|
|
|
|
n. 10-2014 - © copyright |
LUCA STICCHI
|
|
L’abuso del processo da un’altra
prospettiva: il non liquet del giudice [1]
Sommario: 1. Le ragioni di una nuova prospettiva:
il giudice soggetto processuale super partes. – 2.
L’assorbimento dei motivi quale ipotesi di omessa pronuncia. – 3. I
rischi connessi alla sentenza in forma semplificata. – 4.
Riflessioni conclusive.
1. Intorno all’abuso del
processo, nel corso degli ultimi anni, si è assistito ad un
proliferare di definizioni, di rappresentazioni immaginifiche, di
aneddoti, di retorica, con la convinzione che dando contenuto a
questa figura si potessero individuare e debellare tutti i mali di
un sistema giudiziario già di per sé claudicante[2].
Gli ultimi
interventi normativi, in ordine di tempo, sono stati gli articoli 40
e 41 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, poi in parte modificati dalla
legge di conversione (l. 11 agosto 2014, n. 114), i quali hanno
emendato il codice del processo amministrativo prevedendo, il primo,
una delega agli organi di giustizia amministrativa per la redazione
di non meglio precisate linee guida in ordine alla lunghezza degli
scritti defensionali in materia di appalti[3], con conseguenti
sanzioni; il secondo, ulteriori ipotesi, questa volta generalizzate,
di condanna alle spese[4] per la parte soccombente che abbia agito
violando le “regole del gioco”[5].
Occorre chiarire sin
dall’inizio che questo scritto non intende apportare un contributo
per una definizione dell’abuso del processo in senso tradizionale –
che, a parere dello scrivente, è ben rappresentata dalle posizioni
espresse già qualche anno addietro da acuta dottrina[6]; intende,
invece, pervenire ad una demitizzazione di quel concetto,
ipotizzando che l’unico attore nel teatro processuale in grado di
“abusare” della propria posizione è il giudice, terzo e imparziale,
ed unico soggetto al quale l’ordinamento costituzionale e la legge
impone degli obblighi, essendo quest’ultimo l’unico rappresentante
della giustizia nella trattazione degli specifici affari
giudiziari[7].
Così, a titolo esemplificativo, si ricorda quella
pronuncia della Cassazione con la quale veniva censurato il
comportamento di un giudice, il quale, in quasi cento provvedimenti,
«divenuti oggetto di altrettanti esposti, [aveva] precluso alle
parti di esercitare il proprio diritto di difesa ed in particolare
modo quello dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c., ovvero non
consentito in radice l’attivazione del contraddittorio, definendo
tali giudizio con la identica decisione di inammissibilità,
improcedibilità, improponibilità, carenza di legittimazione ed
interesse ad agire»[8].
Ed è, per l’appunto, analizzando
sommariamente alcuni orientamenti giurisprudenziali che si intende
corroborare quella dottrina che già tempo addietro aveva individuato
nel giudice l’unico soggetto in grado di operare un abuso
all’interno della realtà processuale[9]; l’unica figura, quella
dell’abuso del giudicante, in grado di porsi in frizione con il
supremo interesse della giustizia.
La citazione di un obiter
dictum di una sentenza del giudice amministrativo renderà più
chiaro l’intento dello scrivente. Esistono alcune ipotesi, infatti,
in cui il giudice, per ragioni diverse che nel prosieguo verranno
richiamate, tende a sacrificare l’esigenza dell’effettività della
tutela in nome della «rarità della risorsa giudiziaria, (cioè) un
bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto
a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero
necessario»[10].
La rarità di cui parlano i giudici rappresenta
un giano bifronte: da un lato, può incontrare l’effetto deterrente
di condannare condotte processuali nelle quali «l’azione venga
esercitata in forme eccedenti o varianti rispetto alla tutela
attribuita dall’ordinamento»[11], dall’altro, può far assurgere ad
unico canone dell’amministrazione della giustizia il principio di
economicità e/o la c.d. ragionevole durata del processo.
Proprio
il principio di economicità, seguito a stretto giro dalla c.d.
ragionevole durata del processo, definita “incubo” da autorevole
dottrina[12], hanno determinato la giurisprudenza – e, ancor prima,
il legislatore – a muoversi in una direzione di semplificazione e di
alleggerimento della giustizia; semplificazione e alleggerimento
che, tuttavia, dietro i meritevoli fini, spesso hanno sortito
effetti di denegata giustizia.
2. L’ipotesi che sarà
analizzata è emblematica nella sua peculiarità. In questa
prospettiva, il non liquet va interpretato quale effetto
della priorità data al principio di economicità, in spregio
all’effettiva soddisfazione del ricorrente: si tratta della prassi
dell’assorbimento dei motivi.
Dare una definizione di
assorbimento dei motivi non è agevole, e ciò in quanto non è
riscontrabile, nella prassi formatasi, una definizione unitaria.
Attenta dottrina[13], per l’appunto, nel dare una sistematica a
detto fenomeno, aveva immediatamente distinto le ipotesi
dell’assorbimento proprio, da quelle dell’assorbimento improprio,
così facendo emergere come il concetto in esame non fosse di per sé
elemento negativo e da obliterare in ogni caso.
Nell’addentrarsi
nella fenomenologia emergente dal quadro giurisprudenziale
consolidatosi negli anni, primo elemento da considerare è
rappresentato dalle frizioni che l’applicazione della prassi in
esame possa determinare nell’ambito di un processo; dette frizioni
sono rappresentate, per un verso, dalla violazione dell’art. 112
cpc, che impone la corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato[14], per altro verso, dalla limitazione del vincolo
conformativo derivante da una pronuncia giudiziale[15]. Entrambi
questi elementi sono in grado di condizionare la soddisfazione della
pretesa del ricorrente ed eventualmente di frustrarla, in tutto o in
parte.
In un tentativo di semplificazione, nella prassi del c.d.
assorbimento dei motivi di ricorso, alcuni vizi, considerati
assorbenti e prevalenti, vengono preferiti ad altri, con l’effetto
che il potere può essere riesercitato da parte della p.A. senza
particolari limiti derivanti dalla conformazione al giudicato, salvo
l’unico motivo accolto.
Per comprendere appieno il significato, a
volte distorsivo[16], di questa prassi, occorre porsi nella
prospettiva della sentenza, intesa quale provvedimento nel quale il
giudice versa il contenuto del proprio ragionamento giuridico:
esiste, infatti, un ordine logico di trattazione. Primo profilo che
il giudice valuta, per l’appunto, sono i presupposti processuali:
giurisdizione, tempestività, integrità del contraddittorio,
esistenza di un provvedimento da impugnare nella giurisdizione di
legittimità, legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere. Non
esiste, tuttavia, una norma specifica che disciplini la trattazione
delle questioni, ma solo un criterio di opportunità e spesso il
giudice, tra più questioni, predilige «quella idonea a
risolvere la controversia con una pronuncia sul rito». Ed ancora è
possibile individuare sentenze «che espressamente prescindono
dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate»[17] dai
contendenti per addivenire ad un rigetto di merito del
ricorso.
Attraverso uno sforzo ordinatorio, si diceva, è
possibile scomporre il fenomeno dell’assorbimento in due tipologie,
l’una fisiologica, l’altra patologica.
Per quanto attiene alla
prima, il ragionamento operato dal giudicante si fonda
sull’inutilità dell’esame di taluni motivi, in quanto l’accoglimento
di una certa domanda ha già soddisfatto l’esigenza di giustizia
sostanziale del ricorrente[18].
Al fine di comprendere il portato
di detto iter logico, è necessario introdurre il concetto di motivo
di ricorso: occorre chiedersi, più nello specifico, se il motivo di
ricorso rientri o meno nell’oggetto del giudizio.
A tal
proposito, attenta dottrina definisce il motivo quale causa
petendi e cioè quale «fatto costitutivo di un diritto
all’invalidazione»[19]. Se, dunque, il motivo di ricorso rappresenta
la modalità attraverso la quale la parte rappresenta al giudice quel
modo lesivo «di estrinsecarsi della azione amministrativa»[20],
allora è lo stesso organo giudicante a dover interpretare
l’esistenza del vizio – come ricostruibile dai motivi di ricorso –,
indipendentemente dal nomen iuris fornito dal ricorrente: in
questo modo è possibile superare quel modus operandi tipico
di certi patrocinatori di parcellizzare i motivi di ricorso in
numerose censure[21].
Ed è allora, certamente, con riferimento ad
ipotesi di censure parcellizzate riducibili ad unum che è
ammissibile il c.d. assorbimento: viene così superata, attraverso
l’intervento del giudice, la «pluralità artificiosa delle varie
censure»[22].
Ciò, tuttavia, non esaurisce lo spettro delle
situazioni in cui possa imporsi il fenomeno de quo; infatti,
non è detto che i motivi di ricorso tendano tutti al medesimo
risultato, né tanto meno che non vi sia un concorso di azioni.
Si
può, per l’appunto, immaginare un ricorso in cui la pluralità di
motivi coincida con differenti tipi di annullamento ottenibili: è
chiaro che un annullamento pronunciato per vizi formali abbia una
valenza diversa, quanto meno sotto il profilo del vincolo
conformativo, rispetto ad una invalidazione per vizi sostanziali.
Così come, si può avere la richiesta di annullamento accompagnata da
richieste di accertamento e/o di riforma di un rapporto
sostanziale.
Nell’un caso, ha senso ammettere l’assorbimento se e
nella misura in cui il giudicante prescelga la soluzione più
favorevole al ricorrente, quella cioè che gli consenta la
massimizzazione del risultato richiesto; nell’altro caso, possono
subentrare ipotesi di interdipendenza logica, tra le domande
formulate, che possono condurre a operazioni di graduazione delle
medesime, da parte del giudice, a seconda della fondatezza o meno
dei motivi prospettati[23].
Ed è proprio nelle ipotesi appena
divisate che l’assorbimento può essere definito proprio e può aver
luogo senza alcun pregiudizio per la parte ricorrente. A titolo
esemplificativo, il Consiglio di Stato così afferma: «la tecnica
dell’assorbimento dei motivi deve ritenersi legittima […] se è
limitata ai soli casi, del tutto marginali, in cui sussista un
rapporto di stretta e chiara continenza, di pregiudizialità o
implicazione logica tra la censura accolta e quella non
esaminata»[24].
Se è vero che, come affermava acuta dottrina, «il
processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un
diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto ad
ottenere»[25], è evidente che improprio diventa, dunque,
quell’assorbimento che opera al di fuori delle ipotesi
rappresentate.
Si pensi all’ipotesi della censura operata dal
ricorrente avverso un atto caratterizzato dall’esercizio di un
potere discrezionale: ebbene, in tali eventualità, se si considerano
i canoni costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità,
tutti gli “errori” commessi dall’Amministrazione rappresentano
altrettante ipotesi in cui «la gestione del potere si è discostata
sotto plurimi aspetti da quei canoni di comportamento fissati dal
sistema costituzionale. A questo si aggiunga che possono anche
concorrere talune di quelle figure sintomatiche che rappresentano
vizi logici del ragionamento amministrativo»[26]. A detti vizi
corrispondono altrettanti motivi, tutti espressione di altrettante
carenze degli atti impugnati, «vuoi perché l’autorità ha finalizzato
il suo potere per un interesse diverso da quello “canonizzato”, vuoi
perché la scelta adottata, tra quelle possibili, è inficiata da un
salto nel procedimento logico di formazione della
volontà»[27].
Assorbire, in queste ipotesi, significherebbe
frustrare le esigenze di giustizia del privato, limitando la portata
vincolante della pronuncia rispetto al riesercizio del potere da
parte dell’Amministrazione pubblica. Infatti, l’oggetto del
giudizio, nel caso rappresentato, è costituito dal complesso dei
fatti lesivi e l’intero spettro dei fatti lesivi deve essere
valutato dal giudice.
A valutazioni identiche si giunge
prendendo in esame quelle ipotesi in cui a motivi di ricorso di
ordine formale si aggiungono motivi di ordine sostanziale.
Con
riferimento a tale ultima ipotesi, la normativa antecedente al
codice del processo amministrativo, in particolare l’art. 45 del
testo unico delle leggi del Consiglio di Stato, nel disciplinare gli
effetti dell’accoglimento del ricorso, stabiliva che l’accoglimento
del ricorso per motivi di incompetenza comportasse l’annullamento
dell’atto impugnato e la rimessione dell’affare all’autorità
compente. Di qui, la giurisprudenza, benché la dottrina fosse, in
buona parte, di segno opposto[28], riteneva che la norma andasse
interpretata nel senso che, laddove il ricorrente avesse censurato
sotto il profilo della competenza un provvedimento, anche se tale
profilo si rivelava concomitante con altri vizi, quel provvedimento
sarebbe dovuto essere annullato solo per il profilo competenziale,
con conseguente rimessione della questione all’autorità
competente[29].
Una lettura del genere, perpetrata per anni dalla
giurisprudenza amministrativa, ha significato un evidente vulnus di tutela per il privato, frutto di una
interpretazione ancorata ad una lettura del processo amministrativo
quale processo sull’atto e non sul rapporto[30]; vulnus che
frustra le esigenze di giustizia sostanziale, sulla base di una
presunta volontà legislativa che già negli anni settanta attenta
dottrina[31], peraltro non isolata[32], riteneva inesistente, atteso
che quella norma era stata introdotta nell’ordinamento in una fase
in cui i ricorsi erano «prevalentemente formulati sulla base di
un’unica domanda di impugnativa»[33].
Apparrebbe, dunque, la
priorità del vizio di incompetenza rispetto agli altri vizi.
Sennonché, detta ricostruzione non trova unanime neanche la
giurisprudenza[34]. Anzitutto, il Consiglio di Stato si è espresso
nel senso di rimettere alla discrezionalità del giudice l’ordine con
il quale intenda procedere all’esame delle questioni sottoposte al
medesimo[35]. Ancora, sempre il medesimo Consiglio ha affermato la
necessità che l’ordine di trattazione risponda all’esigenza di
soddisfare pienamente ed efficacemente l’interesse dedotto in
giudizio[36]. Quanto alla parte, essa, chiaramente, può disporre
liberamente dell’ordine dei motivi di censura[37].
La lettura
tradizionale dell’articolo 45 può dirsi oggi superata, per un verso,
da una giurisprudenza costituzionalmente orientata consolidatasi
negli ultimi anni di vigenza della normativa processuale
previgente[38], per altro verso, dalla espunzione del medesimo
articolo dal nuovo codice.
In disparte l’ipotesi
dell’incompetenza, è interessante notare come, nel corso degli anni,
l’orientamento giurisprudenziale ha teso ad orientarsi nella
direzione, siccome prima prospettata, della priorità dei vizi che
siano idonei a soddisfare la pretesa dedotta in giudizio, ed ha
ammesso l’assorbimento solo ove «vi sia un’interdipendenza logica
tra le varie censure, poiché solo in questo caso l’assorbimento dei
motivi è sufficiente a garantire lo stesso effetto utile, ovvero
consentire l’effetto conformativo della pronuncia»[39].
Se
l’ultima ricostruzione appare satisfattiva della pretesa dedotta in
giudizio, non può non sottacersi il rischio, già verificatosi in
passato, della denegata giustizia; rischio tanto più presente quanto
più si acceda alla lettura tradizionalista, non rispettosa né
dell’art. 112 cpc, che predica la corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato, né dell’effetto conformativo della sentenza, e che
produce l’effetto opposto a quello per la quale è nata: deflazionare
il contenzioso[40].
Tra gli altri aspetti, di non poco momento,
si deve rappresentare che l’assorbimento dei motivi, operato
illegittimamente in primo grado, conduce ad una conseguenza: quei
motivi assorbiti che siano stati oggetti di appositi motivi di
appello, una volta valutati dal Consiglio di Stato, condurrebbero
alla conseguenza che determinate censure siano state oggetto di
disamina in un solo grado di giudizio.
Peraltro, la Carta
costituzionale, all’art. 125, costituzionalizza, almeno per il
processo amministrativo, il doppio grado di giurisdizione[41]. E
allora, logica conseguenza dovrebbe essere una piena salvaguardia di
detto principio, di gran lunga prevalente rispetto ad altri principi
che lumeggiano il processo, quali i principi di ragionevole durata e
di economia processuale.
Con riferimento alla questione in esame,
la giurisprudenza si è interrogata a proposito degli effetti
dell’omessa pronuncia su determinati motivi e se la stessa potesse
determinare una violazione del diritto di difesa delle parti, tale
da condurre ad una rimessione al primo giudice dell’intera
controversia. Ebbene, il Consiglio di Stato ha ritenuto, e ritiene,
in maniera pressoché granitica, che l’omessa pronuncia non possa
comportare il rinvio al primo giudice, potendosi ritenere che detto
Consesso sia dotato di quei poteri di rivalutazione dell’intera
vicenda, tale da non determinare un vulnus alla sfera
giuridica del ricorrente[42].
Ad oggi, il codice del processo
amministrativo consente esplicitamente l’assorbimento dei motivi
nella sola ipotesi della sentenza in forma semplificata[43]. La
formulazione della norma è tale da non lasciare spazio a dubbi:
soltanto laddove il giudice ravvisi la manifesta fondatezza ovvero
la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza del ricorso decide in forma semplificata, sempre che
sia stata accertata la corretta instaurazione del contraddittorio e
che nessuna delle parti intenda proporre motivi aggiunti o
regolamento di competenza o di giurisdizione. Si tratta, quindi, di
ipotesi ben delineate, in cui lo stesso legislatore ritiene che la
pretesa del privato, evidentemente sfornita di elementi fondamentali
o comunque non meritevole di tutela o, per converso, particolarmente
meritevole di tutela e pienamente fondata, possa veder prevalere il
principio di economicità.
Il fenomeno dell’assorbimento[44], per
concludere, assume oggi differenti profili rispetto al passato: se
un tempo l’assorbimento improprio veniva in rilievo con particolare
riferimento al vizio di incompetenza, oggi costituisce sorvegliato
speciale con le sentenze in forma semplificata[45]. Il loro uso
improprio, difatti, riporta alla luce importanti questioni che nel
prosieguo verranno brevemente analizzate.
3. La sentenza in
forma semplificata[46], per l’appunto, potrebbe riproporre il
rischio di un nuovo focolaio della prassi assorbitiva. Sul punto,
occorre tener presente che l’articolo 60 del codice del processo
amministrativo, facendo proprio l’arresto della Corte Costituzionale
in tema di sentenza semplificata nell’ambito del rito degli
appalti[47], ha stabilito che, affinché il collegio possa decidere
con sentenza in forma semplificata all’esito dell’udienza cautelare,
è necessario che il medesimo collegio accerti la completezza del
contraddittorio e dell’istruttoria e senta, in ordine a tale
evenienza, le parti costituite[48].
Ora, si pensi
all’ipotesi di una sentenza in forma semplificata al di fuori dei
casi previsti: in un caso, se a mancare fosse uno degli accertamenti
o l’avviso previsti dalla legge, si sarebbe di fronte ad una ipotesi
idonea a determinare una rimessione dell’affare al primo giudice, ai
sensi dell’art. 105 del codice del processo amministrativo[49];
nell’altro caso, se a mancare, invece, fosse uno dei presupposti
sostanziali, ossia la manifesta ammissibilità o inammissibilità del
ricorso, allora si sarebbe di fronte ad una di quelle circostanze in
cui il Consiglio di Stato dovrebbe decidere sulla questione al
medesimo deferita, con l’ovvia conseguenza della perdita, nei
confronti del soggetto appellante, di un grado di giudizio[50].
Situazione diversa si avrebbe, invece, nell’ipotesi in cui il
giudice di primo grado avesse obliterato completamente una memoria
difensiva[51]: in questo caso il rinvio al primo giudice
rappresenterebbe un atto dovuto.
Quanto al primo punto preso in
considerazione, occorre tener presente che l’omessa informazione
alle parti, circa la volontà di definire la controversia all’esito
del giudizio cautelare in forma semplificata, integra una violazione
del diritto di difesa, e ciò in ragione di una interpretazione
sistematica delle norme del codice del processo: laddove tale onere
non venga assolto, infatti, il ricorrente o il resistente che
volesse proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento
di competenza o, ancora, di giurisdizione, si ritroverebbe di fronte
ad un processo “mutilato”.
Si pensi, ancora, all’ipotesi in cui
nel corso della discussione orale, in sede di domanda cautelare, non
siano emerse, da parte del Collegio, perplessità in ordine alla
ricevibilità o ammissibilità del ricorso, ovvero ancora la
perenzione del giudizio e, a conclusione di tale discussione, il
Collegio dichiari il proprio intento di definire il giudizio con
sentenza in forma semplificata. In tal caso, chiaro è che il
Collegio, così agendo, violerebbe il diritto di difesa delle parti,
ponendo alla base della decisione finale una questione rilevata
d’ufficio e non sottoposta al contraddittorio tra le parti, con la
conseguenza che il Consiglio di Stato sarebbe chiamato a rimettere
la questione al primo giudice, trattandosi di una violazione così
grave da mettere in discussione in radice l’instaurazione di un
giusto processo[52].
Laddove, invece, a decidere in forma
semplificata fosse il Collegio in udienza pubblica, il medesimo non
avrebbe alcun onere informativo nei confronti delle parti, atteso
che si sarebbe di fronte ad una normale tecnica redazionale della
sentenza. La giurisprudenza ha ritenuto, infatti, che «si tratta di
disposizione scarsamente significativa perché, se il processo è
giunto alla discussione del merito in udienza pubblica, non si pone
alcun problema riguardo al contraddittorio ed alla difesa delle
parti, e la sentenza può essere detta “semplificata” solo nel senso
che è motivata sinteticamente, il che del resto è sempre possibile e
anzi auspicabile»[53]
Tirando le fila: la disciplina codicistica
in tema di sentenza in forma semplificata altro non è se non una
previsione normativa che rende legittima la prassi dell’assorbimento
dei motivi. Atteso che per le ipotesi più gravi, ossia la mancata
integrazione del contraddittorio, ovvero la istruttoria difettosa,
ovvero ancora l’impedimento alle parti di poter esercitare i propri
diritti processuali, è prevista la rimessione al giudice di primo
grado, il problema che oggi ci si intende porre, richiamando il
secondo punto prima rappresentato, è quello delle ipotesi in cui il
giudice o in sede cautelare o in sede di udienza pubblica decida di
definire la controversia con una sentenza in forma semplificata, in
assenza dei relativi presupposti.
In altri termini, ci si
dovrebbe chiedere se tale condotta integri o meno un’ipotesi di
violazione del principio del contraddittorio ovvero del diritto di
difesa di una delle parti.
Sin da subito, è opportuno far
presente che, in questi casi, la giurisprudenza è ferma nel ritenere
che l’ipotesi dell’omessa pronuncia non rappresenti un error in
procedendo tale da comportare una rimessione della questione al
primo giudice, ma solo un vizio della sentenza che il giudice di
appello può emendare decidendo nel merito la questione[54].
Da
tanto, consegue una prima riflessione: secondo la giurisprudenza
consolidatasi, il doppio grado di giudizio non costituisce elemento
portante del diritto di difesa del ricorrente[55].
È
interessante, a tal proposito, analizzare brevemente una sentenza
del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione
Siciliana[56]. La vicenda trae origine da una pronuncia di
inammissibilità di un ricorso avverso il silenzio, presentato da una
società affidataria dei servizi di sanificazione e pulizia di
un’azienda ospedaliera, finalizzato ad ottenere l’accertamento
dell’obbligo di provvedere dell’ente ospedaliero rispetto ad
un’istanza della ricorrente riguardante il diritto a percepire gli
adeguamenti ISTAT rispetto ai corrispettivi pattuiti e
maturati.
Detta vicenda veniva decisa dal TAR Palermo con una
sentenza di inammissibilità, attesa la natura privatistica dei
rapporti inter partes, che non consentiva in radice
l’attivazione dello strumento dell’azione avverso il silenzio.
Il
Consiglio di Stato, a seguito di appello, preso atto dell’omessa
pronuncia da parte del giudice di prime cure con riferimento alla
contestuale domanda della ricorrente di accertamento del diritto
alla percezione dei predetti adeguamenti con conseguente condanna,
decideva di rimettere la questione al tribunale territoriale, non
prima, però, di aver sottolineato come, normalmente, l’omessa
pronuncia non comporti la rimessione al giudice di prime cure.
Posto, però, che, nel caso di specie, appellante e appellata
concordavano, ancorché per ragioni differenti, sulla rimessione
della controversia dinanzi al giudice di primo grado, il Consiglio
di Stato affermava: sul «difetto di procedura che si è
materializzato nella inesatta qualificazione e incompleta pronuncia
data dal Tar, conseguente a un omesso esame del ricorso nel suo
complesso, si è innestata la lesione del diritto di difesa correlata
alla omessa applicazione del rito ordinario ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 32 del cpa»[57].
Orbene, il fatto che le
parti, entrambe, ritenessero violato il proprio diritto di difesa e
chiedessero la rimessione al primo giudice ha spinto il Consiglio di
Stato a tratteggiare, quale violazione del diritto di difesa, un
assorbimento improprio.
Fermo restando che il processo
amministrativo è un processo di parti, non è chiaro in che modo la
volontà delle medesime possa impingere questioni inerenti alla
natura e alle caratteristiche del giudizio d’appello.
Forse,
però, dietro una motivazione ritrosa e sibillina, si nasconde una
certa sensibilità, sopita ormai da una giurisprudenza monolitica del
Consiglio di Stato, evidentemente, per un verso, diretta a
salvaguardare i diritti delle parti, per altro verso, costretta,
salvo i casi più gravi, a far prevalere il principio di economicità
sull’effettività della tutela: la scelta di rimessione al primo
giudice, difatti, allungherebbe il cammino processuale e, pertanto,
andrebbe a sacrificare la ragionevole durata del processo; «ma non
sempre la celerità del processo è bene così prezioso da consigliare
il sacrificio di forme processuali garantistiche efficaci»[58].
A
dimostrazione del fatto che, nei casi di assorbimento improprio dei
motivi, appare maggiormente satisfattivo delle esigenze del
ricorrente, in nome dell’effettività della tutela, che il giudice
d’appello, una volta accertato il diniego di giurisdizione, rinvii
la questione al primo giudice, vi è un costante orientamento della
Corte di Cassazione, a tenore del quale l’omessa pronuncia rispetto
a motivi ritenuti assorbiti o superati comporta che gli stessi
restino impregiudicati, non potendosi intendere formato il giudicato
rispetto ai medesimi[59].
In altri termini, l’assorbimento
improprio, come anche l’uso improprio della sentenza in forma
semplificata, significa per la parte ricorrente o resistente che un
giudice di primo grado non ha valutato talune censure in alcun modo
sovrapponibili, fungibili o interdipendenti alle altre: chiaro è
che, sebbene vi sia un onere di appello, il Consiglio di Stato non
dovrebbe occuparsene, ma, dopo aver accertato il diniego di
giustizia, dovrebbe rimettere la questione al primo giudice.
Da
tale asserzione, si perviene ad un punto fermo: non ogni omessa
pronuncia comporta la rimessione al primo giudice, ma solo
quell’omissione in grado di assumere le forme dell’inesistenza –
ossia la mancata pronuncia su alcune censure autonome, in alcun modo
rapportabili a quella assorbente; inesistenza cui consegue che le
medesime “non pronunce” non possano passare in giudicato: si tratta,
nei fatti, di ipotesi di non liquet.
L’eventuale perdita
di un grado di giudizio, infatti, significherebbe, per la parte ai
danni della quale si è perpetrato il vizio dell’omessa pronuncia,
una indebita limitazione del proprio diritto ad avere un doppio
grado di giurisdizione, che, come si è visto, nel caso della
giustizia amministrativa, è principio costituzionale[60].
Vero è
che, mentre sotto la vigenza della legge n. 1034 del 1971, l’art.
35, recante norme in materia di rimessione al primo giudice della
controversia pervenuta innanzi al Consiglio di Stato, statuiva
genericamente che qualsiasi vizio di procedura o di forma avrebbe
comportato la rimessione al primo giudice, l’attuale disciplina
dell’art. 105 sembrerebbe aver limitato detto rinvio alle sole
ipotesi in esso elencate, dal quale sarebbero scomparsi riferimenti
a detti vizi; è altrettanto vero, però, che le ipotesi di
assorbimento improprio o l’uso improprio dello strumento de
quo, nelle forme della pronuncia inesistente, ridondano in una
più generale violazione del diritto di difesa.
Se, infatti, per
vizio di procedura deve intendersi quel vizio che comporta una
violazione delle regole poste alla base del corretto uso degli
strumenti processuali, e il vizio di procedura consente
l’annullamento con rinvio al primo giudice solo nell’ipotesi in cui
si riverberi nel più generale diritto di difesa, allora davvero non
si comprende perché l’omessa pronuncia non rappresenti un’ipotesi di
violazione del diritto di difesa. Ciò posto, considerato che il
doppio grado di giudizio è principio costituzionale, è palmare che
la parte abbia diritto ad un doppio grado di giudizio anche con
riferimento alle ipotesi di pronuncia inesistente.
Il Consiglio
di Stato[61], già nel 2002, sotto la vigenza della precedente legge
processuale, aveva dato una lettura restrittiva dell’allora vigente
art. 35; lettura che, tuttavia, non muta i termini della vicenda, a
parere di chi scrive: difatti, a proposito dell’assorbimento o della
sentenza in forma semplificata adottata al di fuori delle ipotesi
previste, stabilisce che debba essere il Consiglio di Stato a
decidere la questione, salvo che detti vizi non costituiscano errori
di procedura – si legga, oggi, non ridondino nella violazione del
diritto di difesa.
Autorevole dottrina, nel ricostruire la
sistematica dell’assorbimento, a proposito del trattamento da
riconoscere al medesimo, denunciava come «la giurisprudenza e parte
della dottrina mostrano di fare “di ogni erba un fascio”,
accomunando le figure di assorbimento proprio con quello dei motivi
assorbiti in modo arbitrario»[62].
E proprio al fine di evitare
un simile errore, sarebbe opportuno, anzitutto, distinguere
l’assorbimento proprio da quello improprio, per poi assumere la
seguente posizione: laddove il vizio denunciato dalla parte
riguardasse un’ipotesi di assorbimento proprio, secondo la
ricostruzione operata nella prima parte del presente lavoro, il
Consiglio di Stato dovrebbe passare direttamente all’esame di quelle
censure, che trovandosi in un rapporto di fungibilità o
interdipendenza, non erano state valutate a seguito
dell’assorbimento. Nel caso, invece, dell’assorbimento improprio – recte: pronuncia inesistente –, il Consiglio di Stato
dovrebbe annullare la sentenza rinviando la questione al primo
giudice, perché possa pronunciarsi anche sulle censure
impropriamente assorbite.
4. A conclusione di questo
breve itinerario, è emerso un particolare ben preciso: la prassi
dell’assorbimento, lungi dall’essere sempre ed in ogni caso elemento
negativo, rischia di diventare uno strumento del tutto
inappropriato, nella misura in cui le ipotesi di interdipendenza e
fungibilità delle censure vengano accostate ed equiparate ad ipotesi
di pronuncia inesistente.
Il tentativo ordinatorio degli ultimi
anni, con l’introduzione del nuovo codice, ha evidentemente, da un
lato, semplificato la questione, limitando le ipotesi di rimessione
al primo giudice, con l’espunzione della formula che prevedeva che
qualunque vizio di procedura o di forma della sentenza di primo
grado comportasse la rimessione al giudice territoriale; dall’altro,
ha ulteriormente complicato la questione, ponendo nelle mani del
Consiglio di Stato la responsabilità di riempire di contenuto il
diritto di difesa, che spesso rischia di assumere le vesti del
convitato di pietra.
La sentenza del Consiglio di giustizia
amministrativa[63], innanzi esaminata, ha proprio evidenziato i due
corni intorno ai quali il giudice amministrativo si muove: per un
verso, la tutela del diritto di difesa, per altro verso, la
ragionevole durata del processo. Giustificare, come quella sentenza
ha fatto, la rimessione al primo giudice sulla scorta di una
richiesta concorde di entrambe le parti, significa, in realtà,
affermare che il diritto di difesa è un concetto totalmente
relativo, che non ha un contenuto minimo.
E invece un contenuto
minimo lo ha; lo ha perché l’incubo della ragionevole durata del
processo non può costituire un alibi rispetto alla violazione delle
garanzie processuali. La democrazia si fonda su regole formali[64] e
le regole formali sublimano i diritti sostanziali.
Ed allora,
paradossalmente, proprio la Corte di Cassazione[65], a seguito
dell’impugnativa di una pronuncia del Consiglio di Stato che abbia
confermato un assorbimento improprio, per difetto di giurisdizione,
potrebbe consentire una ridefinizione di ciò che è omessa pronuncia
e di ciò che non lo è; di ciò che merita un doppio grado di giudizio
e ciò che non lo merita.
In assenza di un intervento esterno, sia
esso giurisdizionale, sia esso normativo, l’ultima istanza della
giustizia amministrativa rischia, come Ulisse, di farsi ammaliare
dal canto dell’economia processuale, troppo spesso distante dalle
esigenze di tutela che uno Stato di diritto deve garantire ai propri
cittadini.
|
|
----------
|
|
[1]Il presente scritto costituisce una versione
riveduta, corretta e aggiornata, dell’omonima comunicazione tenuta
dall’autore nel convegno “L’abuso del processo
amministrativo”, tenutosi in data 13 giugno 2014, presso la Sala
Lauree del Dipartimento di Giurisprudenza nell’Università di
Perugia, nell’ambito dei seminari su “Abuso del diritto e abuso
del processo” organizzati dal corso di dottorato “Tutela
giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive e libertà
della concorrenza” XXVIII ciclo.
[2]Interessante, sul punto,
è la disamina offerta da G. Scarselli, Sul c.d. abuso del
processo, in Riv. dir. proc., 6, 2012, 1450 ss. e da M.
Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1, 2012, 117 ss. Entrambi gli Autori
ricostruiscono, in chiave critica, l’istituto e danno atto della
giurisprudenza creatasi nel corso degli anni intorno al
“contenitore” dell’abuso del processo.
[3]«Al fine di consentire
lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di
sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2, le parti contengono le
dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini
stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti
il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato,
nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati
amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per
i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i
relativi limiti. Il medesimo decreto, nella fissazione dei limiti
dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del
valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del
valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti.
Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre
indicazioni formali dell’atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte
le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti;
il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di
appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della
sentenza di appello». Per i primi commenti v. M.A. Sandulli, Osservazioni a primissima lettura sull’impatto del d.l. 24 giugno
2014 n. 90 impattanti sul sistema di giustizia amministrativa,
in GiustAmm.it - Rivista Internet di diritto pubblico, 7,
2014; P. Quinto, La sinteticità degli atti processuali: regola di
buon senso o dogma di legge?, in GiustAmm.it - Rivista
Internet di diritto pubblico, 9, 2014.
[4]«In ogni caso, il
giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte
soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma
equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle
spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati».
Per un primo commento, cfr. M.A. Sandulli, Osservazioni a
primissima lettura sull’impatto del d.l. 24 giugno 2014 n. 90,
cit.
[5]P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Studi sul processo civile, VI, Padova, 1957, 53 secondo
l’Autore: «gli articoli del codice di procedura civile possono
essere adoperati dai contendenti come pedine di una scacchiera».
[6]M. Taruffo, L’abuso del processo: profili generali,
cit.
[7]G. Scarselli, Sul c.d. abuso del processo, cit.
[8]Cass., sez. un. 28 settembre 2009 n. 20730, in Giust. civ.
Mass. 2009, 9, 1361, citata anche da G. Scarselli, op.
cit.
[9]Il riferimento è sempre a G. Scarselli, Sul c.d.
abuso del processo, cit.
[10]Cons. Stato, sez. V, 23 luglio
2013, n. 3210; Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 2012, n. 1733. Entrambe
rinvenibili sul sito www.giustizia-amministrativa.it.
[11]Cons. Stato, sez. V, 23 luglio 2013, n. 3210.
[12]G.
Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata,
in Riv. dir. proc., 2011, p. 505 ss.
[13]B. Cavallo, Processo amministrativo e motivi assorbiti, Teramo, 1975, 91
ss.
[14]Che l’art. 112 cpc rappresenti un principio
processualcivilistico mutuato anche nel processo amministrativo è
cosa nota. Già F. Benvenuti, L’istruzione nel processo
amministrativo, Padova, 1953, 146; E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Nov.mo Dig. It., 35; R. Villata, L’esecuzione delle
decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 586; B. Cavallo, Processo amministrativo e motivi assorbiti, cit., 37. Ad
ulteriore conforto di detta lettura dottrinale, con l’entrata in
vigore del codice del processo amministrativo si è assistito, per la
prima volta in maniera piana, alla previsione di una
eterointegrazione (art. 39) del codice del processo amministrativo
da parte del codice di procedura civile ed all’introduzione di una
norma (Art. 34, comma 1) nella quale si afferma che la sentenza è
adottata nei limiti della domanda. Cfr., da ultimo, A. Giusti, Il
contenuto conformativo della sentenza del giudice
amministrativo, Napoli, 2012, 164.
[15]R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, cit.,
584: detta prassi, infatti, «implica una grave limitazione della
tutela del ricorrente, poiché tanto minore è l’ambito di
accertamento giudiziale, tanto maggiore è la libertà che la pubblica
amministrazione conserva malgrado il giudicato».
[16]Cfr. infra.
[17]F. Patroni Griffi, La sentenza
amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 92.
Secondo M. Nigro, L’appello nel processo amministrativo, I,
Milano, 1960, 447, soltanto quando l’esame di un motivo è
assolutamente superfluo allora si potrebbe dar corso
all’assorbimento di detto motivo, altrimenti ci si ritroverebbe di
fronte ad una omissione di pronuncia.
[19]M. Nigro, L’appello, cit., 299
[20]B. Cavallo, Processo
amministrativo, cit., 105.
[21]Tale circostanza viene
rilevata da B. Cavallo, op. cit., 115. È evidente che quanto
rappresentato negli anni settanta dall’Autore non sia tanto lontano
dalla realtà odierna, se è vero, come è vero, che il legislatore ha
sentito la necessità di specificare tra i criteri ispiratori del
“nuovo” codice del processo amministrativo la sinteticità degli
scritti defensionali. Cfr. nota 3.
[22]B. Cavallo, Processo
amministrativo, cit., 115.
[23]B. Cavallo, op. cit.,
91 ss. è interessante la ricostruzione dell’A. che offre un panorama
completo a chi voglia accostarsi al tema in oggetto.
[24]Cons.
Stato, 20 dicembre 2013, n. 6160, in Foro amm. CdS, 2013, 12,
3422.
[25]G. Chiovenda, Principi di diritto processuale
civile, Napoli, 1912, 81.
[26]B. Cavallo, Processo
amministrativo, cit., 171.
[27]B. Cavallo, op. loc.
cit.
[28]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit.,
85; R. Villata, L’esecuzione delle decisioni, cit., 586,
secondo il quale la norma, ossia l’art. 45, si è occupata di fissare
la conseguenza dell’ipotesi di un ricorso fondato su un solo motivo,
quello relativo alla competenza, mentre in caso di più motivi
concomitanti, la soluzione andrebbe individuata attraverso le norme
processuali; E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo,
cit., 36.
[29]Ex multis, A. Piras, Interesse legittimo
e giudizio amministrativo, II, Milano, 1962, 448 ss. Secondo
l’A. esiste una priorità logica tra vizi sostanziali e formali,
priorità che vede l’obbligo in capo al giudice di accertare
l’esistenza dei vizi formali solo a seguito dell’accertamento della
validità sostanziale del provvedimento.
[30]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 85. In particolare, l’Autore
fa presente come quella disposizione avesse un senso all’epoca
dell’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, quando
ancora si dubitava in ordine alla natura giurisdizionale o meno del
Consiglio di Stato e quando i ricorsi erano prospettati
prevalentemente con un unico motivo. Da ultimo, A. Giusti, Il
contenuto conformativo, cit., 198.
[31]Il riferimento è
sempre a B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 85
[32]E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo, cit.,
36.
[33]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 84.
[34]Cons. Stato, sez. VI, 12 aprile 1986, n. 312, in Cons.
Stato, 1986, I, 544; Cons. Stato, sez. VI, 31 marzo 1987, n.
200, in Cons. Stato, 1987, I, 435; Cons. Stato, sez. IV, 24
novembre 1981, n. 913, in Cons. Stato, 1981, I, 1243. È
interessante notare come già a partire dagli anni ’80 si incontrino
pronunce di questo tenore: «il ricorrente ha […] un evidente
interesse all’esame di tutte quelle censure idonee a creare un
vincolo sempre più specifico alla futura attività
dell’amministrazione, fino ad escludere per la medesima la
possibilità di adottare un atto del tipo di quello impugnato». Per
una più ampia disamina, dal punto di vista del rapporto tra
giudicato e potere amministrativo si rinvia a M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 104 ss. con
riferimento alla giurisprudenza in rapporto a giudicato,
assorbimento e riesercizio del potere.
[35]Cons. Stato, sez. IV,
4 dicembre 2000, n. 6488, in Foro amm. 2000, 12.
[36]Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2001, n. 4445, in Foro
amm. 2001, 2035.
[37]Cfr. F.G. Scoca, Giustizia
amministrativa, Torino, 2013, 408. Lo stesso A. sottolinea come
il problema sia rappresentato dalle ipotesi in cui la giurisprudenza
riconosce al giudice un ordine di priorità nell’esame delle
doglianze (specialmente nt. 328).
[38]Cons. Stato, sez. IV, 4
agosto 2009, n. 4905 in www.giustizia-amministrativa.it: «Il
c.d. assorbimento dei motivi è da stigmatizzare, anche nei casi di
accoglimento del ricorso, perché è interesse del ricorrente avere
una compiuta disamina della questione sotto tutti i profili
prospettati, anche ai fini del successivo giudizio di ottemperanza
ovvero della tutela risarcitoria e, segnatamente, avere una compiuta
disamina dei motivi maggiormente satisfattivi. I principi di
effettività e completezza della tutela impongono di valorizzare il
ruolo della domanda dell’interessato, riducendo la pronuncia di
assorbimento dei motivi ai soli casi - in realtà del tutto marginali
- in cui sussista un rapporto di chiara continenza, pregiudizialità
logica o implicazione tra la censura accolta e quella non esaminata;
si pensi alle ipotesi in cui il giudice accoglie il motivo
riguardante l’omessa motivazione e, contestualmente, dichiara
assorbita la censura di insufficiente motivazione. Tale conclusione,
strettamente collegata al principio della corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato, espresso dall’art. 112 cpc, con
disposizione avente il valore di principio generale di ogni
processo, diventa inevitabile in un contesto sistematico diretto ad
assicurare il più intenso e integrale accertamento del rapporto
amministrativo controverso, in relazione ai profili ritualmente
prospettati dalle parti interessate, anche per evitare lunghi e
defatiganti contenziosi diretti a riproporre le stesse domande in
seguito al rinnovo del provvedimento, affetto dagli stessi vizi non
esaminati dal giudice».
[39]M. Corradino e S. Sticchi Damiani, Il processo amministrativo, Torino, 2013, 349. Cfr., ex
aliis, TAR Piemonte, Torino, sez. I, 8 marzo 2013, n. 299, ove
«il provvedimento impugnato sia sorretto da più ragioni
giustificatrici autonome e non contraddittorie, l’accertata
legittimità di taluna di esse determina l’assorbimento delle censure
dedotte avverso gli altri capi del provvedimento per mancanza
d’interesse del ricorrente al relativo esame (Cons. Stato sez. V, 05
ottobre 2011 n. 5465; TAR Piemonte sez. I, 9 novembre 2012, n. 1182;
TAR Piemonte sez. I, 08 giugno 2010 n. 2721).
[40]M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, cit., 256. L’A., nel
delineare una teoria di giudicato, (finalizzata a dare stabilità al
rapporto accertato in sentenza) basata sulla sequenza logica
procedimento-processo, afferma che «affinché questo meccanismo
funzioni correttamente, occorre peraltro una certa cooperazione da
parte del giudice. Egli deve prendere in esame e decidere su tutti i
motivi di ricorso: al di là dei casi di assorbimento in senso
proprio, l’omessa presa in considerazione dei motivi di ricorso […]
integra una violazione della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato». Continua l’A. sottolineando come il giudice dovrebbe
«esaminare soprattutto i motivi volti a contestare l’esistenza dei
fatti costitutivi del potere della pubblica amministrazione. Se il
giudice omette di pronunciarsi su uno di questi motivi, la sentenza
di accoglimento non attribuisce stabilità al risultato favorevole al
ricorrente. Invero, con riguardo ai fatti costitutivi contestati nel
motivo ritenuto assorbito non può scattare né la preclusione
procedimentale […], né la preclusione del giudicato»
[41]Corte
cost., 14 gennaio 1982, n. 8, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale di una norma che limitava il doppio grado di giudizio
in ipotesi particolari di tutela cautelare. Secondo la Corte, anche
nel giudizio cautelare rinviene il principio costituzionale del
doppio grado di giudizio. La Corte, in particolare, afferma che,
sebbene «giurisprudenza costante di questa Corte [ritiene] che
l’istituto del doppio grado di giurisdizione non ha rilevanza
costituzionale (da ultimo sentenza n. 62/1981), […] nei casi che
formano oggetto delle ordinanze di cui in epigrafe la giurisprudenza
stessa non può essere applicata, in quanto si tratta di questioni
attinenti alla giurisdizione amministrativa la quale trova nella
stessa Carta costituzionale una disciplina differenziata. Infatti
l’art. 125, secondo comma, esplicitamente stabilisce che i tribunali
amministrativi da istituire (e poi istituiti con la legge 6 dicembre
1971, n. 1034 “Istituzione dei tribunali amministrativi regionali”)
sono giudici di primo grado, soggetti pertanto al giudizio di
appello dinanzi al Consiglio di Stato. Il che trova spiegazione nei
caratteri propri della giurisdizione amministrativa ordinaria, che
verte particolarmente nella sfera del pubblico interesse e rende,
quindi, opportuno il riesame delle pronunce dei tribunali di primo
grado da parte del Consiglio di Stato, che trovasi al vertice del
complesso degli organi costituenti la giurisdizione stessa.Non v’ha,
quindi, dubbio che nel settore in parola il principio del doppio
grado di giurisdizione abbia rilevanza costituzionale». Su tale
tematica, si veda, ex multis, C.E. Gallo, Questione di
giurisdizione e doppio grado nel processo amministrativo, nota a
Cons. St., ad. plen., 8 novembre 1996 n. 23, in Dir. proc.
amm., 1998, 843.
[42]Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2014,
n. 46, in Foro amm., 2014, 1, 56; Cons. Stato, sez. IV, 25
giugno 2013, n. 3458 in Foro amm. CdS, 2013, 6, 1619; Cons.
Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3368, in Foro amm. CdS,
2012, 6, 1579.
[43]In realtà, nel corso dei lavori preparatori
al codice del processo amministrativo, era emersa, in sede di
osservazioni da parte della Commissione Giustizia della Camera,
l’esigenza che fosse sancito il divieto dell’assorbimento dei motivi
nel caso in cui sussistesse un interesse apprezzabile della parte.
Detta osservazione non fu presa in considerazione sulla scorta del
ragionamento che detto principio fosse insito nel sistema. Cfr. G.
Leone, L. Maruotti e C. Saltelli (a cura di), Codice del processo
amministrativo, Padova, 2010, 1246. Viene riportata nella
pubblicazione un’appendice contenente parte dei lavori preparatori
al codice.
La circostanza che il legislatore abbia voluto
specificare, in maniera compiuta, la disciplina delle sentenza in
forma semplificata, potrebbe condurre l’interprete ad un’ulteriore
suggestione: al di fuori di detta ipotesi, sembrerebbe che
l’assorbimento non possa trovare ingresso nel processo
amministrativo.
[44]Incidenter tantum, è bene
rappresentare come la tecnica dell’assorbimento non sia tipica del
solo giudice amministrativo, ma caratterizzi anche altri giudici
dell’ordinamento, primo fra tutti quello costituzionale. Ad esempio,
la sentenza 8 ottobre 2010, n. 293, che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del t.u espropri, si è
limitata, tra le numerose censure, ad accogliere quella inerente
all’eccesso di delega. Ciò in quanto, ragioni di economia possono
condurre la Corte a “valuta[re] il complesso delle eccezioni e
delle questioni costituenti il thema decidendum devoluto al
suo esame e stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con
cui affrontarle nella sentenza”, dichiarando l’assorbimento
delle altre.
[45]Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2014, che fa
una disamina della storia delle sentenze in forma semplificata: «È
utile premettere come l’istituto della sentenza in forma
semplificata, che ai giorni nostri riceve nel codice del processo
amministrativo una applicazione assai ampia (artt. 74, 60, 114, 116,
117, 120, 129), sia stato introdotto con l’art. 19 d.l. 67/1997 e
generalizzato con l. 205/2000 che modificava in molte parti
l’originaria legge istitutiva dei Tar (n. 1034/1971). Quanto ai
precedenti, in estrema sintesi possono essere ricordati alcuni
disegni di legge presentati nel corso della X legislatura ed il
parere redatto dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato (n.
16/1990) incentrati, all’epoca, sull’ipotesi di definizione del
giudizio mediante un’ordinanza succintamente motivata, secondo il
modello offerto dal giudizio costituzionale (artt. 18 e 24 l.
87/1953: ordinanze di manifesta infondatezza o inutilità, perché ad
esempio la Corte costituzionale si è già pronunciata sulla medesima
questione di l.c.). Oltre che sulla base di esperienze di diritto
comparato, in specie nell’ordinamento tedesco ed in quello belga,
che già contemplavano discipline acceleratorie che si concludono con
provvedimento semplificato. Il precedente più rilevante, nel nostro
ordinamento, è stato quello, già ricordato, di cui all’art. 19 d.l.
67/1997, convertito in l. 135/1997, in materia di opere pubbliche
(prevedeva la riduzione a metà dei termini processuali e la
possibilità di definire il merito del giudizio in sede di esame
dell’istanza cautelare) sul quale merita ricordare la pronuncia
della Corte cost. n. 427/1999. Nell’occasione, la Consulta subordinò
la validità (e l’espansione) di tale modello ad alcune condizioni,
che dovevano sussistere al momento della discussione dell’istanza
cautelare, quali: 1) l’integrità del contraddittorio; 2) la
completezza dell’istruttoria; 3) il rispetto di taluni adempimenti
processuali a tutela del diritto di difesa di tutte le parti
(accordare il rinvio ed un termine a difesa nell’ipotesi in cui le
parti preannuncino la proposizione di motivi aggiunti, ricorso
incidentale, regolamento di competenza e simili). La sentenza della
Corte n. 427/1999 pose le basi per la riforma introdotta dalla l.
205/2000 attraverso la previsione della decisione in forma
semplificata in diversi ambiti del processo: 1) nella fase
cautelare, ai fini della decisione immediata del giudizio anche nel
merito; 2) all’esito dell’istruttoria; 3) nel rito del silenzio
(art. 21 bis l. Tar). Con la l. 205/2000 di riforma della l. Tar il
precedente sopra ricordato è stato generalizzato. Presupposti della
sentenza c.d. breve sono diventati - a norma dell’art. 26 co. 4 l.
Tar, come novellato dalla l. 205/2000 - la manifesta
inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità (decisioni in
rito), la manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso (decisioni
nel merito). Deve essere assicurato il rispetto di talune garanzie
"minime" (completezza dell’istruttoria ed integrità del
contraddittorio, già “suggerite” dalla Corte costituzionale nella
ricordata sentenza n. 427/1999) e - per quanto più rileva in questa
sede - devono essere sentite le parti costituite, anche se non è
richiesto il loro consenso. L’art. 60 del codice del processo
amministrativo (rubricato “definizione del giudizio in esito
all’udienza camerale”) corrisponde all’art. 21 nono comma legge n.
1034/1971 (modificato dalla legge n. 205/2000), con alcuni
chiarimenti ed una sola novità di rilievo. I chiarimenti vertono sul
rispetto delle garanzie di difesa, prevedendosi ora espressamente
quello che la Corte costituzionale aveva a suo tempo “suggerito”:
l’impossibilità di una definizione immediata nei casi in cui “una
delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso
incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di
giurisdizione”, e la necessità di un rinvio. La novità riguarda la
questione dei termini, a garanzia delle altre parti (resistente e
controinteressati), al fine di scongiurare decisioni “a sorpresa”,
disponendosi ora che, ai fini della decisione, debbano essere
trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso
(che diventano però dieci, nei riti speciali di cui agli artt. 119 e
120)».
[46]Tra i numerosi contributi, si segnalano: E. Mauro, A proposito del rito immediato, della sentenza semplificata e dei
loro rapporti, in Foro amm. Tar, 2007, 3642 ss.; E.
Sticchi Damiani, La sentenza in forma semplificata, in Foro amm. CdS, 2008, 2857 ss.; R. Giovagnoli, La
discussione e la decisione, in F. Caringella, R. De Nictolis, R.
Giovagnoli e V. Poli, Manuale di giustizia amministrativa,
Roma, 2008, I, 1072 ss.; S. Baccarini, Istruttoria e sentenze
semplificate, in Giurisd. amm., 2009, IV, 61 ss.; E.
Mauro, Perplessità sulla motivazione succinta, in Dir. e
proc. amm., 2010, 517 ss. Da ultimo, S. Pignataro, L’istituto
delle “sentenze in forma semplificata” tratteggiato dal codice del
processo amministrativo, in GiustAmm.it - Rivista Internet di
diritto pubblico, 9, 2014.
[47]Cfr. nota 45.
[48]Cons.
reg. sic., 3 aprile 2013, n. 397, in Foro amm. CdS, 2013, 4,
1091: «l’informazione di cui all’art. 60 c. proc. amm., non è
finalizzata alla previa acquisizione del consenso delle parti, bensì
a consentire l’esercizio completo ed esauriente del diritto di
difesa nel caso concreto (mediante l’eventuale richiesta di un
rinvio per la produzione di nuove prove o per proporre motivi
aggiunti, ovvero per chiedere un termine a difesa); pertanto, essa
deve essere riferita specificamente alla singola controversia e non
può essere considerata validamente sostituita dall’avvertimento,
eventualmente fatto in sede di preliminari d’udienza per tutte le
istanze cautelari da chiamare nella camera di consiglio».
[49]Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2013, n. 14, rinvenibile in www.giustizia-amministrativa.it, con la quale il Consiglio di
Stato, preso atto della mancata informazione alle parti circa la
volontà del Collegio di decidere la controversia con sentenza in
forma semplificata ha rinviato al primo giudice, atteso che la
mancata comunicazione ridonda nel più generale diritto alla difesa.
[50]Cons. reg. sic., 14 marzo 2014, n. 135, in Foro
Amministrativo, 2014, 3, 843, a tenore del quale «L’omessa
pronuncia da parte del giudice su una o più delle censure dedotte
non ricade, di norma e di per sé, tra gli “errores in procedendo”
tali da comportare l’annullamento della decisione con rimessione
della causa al giudice di primo grado, in quanto i casi,
particolari, di rimessione sono indicati in maniera tassativa
all’art. 105 del c. proc. amm.».
[51]Cons. Stato, sez. VI, 20
febbraio 2014, n. 841, in Foro amm., 2014, 2, 508, secondo la
quale: «Nell’ipotesi di omessa valutazione di una memoria difensiva,
la questione dedotta in giudizio appare suscettibile di rinvio al
giudice di primo grado, in applicazione dell’art. 35 l. 6 dicembre
1971 n. 1034 (in seguito sostanzialmente recepito dall’art. 105,
comma 1, c. proc. amm., approvato con d.lg. n. 104/2010), in quanto
la suddetta lesione del diritto di difesa concretizza quel “difetto
di procedura” della sentenza appellata, che non consente di
trattenere in decisione la causa per l’effetto devolutivo
dell’appello, tenuto conto dell’esigenza di non sottrarre ad
entrambe le parti le garanzie del doppio grado di giudizio (a
differenza di quanto avviene in caso di erronee declaratorie di
inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso,
identificate come contenuto della sentenza appellata)».
[52]Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462, in Foro amm.
CdS, 2011, 3, 910, secondo la quale: «Ai sensi dell’art. 105
comma 1, c.p.a. va annullata con rinvio al giudice di primo grado la
sentenza che sia stata emessa senza che la questione
d’irricevibilità/inammissibilità del ricorso, rilevata d’ufficio dal
collegio, sia stata sottoposta alla trattazione delle parti,
comportando tale omissione violazione del generale principio
processuale di garanzia del contraddittorio immanente alla garanzia
costituzionale del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., che
opera non solo nella fase d’instaurazione del processo ma ne permea
l’intero svolgimento, ponendosi detto principio come garanzia di
partecipazione effettiva delle parti al processo, ossia come
riconoscimento del loro diritto d’influire concretamente sullo
svolgimento del processo e d’interloquire sull’oggetto del giudizio,
sicché le stesse devono essere poste in grado di prendere posizione
in ordine a qualsiasi questione, di fatto o di diritto, preliminare
o pregiudiziale di rito o di merito, la cui risoluzione sia
influente ai fini della decisione». Ancora: Cons. Stato, sez. V, 24
luglio 2013, n. 3957, in Foro amm. CdS, 2013, 7-8, 2085, che
estende detta considerazione all’ipotesi della perenzione.
[53]Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2013, n. 14, in Foro
amm. CdS, 2013, 1, 95.
[54]Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio
2014, n. 46, in Foro amm., 2014, 1, 56; Cons. Stato, sez. IV,
25 giugno 2013, n. 3458 in Foro amm. CdS, 2013, 6, 1619;
Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3368, in Foro amm.
CdS, 2012, 6, 1579.
[55]Sulla costituzionalizzazione del
principio del doppio grado di giurisdizione nel processo
amministrativo si veda nota 41.
[56]Cons. Reg. Sic., 14 marzo
2014, n. 135, in Foro amm., 2014, 3, 843.
[57]Cons. Reg.
Sic., 14 marzo 2014, n. 135.
[58]B. Cavallo, Processo
amministrativo, cit., 211.
[59]Di pronunce di detto tenore
dà conto già B. Cavallo, op. cit., 224, nt. 53. Il predetto
orientamento può dirsi ancor oggi seguito: cfr. Cass. civ., sez. I,
4 giugno 2010, n. 13614, in Giust. civ. Mass., 2010, 6, 866;
Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15461, in Giust. civ.
Mass., 2008, 6, 918.
[60]Cfr. art. 125 Cost.
[61]Cfr.
Cons. Stato, 12 luglio 2002, n. 3929, rinvenibile in www.giustizia-amministrativa.it. La pronuncia opera una
ricognizione di tutte le ipotesi che possano effettivamente
prospettarsi innanzi al giudice d’appello in caso di impugnazione di
una sentenza di primo grado: «1) in caso di incompletezza del
contraddittorio o di violazione del diritto di difesa di una delle
parti la decisione sarà senz’altro appellabile e, in applicazione
dell’art.35 L. n.1034/71, il Consiglio di Stato potrà annullarla con
rinvio al primo giudice per difetto di procedura (cfr., per il caso
di mancanza di integrità del contraddittorio, Cons. St., VI, 19
luglio 1999, n.997; C.G.A., 14 marzo 2000, n.96; per il caso di
violazione del diritto di difesa, Con. St., 20 luglio 2000, n.3860;
C.G.A., 15 marzo 1999, n.27); 2) in caso di incompletezza
dell’istruttoria, l’omissione di accertamenti istruttori da parte
del T.A.R. non concreta un vizio di procedura e non richiede,
pertanto, rinvio al tribunale medesimo, spettando al Consiglio di
Stato, qualora l’omissione venga specificamente rilevata come vizio
della sentenza, provvedere agli accertamenti non effettuati (cfr.
Cons. St., V, 16 novembre 1976, n.1393; id., 14 marzo 1980,
n.262; Cons. St., IV, 17 novembre 1981, n.885); 3) in caso di
sentenza del T.A.R. che abbia erroneamente dichiarato
(manifestamente) irricevibile, inammissibile o improcedibile il
ricorso, il Consiglio di Stato trattiene la causa per l’esame del
merito e non la rinvia al giudice di primo grado (cfr., per
l’erronea declaratoria di irricevibilità e inammissibilità, Cons.
St., VI, 17 ottobre 1988, n.1152; id., 24 febbraio 1981,
n.84; id., 30 settembre 1980, n.794; per l’erronea
declaratoria di improcedibilità, cfr. Cons. St., V, 8 febbraio 1988,
n.54), dal momento che, come statuito dall’Adunanza Plenaria (cfr.
Cons. St., Ad. Plen., 7 luglio 1978, n.22; id, 4 luglio 1978,
n.4; id, 30 giugno 1978, n.18), occorre interpretare
restrittivamente le espressioni contenute nel primo comma
dell’art.35 della legge n.1034 del 1971, circa le ipotesi di rinvio
al primo giudice della controversia, dovendosi rimettere la causa al
primo giudice “non ogni volta che la pregressa fase del processo
abbia dato luogo ad una pronunzia diversa da quella di merito, ma
solo quando sia mancata del tutto, per esplicita statuizione del
giudice, la risoluzione della lite (art.353 c.p.c.), oppure quando
il giudizio svolto in prime cure presenti vizi o lacune tali da
comportare la nullità dell’intero procedimento o di una parte di
esso o della sentenza (art.354 c.p.c.)”; 4) nel caso, infine, di
sentenza del T.A.R. che abbia erroneamente dichiarato
(manifestamente) fondato oppure (manifestamente) infondato il
ricorso, è sufficiente che il soccombente si dolga dell’erroneità
della sentenza di primo grado, chiedendo un nuovo giudizio di merito
sulla controversia, perché l’intera materia del contendere si
devolva al giudice di secondo grado (c.d. effetto devolutivo),
naturalmente nei limiti di quei soli capi che abbiano formato
oggetto di appello (tantum devolutum quantum appellatum), e
così anche nei casi di carenza di motivazione, che non comportano
annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ma sono
semplicemente causa di integrazione della motivazione da parte del
Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., IV, 17 giugno 1980, n.662; id., 22 febbraio 1980, n.114; id., 17 novembre 1981,
n.877) ed in quelli di mancata pronuncia del giudice di primo grado
su determinate censure, che non integrano il vizio di procedura di
cui all’art.35 L. n.1034/71, ma solo un difetto di motivazione, sul
quale può provvedere il giudice di secondo grado in forza
dell’effetto devolutivo dell’appello (cfr. Cons. St., IV, 23
novembre 1995, n.952; Cons. St., VI, 6 luglio 1988, n.921)».
[62]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 222.
[63]Cons. reg. sic., 14 marzo 2014, n. 135.
[64]E. Stara, Educazione ai valori della democrazia. La ricerca
pragmatista, Soveria Mannelli, 2006, 57.
[65]Già B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 214 ss. caldeggiava questa
soluzione, attesa la natura di diniego di tutela giurisdizionale che
si anniderebbe dietro la decisione del Consiglio di Stato di
confermare un assorbimento improprio.
|
|
(pubblicato il
17.10.2014)
|
|
|
|
|
|
|
|