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n. 10-2014 - © copyright

 

LUCA STICCHI

L’abuso del processo da un’altra prospettiva: il non liquet del giudice [1]

 

 


 

 

Sommario: 1. Le ragioni di una nuova prospettiva: il giudice soggetto processuale super partes. – 2. L’assorbimento dei motivi quale ipotesi di omessa pronuncia. – 3. I rischi connessi alla sentenza in forma semplificata. – 4. Riflessioni conclusive.


1. Intorno all’abuso del processo, nel corso degli ultimi anni, si è assistito ad un proliferare di definizioni, di rappresentazioni immaginifiche, di aneddoti, di retorica, con la convinzione che dando contenuto a questa figura si potessero individuare e debellare tutti i mali di un sistema giudiziario già di per sé claudicante[2].
Gli ultimi interventi normativi, in ordine di tempo, sono stati gli articoli 40 e 41 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, poi in parte modificati dalla legge di conversione (l. 11 agosto 2014, n. 114), i quali hanno emendato il codice del processo amministrativo prevedendo, il primo, una delega agli organi di giustizia amministrativa per la redazione di non meglio precisate linee guida in ordine alla lunghezza degli scritti defensionali in materia di appalti[3], con conseguenti sanzioni; il secondo, ulteriori ipotesi, questa volta generalizzate, di condanna alle spese[4] per la parte soccombente che abbia agito violando le “regole del gioco”[5].
Occorre chiarire sin dall’inizio che questo scritto non intende apportare un contributo per una definizione dell’abuso del processo in senso tradizionale – che, a parere dello scrivente, è ben rappresentata dalle posizioni espresse già qualche anno addietro da acuta dottrina[6]; intende, invece, pervenire ad una demitizzazione di quel concetto, ipotizzando che l’unico attore nel teatro processuale in grado di “abusare” della propria posizione è il giudice, terzo e imparziale, ed unico soggetto al quale l’ordinamento costituzionale e la legge impone degli obblighi, essendo quest’ultimo l’unico rappresentante della giustizia nella trattazione degli specifici affari giudiziari[7].
Così, a titolo esemplificativo, si ricorda quella pronuncia della Cassazione con la quale veniva censurato il comportamento di un giudice, il quale, in quasi cento provvedimenti, «divenuti oggetto di altrettanti esposti, [aveva] precluso alle parti di esercitare il proprio diritto di difesa ed in particolare modo quello dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c., ovvero non consentito in radice l’attivazione del contraddittorio, definendo tali giudizio con la identica decisione di inammissibilità, improcedibilità, improponibilità, carenza di legittimazione ed interesse ad agire»[8].
Ed è, per l’appunto, analizzando sommariamente alcuni orientamenti giurisprudenziali che si intende corroborare quella dottrina che già tempo addietro aveva individuato nel giudice l’unico soggetto in grado di operare un abuso all’interno della realtà processuale[9]; l’unica figura, quella dell’abuso del giudicante, in grado di porsi in frizione con il supremo interesse della giustizia.
La citazione di un obiter dictum di una sentenza del giudice amministrativo renderà più chiaro l’intento dello scrivente. Esistono alcune ipotesi, infatti, in cui il giudice, per ragioni diverse che nel prosieguo verranno richiamate, tende a sacrificare l’esigenza dell’effettività della tutela in nome della «rarità della risorsa giudiziaria, (cioè) un bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero necessario»[10].
La rarità di cui parlano i giudici rappresenta un giano bifronte: da un lato, può incontrare l’effetto deterrente di condannare condotte processuali nelle quali «l’azione venga esercitata in forme eccedenti o varianti rispetto alla tutela attribuita dall’ordinamento»[11], dall’altro, può far assurgere ad unico canone dell’amministrazione della giustizia il principio di economicità e/o la c.d. ragionevole durata del processo.
Proprio il principio di economicità, seguito a stretto giro dalla c.d. ragionevole durata del processo, definita “incubo” da autorevole dottrina[12], hanno determinato la giurisprudenza – e, ancor prima, il legislatore – a muoversi in una direzione di semplificazione e di alleggerimento della giustizia; semplificazione e alleggerimento che, tuttavia, dietro i meritevoli fini, spesso hanno sortito effetti di denegata giustizia.

2. L’ipotesi che sarà analizzata è emblematica nella sua peculiarità. In questa prospettiva, il non liquet va interpretato quale effetto della priorità data al principio di economicità, in spregio all’effettiva soddisfazione del ricorrente: si tratta della prassi dell’assorbimento dei motivi.
Dare una definizione di assorbimento dei motivi non è agevole, e ciò in quanto non è riscontrabile, nella prassi formatasi, una definizione unitaria. Attenta dottrina[13], per l’appunto, nel dare una sistematica a detto fenomeno, aveva immediatamente distinto le ipotesi dell’assorbimento proprio, da quelle dell’assorbimento improprio, così facendo emergere come il concetto in esame non fosse di per sé elemento negativo e da obliterare in ogni caso.
Nell’addentrarsi nella fenomenologia emergente dal quadro giurisprudenziale consolidatosi negli anni, primo elemento da considerare è rappresentato dalle frizioni che l’applicazione della prassi in esame possa determinare nell’ambito di un processo; dette frizioni sono rappresentate, per un verso, dalla violazione dell’art. 112 cpc, che impone la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato[14], per altro verso, dalla limitazione del vincolo conformativo derivante da una pronuncia giudiziale[15]. Entrambi questi elementi sono in grado di condizionare la soddisfazione della pretesa del ricorrente ed eventualmente di frustrarla, in tutto o in parte.
In un tentativo di semplificazione, nella prassi del c.d. assorbimento dei motivi di ricorso, alcuni vizi, considerati assorbenti e prevalenti, vengono preferiti ad altri, con l’effetto che il potere può essere riesercitato da parte della p.A. senza particolari limiti derivanti dalla conformazione al giudicato, salvo l’unico motivo accolto.
Per comprendere appieno il significato, a volte distorsivo[16], di questa prassi, occorre porsi nella prospettiva della sentenza, intesa quale provvedimento nel quale il giudice versa il contenuto del proprio ragionamento giuridico: esiste, infatti, un ordine logico di trattazione. Primo profilo che il giudice valuta, per l’appunto, sono i presupposti processuali: giurisdizione, tempestività, integrità del contraddittorio, esistenza di un provvedimento da impugnare nella giurisdizione di legittimità, legittimazione ad agire ed interesse a ricorrere. Non esiste, tuttavia, una norma specifica che disciplini la trattazione delle questioni, ma solo un criterio di opportunità e spesso il giudice, tra più questioni, predilige «quella idonea a risolvere la controversia con una pronuncia sul rito». Ed ancora è possibile individuare sentenze «che espressamente prescindono dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate»[17] dai contendenti per addivenire ad un rigetto di merito del ricorso.
Attraverso uno sforzo ordinatorio, si diceva, è possibile scomporre il fenomeno dell’assorbimento in due tipologie, l’una fisiologica, l’altra patologica.
Per quanto attiene alla prima, il ragionamento operato dal giudicante si fonda sull’inutilità dell’esame di taluni motivi, in quanto l’accoglimento di una certa domanda ha già soddisfatto l’esigenza di giustizia sostanziale del ricorrente[18].
Al fine di comprendere il portato di detto iter logico, è necessario introdurre il concetto di motivo di ricorso: occorre chiedersi, più nello specifico, se il motivo di ricorso rientri o meno nell’oggetto del giudizio.
A tal proposito, attenta dottrina definisce il motivo quale causa petendi e cioè quale «fatto costitutivo di un diritto all’invalidazione»[19]. Se, dunque, il motivo di ricorso rappresenta la modalità attraverso la quale la parte rappresenta al giudice quel modo lesivo «di estrinsecarsi della azione amministrativa»[20], allora è lo stesso organo giudicante a dover interpretare l’esistenza del vizio – come ricostruibile dai motivi di ricorso –, indipendentemente dal nomen iuris fornito dal ricorrente: in questo modo è possibile superare quel modus operandi tipico di certi patrocinatori di parcellizzare i motivi di ricorso in numerose censure[21].
Ed è allora, certamente, con riferimento ad ipotesi di censure parcellizzate riducibili ad unum che è ammissibile il c.d. assorbimento: viene così superata, attraverso l’intervento del giudice, la «pluralità artificiosa delle varie censure»[22].
Ciò, tuttavia, non esaurisce lo spettro delle situazioni in cui possa imporsi il fenomeno de quo; infatti, non è detto che i motivi di ricorso tendano tutti al medesimo risultato, né tanto meno che non vi sia un concorso di azioni.
Si può, per l’appunto, immaginare un ricorso in cui la pluralità di motivi coincida con differenti tipi di annullamento ottenibili: è chiaro che un annullamento pronunciato per vizi formali abbia una valenza diversa, quanto meno sotto il profilo del vincolo conformativo, rispetto ad una invalidazione per vizi sostanziali. Così come, si può avere la richiesta di annullamento accompagnata da richieste di accertamento e/o di riforma di un rapporto sostanziale.
Nell’un caso, ha senso ammettere l’assorbimento se e nella misura in cui il giudicante prescelga la soluzione più favorevole al ricorrente, quella cioè che gli consenta la massimizzazione del risultato richiesto; nell’altro caso, possono subentrare ipotesi di interdipendenza logica, tra le domande formulate, che possono condurre a operazioni di graduazione delle medesime, da parte del giudice, a seconda della fondatezza o meno dei motivi prospettati[23].
Ed è proprio nelle ipotesi appena divisate che l’assorbimento può essere definito proprio e può aver luogo senza alcun pregiudizio per la parte ricorrente. A titolo esemplificativo, il Consiglio di Stato così afferma: «la tecnica dell’assorbimento dei motivi deve ritenersi legittima […] se è limitata ai soli casi, del tutto marginali, in cui sussista un rapporto di stretta e chiara continenza, di pregiudizialità o implicazione logica tra la censura accolta e quella non esaminata»[24].
Se è vero che, come affermava acuta dottrina, «il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto ad ottenere»[25], è evidente che improprio diventa, dunque, quell’assorbimento che opera al di fuori delle ipotesi rappresentate.
Si pensi all’ipotesi della censura operata dal ricorrente avverso un atto caratterizzato dall’esercizio di un potere discrezionale: ebbene, in tali eventualità, se si considerano i canoni costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, tutti gli “errori” commessi dall’Amministrazione rappresentano altrettante ipotesi in cui «la gestione del potere si è discostata sotto plurimi aspetti da quei canoni di comportamento fissati dal sistema costituzionale. A questo si aggiunga che possono anche concorrere talune di quelle figure sintomatiche che rappresentano vizi logici del ragionamento amministrativo»[26]. A detti vizi corrispondono altrettanti motivi, tutti espressione di altrettante carenze degli atti impugnati, «vuoi perché l’autorità ha finalizzato il suo potere per un interesse diverso da quello “canonizzato”, vuoi perché la scelta adottata, tra quelle possibili, è inficiata da un salto nel procedimento logico di formazione della volontà»[27].
Assorbire, in queste ipotesi, significherebbe frustrare le esigenze di giustizia del privato, limitando la portata vincolante della pronuncia rispetto al riesercizio del potere da parte dell’Amministrazione pubblica. Infatti, l’oggetto del giudizio, nel caso rappresentato, è costituito dal complesso dei fatti lesivi e l’intero spettro dei fatti lesivi deve essere valutato dal giudice.
A valutazioni identiche si giunge prendendo in esame quelle ipotesi in cui a motivi di ricorso di ordine formale si aggiungono motivi di ordine sostanziale.
Con riferimento a tale ultima ipotesi, la normativa antecedente al codice del processo amministrativo, in particolare l’art. 45 del testo unico delle leggi del Consiglio di Stato, nel disciplinare gli effetti dell’accoglimento del ricorso, stabiliva che l’accoglimento del ricorso per motivi di incompetenza comportasse l’annullamento dell’atto impugnato e la rimessione dell’affare all’autorità compente. Di qui, la giurisprudenza, benché la dottrina fosse, in buona parte, di segno opposto[28], riteneva che la norma andasse interpretata nel senso che, laddove il ricorrente avesse censurato sotto il profilo della competenza un provvedimento, anche se tale profilo si rivelava concomitante con altri vizi, quel provvedimento sarebbe dovuto essere annullato solo per il profilo competenziale, con conseguente rimessione della questione all’autorità competente[29].
Una lettura del genere, perpetrata per anni dalla giurisprudenza amministrativa, ha significato un evidente vulnus di tutela per il privato, frutto di una interpretazione ancorata ad una lettura del processo amministrativo quale processo sull’atto e non sul rapporto[30]; vulnus che frustra le esigenze di giustizia sostanziale, sulla base di una presunta volontà legislativa che già negli anni settanta attenta dottrina[31], peraltro non isolata[32], riteneva inesistente, atteso che quella norma era stata introdotta nell’ordinamento in una fase in cui i ricorsi erano «prevalentemente formulati sulla base di un’unica domanda di impugnativa»[33].
Apparrebbe, dunque, la priorità del vizio di incompetenza rispetto agli altri vizi. Sennonché, detta ricostruzione non trova unanime neanche la giurisprudenza[34]. Anzitutto, il Consiglio di Stato si è espresso nel senso di rimettere alla discrezionalità del giudice l’ordine con il quale intenda procedere all’esame delle questioni sottoposte al medesimo[35]. Ancora, sempre il medesimo Consiglio ha affermato la necessità che l’ordine di trattazione risponda all’esigenza di soddisfare pienamente ed efficacemente l’interesse dedotto in giudizio[36]. Quanto alla parte, essa, chiaramente, può disporre liberamente dell’ordine dei motivi di censura[37].
La lettura tradizionale dell’articolo 45 può dirsi oggi superata, per un verso, da una giurisprudenza costituzionalmente orientata consolidatasi negli ultimi anni di vigenza della normativa processuale previgente[38], per altro verso, dalla espunzione del medesimo articolo dal nuovo codice.
In disparte l’ipotesi dell’incompetenza, è interessante notare come, nel corso degli anni, l’orientamento giurisprudenziale ha teso ad orientarsi nella direzione, siccome prima prospettata, della priorità dei vizi che siano idonei a soddisfare la pretesa dedotta in giudizio, ed ha ammesso l’assorbimento solo ove «vi sia un’interdipendenza logica tra le varie censure, poiché solo in questo caso l’assorbimento dei motivi è sufficiente a garantire lo stesso effetto utile, ovvero consentire l’effetto conformativo della pronuncia»[39].
Se l’ultima ricostruzione appare satisfattiva della pretesa dedotta in giudizio, non può non sottacersi il rischio, già verificatosi in passato, della denegata giustizia; rischio tanto più presente quanto più si acceda alla lettura tradizionalista, non rispettosa né dell’art. 112 cpc, che predica la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, né dell’effetto conformativo della sentenza, e che produce l’effetto opposto a quello per la quale è nata: deflazionare il contenzioso[40].
Tra gli altri aspetti, di non poco momento, si deve rappresentare che l’assorbimento dei motivi, operato illegittimamente in primo grado, conduce ad una conseguenza: quei motivi assorbiti che siano stati oggetti di appositi motivi di appello, una volta valutati dal Consiglio di Stato, condurrebbero alla conseguenza che determinate censure siano state oggetto di disamina in un solo grado di giudizio.
Peraltro, la Carta costituzionale, all’art. 125, costituzionalizza, almeno per il processo amministrativo, il doppio grado di giurisdizione[41]. E allora, logica conseguenza dovrebbe essere una piena salvaguardia di detto principio, di gran lunga prevalente rispetto ad altri principi che lumeggiano il processo, quali i principi di ragionevole durata e di economia processuale.
Con riferimento alla questione in esame, la giurisprudenza si è interrogata a proposito degli effetti dell’omessa pronuncia su determinati motivi e se la stessa potesse determinare una violazione del diritto di difesa delle parti, tale da condurre ad una rimessione al primo giudice dell’intera controversia. Ebbene, il Consiglio di Stato ha ritenuto, e ritiene, in maniera pressoché granitica, che l’omessa pronuncia non possa comportare il rinvio al primo giudice, potendosi ritenere che detto Consesso sia dotato di quei poteri di rivalutazione dell’intera vicenda, tale da non determinare un vulnus alla sfera giuridica del ricorrente[42].
Ad oggi, il codice del processo amministrativo consente esplicitamente l’assorbimento dei motivi nella sola ipotesi della sentenza in forma semplificata[43]. La formulazione della norma è tale da non lasciare spazio a dubbi: soltanto laddove il giudice ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso decide in forma semplificata, sempre che sia stata accertata la corretta instaurazione del contraddittorio e che nessuna delle parti intenda proporre motivi aggiunti o regolamento di competenza o di giurisdizione. Si tratta, quindi, di ipotesi ben delineate, in cui lo stesso legislatore ritiene che la pretesa del privato, evidentemente sfornita di elementi fondamentali o comunque non meritevole di tutela o, per converso, particolarmente meritevole di tutela e pienamente fondata, possa veder prevalere il principio di economicità.
Il fenomeno dell’assorbimento[44], per concludere, assume oggi differenti profili rispetto al passato: se un tempo l’assorbimento improprio veniva in rilievo con particolare riferimento al vizio di incompetenza, oggi costituisce sorvegliato speciale con le sentenze in forma semplificata[45]. Il loro uso improprio, difatti, riporta alla luce importanti questioni che nel prosieguo verranno brevemente analizzate.

3. La sentenza in forma semplificata[46], per l’appunto, potrebbe riproporre il rischio di un nuovo focolaio della prassi assorbitiva. Sul punto, occorre tener presente che l’articolo 60 del codice del processo amministrativo, facendo proprio l’arresto della Corte Costituzionale in tema di sentenza semplificata nell’ambito del rito degli appalti[47], ha stabilito che, affinché il collegio possa decidere con sentenza in forma semplificata all’esito dell’udienza cautelare, è necessario che il medesimo collegio accerti la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e senta, in ordine a tale evenienza, le parti costituite[48].
Ora, si pensi all’ipotesi di una sentenza in forma semplificata al di fuori dei casi previsti: in un caso, se a mancare fosse uno degli accertamenti o l’avviso previsti dalla legge, si sarebbe di fronte ad una ipotesi idonea a determinare una rimessione dell’affare al primo giudice, ai sensi dell’art. 105 del codice del processo amministrativo[49]; nell’altro caso, se a mancare, invece, fosse uno dei presupposti sostanziali, ossia la manifesta ammissibilità o inammissibilità del ricorso, allora si sarebbe di fronte ad una di quelle circostanze in cui il Consiglio di Stato dovrebbe decidere sulla questione al medesimo deferita, con l’ovvia conseguenza della perdita, nei confronti del soggetto appellante, di un grado di giudizio[50]. Situazione diversa si avrebbe, invece, nell’ipotesi in cui il giudice di primo grado avesse obliterato completamente una memoria difensiva[51]: in questo caso il rinvio al primo giudice rappresenterebbe un atto dovuto.
Quanto al primo punto preso in considerazione, occorre tener presente che l’omessa informazione alle parti, circa la volontà di definire la controversia all’esito del giudizio cautelare in forma semplificata, integra una violazione del diritto di difesa, e ciò in ragione di una interpretazione sistematica delle norme del codice del processo: laddove tale onere non venga assolto, infatti, il ricorrente o il resistente che volesse proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza o, ancora, di giurisdizione, si ritroverebbe di fronte ad un processo “mutilato”.
Si pensi, ancora, all’ipotesi in cui nel corso della discussione orale, in sede di domanda cautelare, non siano emerse, da parte del Collegio, perplessità in ordine alla ricevibilità o ammissibilità del ricorso, ovvero ancora la perenzione del giudizio e, a conclusione di tale discussione, il Collegio dichiari il proprio intento di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata. In tal caso, chiaro è che il Collegio, così agendo, violerebbe il diritto di difesa delle parti, ponendo alla base della decisione finale una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta al contraddittorio tra le parti, con la conseguenza che il Consiglio di Stato sarebbe chiamato a rimettere la questione al primo giudice, trattandosi di una violazione così grave da mettere in discussione in radice l’instaurazione di un giusto processo[52].
Laddove, invece, a decidere in forma semplificata fosse il Collegio in udienza pubblica, il medesimo non avrebbe alcun onere informativo nei confronti delle parti, atteso che si sarebbe di fronte ad una normale tecnica redazionale della sentenza. La giurisprudenza ha ritenuto, infatti, che «si tratta di disposizione scarsamente significativa perché, se il processo è giunto alla discussione del merito in udienza pubblica, non si pone alcun problema riguardo al contraddittorio ed alla difesa delle parti, e la sentenza può essere detta “semplificata” solo nel senso che è motivata sinteticamente, il che del resto è sempre possibile e anzi auspicabile»[53]
Tirando le fila: la disciplina codicistica in tema di sentenza in forma semplificata altro non è se non una previsione normativa che rende legittima la prassi dell’assorbimento dei motivi. Atteso che per le ipotesi più gravi, ossia la mancata integrazione del contraddittorio, ovvero la istruttoria difettosa, ovvero ancora l’impedimento alle parti di poter esercitare i propri diritti processuali, è prevista la rimessione al giudice di primo grado, il problema che oggi ci si intende porre, richiamando il secondo punto prima rappresentato, è quello delle ipotesi in cui il giudice o in sede cautelare o in sede di udienza pubblica decida di definire la controversia con una sentenza in forma semplificata, in assenza dei relativi presupposti.
In altri termini, ci si dovrebbe chiedere se tale condotta integri o meno un’ipotesi di violazione del principio del contraddittorio ovvero del diritto di difesa di una delle parti.
Sin da subito, è opportuno far presente che, in questi casi, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l’ipotesi dell’omessa pronuncia non rappresenti un error in procedendo tale da comportare una rimessione della questione al primo giudice, ma solo un vizio della sentenza che il giudice di appello può emendare decidendo nel merito la questione[54].
Da tanto, consegue una prima riflessione: secondo la giurisprudenza consolidatasi, il doppio grado di giudizio non costituisce elemento portante del diritto di difesa del ricorrente[55].
È interessante, a tal proposito, analizzare brevemente una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana[56]. La vicenda trae origine da una pronuncia di inammissibilità di un ricorso avverso il silenzio, presentato da una società affidataria dei servizi di sanificazione e pulizia di un’azienda ospedaliera, finalizzato ad ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere dell’ente ospedaliero rispetto ad un’istanza della ricorrente riguardante il diritto a percepire gli adeguamenti ISTAT rispetto ai corrispettivi pattuiti e maturati.
Detta vicenda veniva decisa dal TAR Palermo con una sentenza di inammissibilità, attesa la natura privatistica dei rapporti inter partes, che non consentiva in radice l’attivazione dello strumento dell’azione avverso il silenzio.
Il Consiglio di Stato, a seguito di appello, preso atto dell’omessa pronuncia da parte del giudice di prime cure con riferimento alla contestuale domanda della ricorrente di accertamento del diritto alla percezione dei predetti adeguamenti con conseguente condanna, decideva di rimettere la questione al tribunale territoriale, non prima, però, di aver sottolineato come, normalmente, l’omessa pronuncia non comporti la rimessione al giudice di prime cure. Posto, però, che, nel caso di specie, appellante e appellata concordavano, ancorché per ragioni differenti, sulla rimessione della controversia dinanzi al giudice di primo grado, il Consiglio di Stato affermava: sul «difetto di procedura che si è materializzato nella inesatta qualificazione e incompleta pronuncia data dal Tar, conseguente a un omesso esame del ricorso nel suo complesso, si è innestata la lesione del diritto di difesa correlata alla omessa applicazione del rito ordinario ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 32 del cpa»[57].
Orbene, il fatto che le parti, entrambe, ritenessero violato il proprio diritto di difesa e chiedessero la rimessione al primo giudice ha spinto il Consiglio di Stato a tratteggiare, quale violazione del diritto di difesa, un assorbimento improprio.
Fermo restando che il processo amministrativo è un processo di parti, non è chiaro in che modo la volontà delle medesime possa impingere questioni inerenti alla natura e alle caratteristiche del giudizio d’appello.
Forse, però, dietro una motivazione ritrosa e sibillina, si nasconde una certa sensibilità, sopita ormai da una giurisprudenza monolitica del Consiglio di Stato, evidentemente, per un verso, diretta a salvaguardare i diritti delle parti, per altro verso, costretta, salvo i casi più gravi, a far prevalere il principio di economicità sull’effettività della tutela: la scelta di rimessione al primo giudice, difatti, allungherebbe il cammino processuale e, pertanto, andrebbe a sacrificare la ragionevole durata del processo; «ma non sempre la celerità del processo è bene così prezioso da consigliare il sacrificio di forme processuali garantistiche efficaci»[58].
A dimostrazione del fatto che, nei casi di assorbimento improprio dei motivi, appare maggiormente satisfattivo delle esigenze del ricorrente, in nome dell’effettività della tutela, che il giudice d’appello, una volta accertato il diniego di giurisdizione, rinvii la questione al primo giudice, vi è un costante orientamento della Corte di Cassazione, a tenore del quale l’omessa pronuncia rispetto a motivi ritenuti assorbiti o superati comporta che gli stessi restino impregiudicati, non potendosi intendere formato il giudicato rispetto ai medesimi[59].
In altri termini, l’assorbimento improprio, come anche l’uso improprio della sentenza in forma semplificata, significa per la parte ricorrente o resistente che un giudice di primo grado non ha valutato talune censure in alcun modo sovrapponibili, fungibili o interdipendenti alle altre: chiaro è che, sebbene vi sia un onere di appello, il Consiglio di Stato non dovrebbe occuparsene, ma, dopo aver accertato il diniego di giustizia, dovrebbe rimettere la questione al primo giudice.
Da tale asserzione, si perviene ad un punto fermo: non ogni omessa pronuncia comporta la rimessione al primo giudice, ma solo quell’omissione in grado di assumere le forme dell’inesistenza – ossia la mancata pronuncia su alcune censure autonome, in alcun modo rapportabili a quella assorbente; inesistenza cui consegue che le medesime “non pronunce” non possano passare in giudicato: si tratta, nei fatti, di ipotesi di non liquet.
L’eventuale perdita di un grado di giudizio, infatti, significherebbe, per la parte ai danni della quale si è perpetrato il vizio dell’omessa pronuncia, una indebita limitazione del proprio diritto ad avere un doppio grado di giurisdizione, che, come si è visto, nel caso della giustizia amministrativa, è principio costituzionale[60].
Vero è che, mentre sotto la vigenza della legge n. 1034 del 1971, l’art. 35, recante norme in materia di rimessione al primo giudice della controversia pervenuta innanzi al Consiglio di Stato, statuiva genericamente che qualsiasi vizio di procedura o di forma avrebbe comportato la rimessione al primo giudice, l’attuale disciplina dell’art. 105 sembrerebbe aver limitato detto rinvio alle sole ipotesi in esso elencate, dal quale sarebbero scomparsi riferimenti a detti vizi; è altrettanto vero, però, che le ipotesi di assorbimento improprio o l’uso improprio dello strumento de quo, nelle forme della pronuncia inesistente, ridondano in una più generale violazione del diritto di difesa.
Se, infatti, per vizio di procedura deve intendersi quel vizio che comporta una violazione delle regole poste alla base del corretto uso degli strumenti processuali, e il vizio di procedura consente l’annullamento con rinvio al primo giudice solo nell’ipotesi in cui si riverberi nel più generale diritto di difesa, allora davvero non si comprende perché l’omessa pronuncia non rappresenti un’ipotesi di violazione del diritto di difesa. Ciò posto, considerato che il doppio grado di giudizio è principio costituzionale, è palmare che la parte abbia diritto ad un doppio grado di giudizio anche con riferimento alle ipotesi di pronuncia inesistente.
Il Consiglio di Stato[61], già nel 2002, sotto la vigenza della precedente legge processuale, aveva dato una lettura restrittiva dell’allora vigente art. 35; lettura che, tuttavia, non muta i termini della vicenda, a parere di chi scrive: difatti, a proposito dell’assorbimento o della sentenza in forma semplificata adottata al di fuori delle ipotesi previste, stabilisce che debba essere il Consiglio di Stato a decidere la questione, salvo che detti vizi non costituiscano errori di procedura – si legga, oggi, non ridondino nella violazione del diritto di difesa.
Autorevole dottrina, nel ricostruire la sistematica dell’assorbimento, a proposito del trattamento da riconoscere al medesimo, denunciava come «la giurisprudenza e parte della dottrina mostrano di fare “di ogni erba un fascio”, accomunando le figure di assorbimento proprio con quello dei motivi assorbiti in modo arbitrario»[62].
E proprio al fine di evitare un simile errore, sarebbe opportuno, anzitutto, distinguere l’assorbimento proprio da quello improprio, per poi assumere la seguente posizione: laddove il vizio denunciato dalla parte riguardasse un’ipotesi di assorbimento proprio, secondo la ricostruzione operata nella prima parte del presente lavoro, il Consiglio di Stato dovrebbe passare direttamente all’esame di quelle censure, che trovandosi in un rapporto di fungibilità o interdipendenza, non erano state valutate a seguito dell’assorbimento. Nel caso, invece, dell’assorbimento improprio – recte: pronuncia inesistente –, il Consiglio di Stato dovrebbe annullare la sentenza rinviando la questione al primo giudice, perché possa pronunciarsi anche sulle censure impropriamente assorbite.

4. A conclusione di questo breve itinerario, è emerso un particolare ben preciso: la prassi dell’assorbimento, lungi dall’essere sempre ed in ogni caso elemento negativo, rischia di diventare uno strumento del tutto inappropriato, nella misura in cui le ipotesi di interdipendenza e fungibilità delle censure vengano accostate ed equiparate ad ipotesi di pronuncia inesistente.
Il tentativo ordinatorio degli ultimi anni, con l’introduzione del nuovo codice, ha evidentemente, da un lato, semplificato la questione, limitando le ipotesi di rimessione al primo giudice, con l’espunzione della formula che prevedeva che qualunque vizio di procedura o di forma della sentenza di primo grado comportasse la rimessione al giudice territoriale; dall’altro, ha ulteriormente complicato la questione, ponendo nelle mani del Consiglio di Stato la responsabilità di riempire di contenuto il diritto di difesa, che spesso rischia di assumere le vesti del convitato di pietra.
La sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa[63], innanzi esaminata, ha proprio evidenziato i due corni intorno ai quali il giudice amministrativo si muove: per un verso, la tutela del diritto di difesa, per altro verso, la ragionevole durata del processo. Giustificare, come quella sentenza ha fatto, la rimessione al primo giudice sulla scorta di una richiesta concorde di entrambe le parti, significa, in realtà, affermare che il diritto di difesa è un concetto totalmente relativo, che non ha un contenuto minimo.
E invece un contenuto minimo lo ha; lo ha perché l’incubo della ragionevole durata del processo non può costituire un alibi rispetto alla violazione delle garanzie processuali. La democrazia si fonda su regole formali[64] e le regole formali sublimano i diritti sostanziali.
Ed allora, paradossalmente, proprio la Corte di Cassazione[65], a seguito dell’impugnativa di una pronuncia del Consiglio di Stato che abbia confermato un assorbimento improprio, per difetto di giurisdizione, potrebbe consentire una ridefinizione di ciò che è omessa pronuncia e di ciò che non lo è; di ciò che merita un doppio grado di giudizio e ciò che non lo merita.
In assenza di un intervento esterno, sia esso giurisdizionale, sia esso normativo, l’ultima istanza della giustizia amministrativa rischia, come Ulisse, di farsi ammaliare dal canto dell’economia processuale, troppo spesso distante dalle esigenze di tutela che uno Stato di diritto deve garantire ai propri cittadini.

 

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[1]Il presente scritto costituisce una versione riveduta, corretta e aggiornata, dell’omonima comunicazione tenuta dall’autore nel convegno “L’abuso del processo amministrativo”, tenutosi in data 13 giugno 2014, presso la Sala Lauree del Dipartimento di Giurisprudenza nell’Università di Perugia, nell’ambito dei seminari su “Abuso del diritto e abuso del processo” organizzati dal corso di dottorato “Tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive e libertà della concorrenza” XXVIII ciclo.
[2]Interessante, sul punto, è la disamina offerta da G. Scarselli, Sul c.d. abuso del processo, in Riv. dir. proc., 6, 2012, 1450 ss. e da M. Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1, 2012, 117 ss. Entrambi gli Autori ricostruiscono, in chiave critica, l’istituto e danno atto della giurisprudenza creatasi nel corso degli anni intorno al “contenitore” dell’abuso del processo.
[3]«Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2, le parti contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto, nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello». Per i primi commenti v. M.A. Sandulli, Osservazioni a primissima lettura sull’impatto del d.l. 24 giugno 2014 n. 90 impattanti sul sistema di giustizia amministrativa, in GiustAmm.it - Rivista Internet di diritto pubblico, 7, 2014; P. Quinto, La sinteticità degli atti processuali: regola di buon senso o dogma di legge?, in GiustAmm.it - Rivista Internet di diritto pubblico, 9, 2014.
[4]«In ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati». Per un primo commento, cfr. M.A. Sandulli, Osservazioni a primissima lettura sull’impatto del d.l. 24 giugno 2014 n. 90, cit.
[5]P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Studi sul processo civile, VI, Padova, 1957, 53 secondo l’Autore: «gli articoli del codice di procedura civile possono essere adoperati dai contendenti come pedine di una scacchiera».
[6]M. Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, cit.
[7]G. Scarselli, Sul c.d. abuso del processo, cit.
[8]Cass., sez. un. 28 settembre 2009 n. 20730, in Giust. civ. Mass. 2009, 9, 1361, citata anche da G. Scarselli, op. cit.
[9]Il riferimento è sempre a G. Scarselli, Sul c.d. abuso del processo, cit.
[10]Cons. Stato, sez. V, 23 luglio 2013, n. 3210; Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 2012, n. 1733. Entrambe rinvenibili sul sito www.giustizia-amministrativa.it.
[11]Cons. Stato, sez. V, 23 luglio 2013, n. 3210.
[12]G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, p. 505 ss.
[13]B. Cavallo, Processo amministrativo e motivi assorbiti, Teramo, 1975, 91 ss.
[14]Che l’art. 112 cpc rappresenti un principio processualcivilistico mutuato anche nel processo amministrativo è cosa nota. Già F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 146; E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Nov.mo Dig. It., 35; R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 586; B. Cavallo, Processo amministrativo e motivi assorbiti, cit., 37. Ad ulteriore conforto di detta lettura dottrinale, con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo si è assistito, per la prima volta in maniera piana, alla previsione di una eterointegrazione (art. 39) del codice del processo amministrativo da parte del codice di procedura civile ed all’introduzione di una norma (Art. 34, comma 1) nella quale si afferma che la sentenza è adottata nei limiti della domanda. Cfr., da ultimo, A. Giusti, Il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, Napoli, 2012, 164.
[15]R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, cit., 584: detta prassi, infatti, «implica una grave limitazione della tutela del ricorrente, poiché tanto minore è l’ambito di accertamento giudiziale, tanto maggiore è la libertà che la pubblica amministrazione conserva malgrado il giudicato».
[16]Cfr. infra.
[17]F. Patroni Griffi, La sentenza amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 92. Secondo M. Nigro, L’appello nel processo amministrativo, I, Milano, 1960, 447, soltanto quando l’esame di un motivo è assolutamente superfluo allora si potrebbe dar corso all’assorbimento di detto motivo, altrimenti ci si ritroverebbe di fronte ad una omissione di pronuncia.
[19]M. Nigro, L’appello, cit., 299
[20]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 105.
[21]Tale circostanza viene rilevata da B. Cavallo, op. cit., 115. È evidente che quanto rappresentato negli anni settanta dall’Autore non sia tanto lontano dalla realtà odierna, se è vero, come è vero, che il legislatore ha sentito la necessità di specificare tra i criteri ispiratori del “nuovo” codice del processo amministrativo la sinteticità degli scritti defensionali. Cfr. nota 3.
[22]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 115.
[23]B. Cavallo, op. cit., 91 ss. è interessante la ricostruzione dell’A. che offre un panorama completo a chi voglia accostarsi al tema in oggetto.
[24]Cons. Stato, 20 dicembre 2013, n. 6160, in Foro amm. CdS, 2013, 12, 3422.
[25]G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1912, 81.
[26]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 171.
[27]B. Cavallo, op. loc. cit.
[28]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 85; R. Villata, L’esecuzione delle decisioni, cit., 586, secondo il quale la norma, ossia l’art. 45, si è occupata di fissare la conseguenza dell’ipotesi di un ricorso fondato su un solo motivo, quello relativo alla competenza, mentre in caso di più motivi concomitanti, la soluzione andrebbe individuata attraverso le norme processuali; E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo, cit., 36.
[29]Ex multis, A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, II, Milano, 1962, 448 ss. Secondo l’A. esiste una priorità logica tra vizi sostanziali e formali, priorità che vede l’obbligo in capo al giudice di accertare l’esistenza dei vizi formali solo a seguito dell’accertamento della validità sostanziale del provvedimento.
[30]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 85. In particolare, l’Autore fa presente come quella disposizione avesse un senso all’epoca dell’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, quando ancora si dubitava in ordine alla natura giurisdizionale o meno del Consiglio di Stato e quando i ricorsi erano prospettati prevalentemente con un unico motivo. Da ultimo, A. Giusti, Il contenuto conformativo, cit., 198.
[31]Il riferimento è sempre a B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 85
[32]E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo, cit., 36.
[33]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 84.
[34]Cons. Stato, sez. VI, 12 aprile 1986, n. 312, in Cons. Stato, 1986, I, 544; Cons. Stato, sez. VI, 31 marzo 1987, n. 200, in Cons. Stato, 1987, I, 435; Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 1981, n. 913, in Cons. Stato, 1981, I, 1243. È interessante notare come già a partire dagli anni ’80 si incontrino pronunce di questo tenore: «il ricorrente ha […] un evidente interesse all’esame di tutte quelle censure idonee a creare un vincolo sempre più specifico alla futura attività dell’amministrazione, fino ad escludere per la medesima la possibilità di adottare un atto del tipo di quello impugnato». Per una più ampia disamina, dal punto di vista del rapporto tra giudicato e potere amministrativo si rinvia a M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 104 ss. con riferimento alla giurisprudenza in rapporto a giudicato, assorbimento e riesercizio del potere.
[35]Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2000, n. 6488, in Foro amm. 2000, 12.
[36]Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2001, n. 4445, in Foro amm. 2001, 2035.
[37]Cfr. F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2013, 408. Lo stesso A. sottolinea come il problema sia rappresentato dalle ipotesi in cui la giurisprudenza riconosce al giudice un ordine di priorità nell’esame delle doglianze (specialmente nt. 328).
[38]Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2009, n. 4905 in www.giustizia-amministrativa.it: «Il c.d. assorbimento dei motivi è da stigmatizzare, anche nei casi di accoglimento del ricorso, perché è interesse del ricorrente avere una compiuta disamina della questione sotto tutti i profili prospettati, anche ai fini del successivo giudizio di ottemperanza ovvero della tutela risarcitoria e, segnatamente, avere una compiuta disamina dei motivi maggiormente satisfattivi. I principi di effettività e completezza della tutela impongono di valorizzare il ruolo della domanda dell’interessato, riducendo la pronuncia di assorbimento dei motivi ai soli casi - in realtà del tutto marginali - in cui sussista un rapporto di chiara continenza, pregiudizialità logica o implicazione tra la censura accolta e quella non esaminata; si pensi alle ipotesi in cui il giudice accoglie il motivo riguardante l’omessa motivazione e, contestualmente, dichiara assorbita la censura di insufficiente motivazione. Tale conclusione, strettamente collegata al principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, espresso dall’art. 112 cpc, con disposizione avente il valore di principio generale di ogni processo, diventa inevitabile in un contesto sistematico diretto ad assicurare il più intenso e integrale accertamento del rapporto amministrativo controverso, in relazione ai profili ritualmente prospettati dalle parti interessate, anche per evitare lunghi e defatiganti contenziosi diretti a riproporre le stesse domande in seguito al rinnovo del provvedimento, affetto dagli stessi vizi non esaminati dal giudice».
[39]M. Corradino e S. Sticchi Damiani, Il processo amministrativo, Torino, 2013, 349. Cfr., ex aliis, TAR Piemonte, Torino, sez. I, 8 marzo 2013, n. 299, ove «il provvedimento impugnato sia sorretto da più ragioni giustificatrici autonome e non contraddittorie, l’accertata legittimità di taluna di esse determina l’assorbimento delle censure dedotte avverso gli altri capi del provvedimento per mancanza d’interesse del ricorrente al relativo esame (Cons. Stato sez. V, 05 ottobre 2011 n. 5465; TAR Piemonte sez. I, 9 novembre 2012, n. 1182; TAR Piemonte sez. I, 08 giugno 2010 n. 2721).
[40]M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, cit., 256. L’A., nel delineare una teoria di giudicato, (finalizzata a dare stabilità al rapporto accertato in sentenza) basata sulla sequenza logica procedimento-processo, afferma che «affinché questo meccanismo funzioni correttamente, occorre peraltro una certa cooperazione da parte del giudice. Egli deve prendere in esame e decidere su tutti i motivi di ricorso: al di là dei casi di assorbimento in senso proprio, l’omessa presa in considerazione dei motivi di ricorso […] integra una violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato». Continua l’A. sottolineando come il giudice dovrebbe «esaminare soprattutto i motivi volti a contestare l’esistenza dei fatti costitutivi del potere della pubblica amministrazione. Se il giudice omette di pronunciarsi su uno di questi motivi, la sentenza di accoglimento non attribuisce stabilità al risultato favorevole al ricorrente. Invero, con riguardo ai fatti costitutivi contestati nel motivo ritenuto assorbito non può scattare né la preclusione procedimentale […], né la preclusione del giudicato»
[41]Corte cost., 14 gennaio 1982, n. 8, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che limitava il doppio grado di giudizio in ipotesi particolari di tutela cautelare. Secondo la Corte, anche nel giudizio cautelare rinviene il principio costituzionale del doppio grado di giudizio. La Corte, in particolare, afferma che, sebbene «giurisprudenza costante di questa Corte [ritiene] che l’istituto del doppio grado di giurisdizione non ha rilevanza costituzionale (da ultimo sentenza n. 62/1981), […] nei casi che formano oggetto delle ordinanze di cui in epigrafe la giurisprudenza stessa non può essere applicata, in quanto si tratta di questioni attinenti alla giurisdizione amministrativa la quale trova nella stessa Carta costituzionale una disciplina differenziata. Infatti l’art. 125, secondo comma, esplicitamente stabilisce che i tribunali amministrativi da istituire (e poi istituiti con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034 “Istituzione dei tribunali amministrativi regionali”) sono giudici di primo grado, soggetti pertanto al giudizio di appello dinanzi al Consiglio di Stato. Il che trova spiegazione nei caratteri propri della giurisdizione amministrativa ordinaria, che verte particolarmente nella sfera del pubblico interesse e rende, quindi, opportuno il riesame delle pronunce dei tribunali di primo grado da parte del Consiglio di Stato, che trovasi al vertice del complesso degli organi costituenti la giurisdizione stessa.Non v’ha, quindi, dubbio che nel settore in parola il principio del doppio grado di giurisdizione abbia rilevanza costituzionale». Su tale tematica, si veda, ex multis, C.E. Gallo, Questione di giurisdizione e doppio grado nel processo amministrativo, nota a Cons. St., ad. plen., 8 novembre 1996 n. 23, in Dir. proc. amm., 1998, 843.
[42]Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2014, n. 46, in Foro amm., 2014, 1, 56; Cons. Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3458 in Foro amm. CdS, 2013, 6, 1619; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3368, in Foro amm. CdS, 2012, 6, 1579.
[43]In realtà, nel corso dei lavori preparatori al codice del processo amministrativo, era emersa, in sede di osservazioni da parte della Commissione Giustizia della Camera, l’esigenza che fosse sancito il divieto dell’assorbimento dei motivi nel caso in cui sussistesse un interesse apprezzabile della parte. Detta osservazione non fu presa in considerazione sulla scorta del ragionamento che detto principio fosse insito nel sistema. Cfr. G. Leone, L. Maruotti e C. Saltelli (a cura di), Codice del processo amministrativo, Padova, 2010, 1246. Viene riportata nella pubblicazione un’appendice contenente parte dei lavori preparatori al codice.
La circostanza che il legislatore abbia voluto specificare, in maniera compiuta, la disciplina delle sentenza in forma semplificata, potrebbe condurre l’interprete ad un’ulteriore suggestione: al di fuori di detta ipotesi, sembrerebbe che l’assorbimento non possa trovare ingresso nel processo amministrativo.
[44]Incidenter tantum, è bene rappresentare come la tecnica dell’assorbimento non sia tipica del solo giudice amministrativo, ma caratterizzi anche altri giudici dell’ordinamento, primo fra tutti quello costituzionale. Ad esempio, la sentenza 8 ottobre 2010, n. 293, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del t.u espropri, si è limitata, tra le numerose censure, ad accogliere quella inerente all’eccesso di delega. Ciò in quanto, ragioni di economia possono condurre la Corte a “valuta[re] il complesso delle eccezioni e delle questioni costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame e stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella sentenza”, dichiarando l’assorbimento delle altre.
[45]Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2014, che fa una disamina della storia delle sentenze in forma semplificata: «È utile premettere come l’istituto della sentenza in forma semplificata, che ai giorni nostri riceve nel codice del processo amministrativo una applicazione assai ampia (artt. 74, 60, 114, 116, 117, 120, 129), sia stato introdotto con l’art. 19 d.l. 67/1997 e generalizzato con l. 205/2000 che modificava in molte parti l’originaria legge istitutiva dei Tar (n. 1034/1971). Quanto ai precedenti, in estrema sintesi possono essere ricordati alcuni disegni di legge presentati nel corso della X legislatura ed il parere redatto dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato (n. 16/1990) incentrati, all’epoca, sull’ipotesi di definizione del giudizio mediante un’ordinanza succintamente motivata, secondo il modello offerto dal giudizio costituzionale (artt. 18 e 24 l. 87/1953: ordinanze di manifesta infondatezza o inutilità, perché ad esempio la Corte costituzionale si è già pronunciata sulla medesima questione di l.c.). Oltre che sulla base di esperienze di diritto comparato, in specie nell’ordinamento tedesco ed in quello belga, che già contemplavano discipline acceleratorie che si concludono con provvedimento semplificato. Il precedente più rilevante, nel nostro ordinamento, è stato quello, già ricordato, di cui all’art. 19 d.l. 67/1997, convertito in l. 135/1997, in materia di opere pubbliche (prevedeva la riduzione a metà dei termini processuali e la possibilità di definire il merito del giudizio in sede di esame dell’istanza cautelare) sul quale merita ricordare la pronuncia della Corte cost. n. 427/1999. Nell’occasione, la Consulta subordinò la validità (e l’espansione) di tale modello ad alcune condizioni, che dovevano sussistere al momento della discussione dell’istanza cautelare, quali: 1) l’integrità del contraddittorio; 2) la completezza dell’istruttoria; 3) il rispetto di taluni adempimenti processuali a tutela del diritto di difesa di tutte le parti (accordare il rinvio ed un termine a difesa nell’ipotesi in cui le parti preannuncino la proposizione di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza e simili). La sentenza della Corte n. 427/1999 pose le basi per la riforma introdotta dalla l. 205/2000 attraverso la previsione della decisione in forma semplificata in diversi ambiti del processo: 1) nella fase cautelare, ai fini della decisione immediata del giudizio anche nel merito; 2) all’esito dell’istruttoria; 3) nel rito del silenzio (art. 21 bis l. Tar). Con la l. 205/2000 di riforma della l. Tar il precedente sopra ricordato è stato generalizzato. Presupposti della sentenza c.d. breve sono diventati - a norma dell’art. 26 co. 4 l. Tar, come novellato dalla l. 205/2000 - la manifesta inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità (decisioni in rito), la manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso (decisioni nel merito). Deve essere assicurato il rispetto di talune garanzie "minime" (completezza dell’istruttoria ed integrità del contraddittorio, già “suggerite” dalla Corte costituzionale nella ricordata sentenza n. 427/1999) e - per quanto più rileva in questa sede - devono essere sentite le parti costituite, anche se non è richiesto il loro consenso. L’art. 60 del codice del processo amministrativo (rubricato “definizione del giudizio in esito all’udienza camerale”) corrisponde all’art. 21 nono comma legge n. 1034/1971 (modificato dalla legge n. 205/2000), con alcuni chiarimenti ed una sola novità di rilievo. I chiarimenti vertono sul rispetto delle garanzie di difesa, prevedendosi ora espressamente quello che la Corte costituzionale aveva a suo tempo “suggerito”: l’impossibilità di una definizione immediata nei casi in cui “una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione”, e la necessità di un rinvio. La novità riguarda la questione dei termini, a garanzia delle altre parti (resistente e controinteressati), al fine di scongiurare decisioni “a sorpresa”, disponendosi ora che, ai fini della decisione, debbano essere trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso (che diventano però dieci, nei riti speciali di cui agli artt. 119 e 120)».
[46]Tra i numerosi contributi, si segnalano: E. Mauro, A proposito del rito immediato, della sentenza semplificata e dei loro rapporti, in Foro amm. Tar, 2007, 3642 ss.; E. Sticchi Damiani, La sentenza in forma semplificata, in Foro amm. CdS, 2008, 2857 ss.; R. Giovagnoli, La discussione e la decisione, in F. Caringella, R. De Nictolis, R. Giovagnoli e V. Poli, Manuale di giustizia amministrativa, Roma, 2008, I, 1072 ss.; S. Baccarini, Istruttoria e sentenze semplificate, in Giurisd. amm., 2009, IV, 61 ss.; E. Mauro, Perplessità sulla motivazione succinta, in Dir. e proc. amm., 2010, 517 ss. Da ultimo, S. Pignataro, L’istituto delle “sentenze in forma semplificata” tratteggiato dal codice del processo amministrativo, in GiustAmm.it - Rivista Internet di diritto pubblico, 9, 2014.
[47]Cfr. nota 45.
[48]Cons. reg. sic., 3 aprile 2013, n. 397, in Foro amm. CdS, 2013, 4, 1091: «l’informazione di cui all’art. 60 c. proc. amm., non è finalizzata alla previa acquisizione del consenso delle parti, bensì a consentire l’esercizio completo ed esauriente del diritto di difesa nel caso concreto (mediante l’eventuale richiesta di un rinvio per la produzione di nuove prove o per proporre motivi aggiunti, ovvero per chiedere un termine a difesa); pertanto, essa deve essere riferita specificamente alla singola controversia e non può essere considerata validamente sostituita dall’avvertimento, eventualmente fatto in sede di preliminari d’udienza per tutte le istanze cautelari da chiamare nella camera di consiglio».
[49]Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2013, n. 14, rinvenibile in www.giustizia-amministrativa.it, con la quale il Consiglio di Stato, preso atto della mancata informazione alle parti circa la volontà del Collegio di decidere la controversia con sentenza in forma semplificata ha rinviato al primo giudice, atteso che la mancata comunicazione ridonda nel più generale diritto alla difesa.
[50]Cons. reg. sic., 14 marzo 2014, n. 135, in Foro Amministrativo, 2014, 3, 843, a tenore del quale «L’omessa pronuncia da parte del giudice su una o più delle censure dedotte non ricade, di norma e di per sé, tra gli “errores in procedendo” tali da comportare l’annullamento della decisione con rimessione della causa al giudice di primo grado, in quanto i casi, particolari, di rimessione sono indicati in maniera tassativa all’art. 105 del c. proc. amm.».
[51]Cons. Stato, sez. VI, 20 febbraio 2014, n. 841, in Foro amm., 2014, 2, 508, secondo la quale: «Nell’ipotesi di omessa valutazione di una memoria difensiva, la questione dedotta in giudizio appare suscettibile di rinvio al giudice di primo grado, in applicazione dell’art. 35 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 (in seguito sostanzialmente recepito dall’art. 105, comma 1, c. proc. amm., approvato con d.lg. n. 104/2010), in quanto la suddetta lesione del diritto di difesa concretizza quel “difetto di procedura” della sentenza appellata, che non consente di trattenere in decisione la causa per l’effetto devolutivo dell’appello, tenuto conto dell’esigenza di non sottrarre ad entrambe le parti le garanzie del doppio grado di giudizio (a differenza di quanto avviene in caso di erronee declaratorie di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso, identificate come contenuto della sentenza appellata)».
[52]Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462, in Foro amm. CdS, 2011, 3, 910, secondo la quale: «Ai sensi dell’art. 105 comma 1, c.p.a. va annullata con rinvio al giudice di primo grado la sentenza che sia stata emessa senza che la questione d’irricevibilità/inammissibilità del ricorso, rilevata d’ufficio dal collegio, sia stata sottoposta alla trattazione delle parti, comportando tale omissione violazione del generale principio processuale di garanzia del contraddittorio immanente alla garanzia costituzionale del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., che opera non solo nella fase d’instaurazione del processo ma ne permea l’intero svolgimento, ponendosi detto principio come garanzia di partecipazione effettiva delle parti al processo, ossia come riconoscimento del loro diritto d’influire concretamente sullo svolgimento del processo e d’interloquire sull’oggetto del giudizio, sicché le stesse devono essere poste in grado di prendere posizione in ordine a qualsiasi questione, di fatto o di diritto, preliminare o pregiudiziale di rito o di merito, la cui risoluzione sia influente ai fini della decisione». Ancora: Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2013, n. 3957, in Foro amm. CdS, 2013, 7-8, 2085, che estende detta considerazione all’ipotesi della perenzione.
[53]Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2013, n. 14, in Foro amm. CdS, 2013, 1, 95.
[54]Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2014, n. 46, in Foro amm., 2014, 1, 56; Cons. Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3458 in Foro amm. CdS, 2013, 6, 1619; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3368, in Foro amm. CdS, 2012, 6, 1579.
[55]Sulla costituzionalizzazione del principio del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo si veda nota 41.
[56]Cons. Reg. Sic., 14 marzo 2014, n. 135, in Foro amm., 2014, 3, 843.
[57]Cons. Reg. Sic., 14 marzo 2014, n. 135.
[58]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 211.
[59]Di pronunce di detto tenore dà conto già B. Cavallo, op. cit., 224, nt. 53. Il predetto orientamento può dirsi ancor oggi seguito: cfr. Cass. civ., sez. I, 4 giugno 2010, n. 13614, in Giust. civ. Mass., 2010, 6, 866; Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15461, in Giust. civ. Mass., 2008, 6, 918.
[60]Cfr. art. 125 Cost.
[61]Cfr. Cons. Stato, 12 luglio 2002, n. 3929, rinvenibile in www.giustizia-amministrativa.it. La pronuncia opera una ricognizione di tutte le ipotesi che possano effettivamente prospettarsi innanzi al giudice d’appello in caso di impugnazione di una sentenza di primo grado: «1) in caso di incompletezza del contraddittorio o di violazione del diritto di difesa di una delle parti la decisione sarà senz’altro appellabile e, in applicazione dell’art.35 L. n.1034/71, il Consiglio di Stato potrà annullarla con rinvio al primo giudice per difetto di procedura (cfr., per il caso di mancanza di integrità del contraddittorio, Cons. St., VI, 19 luglio 1999, n.997; C.G.A., 14 marzo 2000, n.96; per il caso di violazione del diritto di difesa, Con. St., 20 luglio 2000, n.3860; C.G.A., 15 marzo 1999, n.27); 2) in caso di incompletezza dell’istruttoria, l’omissione di accertamenti istruttori da parte del T.A.R. non concreta un vizio di procedura e non richiede, pertanto, rinvio al tribunale medesimo, spettando al Consiglio di Stato, qualora l’omissione venga specificamente rilevata come vizio della sentenza, provvedere agli accertamenti non effettuati (cfr. Cons. St., V, 16 novembre 1976, n.1393; id., 14 marzo 1980, n.262; Cons. St., IV, 17 novembre 1981, n.885); 3) in caso di sentenza del T.A.R. che abbia erroneamente dichiarato (manifestamente) irricevibile, inammissibile o improcedibile il ricorso, il Consiglio di Stato trattiene la causa per l’esame del merito e non la rinvia al giudice di primo grado (cfr., per l’erronea declaratoria di irricevibilità e inammissibilità, Cons. St., VI, 17 ottobre 1988, n.1152; id., 24 febbraio 1981, n.84; id., 30 settembre 1980, n.794; per l’erronea declaratoria di improcedibilità, cfr. Cons. St., V, 8 febbraio 1988, n.54), dal momento che, come statuito dall’Adunanza Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 7 luglio 1978, n.22; id, 4 luglio 1978, n.4; id, 30 giugno 1978, n.18), occorre interpretare restrittivamente le espressioni contenute nel primo comma dell’art.35 della legge n.1034 del 1971, circa le ipotesi di rinvio al primo giudice della controversia, dovendosi rimettere la causa al primo giudice “non ogni volta che la pregressa fase del processo abbia dato luogo ad una pronunzia diversa da quella di merito, ma solo quando sia mancata del tutto, per esplicita statuizione del giudice, la risoluzione della lite (art.353 c.p.c.), oppure quando il giudizio svolto in prime cure presenti vizi o lacune tali da comportare la nullità dell’intero procedimento o di una parte di esso o della sentenza (art.354 c.p.c.)”; 4) nel caso, infine, di sentenza del T.A.R. che abbia erroneamente dichiarato (manifestamente) fondato oppure (manifestamente) infondato il ricorso, è sufficiente che il soccombente si dolga dell’erroneità della sentenza di primo grado, chiedendo un nuovo giudizio di merito sulla controversia, perché l’intera materia del contendere si devolva al giudice di secondo grado (c.d. effetto devolutivo), naturalmente nei limiti di quei soli capi che abbiano formato oggetto di appello (tantum devolutum quantum appellatum), e così anche nei casi di carenza di motivazione, che non comportano annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ma sono semplicemente causa di integrazione della motivazione da parte del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., IV, 17 giugno 1980, n.662; id., 22 febbraio 1980, n.114; id., 17 novembre 1981, n.877) ed in quelli di mancata pronuncia del giudice di primo grado su determinate censure, che non integrano il vizio di procedura di cui all’art.35 L. n.1034/71, ma solo un difetto di motivazione, sul quale può provvedere il giudice di secondo grado in forza dell’effetto devolutivo dell’appello (cfr. Cons. St., IV, 23 novembre 1995, n.952; Cons. St., VI, 6 luglio 1988, n.921)».
[62]B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 222.
[63]Cons. reg. sic., 14 marzo 2014, n. 135.
[64]E. Stara, Educazione ai valori della democrazia. La ricerca pragmatista, Soveria Mannelli, 2006, 57.
[65]Già B. Cavallo, Processo amministrativo, cit., 214 ss. caldeggiava questa soluzione, attesa la natura di diniego di tutela giurisdizionale che si anniderebbe dietro la decisione del Consiglio di Stato di confermare un assorbimento improprio.

 

(pubblicato il 17.10.2014)

 

 

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