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n. 10-2014 - © copyright |
MARIA CRISTINA CAVALLARO
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L’obbligo di conclusione del
procedimento nella disciplina degli appalti pubblici, tra garanzie della
trasparenza e tutela dei privati
Sommario: 1. Trasparenza e obbligo
di conclusione del procedimento. - 2. Conclusione del
procedimento e scelta del contraente nei contratti pubblici. -
3. Alcuni punti dubbi. - 4. Le soluzioni
possibili.
1. Trasparenza e obbligo di conclusione
del procedimento
La legge 6 novembre 2012, n. 190, in
tema di prevenzione del fenomeno corruttivo nella pubblica
amministrazione, ha introdotto una serie di modifiche alla legge 7
agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo, per assicurare
la massima trasparenza della pubblica amministrazione, sia sotto il
profilo dell’organizzazione, sia con riferimento all’azione
amministrativa[1]: l’idea che ha animato l’intervento riformatore è
che la trasparenza amministrativa possa costituire un valido
antidoto contro il dilagare della corruzione[2].
Il principio di
trasparenza amministrativa ha subìto negli ultimi venti anni una
significativa evoluzione, sintetizzabile in alcune tappe
fondamentali. Prima dell’entrata in vigore della legge n. 241, la
trasparenza era stata oggetto di un dibattito dottrinale, ma non era
specificamente positivizzata dal nostro legislatore[3]. In un
secondo momento, la l. n. 241 del 1990 ha individuato, tra i
principi generali dell’azione amministrativa, il principio di
pubblicità, tradizionalmente qualificato come species del più
ampio genus della trasparenza[4]. Solo a partire dal 2005
(con la l. n. 15/2005, di riforma della l. n. 241, il coevo codice
dell’amministrazione digitale, la legge n. 150/2009, con i
rispettivi decreti attuativi, e da ultimo la l. n. 190/2012) il
principio di trasparenza è stato oggetto di esplicita disciplina
normativa ed è stato assunto come cardine delle riforme appena
richiamate, nella prospettiva di assicurare una maggiore visibilità
del potere pubblico, al fine di garantirne una dimensione più
partecipata e imparziale[5].
Tra le novità introdotte dalla
citata l. n. 190 del 2012, merita di essere ricordato l’obbligo
della pubblica amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento
espresso anche nel caso in cui l’istanza del privato sia
manifestamente infondata o irricevibile: ai sensi dell’odierna
formulazione dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, «se ravvisano la
manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono
il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma
semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico
riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo»[6].
L’amministrazione, cioè, non solo ha il dovere di concludere il
procedimento entro un termine certo, ma deve altresì pronunciarsi
con un provvedimento espresso, in modo da assicurare la trasparenza
del proprio operato.
Al riguardo può preliminarmente osservarsi
come la scelta legislativa abbia contraddetto, nei fatti, la
giurisprudenza formatasi a partire dal 1990 sull’obbligo di
provvedere, che aveva colto nell’incipit della disposizione
in esame («ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una
istanza le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo
mediante l’adozione di un provvedimento espresso») il principio per
cui non tutte le istanze fondano l’obbligo giuridico di provvedere.
Tra queste, sempre secondo la giurisprudenza, le istanze volte a
richiedere il rilascio di un provvedimento altamente discrezionale o
le semplici denunce[7].
Si aggiunga che già nella riforma dei
reati contro la p.a. del 1990 (legge 26 aprile 1990, n. 86), con la
riformulazione del delitto di rifiuto e omissione di atti d’ufficio
(art. 328 c.p.), si era marcata la rilevanza penale dell’omissione
dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento
espresso[8]. Sul punto, non pochi dubbi sono sorti in ordine a
quelle ipotesi qualificate dalla legge come silenzio diniego, in
cui, cioè, il silenzio dell’amministrazione produce i medesimi
effetti di un esplicito provvedimento di diniego dell’istanza
presentata dal privato.
Si pensi in particolare all’art. 25
della l. 241 del 1990 che, in tema di diritto di accesso ai
documenti amministrativi, dispone, come si ricorderà, che l’istanza
si intende negata, se il funzionario non si pronuncia entro trenta
giorni dalla presentazione[9]. In tal caso, sebbene la
giurisprudenza amministrativa sia pressoché unanime nel qualificare
il silenzio serbato a fronte di un’istanza di accesso quale silenzio
diniego[10], nell’orientamento della giurisprudenza della Corte di
Cassazione, il silenzio dell’amministrazione in tema di accesso ai
documenti va qualificato come «una mera fictio juris»,
accolta nell’ordinamento al fine di individuare con certezza il
momento a partire dal quale il cittadino può rivolgersi al giudice
amministrativo per ottenere l’esibizione del documento richiesto.
«Una tale fictio juris vale solo ai fini amministrativi e non
pregiudica la possibilità di valutare la condotta omissiva illecita
del pubblico ufficiale che non abbia provveduto sulla richiesta del
privato», con la conseguenza che, ai fini penali, il pubblico
ufficiale può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’art.
328 c.p.[11]. L’orientamento appena riferito, va da sé, ha come
presupposto la qualificazione dell’inerzia come mero fatto, e non
come atto, poiché altrimenti la soluzione sarebbe opposta[12].
Ad
ogni modo, nella prospettiva del legislatore degli anni novanta, il
mancato rispetto del termine o, più in generale, l’inadempimento
dell’obbligo di provvedere esponevano (e tutt’ora espongono) il
funzionario ad una responsabilità penale per il delitto di rifiuto o
omissione d’atti d’ufficio. Non v’era allora una specifica evidenza
in ordine alla possibilità che l’omissione del funzionario potesse
esporre l’amministrazione ad un maggior rischio di corruzione[13].
Detto diversamente, non era maturata la convinzione che un obbligo
di provvedere “accentuato” potesse contribuire alla prevenzione del
fenomeno corruttivo.
La dottrina, in vero, già da tempo ha
affermato che l’ampiezza della discrezionalità amministrativa è
idonea ad incidere sulla prevenzione o diffusione della
corruzione[14]. Nel senso che quanto più ampio è l’ambito della
discrezionalità amministrativa, tanto maggiore potrà essere la
possibilità per la stessa amministrazione di cedere alle
sollecitazioni del privato “corruttore”, o di esercitare delle
pressioni su potenziali “concussi”[15].
Se si guarda alla
modifica introdotta dalla l. n. 190/2012, l’amministrazione non può
più rimanere inerte dinnanzi ad un’istanza che ritiene
manifestamente infondata, ma deve comunque pronunciarsi con un
provvedimento espresso. Sotto tale profilo, la previsione
dell’obbligo di provvedere anche rispetto alle istanze
manifestamente infondate non incide sull’ampiezza della
discrezionalità (c.d. quid o quomodo), ma unicamente
sul potere di pronunciarsi o meno sull’istanza medesima (c.d. an) [16].
La disposizione in esame è stata oggetto di
taluni rilievi critici[17], originati in parte da dall’effettivo
impatto della stessa sulla prevenzione della corruzione, in parte da
ulteriori profili problematici. Ci si è chiesto se possa essere
definito provvedimento un atto che non cura alcun interesse
pubblico, ma si limita a spiegare al privato perché l’istanza non
può essere accolta e, quindi, perché il procedimento non può essere
avviato e il provvedimento (quello vero) non può essere
adottato[18]. S’è segnalato il rischio di aggravare l’attività
amministrativa con l’onere di dare una risposta sempre e comunque,
anche al privato che presenti istanze irragionevoli e
infondate[19].
Al di là delle osservazioni svolte, è possibile
acquisire un dato come certo: e cioè che la previsione di un termine
entro cui provvedere e la necessità di un provvedimento espresso (o
di una risposta certa) rappresentano, oltre che principi ormai
irrinunciabili dell’agire amministrativo, perché posti a presidio
del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica
amministrazione, anche principi di garanzia in un’ottica di
prevenzione del fenomeno corruttivo.
Lo è sicuramente la
previsione del termine entro cui provvedere, perché riduce gli spazi
della discrezionalità amministrativa; lo è, con buona probabilità
(quantomeno nelle intenzioni del legislatore e nonostante i dubbi
avanzati), la previsione di dare una risposta certa, anche nel caso
d’istanza manifestamente infondata, che sia idonea ad escludere (o
ridurre) la possibilità di dilatare oltre misura il procedimento
amministrativo.
2. Conclusione del procedimento e
scelta del contraente nei contratti pubblici
Se questi sono
principi ispiratori della riforma, la disciplina contenuta
nell’odierno art. 2 della l. n. 241 del 1990 solleva ulteriori dubbi
interpretativi se messa in relazione con la disciplina dei contratti
pubblici, in particolare con la previsione contenuta all’art. 11 (e
in parte al successivo art. 12) del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163
(c.d. Codice dei contratti pubblici), che scandisce le fasi della
procedura di affidamento dei lavori.
La materia dei contratti
della pubblica amministrazione rappresenta da sempre un terreno di
confronto tra diverse posizioni dottrinali. Tra chi, ad esempio,
ritiene che l’intera attività contrattuale sia riconducibile
all’esercizio del potere amministrativo, sicché anche la
manifestazione di consenso da parte del privato è necessaria per la
realizzazione dell’interesse pubblico[20]; e chi invece riconduce la
stessa attività nell’ambito dell’autonomia contrattuale
dell’amministrazione, il cui fondamento risiede nell’art. 1322
c.c.[21]
Pur nella diversità delle posizioni espresse, gli
orientamenti citati trovano ugualmente la loro composizione nel
distinguere, all’interno dell’attività contrattuale, una fase
pubblicistica, di scelta del contraente, che culmina con
l’aggiudicazione del contratto; e una fase privatistica, che
consiste nell’esecuzione del contratto e che si apre con la
stipulazione dello stesso[22].
L’art. 11 del codice dei contratti
si sofferma sulle modalità di svolgimento della fase pubblicistica,
rinviando ad apposita disciplina l’esecuzione del contratto.
La
norma richiamata scandisce le modalità di svolgimento delle
procedure per l’affidamento dei contratti ad evidenza pubblica,
prevedendo una serie di fasi piuttosto articolate, all’interno delle
quali è tuttavia possibile individuare alcuni passaggi essenziali:
la determinazione a contrarre, la scelta del contraente,
l’aggiudicazione (prima provvisoria, poi definitiva) e la
stipulazione del contratto.
Si tratta di un procedimento con
un’innegabile diversità di struttura rispetto al tradizionale
procedimento amministrativo, ma nel quale è possibile cogliere
alcuni tratti con esso in comune.
L’amministrazione, nell’ambito
della programmazione svolta, adotta la c.d. determinazione a
contrattare (art. 11, comma 2), ove devono essere indicati gli
elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli
operatori economici e delle offerte. La determinazione a contrattare
serve a garantire che la realizzazione dei contratti da parte
dell’amministrazione avvenga nel rispetto dei vincoli di bilancio e
del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[23] e nello
stesso tempo assolve alla funzione di far emergere l’interesse
pubblico la cui realizzazione il contratto tende ad assicurare e,
insieme al bando, dà avvio alla procedura di gara[24].
Il
privato non presenta un’istanza di avvio del procedimento, bensì
un’offerta (art. 11 comma 6) e non più di una, alla quale rimane
vincolato per tutto il tempo previsto dal bando, ovvero, se non è
previsto alcun termine, per centottanta giorni, che decorrono dalla
scadenza del termine di presentazione dell’offerta; e la stazione
appaltante ha il potere di chiedere il differimento del predetto
termine. Tale vincolo permane anche dopo l’adozione
dell’aggiudicazione definitiva e per tutto il periodo di tempo
fissato dal comma 9 dell’art. 11. Il comma 7, infatti, ha cura di
precisare che l’aggiudicazione definitiva, una volta adottata, non
vale come accettazione dell’offerta, sicché il contratto non è
ancora concluso e quindi non è vincolante per l’amministrazione, ma
il privato continua ad essere legato all’offerta a suo tempo
presentata.
Per mantenere una simmetria con la tradizionale
struttura del procedimento, si potrebbe dire che, a seguito della
presentazione dell’offerta da parte del privato, si apre una fase
istruttoria, nella quale l’amministrazione seleziona la migliore
offerta, secondo uno dei criteri previsti dal codice[25]. Una volta
selezionata la migliore offerta, la stazione appaltante dichiara a
favore del migliore offerente l’aggiudicazione provvisoria, che
secondo la giurisprudenza ha natura di atto endoprocedimentale e sul
quale l’amministrazione esercita un potere di controllo mediante
approvazione.
Completata l’istruttoria con l’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria[26], nella fase finale, che coincide
con la fase decisoria, l’amministrazione provvede ad aggiudicare
definitivamente l’offerta, fermo restando che è altresì possibile
che non si proceda all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti
conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto (art. 81
comma 3) [27].
L’atto culminante della procedura di gara è
l’aggiudicazione definitiva, che quindi costituisce il provvedimento
che chiude il procedimento amministrativo di scelta del contraente.
L’aggiudicazione, cioè, non comporta la conclusione del contratto,
perché, come detto, il codice dei contratti pubblici espressamente
esclude che l’aggiudicazione implichi un’accettazione dell’offerta.
Essa quindi non è vincolante per l’amministrazione, ma produce
l’effetto di mantenere vincolato il privato all’offerta a suo tempo
presentata, sino alla stipulazione del contratto, che deve avvenire
non prima che siano trascorsi trentacinque giorni
dall’aggiudicazione definitiva (c.d. standstill, o termine
dilatorio), ma non oltre sessanta giorni dalla stessa[28].
Solo
se la stipulazione non avviene entro il termine predetto ovvero se
il controllo sul contratto stipulato non avviene entro il termine di
trenta giorni fissato dal successivo art. 12 comma 3,
l’aggiudicatario può ritenersi svincolato dall’offerta presentata e
può sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto mediante
atto notificato alla stazione appaltante. In tal caso, tuttavia,
precisa di seguito lo stesso comma 9, all’aggiudicatario non spetta
alcun indennizzo, salvo l’eventuale rimborso delle spese
contrattuali che siano debitamente documentate.
Va sin d’ora
osservato che, in evidente controtendenza rispetto alle osservazioni
che si sono sino ad ora svolte sull’importanza e sulla necessità di
un termine di conclusione del procedimento, anche in funzione di
prevenzione della corruzione, per l’adozione del provvedimento di
aggiudicazione definitiva il codice dei contratti pubblici non
prevede alcun termine[29].
3. Alcuni punti dubbi
I tempi di svolgimento delle singole fasi della procedura di
affidamento dei contratti pubblici sono funzionali ad assicurare una
maggiore certezza ed effettività agli interessi pubblici perseguiti
dalle amministrazioni aggiudicatrici, da un lato, e un’adeguata
garanzia degli interessi delle imprese partecipanti, dall’altro
lato[30]. Però, a fronte di una variegata previsione di termini
ordinatori e dilatori che dovrebbero tendere ad accelerare l’intera
procedura, manca, come detto, la previsione di un termine entro il
quale l’amministrazione deve procedere all’aggiudicazione
definitiva, una volta approvata l’aggiudicazione provvisoria.
Così, molto spesso accade, anzi si potrebbe dire che è la norma,
che l’amministrazione non adotti tempestivamente il provvedimento
definitivo di aggiudicazione e lo stesso privato non dispone di
strumenti idonei a sollecitarne l’adozione.
La giurisprudenza sul
punto non è copiosa e le poche pronunce adottate non esprimono un
orientamento univoco. In alcuni casi si è ammesso il ricorso avverso
il silenzio, ai sensi dell’art. 117 c.p.a., per ingiustificato
ritardo dell’amministrazione nella definizione della procedura di
gara[31]; in altri casi invece si è riconosciuta la possibilità per
il destinatario dell’aggiudicazione provvisoria di mettere in mora
l’amministrazione con diffida stragiudiziale ad adempiere, rispetto
alla quale il privato medesimo avrebbe potuto agire attraverso il
rimedio del ricorso avverso il silenzio, salvo poi rigettare il
ricorso in quanto «la fase conclusiva della procedura selettiva
appare ancora soggetta al potere discrezionale della stazione
appaltante di non procedere all’aggiudicazione definitiva»[32].
È comunque evidente che il meccanismo descritto non si armonizzi
perfettamente con i principi di semplificazione e di celerità
dell’azione amministrativa, che hanno ispirato la legge n. 241 del
1990 (e la successiva modifica alla stessa introdotta con la legge
n. 69 del 2009) e in forza dei quali sono stati previsti termini più
certi e stringenti per la conclusione del procedimento.
In
secondo luogo, il codice dei contratti pubblici non fa obbligo
all’amministrazione di adottare in ogni caso, a conclusione della
procedura concorsuale, una determinazione, anche negativa, nella
quale si dia comunicazione alle imprese partecipanti che la gara non
verrà aggiudicata ad alcuno. Anzi, la giurisprudenza è pressoché
unanime nel ritenere che «la possibilità che ad un’aggiudicazione
provvisoria non segua quella definitiva del contratto di appalto è
un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli art. 11, comma
11, 12 e 48, comma 2, del d.lg. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé
a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente
obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità
nell’operato della p.a.»[33].
In altri termini, nonostante
l’aggiudicazione definitiva sia considerata il provvedimento con il
quale l’amministrazione chiude la gara, e dunque è atto conclusivo
della serie procedimentale, e nonostante la stessa, secondo quanto
osservato dalla giurisprudenza, produca «effetti giuridici
limitativi della sfera giuridicamente protetta dei partecipanti alla
gara diversi dall’aggiudicatario»[34], il legislatore del codice dei
contratti pubblici non ha previsto non ha previsto alcun obbligo
della stazione appaltante di chiudere la gara entro un termine certo
e con un provvedimento espresso, pur se negativo.
Ma vi è di più.
La mancata previsione di un termine per la conclusione della
procedura di affidamento del contratto, espone l’impresa che si era
vista aggiudicare in via provvisoria i lavori, all’incertezza in
ordine all’effettiva e definitiva aggiudicazione del contratto,
senza che la stessa impresa possa vantare alcuna pretesa nei
confronti dell’amministrazione, posto che l’aggiudicazione
provvisoria, come detto, attribuisce al titolare un interesse di
mero fatto.
Al privato è riconosciuta la possibilità di
svincolarsi dall’offerta decorsi centottanta giorni dalla sua
presentazione; ovvero, dopo l’aggiudicazione definitiva, in caso di
mancata stipulazione del contratto entro sessanta giorni. Ipotesi,
quest’ultima, nella quale, pur essendo espressamente esclusa la
possibilità di un indennizzo[35], è tuttavia possibile immaginare un
ristoro, ove naturalmente ne sussistano i presupposti, a titolo di
risarcimento da responsabilità precontrattuale[36].
In ogni caso,
al di là della possibilità di ristorare il privato per la lesione
dell’eventuale affidamento riposto sul positivo esito della gara,
emerge una asimmetria nella procedura di affidamento: manca un
termine per l’aggiudicazione definitiva, a tutto vantaggio
dell’amministrazione, a fronte invece del vincolo imposto al privato
della presentazione della sua offerta. Ma soprattutto l’assenza del
termine appare in contrasto con i principi espressi dalla legge n.
241 del 1990, primo fra tutti, l’obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso e di concluderlo entro un
termine certo.
4. Le soluzioni possibili
Dalle
osservazioni svolte può osservarsi come sia quantomeno
contraddittorio che, nel settore degli appalti pubblici, nel quale è
indubbio il rischio di una contaminazione dell’attività
amministrativa con pratiche corruttive, il legislatore abbia omesso
di prevedere il termine entro cui l’amministrazione deve
pronunciarsi e l’obbligo di adozione di un provvedimento espresso,
anche se negativo. Con ciò discostandosi, come già rilevato, dallo
spirito della stessa legge n. 241 del 1990 (e delle recenti
modifiche apportate dalla l. n. 69 del 2009) che tende a scandire i
tempi del procedimento e a dare soprattutto certezza del termine di
conclusione del procedimento, ma anche dalla recente l. 190 del 2012
che, come detto, nel modificare l’art. 2 della 241/90, riconduce
alla espressa conclusione del procedimento, cioè entro un termine
certo e anche in caso di istanza manifestamente infondata, la
funzione di prevenire e contenere il terreno di proliferazione di
qualsiasi forma di mercimonio.
La necessità di estendere anche al
settore dei contratti un termine di conclusione del procedimento
pubblicistico di scelta del contraente è indubbia[37] e, al di fuori
di un mirato intervento legislativo, è possibile ritenere che il
nostro ordinamento contenga già una (o più di una) soluzione
possibile.
Da un lato si deve riconoscere che l’obbligo di
conclusione del procedimento in modo espresso ed entro un termine
preciso abbia portata generale e trovi applicazione rispetto a tutti
i procedimenti amministrativi, ivi compreso il procedimento di
scelta di un contraente nei contratti ad evidenza pubblica. Sicché,
il termine di conclusione del procedimento nei trenta giorni,
contenuto all’art. 2 della legge n. 241 del 1990, deve trovare
applicazione anche al procedimento di scelta del contraente. In tal
senso, tra l’altro, sembra condurre la previsione contenuta all’art.
2 comma 3 del codice dei contratti pubblici, secondo cui «per quanto
non espressamente previsto nel presente codice, le procedure di
affidamento e le altre attività amministrative in materia di
contratti pubblici si espletano nel rispetto delle disposizioni sul
procedimento amministrativo di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241,
e successive modificazioni e integrazioni».
Per altro verso, la
formulazione dell’art. 2 è tale da lasciare intendere che il termine
dei trenta giorni operi, se non è diversamente previsto dalla legge.
La norma, infatti, prevede che «nei casi in cui disposizioni di
legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono
un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza
delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono
concludersi entro il termine di trenta giorni». Pertanto, con
argomentazione opposta alla precedente, si potrebbe individuare un
diverso termine nelle pieghe della procedura di affidamento dei
lavori, di cui all’art. 11.
In particolare, tale soluzione
potrebbe essere quella di ammettere che il termine di centottanta
giorni entro cui il privato rimane vincolato alla propria offerta
rappresenti, per l’amministrazione, il termine entro cui la stessa
deve adottare il provvedimento di aggiudicazione definitiva.
Si
tratta di una lettura che trae spunto dai principi desumibili dal
codice civile in tema di proposta irrevocabile. L’art. 1329 c.c.
ammette che, nel corso delle trattative precontrattuali, il
proponente possa mantenere ferma la propria proposta per un certo
periodo di tempo, nel corso del quale la proposta medesima non può
essere oggetto di revoca.
La simmetria con la previsione
contenuta nell’art. 11 comma 6 del codice dei contratti pubblici è
evidente: solo che in tal caso la irrevocabilità dell’offerta (id
est della proposta) non è frutto della libera iniziativa delle
parti, ma è disposta per legge. Ebbene, secondo un certo
orientamento della Corte di Cassazione, in caso di proposta
irrevocabile, allo scadere del termine fissato per la irrevocabilità
della proposta cade per intero la proposta, senza necessità di
revocarla: con la conseguenza che laddove l’accettazione della
proposta giunga dopo la scadenza del termine, la stessa accettazione
non comporta la conclusione del contratto, ma vale come nuova
proposta che deve essere accettata dall’originario
proponente[38].
In altri termini, la scadenza del termine di
durata della irrevocabilità della proposta contrattuale comporta la
caduta dell’intera proposta e non semplicemente il riacquisto della
facoltà di revoca.
Applicando il principio appena esposto alla
disciplina di cui all’art. 11 del codice dei contratti pubblici ne
consegue che scaduto il termine di centottanta giorni, nel quale il
privato è per legge vincolato all’offerta presentata, la stessa
offerta si dovrebbe intendere ritirata, con la conseguenza che
l’aggiudicazione tardiva da parte dell’amministrazione dovrebbe
essere “accettata” dallo stesso privato, non potendo produrre
automaticamente l’effetto di rendere nuovamente irrevocabile
l’offerta dell’aggiudicatario sino alla stipulazione del contratto,
ai sensi dei commi 7 e 9 dell’art. 11.
La giurisprudenza
amministrativa, per vero, non è concorde.
Sicché si riscontrano
casi in cui il giudice amministrativo ha escluso che il termine dei
centottanta giorni possa valere nei confronti della p.a., in quanto
risultano assenti nella disposizione contenuta nell’art. 11
«preclusioni o decadenze a carico dell’amministrazione per il
superamento del termine, mentre permane in capo alla stazione
appaltante la potestà di chiedere il differimento della durata
dell’impegno»[39].
E in altre occasioni ha precisato che «la
ratio della disposizione relativa ad un termine di 180 giorni è
evidentemente quella di mantenere ferma l’offerta per tutto il
periodo di presumibile durata della gara e non quella di limitare
nel tempo la validità (o meglio l’efficacia) dell’offerta, non
corrispondendo certamente tale limitazione ad un interesse
dell’amministrazione». Con la conseguenza che, laddove decorsi i
termini di centottanta giorni, l’impresa volesse svincolarsi
dall’offerta presentata, dovrebbe farlo espressamente, poiché
l’offerta presentata, una volta scaduto il termine, non può «in
assenza di una univoca manifestazione di volontà in tal senso da
parte degli interessati considerarsi privata di efficacia»[40].
A
fronte delle decisioni richiamate, in altra pronuncia, il Consiglio
di Stato ha accolto una soluzione opposta, ma in linea con la tesi
qui sostenuta: affermando, in primo luogo, che dopo l’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria «l’emissione del provvedimento di
aggiudicazione definitiva diviene concretamente esigibile da parte
del privato, attesa la natura vincolata di tale atto e l’inesistenza
di poteri interdittivi della pubblica amministrazione».
Si è
pure precisato che la circostanza che il codice non fissi un termine
espresso per l’adozione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva «è fatto certamente collegabile all’esistenza comunque di
un limite temporale massimo di efficacia dell’offerta, che è quella
indicata dal bando, ovvero di centottanta giorni dalla scadenza del
termine per la sua presentazione»[41].
Va poi segnalato un
orientamento in forza del quale si riconosce all’impresa
aggiudicataria la facoltà di rifiutare la stipulazione «a fronte di
un comportamento ingiustificatamente omissivo e dilatorio
dell’amministrazione» che omette di riaggiudicare i lavori a seguito
delle statuizioni contenute in una sentenza del giudice
amministrativo: e in tal caso la responsabilità per mancata
stipulazione del contratto «non può essere qualificata come
responsabilità precontrattuale, ma come responsabilità per
inosservanza degli obblighi derivanti dal giudicato»
[42].
Naturalmente, e per concludere, è ben possibile che
l’amministrazione decida di non aggiudicare i lavori, perché nessuna
delle offerte presentate è idonea a curare l’interesse pubblico: ma
in tal caso, ai sensi dell’odierno art. 2 della l. 241 del 1990, ma,
più in generale, in virtù del generale principio di buona
amministrazione, deve illustrare alle imprese che hanno partecipato
alla gara le ragioni della propria scelta.
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[1] In argomento cfr. B.G. Mattarella, M.
Pellissero (a cura di), La legge anticorruzione, Torino 2012.
[2] Le analisi sul tema della corruzione evidenziano come uno
dei fattori che ne favoriscono lo sviluppo e la diffusione sia
l’elevato grado di discrezionalità di cui gode il decisore pubblico,
che dispone del potere di erogare e controllare il flusso degli
investimenti pubblici; nonché, in generale, «l’opacità dei processi
decisionali nel settore pubblico» e l’assenza di una qualsiasi forma
«rendicontabilità nell’esercizio del potere pubblico»: A. Vannucci, La corruzione in Italia: cause, dimensioni, effetti, in B.G.
Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La legge
anticorruzione, Torino 2013, p. 40.
[3] Già C. Esposito, Riforma dell’amministrazione e diritti costituzionali dei
cittadini, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova
1952, p. 245, sosteneva che «le mura degli uffici dovrebbero essere
di vetro». È poi nota l’espressione di R. Villata, La trasparenza
dell’azione amministrativa, in Dir. proc. Amm. 1987, 529,
secondo cui la trasparenza è «un modo di essere della pubblica
amministrazione», «al cui raggiungimento cospirano e concorrono
strumenti diversi»; in senso analogo G. Arena, Trasparenza
amministrativa, in Enc. Giur., Agg. vol. IV, Roma 1995.
Si veda altresì R. Marrama, La pubblica amministrazione tra
trasparenza e riservatezza nell’organizzazione e nel
procedimento, in Dir. Proc. Amm. 1989, 416.
[4] In
generale, F. Merloni (a cura di), La trasparenza
amministrativa, Milano 2008; G. Arena, Trasparenza
amministrativa (voce), in S. Cassese (a cura di), Dizionario
di diritto pubblico, Milano 2006, 5945; M.R. Spasiano, I
principi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A.
Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa,
Milano 2011, 83; E. Carloni, Amministrazione aperta e governance
dell’Italia digitale, in Giorn. Dir. Amm. 2012, 1041.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha da sempre riconosciuto il
“valore” della trasparenza: Cons. Stato, Ad. Plen. 7 febbraio 1997,
n. 5, secondo cui la legge 241 del 1990 nel disegnare il rapporto
tra cittadino e amministrazione tende ad assicurare l’efficienza
dell’amministrazione anche «attraverso la salvaguardia del valore
della trasparenza». Sul punto si veda altresì A. Massera, I
criteri di economicità, efficacia ed efficienza, in in M.A.
Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa,
cit., 22.
[5] La bibliografia sull’argomento è ormai molto
vasta. Si veda F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta
alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d. lgs. n. 33 del
2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa
dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, p. 18; M.
Bombardelli, Fra sospetto e partecipazione: la duplice accezione
del principio di trasparenza, in Istituzioni del
federalismo, 2013, 657; M. Savino, La nuova disciplina della
trasparenza amministrativa, in Giorn. Dir. Amm. 2013,
798; F. Manganaro, Evoluzione del principio di trasparenza,
in Studi in memoria di Roberto Marrama, Napoli 2012; M.
Occhiena, I principi di pubblicità e trasparenza, in M. Renna
– F. Saitta (a cura di), I principi di diritto
amministrativo, Milano 2012.
[6] Si tratta della previsione
introdotta dall’art. 1 comma 38 della legge n. 190 del 2012, che ha
modificato l’art. 2 della legge n. 241 del 1990. Dubbi e perplessità
sulla disposizione in esame sono stati sollevati da M. Clarich, B.G.
Mattarella, La prevenzione della corruzione, in B.G.
Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La legge
anticorruzione, cit., che annoverano la previsione dell’obbligo
di provvedere tra le «parti peggiori» della riforma, p. 67.
[7]
Così, ad esempio, il giudice amministrativo ha affermato che «ai
sensi dell’art. 4, l. n. 312 del 1980, l’avvio del procedimento di
inquadramento in qualifica superiore è subordinato alle seguenti
condizioni: domanda da parte dell'impiegato; valutazione favorevole
da parte del consiglio di amministrazione dell’ente e sottoposizione
a prova selettiva. A fronte di un così articolato iter
procedimentale, l’Amministrazione non ha un preciso obbligo di
provvedere sulle istanze di inquadramento, ciò in quanto
l’inquadramento dei pubblici dipendenti corrisponde, alla luce del
quadro normativo di riferimento, ad una attività discrezionale
(ancorché di natura tecnica in ordine alla verifica di
corrispondenza delle mansioni al profilo professionale o qualifica
funzionale) rispetto alla quale non sono ravvisabili diritti
soggettivi (al preteso inquadramento) bensì interessi legittimi
tutelabili con l’impugnativa o degli atti di inquadramento ritenuti
invalidi nel termine di decadenza oppure del rifiuto/silenzio
dell’Amministrazione opposto all’istanza di inquadramento», Tar
Roma, Lazio, sez. I, 20 gennaio 2011, n. 563; più in generale,
l’orientamento della giurisprudenza amministrativa è così ricordato
in Tar Napoli, Campania, sez. III, 3 novembre 2006, n. 9362: «l’art.
2, l. n. 241 del 1990 ha fissato un principio generale secondo cui,
ove il procedimento consegue obbligatoriamente ad un’istanza del
privato ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la p.a. ha il dovere
di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
obbligo quest’ultimo non sussistente, secondo l’elaborazione
giurisprudenziale formatasi sul tema, solo nelle seguenti ipotesi:
a) istanza di riesame dell’atto inoppugnabile per spirare del
termine di decadenza; b) istanza manifestamente infondata; c)
istanza di estensione “ultra partes” del giudicato». In dottrina, si
veda M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione
del procedimento: l’obbligo di provvedere su domande «inammissibili»
o «manifestamente infondate», in Dir. Amm. 2010, 103.
[8] L’art. 328 c.p. prevede che: «Il pubblico ufficiale o
l’incaricato del pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un
atto dell’ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere
compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due
anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale
o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni
dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo
ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è
punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire
due milioni. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed
il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta
stessa». In dottrina si veda A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale, Parte speciale, I, Delitti contro la
pubblica amministrazione, Milano 2008, p. 344 ss.
[9] In
generale, in tema di diritto di accesso la bibliografia è molto
vasta. Si veda, anche per la bibliografia riportata, N. Paolantonio, L’accesso alla documentazione amministrativa, in F.G. Scoca
(a cura di), Diritto amministrativo, Torino 2012, p. 242.
[10] Si veda, di recente, Cons. Stato sez. V, 12 marzo 2009, n.
1429.
[11] Cass. sez. VI pen., 8 gennaio 1997, n. 12;
l’orientamento è stato poi confermato da Cass. sez. VI pen., 6
aprile 2000, n. 5691. Deve osservarsi che in tempi più recenti la
giurisprudenza penale (di merito e di legittimità) ha sostenuto che
la responsabilità ex art. 328 c.p., in caso di inerzia a
fronte di un’istanza di accesso, sussiste quando l’istanza di
accesso è strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente
rilevante (da ultimo Cass. sez. VI pen., 5 marzo 2009, n. 14466);
sicché, a contrario, la stessa responsabilità va esclusa ove
l’istanza sia palesemente infondata (per cui, si legge in
giurisprudenza, «rimangono al di fuori della tutela legale quelle
richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità,
sollecitano alla pubblica amministrazione un’attività superflua e
non doverosa, la quale non è destinata a spiegare alcuna necessaria
incidenza sul rapporto amministrativo, già ben definito nei suoi
contorni essenziali», Cass. sez.VI pen., sent. 11 dicembre 1998,
n.12977; negli stessi termini, più di recente, Cass. sez. VI pen.,
13 marzo 2001, n. 18033). In dottrina, cfr. A. Pagliaro – M. Parodi
Giusino, op.cit., p. 357.
[12] Cass. sez. VI pen., 6
ottobre 1998, n. 12977, secondo cui «coincidendo il termine di
trenta giorni dalla richiesta dell’interessato, formulata ex art.
328 comma 2 c.p., con il termine stabilito per il maturarsi del
silenzio rifiuto (ex art. 25 della legge n. 241/90), deve
escludersi la configurabilità del reato in esame se il pubblico
ufficiale non compie l’atto richiesto e non risponde al richiedente,
perché con il silenzio rifiuto, sia pure per una presunzione, si ha
il compimento dell’atto e viene comunque a determinarsi una
situazione che è concettualmente incompatibile con l’inerzia della
P.A.».
[13] Secondo la dottrina penalistica, il bene dall’art.
328 c.p. è «l’interesse concernente il normale funzionamento della
pubblica amministrazione, in quanto attiene alla effettività,
tempestività ed efficacia dell’adempimento delle pubbliche funzioni
e della prestazione di pubblici servizi», A. Pagliaro – M. Parodi
Giusino, op. cit., p. 337.
[14] In tal senso cfr. A.
Vannucci, La corruzione in Italia: cause, dimensioni,
effetti, in B.G. Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La
legge anticorruzione, cit., p. 25 ss.
[15] Il problema
dell’atto discrezionale nei delitti di corruzione propria e
impropria è da sempre avvertito, sia dalla dottrina sia dalla
giurisprudenza penalistica. Si veda A. Spena, Il turpe
mercato, Milano 2003, p. 286; A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, cit., p. 229; V. Manes, L’atto d’ufficio nelle fattispecie
di corruzione, in Riv. it. Dir. e proc. pen. 2000, 926;
in giurisprudenza tra le pronunce più recenti Cass. pen. Sez. un.,
24 ottobre 2013, 12228.
[16] Per la partizione della
discrezionalità come «scelta inerente all’esercizio di una pubblica
potestà» che può articolarsi nelle quattro specie della
disprezionalità nell’an, nel quid, nel quomodo e nel quando si veda P.Virga, Il provvedimento
amministrativo, Milano 1979. Per una recente ricostruzione
teorica della discrezionalità, si veda L. R. Perfetti, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine
giuridico della società, in Dir. Amm. 2013, 309.
[17]
S’è già avuto modo di ricordare, al riguardo, l’opinione di M.
Clarich, B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione,
cit.
[18] Sul punto si rinvia a quanto osservato in M.C.
Cavallaro, Gli elementi essenziali del provvedimento
amministrativo. Il problema della nullità, Torino 2012, p. 145.
[19] Tali questioni sono affrontate e per vero superate, sia
pure in tempi antecedenti la riforma in esame, da M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento:
l’obbligo di provvedere su domande «inammissibili» o «manifestamente
infondate», cit. alle cui osservazioni si rinvia.
[20] F. G.
Scoca, L’attività amministrativa e la sua disciplina, in F.G.
Scoca (a cura di), Diritto Amministrativo, Torino 2014, p.
183.
[21] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo,
Torino 2013, p. 387.
[22] M.S. Giannini, Diritto
Amministrativo, Milano 1988, p. 797.
[23] R. Caranta, I
contratti pubblici, Torino 2012, 399. Com’è noto, l’obbligo
della preventiva determinazione a contrattare (con indicati il fine
che con il contratto si intende perseguire, l’oggetto, la sua forma
e le clausole ritenute essenziali, nonché le modalità di scelta del
contraente) è previsto da tempo per i contratti delle
amministrazioni locali, che per tale ragione non necessitano della
successiva approvazione (art. 192 d. lgs. 267 del 2000); a
differenza di quanto accade per le amministra zioni dello Stato che
invece non sono tenute ad adottare la delibera a contrarre
(quantomeno con il contenuto specifico previsto per le
amministrazioni locali, anche se è previsto comunque un progetto di
contratto) ma i contratti da esse conclusi sono soggetti ad
approvazione (art. 19 r.d. 2440 del 1923).
[24] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino 2012, p. 392.
[25] Art. 11 comma 4, cioè il prezzo più basso o l’offerta
economicamente più vantaggiosa, artt. 82 e 83.
[26]
Eventualmente anche attraverso il meccanismo del silenzio assenso,
secondo quanto disposto dall’art. 12.
[27] Le riflessioni svolte
riprendono in parte quanto già osservato in M.C. Cavallaro, Fasi
delle procedure di affidamento, in L.R. Perfetti (a cura di), Codice dei contratti pubblici commentato, Milano 2013, p. 160
ss.
[28] Art. 11 comma 10. Tale effetto vincolante si produce
anche quando l’aggiudicazione intervenga oltre il termine dei
centottanta giorni. È possibile cioè che il privato presenti la
propria offerta, alla quale è vincolato per almeno centottanta
giorni, e che l’amministrazione aggiudichi definitivamente la gara
ben oltre tale termine: in tal caso l’aggiudicazione avrebbe
ugualmente l’effetto di vincolare nuovamente il privato all’offerta
a suo tempo presentata sino alla stipulazione del contratto.
[29] TAR Umbria, Perugia, sez. I, 6 aprile 2011, n. 172, in Urb.
App. 2011, 1218, con nota di I. Filippetti, L’omessa previsione
di un termine per l’aggiudicazione definitiva degli appalti
pubblici.
[30] Sulla disciplina europea della concorrenza
«rivolta alla tutela delle situazioni soggettive delle imprese» cfr.
R. Cavallo Perin – G. M. Racca, La concorrenza nell’esecuzione
dei contratti pubblici, in Dir. amm. 2010, 325, che
riprendono le osservazioni di A. Romano, Sulla pretesa
risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili sono
diritti soggettivi, ibidem, 1998, 1.
[31] Si veda di
recente TAR Liguria Genova, sez. II, 20 gennaio 2012, n. 151.
[32] TAR Campania Napoli, sez. I, 1 febbraio 2013, n. 692.
[33] Cons. Stato sez. VI, 19 gennaio 2012, n. 195.
[34] TAR
Sicilia Catania, sez. III, 18 febbraio 2013, n. 550.
[35] Cfr.
art. 11 comma 9.
[36] La responsabilità precontrattuale
dell’amministrazione, infatti, potrebbe sorgere solo a favore di chi
è già stato individuato come contraente (cioè l’aggiudicatario in
via definitiva), non anche a favore di chi, come l’aggiudicatario in
via provvisoria, vanta un interesse di mero fatto. La giurisprudenza
ha altresì escluso la tutela risarcitoria nei confronti
dell’aggiudicatario in via provvisoria nel caso in cui
legittimamente l’amministrazione non faccia seguire l’aggiudicazione
definitiva e ritiri gli atti di gara. In tal caso, inoltre, essendo
l’aggiudicazione provvisoria atto endoprocedimentale, il suo
eventuale ritiro non comporta nemmeno obbligo di indennizzo ex art.
21 quinquies della l. 241 del 1990, in quanto si tratterebbe
di revoca impropria: cfr. sul punto TAR Campania Napoli, sez. I, 26
novembre 2012, n. 4810. Di recente il Consiglio di Stato ha
ricordato che, in tema di contratti ad evidenza pubblica, la
responsabilità precontrattuale dell’amministrazione deve essere
ammessa sia «in presenza del preventivo annullamento per
illegittimità di atti della sequenza procedimentale», sia
«nell’assodato presupposto della loro validità ed efficacia: a) nel
caso di revoca dell’indizione della gara e dell’aggiudicazione per
esigenze di una ampia revisione del progetto, disposta vari anni
dopo l’espletamento della gara; b) per impossibilità di realizzare
l’opera prevista per essere mutate le condizioni dell’intervento; c)
nel caso di annullamento d’ufficio degli atti di gara per un vizio
rilevato dall’amministrazione solo successivamente
all’aggiudicazione definitiva o che avrebbe potuto rilevare già
all'inizio della procedura; d) nel caso di revoca
dell’aggiudicazione, o rifiuto a stipulare il contratto dopo
l’aggiudicazione, per mancanza dei fondi», Cons. Stato, sez. V, 7
settembre 2009, n. 5245, poi ripresa da Cons. Stato sez. IV, 15
settembre 2014, n. 4674. Solo in poche occasioni, il giudice ha
affermato l’obbligo della stazione appaltante di aggiudicare in via
definitiva la gara a favore dell’aggiudicatario provvisorio, con
conseguente onere di risarcimento «qualora medio tempore fosse stato
bandito, interamente espletato ed aggiudicato a diverso soggetto
altra gara avente il medesimo oggetto»: TAR Molise Campobasso, 18
novembre 2004, n. 689.
[37] La materia dei contratti pubblici è,
purtroppo, un terreno di proliferazione del fenomeno corruttivo e
criminale: si veda più diffusamente, M. Immordino, Gli appalti
pubblici tra documentazione antimafia ed esigenze di
semplificazione, in Dir. e processo amm., n. 1, 2013.
[38] Corte Cass. sez. II, 29 agosto 1991, n. 9229, secondo cui
«la proposta irrevocabile non può essere scissa in un'offerta
potenzialmente soggetta a revoca e nella rinuncia al potere di
revoca per un determinato periodo di tempo con la conseguenza che,
scaduto il termine di durata della rinuncia al potere di revoca,
rimarrebbe in vita l’offerta come semplice proposta revocabile, in
quanto in caso di proposta ferma o irrevocabile l’irrevocabilità è
una qualità intrinseca della proposta stessa che, con la scadenza
del termine, viene a caducarsi senza che all’uopo occorra una
qualsiasi revoca».
[39] Cons. Stato, sez. VI, 24 novembre 2010,
n. 8224.
[40] Cons. Stato, sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1169.
[41] Cons. Stato sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1766.
[42] TAR
Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22 novembre 2012, n. 695.
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(pubblicato il
20.10.2014)
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