Giustizia Amministrativa - on line
 
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n. 11-2014 - © copyright

 

NAZARENO SAITTA

Ricorso in unico grado al Consiglio di Stato in materia di appalti di opere pubbliche connesse a calamità naturali?

 

 


 

 

1. Il problema
Il titolo di queste note non vi sembri, lo spero, una bestemmia giuridica. Nessun sacrilegio, nessuna empietà degna di scomunica, lapidazione o, addirittura, rogo. Solamente la riemersione, coerente e convinta, di un pensiero al quale sono stato sempre fedele e che ho in ogni occasione espresso con la vaga/vana speranza di conseguire la conversione almeno di qualcuno.
Un pensiero, un’idea che mi sovviene adesso dopo tanti spettacoli miserandi cui si è stati costretti ad assistere all’indomani dell’ennesima alluvione (ligure o siciliana, non importa) con le costanti scontate accuse di inerzia dopo tante analoghe tristi evenienze del recente passato, che evidentemente nulla hanno insegnato alle autorità ai vari livelli preposte ai responsabili interventi preventivi o riparatori con le opportune urgenti opere pubbliche.
L’idea che vorrei riprendere cade acconcia per tentare di formulare una proposta che possa incontrare un minimo di attenzione non già per ottenere consensi personali né per suscitare o rinnovare nuove/vecchie dispute bizantine, ma con intenti pratici, ed è riaffiorata dall’ascolto di pretese giustificazioni delle autorità accusate di inadempienza, solitamente basate sull'impossibilità di concretamente operare dovuta ad… inammissibili e deprecabili interventi, in termini di misure cautelari di tipo sospensivo, da parte di incauti giudici amministrativi che, alla faccia di chi li vorrebbe sopprimere, continuano ad accogliere ricorsi proposti da egoisti imprenditori partecipi di gare pubbliche nella speranza di trattamenti corretti ed imparziali e che invece si permettono di segnalare le magagne riscontrare ed i torti subiti; “depravati” ricorrenti adesso quasi costretti ad invocare il pubblico perdono per il malfatto compiuto, cioè per avere abusato del sacrosanto diritto di reclamare avverso le malefatte riscontrate.
Mancando, almeno per il momento, il coraggio (l’intenzione ci sarebbe, e non soltanto da parte degli attuali vertici governativi) di sopprimere la giustizia amministrativa o, quanto meno, di esautorarne i poteri in alcuni settori “sensibili”, un primo concreto tentativo di attenuare il “fastidio” che questa causa è stato compiuto rimodellando il processo amministrativo relativo agli appalti pubblici, dapprima con il decreto legge n. 90 dello scorso giugno e, quindi, molto più incisivamente, con la relativa legge di conversione n. 144 di agosto.
Le reazioni, a livello dottrinale e giurisprudenziale (o “misto”), sono state pronte, a volte anche senza la pazienza di attendere la pur imminente e calendarizzata scadenza bimestrale della conversione del decreto legge. Reazioni variamente ispirate, indirizzate e finalizzate.
Nessuna segnalazione mi pare però sia stato dato rilevare per segnalare la sostanziale inutilità pratica degli sforzi di questi novelli Sisifo, senza tentare la più conducente strada di una soluzione speciale di questo speciale problema di questa speciale materia, senza generalizzazioni che hanno sempre risultati sconvolgenti di un sistema di guarentigie che non può valere per tutta la materia degli appalti pubblici, e non soltanto di questa.
Basterebbe, in sostanza, differenziare una volta per tutte la tutela giudiziaria soltanto per questo particolare settore degli appalti. Naturalmente, per via legislativa e con ben precisi paletti che ne delimitino l’area di applicazione.
Si tratterebbe di emanare una leggina che preveda l’impugnabilità degli atti terminali dei procedimenti amministrativi di scelta del contraente direttamente davanti al Consiglio di Stato, scavalcando quindi il giudizio del tar, che proprio in quanto giudice (solo) di primo grado, non può fornire che decisioni (cautelari o di merito) provvisorie ancorché immediatamente esecutive, e sotto l’incombenza della spada damoclea di un giudizio di secondo grado e con la possibilità di ritorni al giudice di prime cure e così via, teoricamente all’infinito.
Naturalmente, va subito precisato che non occorrerebbe una legge di rango costituzionale, poiché basterebbe una legge ordinaria, quindi, di agevole e celere adozione, potendosi prescindere dagli accordi parlamentari necessari per raggiungere il relativo quorum e/o da doppie letture per entrambe le camere.
Questo perché non sussiste alcun parametro costituzionale da superare, tale non essendo la previsione di cui al comma 2 dell’art. 125 Cost.
Ed è proprio da tale premessa concettuale che queste brevi note hanno dichiaratamente preso le mosse, potendosi e dovendosi una buona volta dismettere il vecchio pregiudizio della pretesa garanzia costituzionale del doppio grado di giurisdizione nella giustizia amministrativa.
Il che ci costringe a ritornare al nostro vecchio “pallino” dell’inesistenza di un siffatto limite costituzionale al di fuori della stretta ipotesi di ricorsi legislativamente costretti ad essere rivolti ai tar: si allude al fatto che, essendo questa magistratura prevista come organo di giustizia amministrativa di primo grado dalla citata disposizione costituzionale, deve sempre essere assicurata una tutela di secondo grado (a meno, ovviamente, di una revisione costituzionale.
Ricordiamo, me lo si consenta, di riprendere le fila di un discorso vecchio (per me, almeno) di decenni.

2. Una querelle ormai ammuffita
Non può essere ignorato che, per il fatto che l’appellabilità delle sentenze dei t.a.r. trova fondamento in una norma costituzionale, si era abitualmente dato per assodato, tanto nella giurisprudenza, sia costituzionale che amministrativa, quanto nella dottrina, il postulato che la Carta garantirebbe, sempre e comunque, il doppio grado di giurisdizione nella giustizia amministrativa.
Non risultano, tuttavia, considerati almeno due profili. L’uno riguarda la domanda, che dovrebbe sorgere spontaneamente, circa le ragioni per le quali il Costituente avrebbe voluto garantire il doppio grado di giurisdizione solamente per la giustizia amministrativa e non anche per quella civile e per quella penale, dato che, mentre questi ultimi due tipi di tutela giudiziale vantavano una tradizione legislativa ed applicativa di lungo corso, la giurisdizione amministrativa presentava contorni non ancora ben definiti, sia perché gli interessi sottesi alla tutela giudiziale ordinaria (civile e penale) non apparivano di rango deteriore rispetto agli interessi legittimi, la cui tutela (a parte i casi di giurisdizione esclusiva) formava e forma il contenuto essenziale della giustizia amministrativa, sia perché, a parte la conservazione dei tradizionali organi di giustizia amministrativa (Consiglio di Stato e Corte dei conti), anche per gli «altri organi di giustizia amministrativa» (pur richiamati dall’art. 103 Cost.) si era programmata una pronta revisione per bonificare il campo della giustizia amministrativa da ogni residuo di giurisdizioni speciali ormai costituzionalmente incompatibili (VI Disp. trans. e fin. Cost.).
L’altro profilo trascurato è di tipo sistematico, avuto riguardo alla topografia della Carta, dove tutte le disposizioni concernenti la magistratura risultano collocate sotto il Titolo IV di omonima intitolazione, mentre l’art. 125, comma 2, che viene invocato come base costituzionale del doppio grado della giurisdizione amministrativa, fa parte del Titolo V dedicato alle autonomie locali. Al che si aggiunga che di «organi di giustizia amministrativa di primo grado» l’art. 125 parla solamente nel secondo (ed ormai unico dopo la soppressione del primo) comma, quasi si trattasse di una disposizione di secondaria importanza rispetto alla materia trattata nel comma precedente (che era dedicato, invece, ai controlli sugli atti amministrativi del nuovo ente regione. Sarebbe che una disposizione così innovativa in materia giurisdizionale quale la previsione di un nuovo importantissimo ufficio giudiziario e l’affermazione, sia pure indiretta (ma ugualmente esplicita: non si può parlare di primo grado se non ce n’è... almeno un secondo), di una garanzia costituzionale di un doppio grado di giurisdizione fosse collocata nel Titolo V, anziché in quello precedente assieme a tutte le altre disposizioni costituzionali concernenti la materia giudiziaria.
Chi scrive ha sempre avuto la sensazione che il legislatore del 1971, con la creazione di un giudice amministrativo quale il t.a.r., sia andato ben oltre le intenzioni dello stesso Costituente. Basta scorrere gli atti dell’Assemblea per avvedersi che mai e poi mai si era consapevolmente programmata una rivoluzione così epocale della giustizia amministrativa, tale essendo l’istituzione di un giudice amministrativo a competenza generale, competente cioè a conoscere di tutti gli atti amministrativi, anche di provenienza statale, e la previsione, come unicum, di una giurisdizione a doppio grado costituzionalmente garantito.
In verità, come si legge proprio nella disposizione in esame, l’organo di giustizia amministrativa di primo grado veniva istituito «nella Regione», con un sostantivo in maiuscolo (art. 125, comma 2, Cost.) chiaramente indicativo del nuovo ente appena creato e non di una località geografica, con la conseguente probabilità che, se questa nuova dimensione autarchica non fosse stata creata, non sarebbe nato alcun nuovo organo di giustizia amministrativa. Compito di quest’ultimo sarebbe stato quello, complementare rispetto all’oggetto del comma 1 dell’art. 125, di completare il quadro dei controlli (amministrativo e giurisdizionale) sul nuovo tipo di atto amministrativo che di lì a poco sarebbe stato emesso dal nuovo apparato amministrativo di secondo livello.
La previsione di un doppio grado di giurisdizione non aveva altra giustificazione se non l’intento di garantire, attraverso la giurisprudenza di un organo giudiziario di grado più alto ed unico, un’uniformità di trattamento processuale e di indirizzo giurisprudenziale di fronte alla variegata gamma di atti amministrativi provenienti da una ventina di regioni e di altrettanti organi di giustizia amministrativa (sezioni staccate a parte).
La dottrina più attenta ha messo in discussione la precedente tralatizia tesi della c.d. costituzionalizzazione del principio del doppio grado di giurisdizione amministrativa, nonostante alcune non univoche pronunce della Corte costituzionale (dal 1975 al 1982) per la quale il principio della costituzionalizzazione del doppio grado, per la “giustizia amministrativa ordinaria” trovava un suo specifico avallo testuale nel comma 2 dell’art. 125 Cost., trascurando di considerare che nessun’altra norma costituzionale indica il Consiglio di Stato come giudice solo di secondo grado.
Bene Travi quando affermava che la norma di cui all’art. 125, comma 2, Cost. «era stata pensata per assicurare l’istituzione di un giudice amministrativo periferico, su base regionale, anche come elemento di garanzia e di equilibrio dei poteri riconosciuti dalla Costituzione alle regioni ed alle autonomie locali: le problematiche relative al doppio grado di giurisdizione erano estranee a una prospettiva del genere».
Aggiungemmo noi che ad una prospettiva del genere era anche estranea l’idea di un giudice periferico a competenza generale.
E sostenevamo che forse un doppio grado di giurisdizione, costituzionalmente garantito, avrebbe dovuto e potuto riguardare solamente le sentenze del t.a.r. emesse sui ricorsi proposti avverso gli atti delle regioni e degli enti locali in genere, e non anche i giudizi aventi ad oggetto atti di amministrazioni statali o superregionali, per i quali non si sarebbe posta l’esigenza di assicurare un’unicità di indirizzo giurisprudenziale, dato che anche a livello di Consiglio di Stato la pluralità di sezioni non aveva mai creato grossi inconvenienti. Sicché, al limite, in via puramente teorica, lo stesso legislatore ordinario ben avrebbe potuto restaurare la vecchia competenza del Consiglio di Stato come giudice di unico grado per le impugnazioni promosse contro provvedimenti di autorità statali governative o indipendenti, senza operare alcuna forzatura del dato costituzionale.
Non sono d’accordo, quindi, con chi (Zito) giunge ad attribuire al principio del doppio grado «valore di principio costituzionale», con la conseguenza che ormai «il Legislatore non potrebbe tornare ad un sistema privo della suddetta garanzia senza con ciò violare il dettato costituzionale».
La rilevanza del principio del doppio grado di giurisdizione è stata poi nuovamente posta alla ribalta dalla stessa giurisprudenza alla luce del Codice. Se n’è parlato con riferimento al problema della proponibilità di motivi aggiunti in appello e dell’ammissibilità della formulazione davanti al Consiglio di Stato di domande risarcitorie afferenti a giudizi di ottemperanza. Orbene, in questi casi si è scorto il «venir meno proprio della regola basilare del doppio grado di giudizio” se la domanda risarcitoria autonoma viene sottoposta direttamente alla cognizione del Consiglio di Stato», mentre «il superamento della regola del doppio grado può essere autorizzato solo da un’esplicita norma in tal senso che in atto non esiste né è stata posta nel recente C.P.A.» (Cons. Stato, Sez. III, 5 maggio 2011, n. 2693), con ciò implicitamente ammettendosi la correttezza costituzionale di un norma di rango ordinario che, escludendo la rilevanza di questo presunto principio se non in presenza di una sentenza di tar, prevedesse un unico grado di giurisdizione su ricorsi proposti in materie particolarmente “sensibili”.

3. Verso una soluzione
Fissazioni a parte, sinceramente non vediamo seri motivi che inducano ad escludere la soluzione prospetticamente adombrata, che, come non potrebbe essere fondatamente sospettata di illegittimità costituzionale, così non lederebbe in alcun modo il diritto alla tutela giurisdizionale (questo sì costituzionalmente garantito, ma non necessariamente e sempre con il riconoscimento di un doppio livello), mentre realizzerebbe in concreto le esigenze di celerità in materia di appalti di opere pubbliche di recente prospettate (ma sinora sterilmente tutelate), senza peraltro sconvolgere quel giudizio “accelerato” previsto dall’art. 119 c.p.a. (come hanno di recente fatto decreto n. 90 e legge n. 114), la cui liturgia ben potrebbe essere mantenuta nell’auspicato unico grado di giudizio affidato ad un organo di sicuro unitario affidamento.
Non va dimenticato, peraltro, che, come si dice de iure condito, oggi come oggi, specie per gli appalti di notevole livello economico, al Consiglio di Stato il contenzioso ci arriva comunque, sicchè tanto vale che ciò accada senza l’intermediazione dei t.a.r.
Ci proviamo?

 

(pubblicato il 5.11.2014)

 

 

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