REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Sabino CASSESE;
Giudici : Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO,
Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio
MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre
1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte
sui redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero
1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005),
promosso dalla Commissione tributaria regionale per il Lazio nel
procedimento vertente tra D.R. ed altra, in proprio e nella qualità di
associati dello “Studio legale Delfino” e l’Agenzia delle entrate,
Direzione provinciale di Viterbo, con ordinanza del 10 giugno 2013,
iscritta al n. 238 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno
2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2014 il
Giudice relatore Giancarlo Coraggio.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 giugno 2013 la
Commissione tributaria regionale per il Lazio ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo
periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in
materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato
dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre
2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005).
Oggetto del giudizio
sono tre avvisi di accertamento emessi in relazione all’anno d’imposta
2004, in relazione ai quali vi è l’accertamento del maggiore imponibile ai
fini IRPEF e IRAP basato sulla disposizione di cui all’art. 32, comma 1,
numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo risultante dopo le
modificazioni introdotte dall’art. 1 della legge n. 311 del 2004.
La
disposizione censurata così recita: «I dati ed elementi attinenti ai
rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma
del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai
sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26
ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle rettifiche e degli
accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non
dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto
ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse
condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse
rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto
beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i
prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od
operazioni».
2.– Le censure del giudice rimettente investono la seconda
parte della norma.
Rileva il giudice a quo che l’art. 1 della legge n.
311 del 2004, inserendo nel corpo di tale parte della disposizione le
parole «o compensi», ha esteso ai lavoratori autonomi l’ambito operativo
della presunzione in base alla quale le somme prelevate dal conto corrente
(così come quelle su questo versate) costituiscono compensi assoggettabili
a tassazione, se non sono annotate nelle scritture contabili e se non sono
indicati i soggetti beneficiari dei pagamenti.
La disposizione
censurata, se applicata agli anni d’imposta in corso o anteriori alla
novella legislativa, comporterebbe per i contribuenti professionisti un
onere probatorio imprevedibile e impossibile da assolvere, in contrasto
con l’art. 24 della Costituzione e con il principio di tutela
dell’affidamento richiamato dall’art. 3, comma 2, della legge 27 luglio
2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del
contribuente).
Essa violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., alla luce di
entrambe le letture di cui la norma è passibile: la prova contraria che
incombe sul contribuente o richiederebbe necessariamente anche la
giustificazione causale dei prelevamenti, così imponendo «un adempimento
aggiuntivo rispetto a quello rappresentabile sulla base di una lettura
piana del testo normativa»; oppure dovrebbe ritenersi soddisfatta «con la
mera indicazione del beneficiario, divenendo, però, tanto irrazionale
quanto inutile sul piano dell’accertamento dei maggiori redditi».
La
disposizione, se applicata a prelevamenti anteriori alla data di entrata
in vigore della legge n. 311 del 2004, lederebbe, inoltre, l’art. 111
Cost., in quanto con la legge del 2004 sarebbero stati introdotti effetti
«a sorpresa» a vantaggio dell’Agenzia delle entrate e a danno dei
contribuenti, con violazione del principio di parità delle
parti.
Infine, la presunzione in base alla quale le somme prelevate dal
conto corrente costituiscono compensi assoggettabili a tassazione
violerebbe il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.,
oltre che l’art. 3 Cost., e ciò in quanto per il reddito da lavoro
autonomo non varrebbero le correlazioni logicopresuntive tra costi e
ricavi tipiche del reddito d’impresa e il prelevamento sarebbe un «fatto
oggettivamente estraneo all’attività di produzione del reddito
professionale».
3.– Si è costituito in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, instando per la declaratoria di manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale.
La disposizione impugnata, in
primo luogo, non lederebbe il principio di capacità contributiva di cui
all’art. 53 Cost.
L’art. 1 della legge n. 311 del 2004, con riferimento
all’art. 32, comma 1, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, si sarebbe,
infatti, limitato a chiarire un dato già insito nella precedente
formulazione della norma, espressamente sancendo che la presunzione di
imponibilità delle operazioni di addebito/prelevamenti si applica anche ai
lavoratori autonomi. D’altro canto, tale presunzione sarebbe ispirata
dalla volontà del legislatore di valorizzare l’analisi, da parte
dell’ufficio accertatore, della maggiore capacità di spesa, comunque
manifestata e non giustificata dal lavoratore autonomo, e di correlare
tale maggiore capacità con le ulteriori operazioni attive anch’esse
effettuate presuntivamente “in nero”, nell’ambito della specifica attività
esercitata.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente,
inoltre, il fondamento economico-contabile sotteso al meccanismo
presuntivo, che si basa per le imprese prevalentemente sull’acquisto e
vendita di beni, sarebbe configurabile anche per i lavoratori autonomi.
Infatti, anche per esercitare attività professionali sarebbe necessario
l’acquisto di beni o comunque di servizi per rendere prestazioni, anche di
natura complessa.
Sussisterebbero, quindi, entrambi i presupposti di
legittimità costituzionale delle presunzioni in materia fiscale, e cioè
che l’indice noto da cui si desume il fatto ignoto sia «concretamente
rivelatore di ricchezza» (sentenza n. 283 del 1987) e che il «nesso
inferenziale risponda a regole di comune esperienza» (sentenza n. 109 del
1967).
Secondo la difesa dello Stato, peraltro, la norma potrebbe – e
dovrebbe – essere interpretata nel senso che soltanto movimentazioni di un
certo importo possono assumere valenza presuntiva, come confermato dalla
prassi applicativa dell’Amministrazione finanziaria e, in particolare,
dalla circolare 19 ottobre 2006, n. 32/E dell’Agenzia delle entrate,
Direzione centrale accertamento. Del resto, la presunzione de qua avrebbe
una ragionevole funzione deterrente mirando a indurre i professionisti, al
pari degli imprenditori, a prestare particolare attenzione a una coerente
rispondenza tra movimenti bancari, compresi i prelievi in conto corrente,
e registrazioni contabili.
Non sussisterebbe, inoltre, il denunciato
contrasto con l’art. 24 Cost. e con il principio di tutela
dell’affidamento. E ciò in considerazione del «diritto vivente»
consolidato in anni successivi all’entrata in vigore della disposizione de
qua, secondo cui la tesi contraria all’applicabilità della presunzione de
qua ai redditi da lavoro autonomo prima della modifica introdotta dalla
legge n. 311 del 2004 – pur essendo in astratto sostenibile, facendo leva
sul termine «ricavi» – avrebbe dato adito a forti sospetti di
incostituzionalità.
Proprio alla luce di tale consolidata
giurisprudenza sarebbe, infine, da escludere la denunciata violazione
dell’art. 111 Cost., tenuto conto dell’applicabilità della presunzione in
esame ai percettori di reddito da lavoro autonomo già in epoca anteriore
alla modifica di cui alla legge n. 311 del 2004. Non sarebbe quindi
ravvisabile un «ribaltamento dell’onere della prova, avvenuto con legge
successiva […] idoneo a provocare degli effetti “a sorpresa”», come
erroneamente paventato dal giudice a quo.
4.– In data 21 maggio 2014 il
Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria,
sostanzialmente ribadendo le proprie argomentazioni ed insistendo sulla
giustificazione della presunzione in esame, la quale mirerebbe a reprimere
l’evasione tanto del professionista che acquista beni o servizi in nero e
quanto del fornitore del professionista stesso.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 10 giugno 2013 la
Commissione tributaria regionale per il Lazio ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo
periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in
materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato
dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre
2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005).
La norma dispone che
i dati ed elementi trasmessi su richiesta (ex art. 32, comma 1, numero 7,
del d.P.R. n. 600 del 1973), rilevati direttamente (ex art. 33, commi 1 e
2, del d.P.R. n. 600 del 1973) ovvero nei controlli relativi alle imposte
sulla produzione o consumo [ex art. 18, comma 3, lettera b), del decreto
legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni
legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e
relative sanzioni penali e amministrative)] sono posti a base delle
rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 del
medesimo d.P.R. n. 600 del 1973, salvo che il contribuente dimostri che ne
ha tenuto conto nella determinazione dei redditi o che essi non hanno
rilevanza a tal fine. Prevede, poi, che i prelevamenti o gli importi
riscossi nell’ambito delle predette operazioni sono posti come ricavi o
compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti (e sono quindi
assoggettabili a tassazione), se il contribuente non ne indica i soggetti
beneficiari e sempreché non risultino dalle scritture contabili.
La
presunzione disciplinata da tale ultima parte della norma nella sua
originaria formulazione (limitata ai «ricavi») interessava unicamente gli
imprenditori, l’art. 1 della legge n. 311 del 2004 (inserendo anche i
«compensi») ne ha poi esteso l’ambito operativo ai lavoratori
autonomi.
1.1.– La questione sollevata si articola in due gruppi di
censure: uno – comprensivo della seconda (artt. 3 e 24 della Costituzione)
e della quarta censura (artt. 3 e 53 Cost.) – avente ad oggetto
l’estensione della inversione della prova e della presunzione de qua ai
compensi dei lavoratori autonomi; l’altro – comprensivo della prima (art.
24 Cost.) e della terza censura (art. 111 Cost.) – avente ad oggetto
l’applicazione retroattiva della norma agli anni di imposta precedenti
all’entrata in vigore della legge n. 311 del 2004.
Con riferimento al
primo gruppo di censure, il giudice rimettente argomenta la violazione del
principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., oltre che
dell’art. 3 Cost., rilevando che per il reddito da lavoro autonomo non
varrebbero le correlazioni logicopresuntive tra costi e ricavi
tipiche del reddito d’impresa e il prelevamento sarebbe un «fatto
oggettivamente estraneo all’attività di produzione del reddito
professionale», idoneo a costituire un «mero indice generale di spesa».
Inoltre, la norma censurata sarebbe «irrazionale» qualunque sia la lettura
ad essa data tra quelle possibili: o la prova contraria che incombe al
contribuente potrebbe ritenersi soddisfatta «con la mera indicazione del
beneficiario, divenendo, però, tanto irrazionale quanto inutile sul piano
dell’accertamento dei maggiori redditi» oppure – seguendo quanto sostenuto
dall’Amministrazione finanziaria – richiederebbe necessariamente anche la
giustificazione causale dei prelevamenti, così imponendo «un adempimento
aggiuntivo rispetto a quello rappresentabile sulla base di una lettura
piana del testo normativo».
Con riferimento al secondo gruppo di
censure, il giudice rimettente sostiene che la disposizione impugnata, se
applicata agli anni d’imposta in corso o anteriori alla novella
legislativa, comporterebbe per i contribuenti professionisti un onere
probatorio imprevedibile e impossibile da assolvere, in contrasto con
l’art. 24 Cost. e con il principio di tutela dell’affidamento, richiamato
anche nell’art 3, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212
(Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), nonché
con l’art. 111 Cost. per violazione del principio di parità delle
parti.
1.2.– A parere del Presidente del Consiglio dei ministri
sussisterebbero entrambi i presupposti di legittimità costituzionale delle
presunzioni in materia fiscale richiesti dalla giurisprudenza di questa
Corte, e cioè che l’indice noto da cui si desume il fatto ignoto sia
«concretamente rivelatore di ricchezza» (sentenza n. 283 del 1987) e che
il nesso inferenziale risponda a regole di comune esperienza (sentenza n.
109 del 1967). Del resto, il fondamento economico-contabile sotteso al
meccanismo presuntivo sarebbe configurabile anche per i lavoratori
autonomi, posto che anche per esercitare attività professionali sarebbe
necessario l’acquisto di beni o di servizi, al fine di rendere
prestazioni, anche di natura complessa.
Non sussisterebbe, poi, il
denunciato contrasto con l’art. 24 Cost. e con il principio di tutela
dell’affidamento o con l’art. 111 Cost., in considerazione del «diritto
vivente» consolidato in anni successivi all’entrata in vigore della
disposizione de qua, secondo cui l’applicabilità della presunzione in
esame ai percettori di reddito da lavoro autonomo derivava, già
anteriormente alla modifica di cui alla legge n. 311 del 2004, da
un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione
censurata.
2.– In via preliminare, va rilevata la inammissibilità della
seconda censura, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., alla
luce del carattere alternativo e ancipite della sua formulazione.
Il
giudice rimettente ha infatti sostenuto la natura irrazionale della norma
e la sua portata lesiva del diritto di difesa basandosi sulla doppia e
alternativa interpretazione che della disposizione può essere data, senza
sciogliere tale alternativa e senza porre le due interpretazioni in
rapporto di subordinazione logica. L’omissione conferisce carattere
ancipite alla prospettazione della censura, oltre a rendere perplessa la
motivazione sulla rilevanza, così determinando l’inammissibilità della
questione sollevata, sulla base della costante giurisprudenza di questa
Corte (ex multis, sentenze n. 280 del 2011 e n. 355 del 2010).
3.– Nel
merito la questione è fondata in riferimento alle censure di cui agli
artt. 3 e 53 Cost., con conseguente assorbimento di quelle relative agli
artt. 24 e 111 Cost.
4.– Anche se le figure dell’imprenditore e del
lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come
nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria
che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista
dalla disposizione censurata, alla cui stregua anche per essa il
prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta
produttivo di un ricavo.
Secondo tale doppia correlazione, in assenza
di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata
utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di
fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi
venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati.
Il
fondamento economico-contabile di tale meccanismo è stato ritenuto da
questa Corte (sentenza n. 225 del 2005) congruente con il fisiologico
andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla
necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri
ricavi.
L’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario, si
caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la
marginalità dell’apparato organizzativo. Tale marginalità assume poi
differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi,
sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura
intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni
liberali.
4.1.– Si aggiunga che la non ragionevolezza della presunzione
è avvalorata dal fatto che gli eventuali prelevamenti (che peraltro
dovrebbero essere anomali rispetto al tenore di vita secondo gli indirizzi
dell’Agenzia delle entrate) vengono ad inserirsi in un sistema di
contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la
categoria; assetto contabile da cui deriva la fisiologica promiscuità
delle entrate e delle spese professionali e personali.
4.2.– Peraltro,
l’esigenza di combattere un’evasione fiscale ritenuta rilevante nel
settore trova una risposta nella recente produzione normativa sulla
tracciabilità dei movimenti finanziari. Si pensi, da ultimo, al decreto
del Ministro dello sviluppo economico 24 gennaio 2014 (Definizioni e
ambito di applicazione dei pagamenti mediante carte di debito), che ha
dato attuazione all’art. 15, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012,
n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, della legge 17 dicembre 2012, n. 221, alla
cui stregua dal 1° gennaio 2014 vi è l’obbligo – sia pure sprovvisto di
sanzioni – di accettare pagamenti, di importo superiore a trenta euro,
effettuati con carte di debito in favore di imprese e professionisti per
l’acquisto di prodotti o per la prestazione di servizi.
La
tracciabilità del danaro, oltre ad essere uno strumento di lotta al
riciclaggio di capitali di provenienza illecita, persegue il dichiarato
fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale attraverso la
limitazione dei pagamenti effettuati in contanti che si possono prestare
ad operazioni “in nero”
5.– Pertanto nel caso di specie la presunzione
è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità
contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati
da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano
destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività
professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un
reddito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 32,
comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600
(Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui
redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1),
della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005),
limitatamente alle parole «o compensi».
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre
2014.
Depositata in Cancelleria il 6 ottobre
2014.