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n. 12-2014 - © copyright |
RAFFAELLO GISONDI
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Potere di pianificazione urbanistica
e libertà di stabilimento: le nuove regole del sistema alla luce del
diritto comunitario
1. Governo del territorio e processi di
liberalizzazione delle attività economiche; 2. Nuovi limiti al
potere di pianificazione urbanistica delle attività economiche; 3.
Necessità che i vincoli urbanistici incidenti sulla libertà di
stabilimento siano giustificati da motivi imperativi di interesse
generale: il problema della ammissibilità di vincoli a scopo
puramente economico; 4. Conseguenze derivanti dalla applicazione del
principio di proporzionalità.
1. Governo del
territorio e processi di liberalizzazione delle attività
economiche
In un epoca in cui la programmazione delle
attività economiche è entrata in una fase recessiva nella materia
del governo del territorio il modello della pianificazione è
sembrato, fino a tempi recenti, resistere senza troppi scossoni
all’onda delle liberalizzazioni.
Occorre domandarsi perché questo
è accaduto.
E’ intuitivo che le discipline che attengono al
governo del territorio perseguono interessi diversi da quelli
puramente economici e se producono limitazioni delle libertà
economiche lo fanno solo di riflesso e non perché la
regolamentazione del mercato ne costituisca l’oggetto.
A ciò si
aggiunga che il potere di pianificazione urbanistica è stato
tradizionalmente posto in correlazione con diritto di proprietà e,
quindi, inquadrato nel paradigma dell’articolo 42 della
Costituzione, mentre si è ritenuto che la disciplina delle attività
economiche incidesse sulla libertà di impresa che è, invece,
garantita dall’art. 41 della Carta[1].
Tutto questo può
aver indotto a pensare che l’urbanistica potesse rimanere immune dal
radicale mutamento che ha interessato lo stesso fondamento
costituzionale della disciplina delle attività economiche con
l’affermarsi delle norme del Trattato CE sulla concorrenza e la
libera circolazione delle, merci dei servizi e dei capitali.
Si
tratta, però, di una tesi che non può oggi essere condivisa.
Militano contro di essa due convergenti fenomeni.
Da un lato
l’urbanistica non si esaurisce, come in passato, nella mera
regolamentazione dell’attività costruttiva preordinata a dare ordine
all’incremento edilizio della città. Essa, attualmente, viene
comunemente considerata come potestà ordinatrice di tutti gli
interessi pubblici e privati che incidono sulla trasformazione e
sull’uso del territorio, interessi la cui disciplina è spesso
contenuta in piani di settore (poco importa se autonomi dal PRG o
con esso integrati) come, ad esempio, quelli relativi
all’insediamento delle medie e grandi strutture commerciali o per la
localizzazione degli impianti di distribuzione di
carburante[2].
Dall’altro i processi di liberalizzazione non
hanno inciso soltanto sulla disciplina dei mercati e della
concorrenza.
O meglio ciò è avvenuto nel periodo in cui la
normativa comunitaria (e, a cascata, quella interna) ha preso di
mira i regimi monopolistici che, un tempo, caratterizzavano il
settore dei servizi pubblici economici. Qui, in effetti, la
liberalizzazione si è risolta in una trasformazione dell’assetto dei
mercati avvenuta attraverso la eliminazione delle preesistenti
posizioni di monopolio legale e naturale e la loro sostituzione con
mercati concorrenziali regolati da autorità di settore.
In una
fase più recente l’attenzione delle istituzioni comunitarie si è
spostata sui servizi privati con l’obiettivo di dare piena
attuazione ai principi di libertà di stabilimento e libera
prestazione previsti dagli articoli 43 e 49 del Trattato CE. In
questo segmento la liberalizzazione non si è tradotta in una nuova
regolamentazione (sia pur in senso concorrenziale) dei mercati ma,
all’inverso, ha dato luogo ad un processo di progressiva
deregolamentazione delle attività economiche.
La svolta in questo
campo si è avuta quando la Corte di giustizia ha compreso
nell’ambito delle restrizioni alla libertà di stabilimento vietate
dall’art. 43 ogni provvedimento nazionale che, pur applicabile senza
discriminazioni in base alla nazionalità, possa ostacolare o
scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della
libertà di stabilimento garantita dal Trattato[3].
Il concetto
di restrizione elaborato dalla Corte di giustizia e recepito poi
dalla direttiva servizi n. 123 del 2006 (cd. “Bolkestein”) è,
perciò, quanto mai ampio: vi rientrano non solo le normative che
regolamentano direttamente il funzionamento di determinati mercati
(contingentando in via autoritativa l’offerta a fini
protezionistici) ma anche le discipline che limitano l’iniziativa e
l’esercizio delle attività di prestazione di servizi a scopo
meramente “precauzionale” per evitare che esse possano arrecare
pregiudizio ad interessi pubblici di carattere non
economico.
Nell’ambito di tali ampia nozione di restrizione
ricadono anche le previsioni urbanistiche che interessano in modo
specifico le attività produttive.
Ciò risulta espressamente
sancito dal considerando n. 9 della Direttiva Bolkestein laddove
afferma che le limitazioni poste allo sviluppo e l'uso delle terre
dalla pianificazione urbana e rurale, le regolamentazioni edilizie
non sono soggette alle regole comunitarie sulla prestazione di
servizi nel caso in cui non disciplinano o non influenzano
specificatamente l'attività di servizi, ma devono essere rispettate
dai prestatori nello svolgimento della loro attività economica, alla
stessa stregua dei singoli che agiscono a titolo privato. I piani
urbanistici, così come ogni altra disciplina dell’uso del
territorio, sono, invece, soggetti alle regole comunitarie qualora
contengano “requisiti che disciplinano specificatamente le attività
di servizi”
Quindi, se non possono considerarsi restrizioni alla
libertà di stabilimento le previsioni relative alle altezze alle
distanze agli indici edilizi che riguardino indistintamente tutte le
tipologie costrittive lo sono, invece, le prescrizioni specifiche
(spesso contenute in piani di settore) come quelle riguardanti
l’insediamento delle medie e grandi strutture di vendita, la
dislocazione degli impianti di distribuzione di carburante, le sale
cinematografiche e via dicendo.
2. Nuovi limiti al potere
di pianificazione urbanistica delle attività economiche.
Il
fatto che le prescrizioni dei piani urbanistici riguardanti in modo
specifico le attività economiche di prestazione di servizio debbano
essere considerate come restrizioni alla libertà di stabilimento
determina conseguenze di cui non si è ancora presa piena
consapevolezza.
La prima è che quando vengono in considerazione i
rapporti fra vincoli urbanistici e libertà di iniziativa economica
le categorie tradizionali di cui normalmente facciamo uso per
descrivere la natura e i limiti del potere di pianificazione
divengono del tutto inutili perché create in funzione della tutela
di un diritto diverso che è quello di proprietà.
Mi riferiscono
naturalmente alla distinzione fra vincoli conformativi ed
espropriativi.
I primi, come è noto, possono legittimamente
sacrificare il diritto di proprietà senza dar luogo ad indennizzo;
non per questo, tuttavia, possono indiscriminatamente limitare la
libertà di iniziativa economica.
E’ di immediata evidenza che
proprio i vincoli di zona, che secondo la giurisprudenza hanno
natura conformativa, nella misura in cui vietino o in qualunque
maniera limitino l’insediamento di medie o grandi strutture
commerciali, si risolvono in misure protezionistiche che
avvantaggiano gli esercizi già esistenti garantendo agli stessi la
conservazione di un bacino territoriale di utenza e proteggendoli
dalla pressione concorrenziale di nuovi operatori. Ed è questo un
esempio paradigmatico di situazione in cui la direttiva servizi e la
giurisprudenza della Corte di giustizia ravvisano una restrizione
alla libertà di stabilimento.
Andando più in profondità
bisognerebbe osservare che la stessa nozione di “conformazione” del
diritto è estranea al modo in cui il diritto comunitario guarda alle
libertà economiche.
Il potere di conformazione implica che il
legislatore o (con diversa intensità) una autorità amministrativa
dotata di un potere programmazione rispetto a determinate attività
possano plasmare la protezione di una libertà costituzionalmente
garantita coordinandola con altri interessi pubblici senza essere
limitati da uno schema superiore che stabilisca un rapporto di
prevalenza.
Un siffatto potere costituisce la conseguenza
diretta della garanzia attenuata che la nostra costituzione riserva
alle libertà economiche la quale, ferma restando la riserva di
legge, lascia alla normazione primaria ampi spazi di disciplina fino
ad arrivare addirittura alla loro funzionalizzazione rispetto ad
esigenze sociali o di pubblico interesse.
Il diritto comunitario
ragiona in tutt’altro modo: accorda alle libertà economiche una
garanzia rigida che non ne consente la conformazione ma solo la
limitazione necessitata da motivi imperativi di interesse
generale.
Ed è, appunto, questo lo schema che occorre adottare
per vagliare la coerenza della regolamentazione territoriale delle
attività produttive con le norme del Trattato sulla libertà di
stabilimento e prestazione di servizi e con la direttiva 123/2006
che ne costituisce una specificazione.
3. Necessità che i
vincoli urbanistici incidenti sulla libertà di stabilimento siano
giustificati da motivi imperativi di interesse generale: il problema
della ammissibilità di vincoli a scopo puramente economico
Il
diritto comunitario, infatti, ammette la adozione di misure
restrittive della libertà di stabilimento ad una duplice condizione:
che esse siano giustificate da motivi imperativi di interesse
generale e che vi sia un rapporto di proporzionalità ed adeguatezza
fra la misura restrittiva adottata e la finalità precauzionale che
essa tende a realizzare, rapporto che va escluso tutte le volte che
gli stessi risultati possano essere raggiunti attraverso strumenti
meno incisivi.
E’ interessante osservare quali sono le
conseguenze della applicazione dei predetti limiti alla disciplina
urbanistica.
Quanto al primo, non vi è dubbio sul fatto che
l’interesse generale alla protezione dell’ambiente e quello alla
razionale gestione del territorio rientrino, in astratto, fra i
motivi imperativi di interesse generale e, quindi, possano (sempre
in astratto) legittimare misure restrittive alla libertà di
stabilimento[4].
Tuttavia, secondo i citati orientamenti della
Corte di giustizia, i vincoli urbanistici restrittivi della libertà
di impresa possono essere giustificati da motivi imperativi di
interesse generale tanto e solo in quanto siano volti ad evitare o a
mitigare (secondo un criterio di proporzionalità) l’impatto che
l’insediamento delle attività economiche produce sul territorio. Per
esempio ad assicurare la necessaria dotazione di parcheggi a non
aggravare in modo eccessivo i flussi di traffico in una certa zona
etc.
Il discorso è diverso qualora i vincoli urbanistici che
interessano le attività produttive siano il risultato di valutazioni
di tipo economico; e cioè quando lo scopo perseguito non sia quello
di tutelare il territorio ma le imprese operanti sullo stesso (o
alcune tipologie di esse) introducendo, così, attraverso la
disciplina d’uso del territorio, forme di governo del
mercato.
Questa prospettiva non è estranea alla nostra
legislazione.
Il Decreto 114 del 1998 ha introdotto nell’ambito
della pianificazione urbanistica comunale relativa all’insediamento
delle medie e grandi strutture di vendita considerazioni di politica
economica, prevedendo che i comuni debbano recepire nei propri
strumenti urbanistici i criteri di sviluppo della rete commerciale
delle medie e grandi strutture elaborati in sede regionale, fra i
quali vi è anche quello (meramente economico) di assicurare un
equilibrato rapporto fra diverse tipologie di esercizi[5].
Sulla
scorta di tale previsione legislativa ci si è chiesti fino a che
punto il piano regolatore generale possa essere piegato a svolgere
funzione di programmazione economica tout court[6].
Ma, in
realtà, il problema attuale non è se i poteri di pianificazione
urbanistica e di programmazione del commercio debbano essere
esercitati mediante strumenti diversi o possano confluire in un
unico atto, ma se sia ancora ammissibile un potere di programmazione
economica nel settore dei servizi.
La risposta che ci offre il
diritto comunitario è che un sistema di contingentamento del numero
di imprese legittimate ad operare su un determinato mercato non è
ammissibile in quanto si risolva tout court in uno strumento di
regolazione autoritativa del rapporto fra domanda ed offerta[7] o in
quanto sia finalizzato a proteggere determinate tipologie di imprese
rispetto alla concorrenza che potrebbero subire da parte di
altre[8].
Una programmazione del tipo sopra considerato non può
più, quindi, considerarsi legittima[9] e non lo diviene per il solo
fatto di essere inserita nell’ambito di strumenti preordinati al
governo del territorio.
Certamente l’effetto della pianificazione
territoriale può essere quello di creare situazioni di saturazione
che impediscono l’ingresso di nuove tipologie di imprese in un
ambito territoriale ove ne operano altre, ma tale limitazione deve
risultare motivata da concrete ragioni di carattere ambientale o
attinenti la razionale gestione del territorio[10], risolvendosi,
altrimenti in una ingiustificata restrizione alla libertà di
stabilimento[11].
Anche una parte della giurisprudenza
amministrativa sembra aver preso atto della necessità di verificare
in concreto se le previsioni restrittive della libertà di impresa
contenute nei piani regolatori (o in strumenti di settore) siano
giustificate da motivazioni afferenti la salvaguardia del territorio
oppure abbiano uno scopo economico.
In tal senso deve segnalarsi
un orientamento del TAR Milano inaugurato dalla sentenza 2271 del
2013 la quale ha dichiarato illegittima una previsione di zona
contenuta nel PRG di un comune che escludeva in assoluto
l’insediamento di medie strutture di vendita dopo aver constatato
che la relazione di accompagnamento allegata alla variante con cui
essa era stata introdotta si fondava su considerazioni di carattere
meramente economico basate sul rapporto esistente fra popolazione ed
esercizi commerciali già attivi[12].
4. I limiti derivanti
dalla applicazione del principio di proporzionalità
Quello
deciso dal TAR Milano, tuttavia, era un caso limite perché, spesso,
le motivazioni di carattere economico non vengono palesate ma
rimangono sotto traccia.
Allora ai fini del controllo sulla
legittimità dei vincoli urbanistici restrittivi della libertà di
impresa appare di assai maggiore rilevanza il secondo limite che fa
capo al giudizio di proporzionalità sulla misura restrittiva.
Nel
vagliare la sussistenza di tale presupposto la Corte di giustizia è
molto rigorosa.
Innanzitutto essa pone a carico dello Stato
membro che fa valere un motivo imperativo di interesse generale per
giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento la
dimostrazione che la propria normativa è opportuna e necessaria per
il raggiungimento dell’obiettivo perseguito.
In secondo luogo la
Corte di giustizia ritiene che l’onere di motivazione non può
limitarsi ad una semplice enunciazione dello scopo di interesse
generale ma deve investire anche la necessità e la proporzionalità in concreto della misura adottata specie quando essa comporti
restrizioni di notevole portata.
Paradigmatico di questo
orientamento è il caso deciso con la già citata sentenza C- 400/2008
(Commissione Regno di Spagna) nel quale era stata portata innanzi
alla Corte una legge con la quale la regione Catalogna aveva
disposto il divieto di stabilire grandi esercizi commerciali al di
fuori dell’agglomerato urbano di 37 delle 41 province di cui essa si
compone, limitando, peraltro, in modo ragguardevole le superfici di
vendita per ogni provincia e comune in cui la apertura delle
strutture era consentita e prevedendo altresì una forte limitazione
anche dei generi di consumo commerciabili.
Qui la Corte pur
prendendo atto della astratta plausibilità delle motivazioni addotte
dal Regno di Spagna per giustificare tali restrizioni (tutela
dell’ambiente e razionale gestione del territorio[13]), ha tuttavia
osservato che il predetto Stato non aveva supportato le proprie
ragioni attraverso un’analisi approfondita che dimostrasse
l’opportunità e la proporzionalità delle misure restrittive
adottate.
Ma anche laddove lo Stato che ha introdotto le misure
restrittive abbia fornito una concreta motivazione la Corte non si
limita semplicemente a prenderne atto ed effettua essa stessa un
sindacato assai penetrante sulla effettiva necessità della misura
alla luce degli scopi enunciati.
Ad esempio quando si è trattato
di giudicare della legittimità della normativa italiana che
prescriveva distanze minime fra i distributori di carburante la
Corte di giustizia non ha accettato la giustificazione data dal
nostro governo secondo cui tali limitazione sarebbero state
giustificate da esigenze attinenti la sicurezza stradale, nonché di
tutela ambientale e della salute, ritenendo che tali esigenze ben
avrebbero potuto essere assicurate attraverso una valutazione
operata caso per caso dal Comune in sede di rilascio della
autorizzazione[14].
E’ evidente che si tratta di un sindacato
diverso ed assai più penetrante di quello che, fino a qualche anno
fa, la Corte Costituzionale era solita effettuare sulle leggi che
limitano il diritto di iniziativa privata il quale si fondava su un
semplice riscontro di ragionevolezza[15] degli intenti perseguiti
dal legislatore e non su un vaglio sulla loro concreta
proporzionalità rispetto alla restrizione imposta[16].
Va,
tuttavia, detto che, più di recente, la Corte Costituzionale,
sebbene nell’ambito del contenzioso sviluppatosi tra Stato e regioni
in ordine alle rispettive competenze legislative sulle materie della
concorrenza e del commercio, sembra aver assunto una maggiore
consapevolezza del rango assunto nell’ambito della scala dei valori
costituzionali dalla libertà di iniziativa economica e dal libero
mercato.
Assai significativa ai fini del tema qui trattato è la
sentenza n. 38 del 2013 con la quale la Corte Costituzionale ha
dichiarato illegittima una legge della Provincia autonoma di Bolzano
che escludeva la possibilità di insediare esercizi commerciali al
dettaglio nelle zone industriali. Qui il ragionamento della Consulta
appare interessante proprio perché sembra sconfessare la logica
della conformazione legislativa dei diritti a cui si era appellata
la Provincia autonoma di Bolzano affermando che nell’ambito della
sua potestà legislativa in materia di programmazione urbanistica
essa avrebbe potuto coordinare le esigenze della libertà di impresa
con altri valori costituzionalmente protetti come la conservazione
del patrimonio storico, artistico e popolare anche adottando divieti
del tipo sopra considerato. A questo ragionamento la Corte
Costituzionale ha infatti, replicato che il coordinamento fra
diversi valori non può giungere fino al totale sacrificio della
libertà di aprire esercizi al dettaglio in una determinata
zona.
Non appare, invece, coerente con il quadro sopra delineato
la giurisprudenza del giudice amministrativo che, muovendo dal
presupposto secondo cui le scelte espresse dall'Amministrazione
comunale nello strumento urbanistico generale sarebbero connotate da
amplissima discrezionalità, ritiene che l’imposizione dei vincoli
urbanistici non debba essere giustificata da una specifica
motivazione, salvo casi tassativamente individuati[17] fra i quali
non rientrano le previsioni che limitano l’esercizio del diritto di
impresa.
Le scelte che incidono sulla libertà di stabilimento
non sono, infatti, connotate da una discrezionalità così ampia da
non richiedere alcuna motivazione ma, costituendo restrizioni di una
libertà economica garantita a livello comunitario, devono essere
basate su motivi imperativi di interesse generale di cui l’autorità
deve dare adeguata evidenza.
Né è possibile ritenere che
l’inserimento di tali limitazioni in uno strumento preordinato alla
tutela del territorio costituisca di per sé una garanzia della loro
rispondenza ad esigenze imperative di carattere generale.
Come si
è detto, infatti, la Corte di giustizia richiede che l’autorità da
cui promana la restrizione non debba limitarsi ad enunciare la
finalità che persegue e pretende, inoltre che il rapporto di
adeguatezza fra la misura restrittiva e la finalità divisata non
debba essere vagliato in astratto secondo un criterio di mera
ragionevolezza ma in concreto in base ad un criterio di
proporzionalità.
Inoltre, non si vede come il giudice innanzi al
quale la disposizione contenente il vincolo urbanistico è impugnata
possa verificare se alla base della stessa vi siano motivazioni di
carattere economico (come pure richiede l’art. 1 del D.L. 1/2012) o
se essa sia effettivamente preordinata garantire la tutela della
salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente
urbano, e dei beni culturali (in ossequio a quanto dispone l’art. 31
del D.L. 201/2011).
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[1] Corte Cost., 23 giugno 1988 n. 709.
[2]
Forse con la sola eccezione di certi settori della c.d. new
economy (ad es. i servizi on line), lo svolgimento di
qualsiasi attività imprenditoriale incrocia necessariamente, in modo
più o meno inteso, il territorio (se non altro per quanto riguarda
l'ubicazione e l'uso dei locali in cui essa si svolge). È
pacificamente da ammettersi, perciò, che gli strumenti di
pianificazione urbanistica possano recare una disciplina che tocchi
anche le attività economiche, per lo meno in parte qua l'esercizio di queste ultime abbia una diretta incidenza
sull'assetto e l'uso del territorio (C. CAIA, Governo del territorio
e attività economiche, Dir. Amm., 2003 p. 707 e ss) .
[3] Fra le
tante si vedano le sentenze 14 ottobre 2004, causa C 299/02,
Commissione/Paesi Bassi punto 15, e 21 aprile 2005, causa C 140/03,
Commissione/Grecia, punto 27.
[4] Corte di Giustizia sentenze
C-347-08 e 400-08.
[5] La giurisprudenza ha ritenuto che tale
previsione legislativa sia volta a non duplicare la programmazione
dell'utilizzazione del territorio assegnando al Piano per gli
Insediamenti commerciali una funzione esaustiva di ogni esigenza sia
di carattere commerciale, sia di carattere urbanistico (Cons. Stato,
V, 11/04/2013 n. 1972).
[6] Dubitano che ciò sia possibile anche
dopo il D.Lgs. 114/98 A. LOLLI, “Pianificazione urbanistica,
interessi economici e pianificazione commerciale “reperibile su
www.cesifin.it e D.M. TRAINA Disciplina del commercio,
programmazione e urbanistica, in Riv. giur. ed., 2011, 124; opposta
tesi è sostenuta da CAIA op. cit.
[7] Tale principio è stato
recepito anche nella nostra legislazione interna da parte dell’art.
11 comma 1 lett. e) del D.Lgs 59/2010 nella parte in cui inserisce
fra i requisiti a cui le attività economiche di prestazione di
servizi non possono essere sottoposte quelli che prevedono
l'applicazione caso per caso di una verifica di natura economica che
subordina il rilascio del titolo autorizzatorio alla prova
dell'esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato,
o alla valutazione degli effetti economici potenziali o effettivi
dell'attività o alla valutazione dell'adeguatezza dell'attività
rispetto agli obiettivi di programmazione economica stabiliti. Sono
stati fatti salvi dal divieto solo i requisiti di programmazione che
non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi
imperativi d'interesse generale
[8] Si veda il punto n. 68 della
sentenza C-400/2008, Commissione europea contro Regno di Spagna nel
quale la Corte di giustizia considera la finalità di tutela dei
piccoli esercizi contro le ripercussioni che potrebbero derivare
dalla apertura delle grandi strutture come una restrizione che
necessita di essere giustificata da motivi diversi ed ulteriori
rispetto al semplice intento protezionistico.
[9] O meglio un
riparto territoriale di bacini di utenza viene ammesso dalla Corte
di giustizia limitatamente al servizio di distribuzione dei farmaci
perché se si lasciasse alle logiche del mercato la dislocazione dei
punti vendita, i residenti nelle zone in cui la loro apertura non è
economicamente appetibile risulterebbero sguarniti di un servizio
essenziale per la tutela della loro salute (si veda da ultimo la
sentenza della Corte di Giustizia5 dicembre 2013 n. C-159/12); ma è
evidente che si tratta di un modello non generalizzabile.
[10]
Sempre la sentenza C-400/2008 citata alla nota precedente ha ammesso
che restrizioni concernenti la localizzazione e la dimensione degli
grandi esercizi commerciali appaiono mezzi idonei a raggiungere gli
obiettivi di razionale gestione del territorio e di protezione
dell’ambiente, salvo, tuttavia, ritenere che, nel caso, specifico il
Regno di Spagna non avesse dimostrato la loro necessità e
proporzionalità rispetto alle finalità astrattamente enunciate.
[11] Indicazioni nel senso indicato nel testo si rinvengono
anche nella legislazione interna. In particolare, l’art. 1 comma 4
del D.L. 1/2012 prevede che regioni ed enti territoriali,
adeguandosi ai principi stabiliti dai commi precedenti, procedano ad
emendare i propri strumenti di pianificazione e programmazione
territoriale da quelle disposizioni che hanno finalità o contenuto
prevalentemente economico. Con specifico riguardo alla
pianificazione commerciale l’art. 31 del D.Lgs 201/2011 dispone,
analogamente, che nell’adeguarsi al principio secondo cui l’apertura
di nuovi esercizi commerciali sul territorio non deve essere
sottoposta a contingenti, limiti territoriali o ad altri vincoli di
qualsiasi altra natura, le Regioni e gli enti locali possono
prevedere, senza discriminazioni tra gli operatori, aree interdette
agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano
insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la
necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori,
dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali.
[12] Si veda anche Cons. Stato, Sez. V, 5912/08.
[13] In
particolare il Regno di Spagna aveva affermato che la limitazione
dell’insediamento delle grandi strutture nelle zone più densamente
popolate, dove la domanda è maggiore, avrebbe risposto all’esigenza
di concentrare in esse le esternalità negative derivanti dalla
presenza di tali strutture, come l’inquinamento, la necessità di
realizzare nuove strade, il degrado urbano, la necessità di
istituire nuove linee di trasporto pubblico, etc.
[14] Sentenza
C- 347/08, Atttanasio Group c. Comune di Carbognano.
[15] Sul
tema si veda il recente contributo di M. DELSIGNORE sul
Contingentamento della iniziativa economica privata, Milano, 2011 e,
in particolare pag. 56 ove si afferma che “il giudice
costituzionale, tradizionalmente tralascia la valutazione in ordine
alla proporzionalità della misura concretamente posta in essere e
individua nella tutela di taluni diritti di libertà e fondamentali
la giustificazione legittima per l’imposizione di ogni ragionevole
vincolo o limitazione all’iniziativa privata”. Un approfondito
scrutinio delle sentenze della Corte Costituzionale in materia di
iniziativa economica è contenuto nello scritto di M. RAMAJOLI, La
regolazione amministrativa dell’economia e la pianificazione
economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione.
[16] La Consulta ha in più occasioni affermato che ad essa
competerebbe solo identificare il fine sociale e la riferibilità ad
esso dei programmi e dei controlli mentre la determinazione concreta
della misura restrittiva sarebbe lasciata alla discrezionalità del
legislatore (Corte Cost. 135/98).
[17] Si ritiene che le
previsioni urbanistiche debbano essere motivate allorché le
classificazioni preesistenti risultino assistite da concrete
aspettative, fondate su un piano di lottizzazione stipulato o
da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione
edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto (Cons. Stato,
IV, 31/07/2014 n. 4042).
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(pubblicato il
2.12.2014)
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