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n. 9-2014 - © copyright |
PIETRO QUINTO
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La sinteticità degli atti
processuali: regola di buon senso o dogma di legge?
È stato definitivamente convertito in legge, con
modificazioni, il D.L. 90/2014, contenente norme sull’efficienza
della giustizia, che, tra le più disparate disposizioni, si occupa
anche della definizione ed attuazione del principio di sinteticità
degli atti giudiziari in una norma, l’art. 40, la cui rubrica
recita: «misure per l’ulteriore accelerazione dei giudizi in materia
di appalti pubblici».
Ciò che più colpisce nella vicenda della
applicazione del principio di sinteticità previsto dall’art. 3,
secondo comma, del c.p.a., è, che, secondo la migliore tradizione
della «mistica della legge» (Paolo Grossi), si è fatto ricorso ad
una specifica disposizione (inserita in un decreto legge urgente)
per dare attuazione ad un precetto già codificato nel 2010.
Non
solo. Sempre nella migliore tradizione del nostro sistema
legislativo, che rinvia ai decreti attuativi (ne mancano all’appello
477) l’operatività delle disposizioni legislative, anche in questo
caso dovrà essere un decreto (di natura amministrativa, e quindi
ricorribile) del Presidente del Consiglio di Stato, di concerto con
i rappresentanti istituzionali dell’Avvocatura, a specificare i
criteri numerici e dimensionali per definire la «sinteticità» degli
atti difensivi.
Siffatto decreto dovrà farsi carico non solo del
numero delle pagine consentite, ma, altresì, degli spazi e dei
caratteri usati per la compilazione dei fogli: in pratica del numero
delle battute utilizzate.
Non intendo entrare nel merito della
questione, che tanta indignazione ha sollevato in qualche collega, e
mi limiterò a richiamare l’annotazione sull’art. 3 del commentario
al c.p.a. (Ed. Dike, a cura di Caringella e Protto), secondo cui «la
sempre crescente complessità delle questioni rimesse all’esame del
giudice amministrativo impone (ed imporrà) un’analitica enunciazione
dei vizi dedotti, cui non potranno non far seguito difese
altrettanto analitiche da parte dell’Amministrazione e
controinteressati».
Aggiungo un ulteriore riflessione: appare
alquanto singolare che l’attuazione e regolamentazione del principio
di sinteticità degli atti processuali siano limitate al contenzioso
in materia di appalti pubblici (art. 120 c.p.a.). Ciò perché l’art.
3 del c.p.a., che ha introdotto la regola della sinteticità, si
riferisce a tutti gli atti processuali e, peraltro, non solo a
quelli di parte ma anche a quelli del Giudice. Sicchè non appare
convincente, e potrebbe essere suscettibile di rilievi di ordine
costituzionale afferenti la regola generale del giusto processo
anche in termini di proporzionalità e ragionevolezza, che un
principio processuale trovi attuazione per legge, nell’ambito della
medesima disciplina codicistica, solo con riferimento ad una
materia, pur significativa e di particolare rilevanza, di diritto
amministrativo con esclusione di tutte le altre.
Il tema del mio
intervento è comunque diverso e si articola in una constatazione
(non nuova) ed in una analisi autocritica.
La constatazione è che
nel nostro Paese, da sempre, v’è la convinzione che la complessità
dei problemi della società si possa risolvere con l’incremento
esponenziale delle norme di diritto positivo, prescindendo peraltro
dall’equilibrio tra lex e ius. Si è arrivati
all’assurdo che al fine di perseguire la semplificazione normativa
si producono altre norme, ma il rapporto tra misure di
semplificazione e misure di complicazione è fallimentare.
È stata
segnalato in proposito che, ancora oggi, ogni 10 norme abolite ne
vengono create 12. A ciò si aggiunga il fenomeno del continuo
cambiamento/aggiornamento delle disposizioni che vengono modificate
su sollecitazioni ed impulsi, i più disparati. Ha ricordato il
Presidente Giovannini che il Codice dei contratti pubblici al 2014
aveva subito 44 modifiche in 7 anni. Oggi le modifiche sono
ulteriormente aumentate ed alcune sono tutt’ora in itinere sempre a
mezzo di decretazione d’urgenza a contenuto omnibus (si veda
l’art. 40). Sicchè non v’è da meravigliarsi se la legge, che
dovrebbe essere uno strumento di ordine e fonte di certezza, diventa
invece occasione e causa del contenzioso sugli atti delle
amministrazioni pubbliche che le applicano. Si realizza cioè quella
eterogenesi dei fini (Virga) con la contraddizione tra finalità
dichiarata e risultati conseguiti, di segno opposto.
Le citazioni
che si possono fare sul tema sono innumerevoli, e mi limito a
richiamare un intervento di Carlo Nordio, il quale, a proposito di
recenti scandali giudiziari in materia di opere pubbliche, ha
dichiarato: «Voglio ricordare quanto scrissi già 15 anni fa: una
delle cause della corruzione deriva dalla farraginosità delle leggi,
dal numero delle leggi e dalla loro incomprensibilità, e da una
diffusione di competenze che rende difficile individuare le varie
responsabilità».
Sin qui le denunce e le colpe … degli
altri.
Ma, forse, proprio con riferimento al fatto specifico di
cui mi sto occupando, e cioè il rispetto del principio di
sinteticità degli atti processuali, mi chiedo se l’intervento del
legislatore non sia anche occasionato da un diffuso modo di pensare,
espressione di un non corretto rapporto tra il cittadino, la
comunità e l’autorità. In una società civile e matura, supportata
dalle norme «poste», non dovrebbe valere la regola (non scritta) che
tutto ciò che non è vietato o sanzionato sia non solo permesso ma
addirittura autorizzato.
In questo senso avverto il dovere di una
autocritica, e, comunque, di una necessaria presa d’atto di ciò che
è stato denunziato dall’editorialista Panebianco come rapporto
inverso fra estensione della «fiducia sociale» e produzione di norme
scritte. Alla mancanza di fiducia sociale, intesa come un corretto
rapporto di convivenza civile, ma altresì di un maturo rapporto con
l’autorità, deputata al controllo sociale, si tenta di sopperire con
le norme di diritto positivo. All’autoresponsabilità si
sostituiscono il comando e la sanzione per colpire i comportamenti
non collaborativi.
Naturalmente non è solo un fatto sociologico
e di costume.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Superata una certa soglia di produzione di norme, non
necessariamente si riconquista il valore della «fiducia». «Le
società affette da mancanza di fiducia sociale si ritrovano in un
girone infernale … in cui la produzione di norme accresce la
sfiducia, il che, a sua volta, spinge ad emanare sempre più norme».
(A. Panebianco, 26/7/2013).
Orbene, applicando queste
considerazioni generali alla specifica fattispecie occorre chiedersi
se in una società civile fosse davvero indispensabile normare per
legge il dovere della «sinteticità» degli atti giudiziari
(inizialmente si pretendeva anche la «chiarezza» degli stessi atti).
E se fosse ancora più necessario definire in termini dimensionali e
numerici (di pagine e di caratteri) il concetto di sinteticità
(definizione demandata ad una «trattativa» o ad un «concerto» tra i
rappresentanti istituzionali degli attori del processo, con le
previste dovute eccezioni, fonte naturale di contenzioso). E se
fosse altresì necessario stabilire una sanzione, corrispondente al
diritto-dovere del Giudice (anch’egli obbligato peraltro alla
sinteticità dei propri atti) di non «leggere» le pagine eccedenti i
suddetti limiti! L’art. 40 ha un indubbio carattere innovativo
perché impedisce di valutare tutto ciò che è scritto in eccedenza
rispetto le pagine consentite, indipendentemente dalla fondatezza
delle deduzioni di parte, con l’aggravante che neppure il giudice
d’appello può intressarsene.
E’ questo il prezzo che si paga in
una società cd. civile quando il buon senso latita in uno con la
responsabilità e la capacità critica dei cives.
Ricordo,
per concludere, che senza ulteriori norme di diritto positivo, e,
pur invocando il principio di sinteticità degli atti processuali
(art. 3) peraltro già sanzionato dall’art. 26 dello stesso Codice,
di recente il Consiglio di Stato con più sentenze ha accertato e
stigmatizzato la violazione di siffatto principio (ad esempio per
l’estrema prolissità e ripetitività di un atto di appello di 109
pagine), affermando il seguente principio giurisprudenziale: « La
sinteticità degli atti costituisce uno dei modi - e forse tra i più
importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace …sulla
stessa scia si muovono gli articoli 40, co. 1, lett. c) e d), e 101,
co. 1, c.p.a. (in relazione al contenuto del ricorso introduttivo in
primo grado e in appello); parimenti utile è ricordare, in chiave
comparata, l'art. 366, co. 1, n. 3 c.p.c., laddove stabilisce che il
ricorso deve contenere "L'esposizione sommaria dei fatti della
causa" (cfr., sul punto, la recente Cass. civ., sez. un., 11 aprile
2012, n. 5698 che ha fatto applicazione della norma in esame,
dichiarando inammissibile un ricorso in cassazione, dopo aver
richiamato il dovere di sinteticità degli scritti difensivi)…Si
evidenzia, per completezza, che le istruzioni emanate dal Tribunale
di primo grado e dalla Corte di giustizia dell'UE, prevedono, in
ossequio al principio di sinteticità, che gli scritti delle parti
non superino di norma una lunghezza variabile da 5 a 15 pagine (in
base alla tipologia della causa e dello scritto difensivo) (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 1/7/2014, n. 3296; Cons. Stato, Sez. V, 11
giugno 2013, n. 3210; C.G.A.R.S., 19 aprile 2012, n.
395)».
Staremo a vedere ciò che ci riserva l’applicazione della
nuova disciplina, che nella stesura finale ha assunto un carattere
sperimentale, limitato a due anni dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione. Con l’ulteriore previsione che, al
termine di un anno, il Consiglio della giustizia amministrativa
effettuerà «il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione».
Segno di scarsa convinzione della «necessità» di una
regolamentazione ex lege.
Personalmente sono sempre più convinto
che un recupero della regola del buon senso possa e debba prevalere
su qualsivoglia comando autoritativo.
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(pubblicato il
1.9.2014)
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