva della disposizione normativa di
cui all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235.
Va premesso che, in
assenza di una normativa transitoria o comunque di disposizioni specifiche
al riguardo, occorre procedere nell’indagine facendo ricorso ai principi
generali dell’ordinamento.
A tal proposito, il principio di
irretroattività è sancito nell’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in
Generale che recita “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha
effetto retroattivo” e trova copertura costituzionale, attraverso il
rafforzamento del divieto da parte dell’art. 25, secondo comma della
Carta, per le leggi “punitive”, identificate dalla giurisprudenza
costituzionale in quelle in materia penale.
Nella prospettazione del
ricorrente la violazione del suddetto principio garantistico riposerebbe
sulla circostanza per cui una lettura costituzionalmente orientata dal
dato normativo esigerebbe che di epoca successiva all’entrata in vigore
del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 dovrebbe essere non solo la sentenza,
come è incontestato nel caso in esame, ma anche il fatto storico
qualificato come delitto che ne costituisce la res iudicanda.
Il
ricorrente ha ritenuto la violazione del principio di irretroattività, sia
con riferimento alla sua qualità di soggetto candidato, sia come incidente
sulla sua attuale carica di Sindaco, la cui sospensione dalle funzioni
sarebbe da qualificarsi come incandidabilità sopravvenuta.
Sotto il
primo profilo è stato obiettato che la rilevanza riconosciuta alla
pendenza di un procedimento penale all’epoca della candidatura, integrata
attraverso la successiva sentenza di condanna, avrebbe inciso sulla
condizione di soggetto candidabile del ricorrente, illo tempore per nulla
esposta al rischio di una futura sospensione o decadenza per effetto di
pronunce sfavorevoli per il delitto di cui all’art. 323 c.p.; allo stesso,
modo ne sarebbe risultata alterata anche la genuinità della competizione
elettorale, essendosi il corpo elettorale espresso in favore di chi
all’epoca sapeva che non sarebbe mai stato sospeso o dichiarato decaduto a
seguito di una futura condanna per un delitto che all’epoca mai avrebbe
inciso sulla sua qualità di Sindaco.
La tesi non convince.
Va
premesso che costituisce principio generale dell’ordinamento quello per
cui una legge successiva può incidere su precedenti posizioni giuridiche,
ma entro il limite della salvaguardia dei diritti quesiti e dei rapporti
esauriti. Trattasi di un corollario del principio generale di
irretroattività, nel senso che l’ordinamento pone un limite alla
possibilità di incidenza sfavorevole di una nuova normativa che, sebbene
volta a disporre per il tempo futuro, in coerenza con l’art.11 delle
Disposizioni sulla Legge in Generale, finisce comunque per intervenire su
posizioni giuridiche durevoli o non compiutamente definite, insidiando
quel principio di affidamento dei cittadini nei confronti del quale
nemmeno il legislatore deve mostrarsi insensibile. Pertanto, non sarebbe
possibile ad una legge sopravvenuta sopprimere e nemmeno limitare
posizioni giuridiche consolidate, la cui stabilità e definitività
costituisce condizione implicita di irretroattività.
Ai fini del
presente giudizio, la presenza di diritti quesiti e rapporti esauriti in
capo al ricorrente va accertata in relazione al rapporto esistente tra
soggetto e procedimento elettorale - quest’ultimo da intendersi in senso
ampio, cioè comprensivo anche delle fasi, e relativi diritti,
riconducibili alle attività preparatorie per l’accesso alla competizione
elettorale - ed in particolare alla sussistenza di una fluente ed omogenea
relazione di tipo endoprocedimentale tra i suoi atti, oppure al
rinvenimento al suo interno di posizioni differenziate e parzialmente
autonome in capo al soggetto che vi partecipa, tale da consentire la
configurazione di status e qualità personali la cui rilevanza giuridica
non sia immanente, ma storicamente collocabile solo in alcune fasi del
procedimento; in altri termini, si tratta di verificare la percorribilità
giuridica in senso inverso della sequenza procedimentale tipica (recte
della relazione atto presupposto/atto consequenziale), al fine di
verificare, se, contrariamente a quanto accade nella dinamica ordinaria,
che trasmette a valle tutta la funzione esercitata concentrandola nel
provvedimento, anche nella prospettiva del soggetto destinatario del
potere, nel caso del procedimento elettorale esistano delle posizioni
preparatorie ed intermedie che, nonostante l’evoluzione del procedimento,
conservino autonoma rilevanza giuridica, sganciandosi dalla produzione
degli effetti finali, quantunque favorevoli. In altri termini, occorre
chiedersi se, rispetto alla conclusione del procedimento elettorale in
senso favorevole ad un candidato, questi conservi ancora, come
giuridicamente rilevante, lo status di soggetto candidabile.
Al quesito
deve rendersi risposta negativa, dal momento che la qualità di soggetto
candidabile è destinata ad esaurire la sua funzione tipica una volta
conclusosi il procedimento elettorale, al cui esito potrà seguire lo
status di candidato non eletto o di eletto e, in quest’ultimo caso, la
nomina; atteso il rapporto di consecutività che caratterizza il
procedimento, e nella specie quello elettorale, anche la posizione
soggettiva dell’interlocutore del potere evolve e si modifica, non
restando più la medesima; inoltre, la progressione del procedimento
elettorale, ma soprattutto la sua conclusione, finisce per rendere la
posizione di semplice soggetto candidabile non solo superata, ma anche
incompatibile con quella di eletto, trattandosi, in fondo, della medesima
posizione vista nella prospettiva del suo divenire; invero, la qualità di
candidato finisce per rifluire completamente nello status di eletto,
esaurendo così completamente ogni ulteriore ed autonoma funzione.
A
ben vedere, si tratta dell’applicazione del generale principio
procedimentale del tempus regit actum che riconosce giuridica rilevanza
alle sole posizioni attuali, concorrenti con l’evoluzione del dispiegarsi
della funzione esercitata.
Di tali coordinate è stata fatta puntuale
applicazione da parte del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 che distingue tra
cause di incandidabilità da un lato e cause di decadenza e sospensione
dalla carica dall’altro, non solo inquadrandone l’efficacia rispetto alla
specifica fase storica del procedimento elettorale su cui vanno ad
incidere, ma senza neanche dare vita tra queste a commistioni o
sovrapposizioni di sorta. Nel caso di specie, il provvedimento prefettizio
impugnato costituisce espressione del potere di rilevazione di una causa
ostativa alla prosecuzione dell’esercizio della carica di Sindaco, senza
alcuna riferibilità anche alla presupposta e ormai superata qualità di
candidato del ricorrente, la cui funzione ha da tempo esaurito i suoi
effetti, evolutisi e confluiti nell’esito a lui favorevole della
competizione elettorale.
Dubbi di legittimità costituzionale sorgono,
invece, riguardo agli artt.11, primo comma, lettera a) e 10, primo comma,
lettera c), nella parte in cui, nel prevedere quale causa di sospensione –
oltre che di decadenza e di incandidabilità – la condanna non definitiva
per alcuni delitti, tra cui quello di cui all’art. 323 c.p., attraverso il
provvedimento prefettizio impugnato le predette disposizioni normative
sono state applicate retroattivamente al ricorrente quale Sindaco in
carica del Comune di Napoli.
Non ignora il Collegio l’esistenza dei
recenti arresti nella giurisprudenza amministrativa di legittimità che
hanno escluso la retroattività delle previsioni normative de quibus
(Consiglio di Stato V Sezione 6 febbraio 2013 n. 695; Consiglio di Stato V
Sezione, 29 ottobre 2013 n. 5222; TAR Lazio II bis, 8 ottobre 2013 n.
8696), ritenendo applicabili le cause ostative anche laddove la sentenza
di condanna penale irrevocabile sia intervenuta in un tempo antecedente
all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia il 5
gennaio 2013.
In particolare, nel richiamare specifici orientamenti
della Corte Costituzionale in materia è stato evidenziato che «la condanna
penale irrevocabile é stata presa in considerazione come mero presupposto
oggettivo cui é ricollegato un giudizio di "indegnità morale" a ricoprire
determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata
quale "requisito negativo" ai fini della capacità di assumere e di
mantenere le cariche medesime» (Corte Costituzionale 31 marzo 1994 n.
118); né il divieto di applicazione retroattiva potrebbe trovare copertura
costituzionale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Carta,
attraverso la qualificazione in termini sanzionatori o comunque punitivi
nelle cause di incandidabilità, sospensione e decadenza previste dal
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, atteso che secondo costante giurisprudenza
costituzionale, l'invocato principio si riferisce alle sole sanzioni
penali (Corte Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118, 14 luglio 1988 n. 823,
3 giugno 1992 n. 250; 14 aprile 1988 n. 447) e, a giudizio del Collegio,
all’istituto della sospensione di cui all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre
2012 n. 235, sebbene difficilmente possa essere negata efficacia
sanzionatoria, non può essere riconosciuta anche natura
penale.
Inoltre, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che non
costituisce irragionevole limitazione del diritto di elettorato di cui
all’art. 51 della Costituzione l'aver attribuito immediata operatività
«all'elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti
una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del
soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate
finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l'incidenza
negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche
elettive in corso al momento della sua entrata in vigore»(Corte
Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118).
Osserva il Collegio che
l’interpretazione fatta propria nei richiamati arresti non autorizza a
ritenere esclusa l’efficacia retroattiva della norma, ossia che essa nei
casi descritti non disponga per l’avvenire, ma giustifica solo il
superamento di tale limite, perché dal legislatore è ritenuto prevalente
l’interesse alla salvaguardia della moralità dell’organizzazione degli
organi di governo degli apparati pubblici.
In tal modo, i principi
espressi nella citate pronunce non consentono di risolvere in via
interpretativa anche i pregiudiziali problemi di compatibilità
costituzionale della normativa applicata al caso concreto, dal momento che
la vicenda sottoposta all’esame del Collegio riguarda un provvedimento di
sospensione adottato a seguito e per effetto di una condanna penale non
definitiva, non essendosi, quindi, in presenza di una pronuncia
irrevocabile come, invece, nei casi esaminati nei citati precedenti
giurisprudenziali; e che si tratti di una situazione del tutto diversa si
evince, non solo dai differenti effetti che conseguono, anche dal punto di
vista della disciplina penale, all’emanazione di una sentenza di primo
grado rispetto alla sua successiva condizione di irrevocabilità, ma anche
dal fatto che una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo
non autorizza l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di
indegnità morale che legittimi l’inibizione dell’accesso ad una carica
pubblica o la sua perdita, e ciò superando il divieto di retroattività,
anche nel diverso caso in cui si sia in presenza di una sentenza non
definitiva, laddove si osservi pure che quest’ultima interviene come prima
statuizione nell’ambito di un modello verticale del processo penale che
consta, nella sua dinamica ordinaria, di non meno di tre gradi progressivi
di giudizio.
I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 11 del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sulla violazione del divieto di
retroattività ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a
determinare la sospensione dalla carica, si fondano su due
presupposti.
Innanzitutto, vi è la natura sanzionatoria dell’istituto
della sospensione.
Come già rilevato, non è intendimento di questo
giudice disallinearsi dagli approdi a cui è giunta la giurisprudenza di
legittimità nella parte in cui ha individuato la ratio legis
nell’esigenza, fortemente sentita, di preservare, anche cautelativamente,
l’amministrazione pubblica, ai vari livelli considerati, dalla presenza e
partecipazione di chi si sia reso moralmente indegno (Corte Costituzionale
29 ottobre 1992 n. 407), sebbene ciò avvenga - non può negarsi – in base
ad una presunzione assoluta di inidoneità, in ragione del solo titolo del
reato, senza alcuna valutazione del fatto concreto giudicato, nemmeno dal
punto di vista dell’esame delle considerazioni poste dal giudice penale a
fondamento della condanna; scelta che, in verità, non consentirebbe di
assolvere la soluzione legislativa adottata da dubbi di legittimità
costituzionale, avuto riguardo all’omessa ricerca di un punto di
equilibrio sia rispetto al diritto di elettorato, attivo e passivo, sia
rispetto all’esigenza concreta ed effettiva di allontanare chi sia
“moralmente indegno”.
Su un distinto piano, s’intende rilevare che
riconoscere natura sanzionatoria, e comunque afflittiva, agli istituti
dell’incandidabilità, sospensione e decadenza non significa affatto negare
l’esistenza di ulteriori finalità, anche principali, che la disciplina
legislativa in esame pone a fondamento della propria giuridica esistenza;
d’altronde, non sono di certo sconosciuti all’ordinamento giuridico poteri
di regolazione, anche non normativi, che, implicando la valutazione di
diversi interessi intercettati, impongono al titolare di perseguire la
finalità avuta di mira, tuttavia modulandola con la necessità, imposta, di
tutelare posizioni con questa interferenti; tutela che può risolversi
attraverso la previsione di garanzie di tipo partecipativo o con
connotazioni specifiche del precetto sostanziale da applicarsi che tenga
conto - in ciò limitandosi - di specifiche prerogative del destinatario
del potere.
Da tale punto di vista, l’esigenza di immunizzare
l’amministrazione pubblica al fine di preservarne l’imparzialità
attraverso istituiti quali l’incandidabilità, la sospensione o la
decadenza da cariche, reca in sé l’immanenza di un conflitto, imponendo il
sacrificio del diritto di chi a quella carica aspira o ne è stato
investito.
E se attraverso l’automatica operatività della causa
limitativa il legislatore ha, di fatto, inteso azzerare il confronto
procedimentale, non può spingersi la sua discrezionalità fino al punto di
negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi
sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle
cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta.
A ben vedere, che si
tratti di misure afflittive è aspetto che non ha ignorato nemmeno il
legislatore delegato che nell’art. 15, secondo comma, nel prevedere
l’autonomia degli effetti dell’incandidabilità rispetto all’interdizione
temporanea dai pubblici uffici, mostra di averne assimilato l’identità
quoad effectum ed ancora nel comma successivo in cui ne ammette
l’estinzione a seguito di riabilitazione in sede penale, come remissione
degli effetti di un regime indiscutibilmente sanzionatorio.
Il secondo
presupposto, cui in parte si è già accennato, è costituito dall’efficacia
retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica, applicato in
presenza di una condanna penale non definitiva.
In disparte la
possibilità per il legislatore di dare giuridica rilevanza a fini
sanzionatori a fatti accaduti in un tempo anteriore rispetto all’entrata
in vigore della legge che li qualifica, è certo che la sospensione di un
amministratore da una carica per un fatto storicamente anteriore rispetto
alla sua elezione, così come anteriore ne è il provvedimento giudiziario
che a questo dà a tal fine rilevanza, costituisce, oggettivamente,
applicazione retroattiva della norma.
Ebbene, ritiene il Collegio che
l’applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non
penale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Costituzione, urta con
la pienezza ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente
garantiti, tutte le volte in cui la Carta rimette alla disciplina
legislativa il regime ordinario di esercizio di quel diritto; pertanto,
ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali
riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i principi
generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria; di
conseguenza, essendo il divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle
Disposizioni sulla Legge in Generale, uno dei principi su cui si fonda
l’efficacia della legge nel tempo, la sua violazione è anche violazione
del diritto che la Costituzione espressamente la chiama a disciplinare e
proteggere.
In questo senso, l’art. 51 della Costituzione nell’affidare
alla legge l’individuazione dei requisiti per l’accesso alle cariche
pubbliche, quindi la disciplina positiva per l’esercizio del diritto di
elettorato passivo, ciò consente nei limiti fisiologici entro i quali alla
legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente.
Si
aggiunge che la forza di tale assunto s’intensifica, tenuto conto del
primo dei citati postulati, ossia la natura sanzionatoria delle cause
ostative di cui al d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 - tra cui figura la
sospensione dalla carica applicata al ricorrente - attesa l’inderogabilità
assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi
in buona parte assimilabili alle sanzioni penali.
Ora, anche per
l’assenza di una norma transitoria, non è possibile in via interpretativa
al giudice del merito risolvere la questione della legittimità
costituzionale del superamento del limite costituito dal divieto di
retroattività della legge anche nell’ipotesi in cui la sospensione dalla
carica sia prevista in caso di condanna non definitiva; il dubbio di
compatibilità costituzionale concerne la sussistenza di un eccessivo
sbilanciamento in favore della previsione normativa di tale misura
cautelativa di salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica
rispetto all’ampio favor da riconoscersi alle facoltà di pieno esercizio
del diritto soggettivo di elettorato passivo di cui all’art. 51, primo
comma della Costituzione, da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2
della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni
democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo
comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione
sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi
dell’art. 4, secondo comma.
Conclusivamente, il Collegio ritiene
necessario sottoporre alla Corte Costituzionale questione incidentale di
legittimità costituzionale, rilevante ai fini della definizione del
giudizio a quo, dell’art. 11, primo comma, lettera a) del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235, in relazione all’art.10, primo comma lettera c) del
medesimo decreto legislativo perché la sua applicazione retroattiva si
pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97,
secondo comma della Costituzione.
Ai sensi dell’art.23, secondo comma
della legge 11 marzo 1953 n. 87 il giudizio è sospeso fino alla
definizione dell’incidente di costituzionalità.
Ai sensi dell’art.23,
quarto comma della legge 11 marzo 1953 n. 87 la presente ordinanza sarà
notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei
Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del
Senato della Repubblica.
Quanto all’istanza cautelare proposta dal
ricorrente, ai fini della cui compiuta delibazione la questione di
legittimità costituzionale sollevata anche assume piena rilevanza, al fine
di conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità
con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e
113 Cost.; art. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), il Collegio ritiene di
concedere una misura cautelare "interinale" (sentenze n. 444 del 1990, n.
367 del 1991; n. 30 e n. 359 del 1995; n. 183 del 1997, n. 4 del 2000;
ordinanza n. 24 del 1995 e n. 194 del 2006), fino alla camera di consiglio
successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte
costituzionale (Consiglio di Stato 26 ottobre 2011, ordinanza n. 4713); a
tal fine, sussistendo, allo stato, il fumus boni iuris relativamente al
quarto motivo di ricorso, essendo l’impugnato provvedimento prefettizio di
sospensione fondato su un’interpretazione dell’art.11 del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235 che si pone in contrasto con le richiamate norme
costituzionali, nonchè un pregiudizio grave ed irreparabile per le ragioni
del ricorrente, ascrivibile all’irrecuperabilità del tempo di mancato
esercizio della sua funzione di Sindaco di Napoli, deve essere disposta la
sospensione del provvedimento prefettizio impugnato fino alla ripresa del
giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale.
Le
spese della fase cautelare del presente giudizio saranno regolate
all’esito della camera di consiglio successiva alla risoluzione
dell’incidente di costituzionalità
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della
Campania (Sezione Prima)
Dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, primo
comma, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, in relazione
all’art.10, primo comma lettera c) del medesimo decreto legislativo perché
la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4,
secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione, per
le ragioni esposte in motivazione.
Accoglie provvisoriamente la
domanda cautelare e sospende provvisoriamente gli effetti dell’impugnato
provvedimento prefettizio fino alla camera di consiglio di ripresa del
giudizio cautelare successiva alla definizione della questione di
legittimità costituzionale.
Spese della presente fase da regolarsi
alla pronuncia definitiva del giudizio cautelare.
Dispone la
sospensione del presente giudizio e ordina l’immediata trasmissione degli
atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria
della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite
e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai
Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
La
presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata
presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione
alle parti.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del
giorno 22 ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Cesare
Mastrocola, Presidente
Paolo Corciulo, Consigliere, Estensore
Carlo
Dell'Olio, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 30/10/2014
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