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n. 8-2014 - © copyright

 

PAOLO CARPENTIERI

Sponsorizzazioni e mecenatismo nei beni culturali*

 

 


 

 

1. Stato “ridimensionato” (se non “minimo”) e sussidiarietà orizzontale. 2. Beni comuni vs. timotica: due visioni estreme; in medio stat virtus. 3. Sponsorizzazioni (causa di scambio) vs. elargizioni liberali (causa donativa o di liberalità interessata). 4. La riforma del 2012 e le linee guida applicative. 5. L’inerzia dell’amministrazione e il rifiuto, da parte delle imprese, del confronto concorrenziale. 6. Il blocco dovuto alla tecnica giuscontabilistica. 7. La recente preferenza per il modello del mecenatismo (il decreto “Art-bonus” e il modello francese).


Abstract
Il contributo fornisce un aggiornamento di sintesi sulle recenti novità normative in tema di sponsorizzazioni e di mecenatismo nel settore dei beni culturali. Sono in particolare enucleati tre concetti: 1) il mecenatismo e le sponsorizzazioni dei privati devono costituire strumenti di sussidiarietà orizzontale e non tradursi in interventi antagonisti, alternativi o sostitutivi rispetto alla fondamentale funzione statale di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale; 2) le sponsorizzazioni sono difficilmente adattabili ai criteri di trasparenza e pubblicità propri dell’evidenza pubblica, che pure devono caratterizzare una funzione amministrativa realmente democratica; 3) le difficoltà gestionali e le polemiche spesso legate alle sponsorizzazioni di beni culturali spingono verso un favor per le erogazioni liberali, che non abbisognano di particolari procedimentalizzazioni (salvi alcuni problemi, superabili, di tipo giuscontabilistico).


1. Stato “ridimensionato” (se non “minimo”) e sussidiarietà orizzontale.
Gli ultimi anni, come è noto, hanno segnato una curva discendente nell’entità della spesa pubblica destinata alla cultura e ai beni culturali, soprattutto da parte dello Stato, ma anche delle autonomie territoriali[1]. Per la verità anche il settore privato ha contribuito meno rispetto al recente passato[2]. Abbandonate le vecchie dispute sulla nozione di valorizzazione[3] – se solo miglioramento della tutela e incremento della conoscenza e della fruizione del patrimonio o anche rimuneratività economico-finanziaria della gestione – è evidente che, come è ormai opinione quasi comune, l’Italia, nella così detta “competizione” globale, se dispone di una risorsa unica e inimitabile, essa è per l’appunto costituita dal suo straordinario patrimonio culturale, fatto di paesaggi storici, musei diffusi, di più, di uno stile di vita che tiene insieme paesaggio, cultura, moda, eno-gastronomia, accoglienza di qualità, itinerari turistico-culturali[4], etc., che assume una parte di grande rilievo nell’economia del Paese[5] e che impone uno sforzo comune di buona gestione, accorta e intelligente.
Le prospettive macroeconomiche non sono comunque buone, neanche nel medio periodo. L’obiettivo liberista dello Stato “leggero” sembra in parte imposto dal principio di realtà e di necessità, nella complicata convivenza infraeuropea e nella difficile competizione sui mercati globali. E’ difficile, a breve, che lo Stato (la Repubblica, nella sua dimensione policentrica e autonomistica) possa invertire radicalmente o significativamente la tendenza.
La sussidiarietà orizzontale, costituzionalizzata nell’art. 118 Cost. come modificato nel 2001, ma già in nuce negli artt. 2 e 18 della Carta fondamentale, costituisce dunque un elemento ineludibile e necessario per conseguire quell’obiettivo di buona e accorta gestione, sopra indicato. Dall’impresa sociale al mecenatismo, dalle elargizioni liberali alle sponsorizzazioni, fino al crow-funding, all’azionariato diffuso, all’adozione collettiva di monumenti, attraverso innovative e complesse forme di partenariato pubblico-privato, sia istituzionale, sia contrattuale, che mettano insieme ricerca, sviluppo, restauro e valorizzazione e creino, anche con l’apporto della filiera delle nuove imprese “creative-culturali”, percorsi strutturati turistico-culturali, tutte queste forme, spesso anche innovative, di azione e promozione sociale e di integrazione privata delle funzioni e dei servizi pubblici appaiono viepiù utili, se non indispensabili, per migliorare il livello di tutela e fare una sana valorizzazione del patrimonio culturale. L’idea guida, che sembra oggi più proponibile, è quella di un sistema locale integrato che generi, secondo un processo bottom-up di coinvolgimento delle forze economiche e sociali locali, condizioni e pratiche di sviluppo sostenibile “intelligente”, imperniato sulla creatività e la cultura nella valorizzazione del patrimonio come rigenerazione e rilancio delle proprie radici. In quest’ottica la legge di conversione del decreto legge “art-bonus” n. 83 del 2014 introduce significative previsioni dirette a mettere a frutto lo sforzo di molte città italiane per la candidatura a Città europea della cultura 2019 (Programma Italia 2019) e a creare un nuovo percorso diretto ad attribuire il titolo di Città italiana della Cultura, al fine di sostenere, promuovere e impiegare utilmente gli sforzi programmatici e progettuali di molte città italiane, in termini di percorsi turistico-culturali capaci di fare da volano a una crescita sostenibile e intelligente locale[6].
E’ tuttavia necessario che il rapporto pubblico-privato, nel campo della valorizzazione del patrimonio pubblico, non sia squilibrato e che l’intervento dell’uno non vada a detrimento dell’altro, ma che possano raggiungersi virtuose sinergie, senza indebite invasioni di campo.

2. Beni comuni vs. timotica: due visioni estreme; in medio stat virtus.
Purtroppo la discussione sul rapporto tra pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale non sempre si svolge in modo sereno e spesso risulta pregiudicata da pregiudizi ideologici. E questo si comprende agevolmente, dato il livello altissimo di interesse e di tensione che anche l’opinione pubblica, e non solo gli specialisti e gli operatori del settore, riservano a queste tematiche.
Importanti studiosi[7] della materia hanno giustamente deprecato la confusione che talune recenti pratiche sbagliate (soprattutto taluni eccessi nella circolazione di opere d’arte per allestire mostre temporanee non sempre sorrette da ricerca e da progetti culturali adeguati) hanno ingenerato tra fruizione del bene culturale (come esercizio di diritti di cittadinanza attiva e di sovranità popolare sui beni comuni, che generano conoscenza e identità collettiva) e consumo di eventi culturali (come mero commercio di prodotti culturali e dello spettacolo). Dall’altro lato, va crescendo e acquistando spazio in ambiti sempre più larghi della politica e dell’opinionismo giornalistico[8] una diffusa insofferenza nei confronti della visione tradizionale della gestione del patrimonio, criticata come “statalista” e “burocratica”, che ne impedirebbe un adeguato sfruttamento/valorizzazione, così come va sempre più affermandosi una diffusa critica contro il magistero tecnico della tutela svolto dalle soprintendenze (a volte in modo invero troppo rigido e sproporzionato), considerato negativamente come “freno” della crescita del Paese e come causa del suo immobilismo economico[9].
Gli uni – la visione del patrimonio culturale come bene comune che attiene alla sovranità popolare, in quanto fondamento e alimento dei diritti di cittadinanza e di partecipazione democratica – criticano gli altri – la visione liberista dello Stato leggero o minimo, della centralità del ruolo dei privati e della semplificazione – ribadendo il principio cardine per cui la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale è affare essenziale dello Stato (un vero e proprio compito di conservazione, equiparabile all’amministrazione della giustizia e all’istruzione pubblica), che non può essere lasciato alla generosità dei benefattori privati e alla magnanimità dei circoli e dei salotti buoni delle elite economico-culturali. Gli altri – il partito “liberista” – criticano i primi – gli “statalisti” – sostenendo che lo Stato non deve e non può espropriare le ricchezze dei privati, con eccessi di spesa pubblica per gestire complicati apparati di tutela, che si traducono in aumento della tassazione, né privarli della libertà di fare impresa, e affermano un criterio “timotico”[10] imperniato sulla naturale generosità volontaria dei più ricchi, che per cultura tendono a farsi mecenati dell’arte e a sostenere con raccolte di fondi benefiche le insufficienze dell’amministrazione (spesso la tesi liberista – “meno spesa pubblica, meno tasse, più donazioni libere dei privati” – si lega alla tesi della semplificazione amministrativa – per cui comunque “il privato gestisce meglio del pubblico”, che sarebbe impaniato nelle sue pastoie burocratiche; questo legame esprime a ben vedere un profondo parallelismo tra tiene insieme la visione timotica del fisco con il modello dell’autocertificazione dei controlli amministrativi: nell’uno, come nell’altro ambito, lo Stato fa un passo indietro, attende e riceve e rinuncia a imporre e prescrivere).
Come spesso avviene nelle cose, il giusto probabilmente sta nel mezzo, al netto delle estreme, operando, come si suol dire, un “taglio delle ali”. Non c’è niente di male nel fatto che i più ricchi siano generosi e possano donare alla causa comune. La dicatio ad patriam, istituto primigenio della tutela stessa del patrimonio culturale pubblico, è del resto nata nell’ottica celebrativa del potere e della ricchezza delle aristocrazie ed ha contribuito alla costruzione del patrimonio pubblico in un intreccio parallelo e in un’integrazione virtuosa con la realizzazione di edifici originariamente pubblici, religiosi e civili.[11] E’ però fondamentale che le due componenti convivano in un equilibrio armonico, in cui non sia messo in discussione il principio fondamentale per cui la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale sono e devono restare officio fondamentale e indefettibile dello Stato.
Illustra (involontariamente) in modo icastico il rischio di “corto-circuiti” antistatuali, insito in un approccio troppo liberista, la recentissima vicenda dell’aumento degli smartphone e dei tablet deciso da un notissimo produttore americano: la nota azienda – per molti una vera e propria icona della libertà, della creatività, dell’innovazione, in una parola, della civiltà – ha immediatamente scaricato sui consumatori, in modo quasi provocatorio, l’intero incremento dell’equo compenso (all’incirca 4 euro ad esemplare venduto) deciso dal Ministro dei beni culturali, nell’esercizio della sua funzione di tutela del diritto d’autore, in applicazione di una direttiva europea diretta a garantire una equa remunerazione agli autori, agli artisti, interpreti ed esecutori e alle industrie culturali che producono i contenuti che riempiono e rendono così utili e appetibili i mobile device in questione[12]. Dietro questo atteggiamento si legge – non in filigrana, ma in modo diretto ed evidentissimo – il rifiuto liberista dello Stato e della sua funzione di riequilibrio redistributivo: l’impresa californiana in questione, infatti, è parimenti famosa (come altre, altrettanto note, new company dell’information economy) per il suo generoso mecenatismo, proporzionale del resto agli enormi profitti realizzati, destinato a sovvenzionare scuole e altre iniziative benefiche. Iniziative invero sicuramente apprezzabili e meritevoli, purché, però, questo è il punto, non si accompagnino poi al contrasto e al rifiuto dell’azione pubblica: l’impresa in questione avrebbe invero potuto contribuire al sostegno della cultura, insieme ai suoi parimenti ricchi distributori e commercianti sparsi nel mondo (in Italia e in Europa, nell’esempio in questione), in modo ugualmente sostanzioso e significativo semplicemente assolvendo a un obbligo di legge, senza scaricarne automaticamente il peso sui suoi utenti. Ma, evidentemente, l’impresa reclama i ringraziamenti e il plauso sociale per la sua generosità e non accetta l’autorità dello Stato, che impone per legge o per provvedimento comportamenti di giustizia sociale. Se questo deve essere il concorso del privato al sostegno della cultura – ossia magnanimità “illuminata” dei nuovi ricchi e ricchissimi, ma rifiuto della tassazione e dell’autorità redistributiva pubblica – allora effettivamente vi è da dubitare della possibilità di un corretto ed equilibrato rapporto tra pubblico e privato nella gestione e valorizzazione del patrimonio culturale. Un simile approccio, in ogni caso, tradisce la nozione stessa di sussidiarietà e sconfina nell'anarcocapitalismo o nel libertarianismo di matrice anglosassone[13].

3. Sponsorizzazioni (causa di scambio) vs. elargizioni liberali (causa donativa o di liberalità interessata).
Due sono soprattutto le forme in cui si manifesta la partecipazione dei privati al sostegno del patrimonio culturale: le elargizioni liberali e le sponsorizzazioni[14].
La linea di confine tra queste due diverse forme giuridiche è chiara e netta sul piano teorico; si presenta spesso piuttosto indefinita e sfuggente nella pratica. Sul piano sistematico, è noto che la sponsorizzazione è, in sostanza, un acquisto di spazi pubblicitari per l’impresa commerciale. E’, dunque, un contratto a titolo oneroso con causa di scambio, a prestazioni corrispettive, in cui alla contribuzione (in danaro: sponsorizzazione “pura”, o in mezzi, strumenti, forniture, servizi o lavori, sponsorizzazione “tecnica”), da parte dello sponsor, corrisponde una controprestazione dell’amministrazione titolare del bene culturale consistente nell’attribuzione del diritto di “sfruttare” il suo “valore” promozionale, secondo modalità predefinite, rispettose della dignità e del decoro del valore culturale del bene (art. 120 del codice di settore), che spaziano dalla cartellonistica sui ponteggi al logo impresso sui biglietti d’ingresso e sul materiale divulgativo e didattico, sui supporti didattici, etc., dalla riserva dei diritti sulle immagini e sulle riproduzioni dei lavori di restauro fino (come nel noto caso Tod’s – Colosseo) alla riserva del diritto di creare e gestire una struttura di accoglienza dedicata in prossimità del monumento. Le elargizioni liberali, invece, si atteggiano come donazioni modali, connotate da un titolo gratuito, spesso di così detta “liberalità interessata”, in cui l’attribuzione (quasi sempre in danaro) non si lega causalmente e sinallagmaticamente a una vera e propria controprestazione, poiché il benefattore ha di solito diritto solo a un pubblico ringraziamento, ad apporre una targa che ne ricordi il contributo e ad altre, piccole forme di riconoscimento di tipo soprattutto morale, economicamente non rilevanti o apprezzabili.
Nella pratica la linea di confine si rivela meno facilmente definibile: in tutti i casi in cui un’impresa commerciale “dona” i sui prodotti per essere utilizzati nello svolgimento di un servizio legato al bene culturale, è quasi inevitabile che la mera diffusione della notizia di tale fornitura e di tale impiego possa tradursi in vantaggio promozionale per i prodotti aziendali. Questa considerazione dimostra come sia sostanzialmente vero che anche l’elemento soggettivo della natura giuridico-economica del prestatore incida sulla qualificazione dell’atto e del rapporto. Resta in sostanza vero che l’elargizione liberale appartiene soprattutto all’area delle persone fisiche e degli enti non commerciali, mentre la sponsorizzazione è tipica e propria delle imprese profit. La donazione dei propri prodotti da parte di un’impresa commerciale rischia di trasformare per definizione il bene culturale, dove quei prodotti siano applicati, in un veicolo commerciale di promozione e pubblicità del prodotto e dell’impresa, rivelandosi, dunque, una sponsorizzazione tecnica.
Giova poi chiarire che non entra nella causa del negozio – a caratterizzarne la consistenza – il beneficio fiscale riconnesso all’atto. E’ noto – e se ne tratterà nei prossimi paragrafi – che molte legislazioni, tra cui quella italiana, riservano regimi di vantaggio fiscale per chi dona in cultura. Ma ciò rileva sul piano dei motivi che inducono il soggetto a donare, non sulla causa del negozio, nel senso che il beneficio fiscale riconosciuto dallo Stato non può configurarsi come controprestazione della donazione, sì da alternarne il titolo gratuito, tramutandolo in titolo oneroso di scambio. Del resto anche le sponsorizzazioni godono di un vantaggio fiscale non indifferente[15].
La configurazione della sponsorizzazione in termini di contratto oneroso di scambio, sia pur dopo un lungo dibattito, ha condotto al suo parziale assoggettamento alle regole di evidenza pubblica. E’ stato soprattutto il già citato episodio Tod’s – Colosseo che ha suscitato polemiche e discussioni, anche in Parlamento, oltre che contenziosi giurisdizionali[16], tali da indurre il legislatore a intervenire con il decreto legge n. 5 del 2012.

4. La riforma del 2012 e le linee guida applicative.
Le sponsorizzazioni di beni culturali si sono sempre collocate in un’area grigia di scarsa procedimentalizzazione. Negli anni ‘90 del secolo scorso non era ancora chiara la riconducibilità di tali vicende nell’ambito della disciplina dell’evidenza pubblica, poiché si muoveva dal pregiudizio secondo cui il mancato esborso di danaro pubblico e l’acquisizione “gratuita” della prestazione ponessero tali fenomeni giuridici al di fuori dell’ambito applicativo della legislazione sulla contabilità di Stato. A tale pregiudizio si legava, come causa e conseguenza al tempo stesso, l’idea errata secondo cui la sponsorizzazione costituisse una sorta di liberalità interessata non donativa. Solo a seguito della chiarificazione civilistica del titolo oneroso di tali contratti (a prestazioni corrispettive), siccome assimilabili all’acquisto di spazi pubblicitari, nonché a seguito della comprensione della necessità di garantire comunque parità di trattamento e trasparenza nelle procedure per la concessione di opportunità economiche (e di spazi) contendibili tra le imprese in un mercato concorrenziale, si è affermata l’idea della necessità di fare i conti con l’evidenza pubblica e di introdurre un minimo di procedimentalizzazione e di disciplina positiva di tali vicende giuridiche (al di là dei profili di tutela del bene culturale, esplicitati già con l’art. 120 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che è del 2004). Dopo varie vicende normative[17] si è dunque pervenuti nel 2012 a introdurre, con l’art. 20 del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, nella legge 4 aprile 2012, n. 35, il nuovo art. 199-bis nell’apposito capo del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006) relativo ai contratti sui beni culturali (Capo II del Titolo IV della Parte II, artt. 198 ss.), articolo dedicato specificamente alla sponsorizzazione di beni culturali.
L’idea di fondo che ispira la nuova previsione risiede nella riconduzione del fenomeno, per quanto possibile, entro un alveo di razionale programmazione, entro, dunque, le linee generali proprie dell’intera disciplina della realizzazione dei lavori pubblici e dell’acquisto di servizi e forniture, che fa perno, per l’appunto, sulla corretta programmazione dei fabbisogni e delle conseguenti azioni procedurali volte a soddisfarli (art. 128 del codice dei contratti). L’obiettivo era quello di fare in modo che l’amministrazione si rendesse parte attiva in queste vicende, uscendo dalla condizione di passiva attesa delle iniziative spontanee dei privati, come era sino ad allora avvenuto. Ciò avrebbe dovuto consentire di conseguire il duplice scopo di superare, da un lato, l’episodicità, la frammentarietà e la casualità degli interventi, recuperando anche le sponsorizzazioni entro un quadro conoscitivo e programmatorio razionale di gestione degli interventi, anche al fine di poter coniugare l’apporto privato con le eventuali disponibilità pubbliche, a vantaggio della stessa pianificazione di bilancio dell’ente; e di consentire, dall’altro, la opportuna diversificazione e graduazione delle tipologie di finanziamento in relazione all’urgenza e alla dimensione degli interventi (riservando, ad esempio, alle ordinarie programmazioni con fondi pubblici gli interventi più delicati, più complessi, più urgenti, etc, lasciando, viceversa, alla fonte di finanziamento privata gli altri interventi, più semplici, meno urgenti, ripetitivi, etc.). In questa logica è stata prevista la redazione di uno speciale allegato o sezione del programma triennale, dedicato in modo specifico agli interventi per i quali l’amministrazione sollecita l’iniziativa di sponsor privati. Naturalmente questa sezione speciale, in coerenza con la struttura logica del programma triennale, che si articola in aggiornamenti annuali e nell’elenco dei lavori da realizzare nell’anno, avrebbe dovuto ricevere il suo normale aggiornamento annuale (specificazione non esplicitata nella norma perché superflua, in quanto già contenuta nell’art. 128 del codice dei contratti). L’ulteriore obiettivo della nuova norma era quello di stabilire una volta per tutte, in modo chiaro e semplice, quale fosse il modo di soddisfacimento dei principi di evidenza pubblica richiesti dal diritto europeo, dagli artt. 26 e 27 del codice dei contratti e, prima ancora, dalle elementari esigenze di accountability imposte dall’art. 97 Cost. e dal Capo I della legge generale sul procedimento amministrativo, n. 241 del 1990[18].
Sono poi intervenute le linee guida ministeriali. Con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali in data 19 dicembre 2012, pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 60 del 12 marzo 2013, sono state approvate le norme tecniche e linee guida applicative delle disposizioni contenute nell’art. 199-bis previste dall’art. 61, comma 1, d.l. n. 5 del 2012, riferite anche alle disposizioni contenute nell’art. 120, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni, anche in funzione di coordinamento rispetto a fattispecie analoghe o collegate di partecipazione di privati al finanziamento o alla realizzazione degli interventi conservativi su beni culturali, in particolare mediante l’affissione di messaggi promozionali sui ponteggi e sulle altre strutture provvisorie di cantiere e la vendita o concessione dei relativi spazi pubblicitari.

5. L’inerzia dell’amministrazione e il rifiuto, da parte delle imprese, del confronto concorrenziale.
Nonostante questo notevole sforzo di disciplina chiarificatrice compiuto dal Legislatore e dal Ministero, le amministrazioni sono rimaste pressoché ferme. Questa stasi è dovuta a due fattori convergenti, che, al fondo, sono espressione di un’unica mentalità di rifiuto delle procedure automatiche e formalizzate e di ricerca delle soluzioni dei problemi di gestione nei rapporti personali diretti. Da un lato l’amministrazione – tra cui anche quella dei beni culturali – si è mostrata impermeabile all’applicazione di queste nuove regole, rifiutate a priori come complicazioni indesiderate, rispetto al sistema anteriore, affidato in sostanza ai rapporti personali con singoli mediatori e imprenditori del settore, che si facevano promotori di soluzioni pronte per l’uso, senza la necessità di studiare e di applicare procedure amministrativistiche, atti di programmazione, avvisi pubblici, disciplinari tecnici, etc. (procedure peraltro indigeste a un corpo di funzionari in prevalenza composto da tecnici, architetti, storici dell’arte, archeologici, con una endemica penuria di elementi amministrativi). Dall’altro lato ha operato il rifiuto, da parte delle imprese, del confronto concorrenziale, in un campo, quello delle sponsorizzazioni, vissuto ancora come area esclusa dal mercato, affidata all’affectio personale, alla fiducia cum amico, non alle procedure trasparenti di evidenza pubblica, un’area avvertita come riservata alla rete amicale in cui si manifestano quei sentimenti di magnanimità e di mecenatismo che ne costituirebbero la sostanza e il presupposto. Il rifiuto del confronto concorrenziale da parte delle imprese deriva inoltre dalla propensione ad assecondare la tendenza verso la pratica dello shopping dei beni culturali, in cui è l’impresa che sceglie il monumento che le piace di più o che meglio a suo giudizio si confà alle sue esigenze promozionali, al quale legare il proprio marchio. Per l’impresa la sponsorizzazione significa scegliere un bene culturale molto rappresentativo e intestarselo come prova di sensibilità civica e culturale. Anzi, s’è avvertito spesso, tra le righe, sullo sfondo di alcuni episodi, che l’elemento decisivo, che ha spinto alcuni imprenditori a impegnarsi con somme anche cospicue, si è sostanziato in un approccio “sostitutivo” antiburocratico, rispetto allo Stato e, più in generale, all’amministrazione pubblica: si è avuta in taluni casi la percezione che il messaggio pubblicitario forte, esso sì davvero appetibile per le imprese, non fosse quello della sussidiarietà disciplinata dalle regole di evidenza pubblica, sotto la regia della programmazione pubblica, ma quello della “prova di forza” dell’intervento esterno del “privato” efficiente ed efficace in contrapposizione sostituiva alla debolezza e alle lungaggini della burocrazia pubblica, un’affermazione del mondo del fare, proprio delle imprese, contro il mondo delle forme e delle procedure, proprio della pubblica amministrazione. E’ evidente che questo modello squilibra il significato della sussidiarietà orizzontale e ne snatura il senso.
L’insieme di queste due componenti ha condotto al fallimento delle sponsorizzazioni come sistema programmato e trasparente di concorso del privato al sostegno dei costi della conservazione dei beni culturali. Giustamente e coerentemente il Ministro in carica, così come anche il suo predecessore, hanno espresso una netta preferenza per lo strumento del mecenatismo e delle elargizioni liberali, meno esposto a questo genere di problemi.
Anche sotto il versante ora indagato, è vero che il giusto sta nel mezzo: è forse eccessivo e sproporzionato pretendere di imporre la lungaggine e l’appesantimento burocratico dell’evidenza pubblica anche alle sponsorizzazioni “pure” (solo danaro), atteso che, in definitiva, appartiene alla fisiologia del costume sociale del Paese (e non solo del nostro) che la ricerca dello sponsor sia affidata a canali più informali e diretti; dall’altro lato resta vero che il ricorso alla sponsorizzazione non può restare abbandonato alla casualità e all’episodicità dell’iniziativa privata, senza un minimo di programmazione e di gestione razionale e trasparente da parte delle amministrazioni.

6. Il blocco dovuto alla tecnica giuscontabilistica.
Ma anche le elargizioni liberali incontrano i loro problemi applicativi. Un ulteriore elemento di crisi del sistema e di paralisi nella raccolta di fondi privati deriva dalla rigidità della legge di bilancio dello Stato e dal dogma (che ha peraltro le sue ragioni d’essere forti e serie) del divieto di gestioni fuori bilancio e dell’apertura di contabilità speciali o gestioni di cassa autonome di uffici e istituti statali. Questo costituisce un problema non da poco per chi vuole fare donazioni a favore di singoli musei o aree archeologiche statali, in una realtà, come quella italiana, nella quale i musei e le aree archeologiche statali non sono autonomi soggetti giuridici, ma uffici ministeriali (il problema, invece, non sussiste per gli enti territoriali).
Ne deriva la conseguenza che, per il Ministero di settore, solo alcuni uffici periferici speciali, quelli dotati di speciale autonomia (elencati nell’art. 15 del regolamento di riorganizzazione n. 233 del 2007)[19], dispongono di una vera e propria autonomia contabile[20], in base alla quale dispongono di una propria cassa, con una banca tesoriera, tramite la quale incassare e spendere direttamente i proventi della bigliettazione e dei ricavi dei servizi aggiuntivi (e, analogamente, delle donazioni). Per questi uffici ricevere donazioni modali direttamente collegate causalmente alla realizzazione di uno specifico intervento di restauro è cosa semplice, poiché il benefattore può senz’altro versare l’elargizione nelle casse proprie dell’ufficio dotato di speciale autonomia. Per tutti gli altri uffici ministeriali (musei come Brera a Milano o il Polo Reale a Torino, aree archeologiche, come villa Adriana a Tivoli) la cosa è più difficile, perché non possono ricevere direttamente i fondi, che devono dunque essere versati in contro entrate del Tesoro per poi essere successivamente riassegnati su appositi capitoli di bilancio centrali del Ministero che, infine, dovrebbe riassegnare la quota di tali introiti all’ufficio periferico dotato di competenza a impegnare quei fondi (di solito la Direzione regionale territorialmente competente). Il meccanismo di riattribuzione al Ministero (una volta abolito il sistema che vietava la rassegnazione e faceva finire tutti i proventi dei biglietti al Tesoro, salva riattribuzione l’anno successivo per un importo fino alla metà) è disciplinato dagli articoli 40, comma 9, e 42, comma 9, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214[21].
Con il decreto legge “Valore-cultura” 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, nella legge 7 ottobre 2013, n. 112, all’art. 12, era stata introdotta dunque una norma virtuosa, diretta a semplificare le donazioni di modico valore, fino a 10.000 euro, del seguente tenore: “12 Disposizioni urgenti per agevolare la diffusione di donazioni di modico valore in favore della cultura e il coinvolgimento dei privati - 1. Con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono definite le modalità di acquisizione delle donazioni di modico valore (fino all'importo di euro diecimila) destinate ai beni e alle attività culturali, secondo i seguenti criteri: a) massima semplificazione ed esclusione di qualsiasi onere amministrativo a carico del privato; b) garanzia della destinazione della liberalità allo scopo indicato dal donante; c) piena pubblicità delle donazioni ricevute e del loro impiego, mediante una dettagliata rendicontazione, sottoposta agli organi di controllo; d) previsione della possibilità di effettuare le liberalità mediante versamento bancario o postale ovvero secondo altre modalità interamente tracciabili idonee a consentire lo svolgimento di controlli da parte dell'Amministrazione finanziaria”[22]. Sennonché le amministrazioni non sono riuscite ad attuare questa disposizione di rango primario, pur così semplice e chiara nei suoi contenuti normativi: dopo mesi di intenso lavoro degli uffici, a fronte della ferma opposizione dell’Economia a consentire l’apertura di apposite contabilità speciali dei musei, era stata elaborata una proposta che rischiava di introdurre una modalità addirittura più complicata di quella, generale, propria delle donazioni maggiori, sopra riportata (la soluzione ipotizzata era imperniata su un programma nazionale al quale sarebbero confluite le donazioni, con vincolo per i donatori di aderire alle proposte contenute nel programma, senza poter scegliere beni specifici non inclusi in quel programma). Ne è conseguita la decisione di abrogare la norma primaria siccome non attuabile (l’art. 12 del d.l. n. 91 del 2013 è stato infatti abrogato dall’ art. 1, comma 6, del decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, che peraltro demanda al regolamento di riorganizzazione del Ministero l’individuazione di opportune strutture ministeriali dedicate al fundraising). Le cose dovrebbero cambiare nettamente in meglio e in parte risolversi con la legge n. 106 del 2014 di conversione del decreto legge n. 83 del 2014, che ha potenziato l’autonomia dei musei e che, attraverso la preannunciata riforma organizzativa, dovrebbe attribuire autonomia gestionale e contabile e numerosi musei statali, elevati a uffici di rango dirigenziale.

7. La recente preferenza per il modello del mecenatismo (il decreto “Art-bonus” e il modello francese).
Il recente decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, contiene, all’articolo 1, nuove, significative, misure di sostegno fiscale per il mecenatismo. La norma riconosce un credito d’imposta, fino a un massimo del 30 per cento dell’importo delle elargizione liberali, pari al 65 per cento negli anni 2014 e 2015 e al 50 per cento nel 2016 (la norma è per ora temporanea e sperimentale), nei limiti del 15 per cento del reddito in caso di persone fisiche ed enti non commerciali, e del 5 per mille dei ricavi annui, nel caso di enti commerciali. Il sistema è modellato per un verso sull’analogo strumento già previsto in materia di efficienza energetica con i c.d. eco-bonus (da ultimo, decreto legge n. 76 del 2013, convertito dalla legge n. 90 del 2013), per altro verso sul sistema francese, che tanti frutti positivi pare che abbia dato oltralpe (in Francia vige la detrazione del 66 per cento, con un tetto del 20 per cento dell'imponibile delle persone fisiche e del non profit e del 5 per mille della cifra d’affari annua delle imprese; legge del 1 agosto 2003 e decreto n. 185 del 24 febbraio 2004; art. 39-I-7 del Code général des impôts (CGI)).
Ferma restando la ripartizione in tre quote annuali di pari importo, per i soggetti titolari di reddito d’impresa il credito di imposta è utilizzabile in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, e non rileva ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive. Non sono però previsti i limiti massimi di compensazione stabiliti dalla legislazione generale.
La scelta politica, in questa fase sperimentale, a fronte di risorse scarse (è noto che le agevolazioni fiscali abbisognano anch’esse di copertura, in relazione al minor gettito atteso del tributo cui l’agevolazione è riferita), è stata quella di concentrare il vantaggio fiscale sulle donazioni a favore del patrimonio pubblico. Oggetto di agevolazione sono dunque tre tipologie di destinatari età della donazione: 1) le erogazioni liberali in denaro effettuate per interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici; 2) le elargizioni liberali per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica; 2) le elargizioni liberali e a favore delle fondazioni lirico-sinfoniche o di enti o istituzioni pubbliche che senza scopo di lucro svolgono esclusivamente attività nello spettacolo, per la realizzazione di nuove strutture, per il restauro ed il potenziamento di quelle esistenti. Per attutire l’impatto sulla finanza pubblica, in termini di minori entrate, il beneficio è concesso, nei tre periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2013, il credito di imposta è ripartito in tre quote annuali di pari importo.
E’ da notare subito che la misura non si sostituisce al sistema previgente, di cui agli artt. 15 – per le persone fisiche e gli enti non commerciali – e 100 – per gli enti commerciali – del TUIR (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), ma si aggiunge ad esso, sospendendo, di tale sistema, esclusivamente le voci corrispondenti dei predetti artt. 15 e 100, operando una deroga temporanea triennale esclusivamente alle disposizioni di cui agli articoli 15, comma 1, lettere h) e i), e 100, comma 2, lettere f) e g), del citato TUIR.
Le altre disposizioni generali del TUIR rimangono per il resto senz’altro in vigore. La nuova disciplina, dunque, non danneggia in alcun modo gli enti non profit – come il FAI – attivi nel fund raising, per i quali continuano ad applicarsi le disposizioni dell’art. 15 del TUIR. Tale circostanza, che verrà chiarita in un’apposita circolare in corso di elaborazione con il Ministero dell’economia e delle finanze, è stata peraltro, a scanso di equivoci, precisata espressamente nella norma, mediante accoglimento, alla Camera, di un apposito emendamento dei relatori (al comma 2 è stata aggiunta la seguente specificazione: “Il credito d'imposta spettante ai sensi del comma 1 è altresì riconosciuto laddove le erogazioni liberali in denaro effettuate per interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici siano destinate ai soggetti concessionari o affidatari dei beni oggetto di tali interventi”)[23].
Restano in vigore la lettera g) dell’art. 15 (detrazione 19% delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione, protezione o restauro di beni culturali), così come quella parte della lettera h) non incompatibile con le nuove previsioni (detrazione del 19% delle erogazioni liberali in denaro a favore di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro, che svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico o che organizzano e realizzano attività culturali, effettuate in base ad apposita convenzione, per l'acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro di beni culturali, ivi comprese le erogazioni effettuate per l'organizzazione in Italia e all'estero di mostre e di esposizioni di rilevante interesse scientifico-culturale delle cose anzidette, e per gli studi e le ricerche eventualmente a tal fine necessari, nonché per ogni altra manifestazione di rilevante interesse scientifico-culturale anche ai fini didattico-promozionali, ivi compresi gli studi, le ricerche, la documentazione e la catalogazione, e le pubblicazioni relative ai beni culturali, sempre che tali iniziative culturali siano autorizzate dal Ministero per i beni culturali e ambientali, che deve approvare la previsione di spesa ed il conto consuntivo).
Identicamente, per gli enti profit, restano applicabili la lettera e) dell’art 100 (Oneri di utilità sociale), che prevede la deducibilità delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione, protezione o restauro di beni culturali, nella misura effettivamente rimasta a carico, e, della lettera f), la parte non incompatibile con le nuove previsioni (deducibilità delle erogazioni liberali in denaro a favore di associazioni legalmente riconosciute che senza scopo di lucro svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico, effettuate per l'acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro di beni culturali, etc.), così come resta pienamente applicabile la lettera m), che accorda la deducibilità – nei limiti del plafond annuo prestabilito - delle erogazioni liberali in denaro a favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e di associazioni legalmente riconosciute (incluse nell’apposito elenco redatto dal MiBAC), per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali e per la realizzazione di programmi culturali nei settori dei beni culturali e dello spettacolo.
Alla stessa stregua restano perfettamente applicabili i benefici, alternativi all’art. 100 del TUIR, previsti dall’art. 14 del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, che prevede la deducibilità del soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui, delle liberalità in denaro o in natura erogate da persone fisiche o da enti soggetti all'imposta sul reddito delle società in favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all'articolo 10, commi 1, 8 e 9, del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, in favore di fondazioni e associazioni riconosciute aventi per oggetto statutario la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

 

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• Il testo riproduce, con adattamenti e integrazioni, la relazione tenuta nel corso della giornata di studi Sponsorizzazioni e mecenatismo nei beni culturali, svoltasi presso la Scuola Umbra di Amministrazione Pubblica di Perugia, il 3 luglio 2014.
[1] L’investimento pubblico per la cultura (Stato, Regioni, enti locali) è sceso, nel 2014, a poco più di 5 miliardi di euro, con una perdita, dal 2006, di circa 2 miliardi. Gli stanziamenti a favore del Ministero di settore sono diminuiti, negli ultimi dieci anni, del 27,4 per cento e un ulteriore calo del 3 per cento è previsto per il prossimo triennio (sulla base delle leggi finanziarie triennali). Le attività culturali sostenute dai Comuni hanno subito un taglio del 9,4 per cento (dati riferibili al 2011 e 2012), quelli delle Province del 25 per cento (dati desumibili dal rapporto Federculture 2014 e dal rapporto 2014 della Fondazione Symbola e di Unioncamere).
[2] Sul fronte privato, fra il 2008 e il 2013, le fondazioni bancarie hanno dato il 9 per cento in meno, le erogazioni da parte di persone e imprese sono crollate del 26,6 per cento, le sponsorizzazioni sono diminuite del 41 per cento, sebbene a livello mondiale il loro valore e quello dei partenariati aziendali sia costantemente cresciuto: 2 milioni di dollari nel 1984; 5,2 milioni nel 1992; 24,79 milioni nel 2000; 33,7 nel 2006; 44 nel 2009; 55,3 nel 2006 (su scala planetaria il settore artistico e culturale ha assorbito una quota pari al 5 per cento circa del totale poiché molte aziende preferiscono intervenire nei campi del sociale, della ricerca scientifica, etc. – fonti citate alla nota 1).
[3] Sul tema della valorizzazione, in generale, cfr. G. Severini, sub artt. 6 e 7, in M. A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2^, 2012, 50 ss.; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 698 ss.; Id., Valorizzazione e fruizione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., n. 5 del 2004, 483; G. Sciullo, I servizi culturali dello Stato, nota di commento a Corte cost., 20 gennaio 2004, n. 26, in Giorn. dir. amm., n. 4/2004, 402; D. Vaiano, sub artt. 101 ss., in G. Trotta, G. Caia e N. Aicardi (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le Nuove Leggi Civili commentate, Padova, n. 5-6 del 2005, 1409 ss.
[4] La scelta del Governo Letta, nel 2013 (legge n. 71 del 2013), di unire il turismo (le politiche di rilievo nazionale di promozione del turismo) e i beni e le attività culturali, in questo senso, non è sbagliata, ma coglie, anzi, un dato di realtà che si sta imponendo nei fatti (si pensi alla recentissima inclusione nell’elenco dei siti Unesco dei paesaggi storici enologici delle Langhe in Piemonte o la candidatura delle colline del prosecco di Valdobbiadene, alle forme di ricettività diffusa, al ciclo-turismo, alla riproposizione degli itinerari dei grand tour del sette-ottocento, alla ripresa delle vie consolari, agli itinerari archeologici, alla riscoperta dei paesaggi degli sfondi dei grandi artisti del Rinascimento: si tratta di iniziative che aprono per interi territori prospettive nuove di crescita durevole e sostenibile, senza consumo di risorse naturali, ma, anzi, centrate proprio sulla conservazione e la tutela). L’insieme di queste attività sta diventando un forte “incubatore” di nuove imprese, così dette “creative-culturali”, che possono generare impieghi di qualità per i giovani. La posizione non è condivisa da tutti (l’Associazione Bianchi Bandinelli, l’Associazione nazionale dei tecnici per la tutela dei beni culturali, il Comitato per la Bellezza, la Confederazione Italiana Archeologi, altre associazioni e privati operatori del settore, ma anche funzionari ministeriali, hanno sottoscritto un appello al Presidente della Repubblica, intitolato “Salviamo i beni culturali e paesaggistici” e pubblicato sul quotidiano Il Manifesto del 31 luglio 2014, nel quale hanno, tra l’altro, paventato il rischio che “con ciò – ossia con la fusione tra beni culturali e turismo – si confonde in modo pericolosissimo la materia prima dei beni culturali e ambientali (siti, musei, centri storici, paesaggi, ecc.) con l’indotto economico del turismo . . . facendo prevalere la logica economica di quest’ultimo sul valore culturale, educativo, quindi non misurabile del secondo”.
[5] G. Valentini, su La Repubblica del 28 giugno scorso, riprendendo i dati forniti dalle fonti già richiamate nella nota 1, ricorda come il sistema produttivo culturale “restituisce un valore aggiunto di circa 80 miliardi di euro all’anno, pari al 5,7% dell’economia nazionale, con 1,4 milioni di occupati pari al 6,2% dell’occupazione nel settore della cultura. […] questo sistema vanta un moltiplicatore pari all’1,67: cioè un euro di valore aggiunto (nominale) prodotto da una delle attività di questo segmento, attiva mediamente un euro e 67 centesimi sul resto dell’economia. In termini monetari equivale a dire che gli 80 miliardi prodotti nel 2013 dall’intero sistema culturale riescono ad attivarne complessivamente 134 che arrivano poi a 214 nell’intera filiera”.
[6] Si veda il nuovo comma 3-ter aggiunto nell’art. 7 del decreto legge n. 83 del 2014 dalla legge di conversione 29 luglio 2014, n. 106.
[7] Da ultimo A. Leone, T. Montanari, S. Settis, Costituzione incompiuta, Einaudi, Torino, 2013, e ivi ampi richiami.
[8] Si pensi, ad esempio, a una recente trasmissione televisiva della Rete pubblica, intitolata, come era inevitabilmente ovvio, “Petrolio”, dove il titolo è tutto un programma e spiega benissimo il riflesso meccanico populista che ispira – pur in buona fede – queste semplificazioni tele-giornalistiche. Spesso un approccio “liberista” lega insieme centralità del ruolo dei privati e semplificazione amministrativa, intesa come liberalizzazione e abolizione dei controlli preventivi, che andrebbero sostituiti dall’autocertificazione del privato, in una miscela pericolosa per la tenuta del sistema di tutela.
[9] Secondo l’archeologo Prof. D. Manacorda (Per salvare il nostro patrimonio serve un’alleanza con i cittadini, in La Repubblica, 1 agosto 2014) la radice storica di tale conservatorismo andrebbe ricercata nella “demanializzazione dei beni artistici” compiuta dalle leggi di tutela della prima metà del XIX secolo, dove “la tutela legale, fatta di divieti e sanzioni . . . prese allora il posto di quella che viene ritenuta una sorta di spontanea conservazione sociale”. L’A. auspica quindi il “superamento di una concezione elitaria e gelosa del patrimonio . . . con l’obiettivo di creare una rete diffusa di gestione socialmente allargata del patrimonio”. Parole molte stimolanti, ma che suscitano anche qualche preoccupazione (tenuto conto dello stato in cui versano molte città italiane, affidate di fatto alla “spontanea conservazione sociale”, dove sembra che prima e più che di valorizzazione del patrimonio culturale, ci si debba occupare soprattutto della nettezza urbana, che resta la prima e più importante delle forme di valorizzazione culturale, spesso indebitamente trascurata dai Comuni).
[10] Parla di “svolta timotica dell’etica” P. Sloterdijk, Crescita o extraprofitto, a cura di R. Scheu, Mimesis, Milano, 2013, 66 ss., per cui, sulla base di un’antropologia della generosità, il fisco dovrebbe abbandonare i metodi autoritativi e impositivi e affidarsi alla naturale generosità insita nel carattere autoplastico dell’agire dell’uomo, che tende a proporsi in linea con i valori criptoaristocratici, già noti e forti nella grecità, dell’onore, dell’orgoglio, dell’aristos einai. In realtà la voglia di “primeggiare”, di proporsi come il migliore, che sottende a molti interventi di sponsorizzazione, provoca sconfinamenti indesiderati contro lo Stato, che alterano l’equilibrio cui l’intervento del privato dovrebbe sempre attenersi.
[11] S. Settis,
[12] Si tratta del decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo del 20 giugno 2014 (in G. U. n. 155 del 7 luglio 2014), recante “Determinazione del compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi ai sensi dell’articolo 71-septies della legge 22 aprile 1941 n. 633 per il triennio 2014 – 2016”, applicativo dell’adeguamento triennale dell’equo compenso previsto dall’articolo 71-sexies della legge n. 633 del 1941, introdotto nella legge sul diritto d’autore dal decreto legislativo n. 68 del 2003, in sede di recepimento della direttiva comunitaria 2001/29/CE, che consente la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto, effettuata da una persona fisica per uso esclusivamente personale, purché senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali, nel rispetto delle misure tecnologiche di protezione di cui al successivo articolo 102-quater della medesima legge.
[13] Si pensi a La rivolta di Atlante, di Ayn Rand, trad. it. di L. Grimaldi, Corbaccio, 2007.
[14] E’ ovvio, e se ne è fatto cenno sopra, che tanti altri sono i modi in cui i privati contribuiscono alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale: dall’adempimento degli obblighi conservativi gravanti sui proprietari di beni culturali alla gestione di servizi culturali dati in concessione ai sensi degli artt. 115 e 117 del codice, dalla partecipazione a fondazioni miste alla definizione di altre forme di partenariato istituzionale o contrattuale con finalità di studio e ricerca applicate ai beni culturali. In questa sede, ci si occuperà delle due forme, forse principali, considerate nel testo.
[15] Sul regime tributario della sponsorizzazione il riferimento è all’art. 108 TUIR, relativo alle spese di pubblicità e di rappresentanza. La norma prevede la deducublità, secondo le modalità normativamente indicate (ossia, a scelta del contribuente, nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi), ma ciò solo se e nella misura in cui la spesa risulti corrispondente ad appositi criteri di inerenza e congruità, determinati mediante il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 19 novembre 2008 (in base all’art. 2 di tale decreto, le spese di rappresentanza sono deducibili in misura pari: a) all'1,3 per cento dei ricavi e altri proventi fino a euro 10 milioni; b) allo 0,5 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 10 milioni e fino a 50 milioni; c) allo 0,1 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 50 milioni (sul tema cfr. Cass. civ., sez. VI, 5 marzo 2012, n. 3433, in linea con Id. 15 aprile 2011, n. 8679, 28 ottobre 2009, n. 22790; 7 agosto 2008, n. 21270; 27 giugno 2008, n. 17602; 23 aprile 2007, n. 9567, nonché la circolare n. 34/E del 13 luglio 2009 dell’Agenzia delle entrate; sulle nozioni di inerenza e congruità, a fini fiscali, delle spese di rappresentanza, cfr. Cass. civ., sez. V, 27 aprile 2012, n. 6548). L’Agenzia delle entrate (Risoluzione n. 88/E dell’11 luglio 2005) ha altresì affermato che la sponsorizzazione è soggetta ad IVA, in misura pari all’aliquota ordinaria (attualmente, ventuno per cento), da applicarsi sulle somme versate dallo sponsor a fronte della «prestazione di servizi» dello sponsee.
[16] ,E’ nota la contestazione dinanzi al Tar del Lazio con ricorso proposto dal Codacons (definito con sentenza di inammissibilità n. 6028 del 3 luglio 2012, confermata in appello da Cons. Stato, sez. VI, 31 luglio 2013, n. 4034). I rilievi del Codacons, pur correttamente ritenuti dal Giudice amministrativo inammissibili per carenza di legittimazione dell’associazione consumeristica, coglievano tuttavia un punto centrale della problematica, ossia il pericolo di esorbitanza dell’intervento del privato, che non deve trasmodare in una sorta di “privatizzazione” o di appropriazione esclusiva, da parte dello sponsor, del monumento in sé, ciò che invero può accadere allorquando la controprestazione promessa dall’amministrazione ecceda l’ambito specifico del restauro del bene. Sul medesimo tema erano peraltro intervenute entrambe le Autorità indipendenti competenti: l’Autorità Antitrust, con parere del 20 dicembre 2011, aveva ritenuto la procedura, per la discrepanza tra l’avviso di sponsorizzazione tecnica e l’accordo di sponsorizzazione pura, non conforme alle indicazioni scaturenti dalla precedente segnalazione della medesima Autorità AS 439 del 7 gennaio 2008 e all’esigenza di rigoroso rispetto dei principi comunitari concorrenziali; l’AVCP, invece, dapprima con la determinazione n. 24 del 5 dicembre 2011, poi con la deliberazione n. 9 dell’8 febbraio 2012 aveva ritenuto la procedura conforme agli artt. 26 e 27 del codice dei contratti pubblici.
[17] Si ricordano i più recenti, precedenti interventi normativi: l’art. 2 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 30, recante Modificazioni alla disciplina degli appalti di lavori pubblici concernenti i beni culturali, poi rifluito nel codice dei contratti pubblici e da questo abrogato, nonché l’art. 2, comma 7, del d.l. 31 marzo 2011, n. 34 (convertito, con modificazioni, nella l. 26 maggio 2011, n. 75), recante misure acceleratorie per la realizzazione del “Grande Progetto Pompei”.
[18] Per un commento analitico di tale disciplina cfr. F. Di Mauro, Le norme tecniche e linee guida applicative delle disposizioni in materia di sponsorizzazioni di beni culturali: i tratti essenziali, in Aedon, n. 3 del 2012, nonché, per sintesi, P. Carpentieri, La sponsorizzazione di beni culturali, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Treccani, Roma, 2013, 272 ss. Più di recente cfr. P. F. Ungari, La sponsorizzazione dei beni culturali - Atti Convegno Beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche, Assisi (25-27 ottobre 2012), in Aedon, n. 1 del 2014, soprattutto par. 2, nonché, con una forte critica delle disposizioni contenute nell’art. 199-bis, G. Manfredi, Le sponsorizzazioni dei beni culturali e il mercato, ivi.
[19] Si tratta dei quattro “Poli museali”, Napoli, Roma, Firenze e Venezia, e delle due soprintendenze archeologiche speciali, Roma e Pompei.
[20] Disciplinata dal d.P.R. 29 maggio 2003, n. 240 recante il regolamento concernente il funzionamento amministrativo-contabile e la disciplina del servizio di cassa delle soprintendenze dotate di autonomia gestionale.
[21] La prima disposizione introduce criteri di semplificazione; la seconda disposizione ha abolito il divieto di rassegnazione diretta e ha disciplinato la rassegnazione.
[22] E’ da notare che l’art. 13 del d.l. n. 91 del 2013, ora abrogato, recava anche un comma 2, del seguente tenore: “2. Entro il 31 ottobre 2013 il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo individua, in coerenza con l'articolo 9 della Costituzione, sulla base della legislazione vigente e alla luce delle indicazioni fornite dalla commissione di studio già costituita presso il Ministero, forme di coinvolgimento dei privati nella valorizzazione e gestione dei beni culturali, con riferimento a beni individuati con decreto del medesimo Ministro”. Anche tale previsione è rimasta inattuata, ciò che è segno evidente della perdurante tensione politica e dei dubbi ricostruttivi tuttora irrisolti nella materia.
[23] Questo ed altri aspetti applicativi sono chiariti nell’apposita circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 24/E del 31 luglio 2014 (al sito internet www.agenziaentrate.it, sezione Provvedimenti, circolari e risoluzioni).

 

(pubblicato il 25.8.2014)

 

 

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