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n. 10-2014 - © copyright

 

MARIA CRISTINA CAVALLARO

L’obbligo di conclusione del procedimento nella disciplina degli appalti pubblici, tra garanzie della trasparenza e tutela dei privati

 

 


 

 

Sommario: 1. Trasparenza e obbligo di conclusione del procedimento. - 2. Conclusione del procedimento e scelta del contraente nei contratti pubblici. - 3. Alcuni punti dubbi. - 4. Le soluzioni possibili.


 


1. Trasparenza e obbligo di conclusione del procedimento
La legge 6 novembre 2012, n. 190, in tema di prevenzione del fenomeno corruttivo nella pubblica amministrazione, ha introdotto una serie di modifiche alla legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo, per assicurare la massima trasparenza della pubblica amministrazione, sia sotto il profilo dell’organizzazione, sia con riferimento all’azione amministrativa[1]: l’idea che ha animato l’intervento riformatore è che la trasparenza amministrativa possa costituire un valido antidoto contro il dilagare della corruzione[2].
Il principio di trasparenza amministrativa ha subìto negli ultimi venti anni una significativa evoluzione, sintetizzabile in alcune tappe fondamentali. Prima dell’entrata in vigore della legge n. 241, la trasparenza era stata oggetto di un dibattito dottrinale, ma non era specificamente positivizzata dal nostro legislatore[3]. In un secondo momento, la l. n. 241 del 1990 ha individuato, tra i principi generali dell’azione amministrativa, il principio di pubblicità, tradizionalmente qualificato come species del più ampio genus della trasparenza[4]. Solo a partire dal 2005 (con la l. n. 15/2005, di riforma della l. n. 241, il coevo codice dell’amministrazione digitale, la legge n. 150/2009, con i rispettivi decreti attuativi, e da ultimo la l. n. 190/2012) il principio di trasparenza è stato oggetto di esplicita disciplina normativa ed è stato assunto come cardine delle riforme appena richiamate, nella prospettiva di assicurare una maggiore visibilità del potere pubblico, al fine di garantirne una dimensione più partecipata e imparziale[5].
Tra le novità introdotte dalla citata l. n. 190 del 2012, merita di essere ricordato l’obbligo della pubblica amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso anche nel caso in cui l’istanza del privato sia manifestamente infondata o irricevibile: ai sensi dell’odierna formulazione dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, «se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo»[6]. L’amministrazione, cioè, non solo ha il dovere di concludere il procedimento entro un termine certo, ma deve altresì pronunciarsi con un provvedimento espresso, in modo da assicurare la trasparenza del proprio operato.
Al riguardo può preliminarmente osservarsi come la scelta legislativa abbia contraddetto, nei fatti, la giurisprudenza formatasi a partire dal 1990 sull’obbligo di provvedere, che aveva colto nell’incipit della disposizione in esame («ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso») il principio per cui non tutte le istanze fondano l’obbligo giuridico di provvedere. Tra queste, sempre secondo la giurisprudenza, le istanze volte a richiedere il rilascio di un provvedimento altamente discrezionale o le semplici denunce[7].
Si aggiunga che già nella riforma dei reati contro la p.a. del 1990 (legge 26 aprile 1990, n. 86), con la riformulazione del delitto di rifiuto e omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.), si era marcata la rilevanza penale dell’omissione dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso[8]. Sul punto, non pochi dubbi sono sorti in ordine a quelle ipotesi qualificate dalla legge come silenzio diniego, in cui, cioè, il silenzio dell’amministrazione produce i medesimi effetti di un esplicito provvedimento di diniego dell’istanza presentata dal privato.
Si pensi in particolare all’art. 25 della l. 241 del 1990 che, in tema di diritto di accesso ai documenti amministrativi, dispone, come si ricorderà, che l’istanza si intende negata, se il funzionario non si pronuncia entro trenta giorni dalla presentazione[9]. In tal caso, sebbene la giurisprudenza amministrativa sia pressoché unanime nel qualificare il silenzio serbato a fronte di un’istanza di accesso quale silenzio diniego[10], nell’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione, il silenzio dell’amministrazione in tema di accesso ai documenti va qualificato come «una mera fictio juris», accolta nell’ordinamento al fine di individuare con certezza il momento a partire dal quale il cittadino può rivolgersi al giudice amministrativo per ottenere l’esibizione del documento richiesto. «Una tale fictio juris vale solo ai fini amministrativi e non pregiudica la possibilità di valutare la condotta omissiva illecita del pubblico ufficiale che non abbia provveduto sulla richiesta del privato», con la conseguenza che, ai fini penali, il pubblico ufficiale può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 328 c.p.[11]. L’orientamento appena riferito, va da sé, ha come presupposto la qualificazione dell’inerzia come mero fatto, e non come atto, poiché altrimenti la soluzione sarebbe opposta[12].
Ad ogni modo, nella prospettiva del legislatore degli anni novanta, il mancato rispetto del termine o, più in generale, l’inadempimento dell’obbligo di provvedere esponevano (e tutt’ora espongono) il funzionario ad una responsabilità penale per il delitto di rifiuto o omissione d’atti d’ufficio. Non v’era allora una specifica evidenza in ordine alla possibilità che l’omissione del funzionario potesse esporre l’amministrazione ad un maggior rischio di corruzione[13]. Detto diversamente, non era maturata la convinzione che un obbligo di provvedere “accentuato” potesse contribuire alla prevenzione del fenomeno corruttivo.
La dottrina, in vero, già da tempo ha affermato che l’ampiezza della discrezionalità amministrativa è idonea ad incidere sulla prevenzione o diffusione della corruzione[14]. Nel senso che quanto più ampio è l’ambito della discrezionalità amministrativa, tanto maggiore potrà essere la possibilità per la stessa amministrazione di cedere alle sollecitazioni del privato “corruttore”, o di esercitare delle pressioni su potenziali “concussi”[15].
Se si guarda alla modifica introdotta dalla l. n. 190/2012, l’amministrazione non può più rimanere inerte dinnanzi ad un’istanza che ritiene manifestamente infondata, ma deve comunque pronunciarsi con un provvedimento espresso. Sotto tale profilo, la previsione dell’obbligo di provvedere anche rispetto alle istanze manifestamente infondate non incide sull’ampiezza della discrezionalità (c.d. quid o quomodo), ma unicamente sul potere di pronunciarsi o meno sull’istanza medesima (c.d. an) [16].
La disposizione in esame è stata oggetto di taluni rilievi critici[17], originati in parte da dall’effettivo impatto della stessa sulla prevenzione della corruzione, in parte da ulteriori profili problematici. Ci si è chiesto se possa essere definito provvedimento un atto che non cura alcun interesse pubblico, ma si limita a spiegare al privato perché l’istanza non può essere accolta e, quindi, perché il procedimento non può essere avviato e il provvedimento (quello vero) non può essere adottato[18]. S’è segnalato il rischio di aggravare l’attività amministrativa con l’onere di dare una risposta sempre e comunque, anche al privato che presenti istanze irragionevoli e infondate[19].
Al di là delle osservazioni svolte, è possibile acquisire un dato come certo: e cioè che la previsione di un termine entro cui provvedere e la necessità di un provvedimento espresso (o di una risposta certa) rappresentano, oltre che principi ormai irrinunciabili dell’agire amministrativo, perché posti a presidio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, anche principi di garanzia in un’ottica di prevenzione del fenomeno corruttivo.
Lo è sicuramente la previsione del termine entro cui provvedere, perché riduce gli spazi della discrezionalità amministrativa; lo è, con buona probabilità (quantomeno nelle intenzioni del legislatore e nonostante i dubbi avanzati), la previsione di dare una risposta certa, anche nel caso d’istanza manifestamente infondata, che sia idonea ad escludere (o ridurre) la possibilità di dilatare oltre misura il procedimento amministrativo.


2. Conclusione del procedimento e scelta del contraente nei contratti pubblici
Se questi sono principi ispiratori della riforma, la disciplina contenuta nell’odierno art. 2 della l. n. 241 del 1990 solleva ulteriori dubbi interpretativi se messa in relazione con la disciplina dei contratti pubblici, in particolare con la previsione contenuta all’art. 11 (e in parte al successivo art. 12) del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice dei contratti pubblici), che scandisce le fasi della procedura di affidamento dei lavori.
La materia dei contratti della pubblica amministrazione rappresenta da sempre un terreno di confronto tra diverse posizioni dottrinali. Tra chi, ad esempio, ritiene che l’intera attività contrattuale sia riconducibile all’esercizio del potere amministrativo, sicché anche la manifestazione di consenso da parte del privato è necessaria per la realizzazione dell’interesse pubblico[20]; e chi invece riconduce la stessa attività nell’ambito dell’autonomia contrattuale dell’amministrazione, il cui fondamento risiede nell’art. 1322 c.c.[21]
Pur nella diversità delle posizioni espresse, gli orientamenti citati trovano ugualmente la loro composizione nel distinguere, all’interno dell’attività contrattuale, una fase pubblicistica, di scelta del contraente, che culmina con l’aggiudicazione del contratto; e una fase privatistica, che consiste nell’esecuzione del contratto e che si apre con la stipulazione dello stesso[22].
L’art. 11 del codice dei contratti si sofferma sulle modalità di svolgimento della fase pubblicistica, rinviando ad apposita disciplina l’esecuzione del contratto.
La norma richiamata scandisce le modalità di svolgimento delle procedure per l’affidamento dei contratti ad evidenza pubblica, prevedendo una serie di fasi piuttosto articolate, all’interno delle quali è tuttavia possibile individuare alcuni passaggi essenziali: la determinazione a contrarre, la scelta del contraente, l’aggiudicazione (prima provvisoria, poi definitiva) e la stipulazione del contratto.
Si tratta di un procedimento con un’innegabile diversità di struttura rispetto al tradizionale procedimento amministrativo, ma nel quale è possibile cogliere alcuni tratti con esso in comune.
L’amministrazione, nell’ambito della programmazione svolta, adotta la c.d. determinazione a contrattare (art. 11, comma 2), ove devono essere indicati gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte. La determinazione a contrattare serve a garantire che la realizzazione dei contratti da parte dell’amministrazione avvenga nel rispetto dei vincoli di bilancio e del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[23] e nello stesso tempo assolve alla funzione di far emergere l’interesse pubblico la cui realizzazione il contratto tende ad assicurare e, insieme al bando, dà avvio alla procedura di gara[24].
Il privato non presenta un’istanza di avvio del procedimento, bensì un’offerta (art. 11 comma 6) e non più di una, alla quale rimane vincolato per tutto il tempo previsto dal bando, ovvero, se non è previsto alcun termine, per centottanta giorni, che decorrono dalla scadenza del termine di presentazione dell’offerta; e la stazione appaltante ha il potere di chiedere il differimento del predetto termine. Tale vincolo permane anche dopo l’adozione dell’aggiudicazione definitiva e per tutto il periodo di tempo fissato dal comma 9 dell’art. 11. Il comma 7, infatti, ha cura di precisare che l’aggiudicazione definitiva, una volta adottata, non vale come accettazione dell’offerta, sicché il contratto non è ancora concluso e quindi non è vincolante per l’amministrazione, ma il privato continua ad essere legato all’offerta a suo tempo presentata.
Per mantenere una simmetria con la tradizionale struttura del procedimento, si potrebbe dire che, a seguito della presentazione dell’offerta da parte del privato, si apre una fase istruttoria, nella quale l’amministrazione seleziona la migliore offerta, secondo uno dei criteri previsti dal codice[25]. Una volta selezionata la migliore offerta, la stazione appaltante dichiara a favore del migliore offerente l’aggiudicazione provvisoria, che secondo la giurisprudenza ha natura di atto endoprocedimentale e sul quale l’amministrazione esercita un potere di controllo mediante approvazione.
Completata l’istruttoria con l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria[26], nella fase finale, che coincide con la fase decisoria, l’amministrazione provvede ad aggiudicare definitivamente l’offerta, fermo restando che è altresì possibile che non si proceda all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto (art. 81 comma 3) [27].
L’atto culminante della procedura di gara è l’aggiudicazione definitiva, che quindi costituisce il provvedimento che chiude il procedimento amministrativo di scelta del contraente. L’aggiudicazione, cioè, non comporta la conclusione del contratto, perché, come detto, il codice dei contratti pubblici espressamente esclude che l’aggiudicazione implichi un’accettazione dell’offerta. Essa quindi non è vincolante per l’amministrazione, ma produce l’effetto di mantenere vincolato il privato all’offerta a suo tempo presentata, sino alla stipulazione del contratto, che deve avvenire non prima che siano trascorsi trentacinque giorni dall’aggiudicazione definitiva (c.d. standstill, o termine dilatorio), ma non oltre sessanta giorni dalla stessa[28].
Solo se la stipulazione non avviene entro il termine predetto ovvero se il controllo sul contratto stipulato non avviene entro il termine di trenta giorni fissato dal successivo art. 12 comma 3, l’aggiudicatario può ritenersi svincolato dall’offerta presentata e può sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto mediante atto notificato alla stazione appaltante. In tal caso, tuttavia, precisa di seguito lo stesso comma 9, all’aggiudicatario non spetta alcun indennizzo, salvo l’eventuale rimborso delle spese contrattuali che siano debitamente documentate.
Va sin d’ora osservato che, in evidente controtendenza rispetto alle osservazioni che si sono sino ad ora svolte sull’importanza e sulla necessità di un termine di conclusione del procedimento, anche in funzione di prevenzione della corruzione, per l’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva il codice dei contratti pubblici non prevede alcun termine[29].


3. Alcuni punti dubbi
I tempi di svolgimento delle singole fasi della procedura di affidamento dei contratti pubblici sono funzionali ad assicurare una maggiore certezza ed effettività agli interessi pubblici perseguiti dalle amministrazioni aggiudicatrici, da un lato, e un’adeguata garanzia degli interessi delle imprese partecipanti, dall’altro lato[30]. Però, a fronte di una variegata previsione di termini ordinatori e dilatori che dovrebbero tendere ad accelerare l’intera procedura, manca, come detto, la previsione di un termine entro il quale l’amministrazione deve procedere all’aggiudicazione definitiva, una volta approvata l’aggiudicazione provvisoria.
Così, molto spesso accade, anzi si potrebbe dire che è la norma, che l’amministrazione non adotti tempestivamente il provvedimento definitivo di aggiudicazione e lo stesso privato non dispone di strumenti idonei a sollecitarne l’adozione.
La giurisprudenza sul punto non è copiosa e le poche pronunce adottate non esprimono un orientamento univoco. In alcuni casi si è ammesso il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’art. 117 c.p.a., per ingiustificato ritardo dell’amministrazione nella definizione della procedura di gara[31]; in altri casi invece si è riconosciuta la possibilità per il destinatario dell’aggiudicazione provvisoria di mettere in mora l’amministrazione con diffida stragiudiziale ad adempiere, rispetto alla quale il privato medesimo avrebbe potuto agire attraverso il rimedio del ricorso avverso il silenzio, salvo poi rigettare il ricorso in quanto «la fase conclusiva della procedura selettiva appare ancora soggetta al potere discrezionale della stazione appaltante di non procedere all’aggiudicazione definitiva»[32].
È comunque evidente che il meccanismo descritto non si armonizzi perfettamente con i principi di semplificazione e di celerità dell’azione amministrativa, che hanno ispirato la legge n. 241 del 1990 (e la successiva modifica alla stessa introdotta con la legge n. 69 del 2009) e in forza dei quali sono stati previsti termini più certi e stringenti per la conclusione del procedimento.
In secondo luogo, il codice dei contratti pubblici non fa obbligo all’amministrazione di adottare in ogni caso, a conclusione della procedura concorsuale, una determinazione, anche negativa, nella quale si dia comunicazione alle imprese partecipanti che la gara non verrà aggiudicata ad alcuno. Anzi, la giurisprudenza è pressoché unanime nel ritenere che «la possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di appalto è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli art. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lg. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell’operato della p.a.»[33].
In altri termini, nonostante l’aggiudicazione definitiva sia considerata il provvedimento con il quale l’amministrazione chiude la gara, e dunque è atto conclusivo della serie procedimentale, e nonostante la stessa, secondo quanto osservato dalla giurisprudenza, produca «effetti giuridici limitativi della sfera giuridicamente protetta dei partecipanti alla gara diversi dall’aggiudicatario»[34], il legislatore del codice dei contratti pubblici non ha previsto non ha previsto alcun obbligo della stazione appaltante di chiudere la gara entro un termine certo e con un provvedimento espresso, pur se negativo.
Ma vi è di più. La mancata previsione di un termine per la conclusione della procedura di affidamento del contratto, espone l’impresa che si era vista aggiudicare in via provvisoria i lavori, all’incertezza in ordine all’effettiva e definitiva aggiudicazione del contratto, senza che la stessa impresa possa vantare alcuna pretesa nei confronti dell’amministrazione, posto che l’aggiudicazione provvisoria, come detto, attribuisce al titolare un interesse di mero fatto.
Al privato è riconosciuta la possibilità di svincolarsi dall’offerta decorsi centottanta giorni dalla sua presentazione; ovvero, dopo l’aggiudicazione definitiva, in caso di mancata stipulazione del contratto entro sessanta giorni. Ipotesi, quest’ultima, nella quale, pur essendo espressamente esclusa la possibilità di un indennizzo[35], è tuttavia possibile immaginare un ristoro, ove naturalmente ne sussistano i presupposti, a titolo di risarcimento da responsabilità precontrattuale[36].
In ogni caso, al di là della possibilità di ristorare il privato per la lesione dell’eventuale affidamento riposto sul positivo esito della gara, emerge una asimmetria nella procedura di affidamento: manca un termine per l’aggiudicazione definitiva, a tutto vantaggio dell’amministrazione, a fronte invece del vincolo imposto al privato della presentazione della sua offerta. Ma soprattutto l’assenza del termine appare in contrasto con i principi espressi dalla legge n. 241 del 1990, primo fra tutti, l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e di concluderlo entro un termine certo.


4. Le soluzioni possibili
Dalle osservazioni svolte può osservarsi come sia quantomeno contraddittorio che, nel settore degli appalti pubblici, nel quale è indubbio il rischio di una contaminazione dell’attività amministrativa con pratiche corruttive, il legislatore abbia omesso di prevedere il termine entro cui l’amministrazione deve pronunciarsi e l’obbligo di adozione di un provvedimento espresso, anche se negativo. Con ciò discostandosi, come già rilevato, dallo spirito della stessa legge n. 241 del 1990 (e delle recenti modifiche apportate dalla l. n. 69 del 2009) che tende a scandire i tempi del procedimento e a dare soprattutto certezza del termine di conclusione del procedimento, ma anche dalla recente l. 190 del 2012 che, come detto, nel modificare l’art. 2 della 241/90, riconduce alla espressa conclusione del procedimento, cioè entro un termine certo e anche in caso di istanza manifestamente infondata, la funzione di prevenire e contenere il terreno di proliferazione di qualsiasi forma di mercimonio.
La necessità di estendere anche al settore dei contratti un termine di conclusione del procedimento pubblicistico di scelta del contraente è indubbia[37] e, al di fuori di un mirato intervento legislativo, è possibile ritenere che il nostro ordinamento contenga già una (o più di una) soluzione possibile.
Da un lato si deve riconoscere che l’obbligo di conclusione del procedimento in modo espresso ed entro un termine preciso abbia portata generale e trovi applicazione rispetto a tutti i procedimenti amministrativi, ivi compreso il procedimento di scelta di un contraente nei contratti ad evidenza pubblica. Sicché, il termine di conclusione del procedimento nei trenta giorni, contenuto all’art. 2 della legge n. 241 del 1990, deve trovare applicazione anche al procedimento di scelta del contraente. In tal senso, tra l’altro, sembra condurre la previsione contenuta all’art. 2 comma 3 del codice dei contratti pubblici, secondo cui «per quanto non espressamente previsto nel presente codice, le procedure di affidamento e le altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si espletano nel rispetto delle disposizioni sul procedimento amministrativo di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e integrazioni».
Per altro verso, la formulazione dell’art. 2 è tale da lasciare intendere che il termine dei trenta giorni operi, se non è diversamente previsto dalla legge. La norma, infatti, prevede che «nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni». Pertanto, con argomentazione opposta alla precedente, si potrebbe individuare un diverso termine nelle pieghe della procedura di affidamento dei lavori, di cui all’art. 11.
In particolare, tale soluzione potrebbe essere quella di ammettere che il termine di centottanta giorni entro cui il privato rimane vincolato alla propria offerta rappresenti, per l’amministrazione, il termine entro cui la stessa deve adottare il provvedimento di aggiudicazione definitiva.
Si tratta di una lettura che trae spunto dai principi desumibili dal codice civile in tema di proposta irrevocabile. L’art. 1329 c.c. ammette che, nel corso delle trattative precontrattuali, il proponente possa mantenere ferma la propria proposta per un certo periodo di tempo, nel corso del quale la proposta medesima non può essere oggetto di revoca.
La simmetria con la previsione contenuta nell’art. 11 comma 6 del codice dei contratti pubblici è evidente: solo che in tal caso la irrevocabilità dell’offerta (id est della proposta) non è frutto della libera iniziativa delle parti, ma è disposta per legge. Ebbene, secondo un certo orientamento della Corte di Cassazione, in caso di proposta irrevocabile, allo scadere del termine fissato per la irrevocabilità della proposta cade per intero la proposta, senza necessità di revocarla: con la conseguenza che laddove l’accettazione della proposta giunga dopo la scadenza del termine, la stessa accettazione non comporta la conclusione del contratto, ma vale come nuova proposta che deve essere accettata dall’originario proponente[38].
In altri termini, la scadenza del termine di durata della irrevocabilità della proposta contrattuale comporta la caduta dell’intera proposta e non semplicemente il riacquisto della facoltà di revoca.
Applicando il principio appena esposto alla disciplina di cui all’art. 11 del codice dei contratti pubblici ne consegue che scaduto il termine di centottanta giorni, nel quale il privato è per legge vincolato all’offerta presentata, la stessa offerta si dovrebbe intendere ritirata, con la conseguenza che l’aggiudicazione tardiva da parte dell’amministrazione dovrebbe essere “accettata” dallo stesso privato, non potendo produrre automaticamente l’effetto di rendere nuovamente irrevocabile l’offerta dell’aggiudicatario sino alla stipulazione del contratto, ai sensi dei commi 7 e 9 dell’art. 11.
La giurisprudenza amministrativa, per vero, non è concorde.
Sicché si riscontrano casi in cui il giudice amministrativo ha escluso che il termine dei centottanta giorni possa valere nei confronti della p.a., in quanto risultano assenti nella disposizione contenuta nell’art. 11 «preclusioni o decadenze a carico dell’amministrazione per il superamento del termine, mentre permane in capo alla stazione appaltante la potestà di chiedere il differimento della durata dell’impegno»[39].
E in altre occasioni ha precisato che «la ratio della disposizione relativa ad un termine di 180 giorni è evidentemente quella di mantenere ferma l’offerta per tutto il periodo di presumibile durata della gara e non quella di limitare nel tempo la validità (o meglio l’efficacia) dell’offerta, non corrispondendo certamente tale limitazione ad un interesse dell’amministrazione». Con la conseguenza che, laddove decorsi i termini di centottanta giorni, l’impresa volesse svincolarsi dall’offerta presentata, dovrebbe farlo espressamente, poiché l’offerta presentata, una volta scaduto il termine, non può «in assenza di una univoca manifestazione di volontà in tal senso da parte degli interessati considerarsi privata di efficacia»[40].
A fronte delle decisioni richiamate, in altra pronuncia, il Consiglio di Stato ha accolto una soluzione opposta, ma in linea con la tesi qui sostenuta: affermando, in primo luogo, che dopo l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria «l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva diviene concretamente esigibile da parte del privato, attesa la natura vincolata di tale atto e l’inesistenza di poteri interdittivi della pubblica amministrazione».
Si è pure precisato che la circostanza che il codice non fissi un termine espresso per l’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva «è fatto certamente collegabile all’esistenza comunque di un limite temporale massimo di efficacia dell’offerta, che è quella indicata dal bando, ovvero di centottanta giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione»[41].
Va poi segnalato un orientamento in forza del quale si riconosce all’impresa aggiudicataria la facoltà di rifiutare la stipulazione «a fronte di un comportamento ingiustificatamente omissivo e dilatorio dell’amministrazione» che omette di riaggiudicare i lavori a seguito delle statuizioni contenute in una sentenza del giudice amministrativo: e in tal caso la responsabilità per mancata stipulazione del contratto «non può essere qualificata come responsabilità precontrattuale, ma come responsabilità per inosservanza degli obblighi derivanti dal giudicato» [42].
Naturalmente, e per concludere, è ben possibile che l’amministrazione decida di non aggiudicare i lavori, perché nessuna delle offerte presentate è idonea a curare l’interesse pubblico: ma in tal caso, ai sensi dell’odierno art. 2 della l. 241 del 1990, ma, più in generale, in virtù del generale principio di buona amministrazione, deve illustrare alle imprese che hanno partecipato alla gara le ragioni della propria scelta.

 

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[1] In argomento cfr. B.G. Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La legge anticorruzione, Torino 2012.
[2] Le analisi sul tema della corruzione evidenziano come uno dei fattori che ne favoriscono lo sviluppo e la diffusione sia l’elevato grado di discrezionalità di cui gode il decisore pubblico, che dispone del potere di erogare e controllare il flusso degli investimenti pubblici; nonché, in generale, «l’opacità dei processi decisionali nel settore pubblico» e l’assenza di una qualsiasi forma «rendicontabilità nell’esercizio del potere pubblico»: A. Vannucci, La corruzione in Italia: cause, dimensioni, effetti, in B.G. Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La legge anticorruzione, Torino 2013, p. 40.
[3] Già C. Esposito, Riforma dell’amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova 1952, p. 245, sosteneva che «le mura degli uffici dovrebbero essere di vetro». È poi nota l’espressione di R. Villata, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. proc. Amm. 1987, 529, secondo cui la trasparenza è «un modo di essere della pubblica amministrazione», «al cui raggiungimento cospirano e concorrono strumenti diversi»; in senso analogo G. Arena, Trasparenza amministrativa, in Enc. Giur., Agg. vol. IV, Roma 1995. Si veda altresì R. Marrama, La pubblica amministrazione tra trasparenza e riservatezza nell’organizzazione e nel procedimento, in Dir. Proc. Amm. 1989, 416.
[4] In generale, F. Merloni (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano 2008; G. Arena, Trasparenza amministrativa (voce), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano 2006, 5945; M.R. Spasiano, I principi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano 2011, 83; E. Carloni, Amministrazione aperta e governance dell’Italia digitale, in Giorn. Dir. Amm. 2012, 1041. Anche la giurisprudenza amministrativa ha da sempre riconosciuto il “valore” della trasparenza: Cons. Stato, Ad. Plen. 7 febbraio 1997, n. 5, secondo cui la legge 241 del 1990 nel disegnare il rapporto tra cittadino e amministrazione tende ad assicurare l’efficienza dell’amministrazione anche «attraverso la salvaguardia del valore della trasparenza». Sul punto si veda altresì A. Massera, I criteri di economicità, efficacia ed efficienza, in in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 22.
[5] La bibliografia sull’argomento è ormai molto vasta. Si veda F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d. lgs. n. 33 del 2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, p. 18; M. Bombardelli, Fra sospetto e partecipazione: la duplice accezione del principio di trasparenza, in Istituzioni del federalismo, 2013, 657; M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa, in Giorn. Dir. Amm. 2013, 798; F. Manganaro, Evoluzione del principio di trasparenza, in Studi in memoria di Roberto Marrama, Napoli 2012; M. Occhiena, I principi di pubblicità e trasparenza, in M. Renna – F. Saitta (a cura di), I principi di diritto amministrativo, Milano 2012.
[6] Si tratta della previsione introdotta dall’art. 1 comma 38 della legge n. 190 del 2012, che ha modificato l’art. 2 della legge n. 241 del 1990. Dubbi e perplessità sulla disposizione in esame sono stati sollevati da M. Clarich, B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione, in B.G. Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La legge anticorruzione, cit., che annoverano la previsione dell’obbligo di provvedere tra le «parti peggiori» della riforma, p. 67.
[7] Così, ad esempio, il giudice amministrativo ha affermato che «ai sensi dell’art. 4, l. n. 312 del 1980, l’avvio del procedimento di inquadramento in qualifica superiore è subordinato alle seguenti condizioni: domanda da parte dell'impiegato; valutazione favorevole da parte del consiglio di amministrazione dell’ente e sottoposizione a prova selettiva. A fronte di un così articolato iter procedimentale, l’Amministrazione non ha un preciso obbligo di provvedere sulle istanze di inquadramento, ciò in quanto l’inquadramento dei pubblici dipendenti corrisponde, alla luce del quadro normativo di riferimento, ad una attività discrezionale (ancorché di natura tecnica in ordine alla verifica di corrispondenza delle mansioni al profilo professionale o qualifica funzionale) rispetto alla quale non sono ravvisabili diritti soggettivi (al preteso inquadramento) bensì interessi legittimi tutelabili con l’impugnativa o degli atti di inquadramento ritenuti invalidi nel termine di decadenza oppure del rifiuto/silenzio dell’Amministrazione opposto all’istanza di inquadramento», Tar Roma, Lazio, sez. I, 20 gennaio 2011, n. 563; più in generale, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa è così ricordato in Tar Napoli, Campania, sez. III, 3 novembre 2006, n. 9362: «l’art. 2, l. n. 241 del 1990 ha fissato un principio generale secondo cui, ove il procedimento consegue obbligatoriamente ad un’istanza del privato ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la p.a. ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso; obbligo quest’ultimo non sussistente, secondo l’elaborazione giurisprudenziale formatasi sul tema, solo nelle seguenti ipotesi: a) istanza di riesame dell’atto inoppugnabile per spirare del termine di decadenza; b) istanza manifestamente infondata; c) istanza di estensione “ultra partes” del giudicato». In dottrina, si veda M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento: l’obbligo di provvedere su domande «inammissibili» o «manifestamente infondate», in Dir. Amm. 2010, 103.
[8] L’art. 328 c.p. prevede che: «Il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto dell’ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire due milioni. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa». In dottrina si veda A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale, Parte speciale, I, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano 2008, p. 344 ss.
[9] In generale, in tema di diritto di accesso la bibliografia è molto vasta. Si veda, anche per la bibliografia riportata, N. Paolantonio, L’accesso alla documentazione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino 2012, p. 242.
[10] Si veda, di recente, Cons. Stato sez. V, 12 marzo 2009, n. 1429.
[11] Cass. sez. VI pen., 8 gennaio 1997, n. 12; l’orientamento è stato poi confermato da Cass. sez. VI pen., 6 aprile 2000, n. 5691. Deve osservarsi che in tempi più recenti la giurisprudenza penale (di merito e di legittimità) ha sostenuto che la responsabilità ex art. 328 c.p., in caso di inerzia a fronte di un’istanza di accesso, sussiste quando l’istanza di accesso è strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (da ultimo Cass. sez. VI pen., 5 marzo 2009, n. 14466); sicché, a contrario, la stessa responsabilità va esclusa ove l’istanza sia palesemente infondata (per cui, si legge in giurisprudenza, «rimangono al di fuori della tutela legale quelle richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità, sollecitano alla pubblica amministrazione un’attività superflua e non doverosa, la quale non è destinata a spiegare alcuna necessaria incidenza sul rapporto amministrativo, già ben definito nei suoi contorni essenziali», Cass. sez.VI pen., sent. 11 dicembre 1998, n.12977; negli stessi termini, più di recente, Cass. sez. VI pen., 13 marzo 2001, n. 18033). In dottrina, cfr. A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, op.cit., p. 357.
[12] Cass. sez. VI pen., 6 ottobre 1998, n. 12977, secondo cui «coincidendo il termine di trenta giorni dalla richiesta dell’interessato, formulata ex art. 328 comma 2 c.p., con il termine stabilito per il maturarsi del silenzio rifiuto (ex art. 25 della legge n. 241/90), deve escludersi la configurabilità del reato in esame se il pubblico ufficiale non compie l’atto richiesto e non risponde al richiedente, perché con il silenzio rifiuto, sia pure per una presunzione, si ha il compimento dell’atto e viene comunque a determinarsi una situazione che è concettualmente incompatibile con l’inerzia della P.A.».
[13] Secondo la dottrina penalistica, il bene dall’art. 328 c.p. è «l’interesse concernente il normale funzionamento della pubblica amministrazione, in quanto attiene alla effettività, tempestività ed efficacia dell’adempimento delle pubbliche funzioni e della prestazione di pubblici servizi», A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, op. cit., p. 337.
[14] In tal senso cfr. A. Vannucci, La corruzione in Italia: cause, dimensioni, effetti, in B.G. Mattarella, M. Pellissero (a cura di), La legge anticorruzione, cit., p. 25 ss.
[15] Il problema dell’atto discrezionale nei delitti di corruzione propria e impropria è da sempre avvertito, sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza penalistica. Si veda A. Spena, Il turpe mercato, Milano 2003, p. 286; A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, cit., p. 229; V. Manes, L’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione, in Riv. it. Dir. e proc. pen. 2000, 926; in giurisprudenza tra le pronunce più recenti Cass. pen. Sez. un., 24 ottobre 2013, 12228.
[16] Per la partizione della discrezionalità come «scelta inerente all’esercizio di una pubblica potestà» che può articolarsi nelle quattro specie della disprezionalità nell’an, nel quid, nel quomodo e nel quando si veda P.Virga, Il provvedimento amministrativo, Milano 1979. Per una recente ricostruzione teorica della discrezionalità, si veda L. R. Perfetti, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società, in Dir. Amm. 2013, 309.
[17] S’è già avuto modo di ricordare, al riguardo, l’opinione di M. Clarich, B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione, cit.
[18] Sul punto si rinvia a quanto osservato in M.C. Cavallaro, Gli elementi essenziali del provvedimento amministrativo. Il problema della nullità, Torino 2012, p. 145.
[19] Tali questioni sono affrontate e per vero superate, sia pure in tempi antecedenti la riforma in esame, da M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento: l’obbligo di provvedere su domande «inammissibili» o «manifestamente infondate», cit. alle cui osservazioni si rinvia.
[20] F. G. Scoca, L’attività amministrativa e la sua disciplina, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto Amministrativo, Torino 2014, p. 183.
[21] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino 2013, p. 387.
[22] M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Milano 1988, p. 797.
[23] R. Caranta, I contratti pubblici, Torino 2012, 399. Com’è noto, l’obbligo della preventiva determinazione a contrattare (con indicati il fine che con il contratto si intende perseguire, l’oggetto, la sua forma e le clausole ritenute essenziali, nonché le modalità di scelta del contraente) è previsto da tempo per i contratti delle amministrazioni locali, che per tale ragione non necessitano della successiva approvazione (art. 192 d. lgs. 267 del 2000); a differenza di quanto accade per le amministra zioni dello Stato che invece non sono tenute ad adottare la delibera a contrarre (quantomeno con il contenuto specifico previsto per le amministrazioni locali, anche se è previsto comunque un progetto di contratto) ma i contratti da esse conclusi sono soggetti ad approvazione (art. 19 r.d. 2440 del 1923).
[24] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino 2012, p. 392.
[25] Art. 11 comma 4, cioè il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa, artt. 82 e 83.
[26] Eventualmente anche attraverso il meccanismo del silenzio assenso, secondo quanto disposto dall’art. 12.
[27] Le riflessioni svolte riprendono in parte quanto già osservato in M.C. Cavallaro, Fasi delle procedure di affidamento, in L.R. Perfetti (a cura di), Codice dei contratti pubblici commentato, Milano 2013, p. 160 ss.
[28] Art. 11 comma 10. Tale effetto vincolante si produce anche quando l’aggiudicazione intervenga oltre il termine dei centottanta giorni. È possibile cioè che il privato presenti la propria offerta, alla quale è vincolato per almeno centottanta giorni, e che l’amministrazione aggiudichi definitivamente la gara ben oltre tale termine: in tal caso l’aggiudicazione avrebbe ugualmente l’effetto di vincolare nuovamente il privato all’offerta a suo tempo presentata sino alla stipulazione del contratto.
[29] TAR Umbria, Perugia, sez. I, 6 aprile 2011, n. 172, in Urb. App. 2011, 1218, con nota di I. Filippetti, L’omessa previsione di un termine per l’aggiudicazione definitiva degli appalti pubblici.
[30] Sulla disciplina europea della concorrenza «rivolta alla tutela delle situazioni soggettive delle imprese» cfr. R. Cavallo Perin – G. M. Racca, La concorrenza nell’esecuzione dei contratti pubblici, in Dir. amm. 2010, 325, che riprendono le osservazioni di A. Romano, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili sono diritti soggettivi, ibidem, 1998, 1.
[31] Si veda di recente TAR Liguria Genova, sez. II, 20 gennaio 2012, n. 151.
[32] TAR Campania Napoli, sez. I, 1 febbraio 2013, n. 692.
[33] Cons. Stato sez. VI, 19 gennaio 2012, n. 195.
[34] TAR Sicilia Catania, sez. III, 18 febbraio 2013, n. 550.
[35] Cfr. art. 11 comma 9.
[36] La responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, infatti, potrebbe sorgere solo a favore di chi è già stato individuato come contraente (cioè l’aggiudicatario in via definitiva), non anche a favore di chi, come l’aggiudicatario in via provvisoria, vanta un interesse di mero fatto. La giurisprudenza ha altresì escluso la tutela risarcitoria nei confronti dell’aggiudicatario in via provvisoria nel caso in cui legittimamente l’amministrazione non faccia seguire l’aggiudicazione definitiva e ritiri gli atti di gara. In tal caso, inoltre, essendo l’aggiudicazione provvisoria atto endoprocedimentale, il suo eventuale ritiro non comporta nemmeno obbligo di indennizzo ex art. 21 quinquies della l. 241 del 1990, in quanto si tratterebbe di revoca impropria: cfr. sul punto TAR Campania Napoli, sez. I, 26 novembre 2012, n. 4810. Di recente il Consiglio di Stato ha ricordato che, in tema di contratti ad evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione deve essere ammessa sia «in presenza del preventivo annullamento per illegittimità di atti della sequenza procedimentale», sia «nell’assodato presupposto della loro validità ed efficacia: a) nel caso di revoca dell’indizione della gara e dell’aggiudicazione per esigenze di una ampia revisione del progetto, disposta vari anni dopo l’espletamento della gara; b) per impossibilità di realizzare l’opera prevista per essere mutate le condizioni dell’intervento; c) nel caso di annullamento d’ufficio degli atti di gara per un vizio rilevato dall’amministrazione solo successivamente all’aggiudicazione definitiva o che avrebbe potuto rilevare già all'inizio della procedura; d) nel caso di revoca dell’aggiudicazione, o rifiuto a stipulare il contratto dopo l’aggiudicazione, per mancanza dei fondi», Cons. Stato, sez. V, 7 settembre 2009, n. 5245, poi ripresa da Cons. Stato sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4674. Solo in poche occasioni, il giudice ha affermato l’obbligo della stazione appaltante di aggiudicare in via definitiva la gara a favore dell’aggiudicatario provvisorio, con conseguente onere di risarcimento «qualora medio tempore fosse stato bandito, interamente espletato ed aggiudicato a diverso soggetto altra gara avente il medesimo oggetto»: TAR Molise Campobasso, 18 novembre 2004, n. 689.
[37] La materia dei contratti pubblici è, purtroppo, un terreno di proliferazione del fenomeno corruttivo e criminale: si veda più diffusamente, M. Immordino, Gli appalti pubblici tra documentazione antimafia ed esigenze di semplificazione, in Dir. e processo amm., n. 1, 2013.
[38] Corte Cass. sez. II, 29 agosto 1991, n. 9229, secondo cui «la proposta irrevocabile non può essere scissa in un'offerta potenzialmente soggetta a revoca e nella rinuncia al potere di revoca per un determinato periodo di tempo con la conseguenza che, scaduto il termine di durata della rinuncia al potere di revoca, rimarrebbe in vita l’offerta come semplice proposta revocabile, in quanto in caso di proposta ferma o irrevocabile l’irrevocabilità è una qualità intrinseca della proposta stessa che, con la scadenza del termine, viene a caducarsi senza che all’uopo occorra una qualsiasi revoca».
[39] Cons. Stato, sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8224.
[40] Cons. Stato, sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1169.
[41] Cons. Stato sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1766.
[42] TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22 novembre 2012, n. 695.

 

(pubblicato il 20.10.2014)

 

 

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