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n. 8-2014 - © copyright |
PAOLO CARPENTIERI
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Sponsorizzazioni e mecenatismo nei
beni culturali*
1. Stato “ridimensionato” (se non “minimo”)
e sussidiarietà orizzontale. 2. Beni comuni vs. timotica: due
visioni estreme; in medio stat virtus. 3. Sponsorizzazioni (causa di scambio) vs. elargizioni liberali (causa
donativa o di liberalità interessata). 4. La riforma del 2012
e le linee guida applicative. 5. L’inerzia
dell’amministrazione e il rifiuto, da parte delle imprese, del
confronto concorrenziale. 6. Il blocco dovuto alla tecnica
giuscontabilistica. 7. La recente preferenza per il modello
del mecenatismo (il decreto “Art-bonus” e il modello francese).
Abstract
Il contributo fornisce un
aggiornamento di sintesi sulle recenti novità normative in tema di
sponsorizzazioni e di mecenatismo nel settore dei beni culturali.
Sono in particolare enucleati tre concetti: 1) il mecenatismo e le
sponsorizzazioni dei privati devono costituire strumenti di
sussidiarietà orizzontale e non tradursi in interventi antagonisti,
alternativi o sostitutivi rispetto alla fondamentale funzione
statale di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale; 2)
le sponsorizzazioni sono difficilmente adattabili ai criteri di
trasparenza e pubblicità propri dell’evidenza pubblica, che pure
devono caratterizzare una funzione amministrativa realmente
democratica; 3) le difficoltà gestionali e le polemiche spesso
legate alle sponsorizzazioni di beni culturali spingono verso un favor per le erogazioni liberali, che non abbisognano di
particolari procedimentalizzazioni (salvi alcuni problemi,
superabili, di tipo giuscontabilistico).
1. Stato
“ridimensionato” (se non “minimo”) e sussidiarietà
orizzontale.
Gli ultimi anni, come è noto, hanno segnato una
curva discendente nell’entità della spesa pubblica destinata alla
cultura e ai beni culturali, soprattutto da parte dello Stato, ma
anche delle autonomie territoriali[1]. Per la verità anche il
settore privato ha contribuito meno rispetto al recente passato[2].
Abbandonate le vecchie dispute sulla nozione di valorizzazione[3] –
se solo miglioramento della tutela e incremento della conoscenza e
della fruizione del patrimonio o anche rimuneratività
economico-finanziaria della gestione – è evidente che, come è ormai
opinione quasi comune, l’Italia, nella così detta “competizione”
globale, se dispone di una risorsa unica e inimitabile, essa è per
l’appunto costituita dal suo straordinario patrimonio culturale,
fatto di paesaggi storici, musei diffusi, di più, di uno stile di
vita che tiene insieme paesaggio, cultura, moda, eno-gastronomia,
accoglienza di qualità, itinerari turistico-culturali[4], etc., che assume una parte di grande rilievo nell’economia
del Paese[5] e che impone uno sforzo comune di buona gestione,
accorta e intelligente.
Le prospettive macroeconomiche non sono
comunque buone, neanche nel medio periodo. L’obiettivo liberista
dello Stato “leggero” sembra in parte imposto dal principio di
realtà e di necessità, nella complicata convivenza infraeuropea e
nella difficile competizione sui mercati globali. E’ difficile, a
breve, che lo Stato (la Repubblica, nella sua dimensione
policentrica e autonomistica) possa invertire radicalmente o
significativamente la tendenza.
La sussidiarietà orizzontale,
costituzionalizzata nell’art. 118 Cost. come modificato nel 2001, ma
già in nuce negli artt. 2 e 18 della Carta fondamentale,
costituisce dunque un elemento ineludibile e necessario per
conseguire quell’obiettivo di buona e accorta gestione, sopra
indicato. Dall’impresa sociale al mecenatismo, dalle elargizioni
liberali alle sponsorizzazioni, fino al crow-funding,
all’azionariato diffuso, all’adozione collettiva di monumenti,
attraverso innovative e complesse forme di partenariato
pubblico-privato, sia istituzionale, sia contrattuale, che mettano
insieme ricerca, sviluppo, restauro e valorizzazione e creino, anche
con l’apporto della filiera delle nuove imprese
“creative-culturali”, percorsi strutturati turistico-culturali,
tutte queste forme, spesso anche innovative, di azione e promozione
sociale e di integrazione privata delle funzioni e dei servizi
pubblici appaiono viepiù utili, se non indispensabili, per
migliorare il livello di tutela e fare una sana valorizzazione del
patrimonio culturale. L’idea guida, che sembra oggi più proponibile,
è quella di un sistema locale integrato che generi, secondo un
processo bottom-up di coinvolgimento delle forze economiche e
sociali locali, condizioni e pratiche di sviluppo sostenibile
“intelligente”, imperniato sulla creatività e la cultura nella
valorizzazione del patrimonio come rigenerazione e rilancio delle
proprie radici. In quest’ottica la legge di conversione del decreto
legge “art-bonus” n. 83 del 2014 introduce significative previsioni
dirette a mettere a frutto lo sforzo di molte città italiane per la
candidatura a Città europea della cultura 2019 (Programma Italia
2019) e a creare un nuovo percorso diretto ad attribuire il titolo
di Città italiana della Cultura, al fine di sostenere, promuovere e
impiegare utilmente gli sforzi programmatici e progettuali di molte
città italiane, in termini di percorsi turistico-culturali capaci di
fare da volano a una crescita sostenibile e intelligente
locale[6].
E’ tuttavia necessario che il rapporto
pubblico-privato, nel campo della valorizzazione del patrimonio
pubblico, non sia squilibrato e che l’intervento dell’uno non vada a
detrimento dell’altro, ma che possano raggiungersi virtuose
sinergie, senza indebite invasioni di campo.
2. Beni
comuni vs. timotica: due visioni estreme; in medio stat
virtus.
Purtroppo la discussione sul rapporto tra
pubblico e privato nella gestione del patrimonio culturale non
sempre si svolge in modo sereno e spesso risulta pregiudicata da
pregiudizi ideologici. E questo si comprende agevolmente, dato il
livello altissimo di interesse e di tensione che anche l’opinione
pubblica, e non solo gli specialisti e gli operatori del settore,
riservano a queste tematiche.
Importanti studiosi[7] della
materia hanno giustamente deprecato la confusione che talune recenti
pratiche sbagliate (soprattutto taluni eccessi nella circolazione di
opere d’arte per allestire mostre temporanee non sempre sorrette da
ricerca e da progetti culturali adeguati) hanno ingenerato tra
fruizione del bene culturale (come esercizio di diritti di
cittadinanza attiva e di sovranità popolare sui beni comuni, che
generano conoscenza e identità collettiva) e consumo di eventi
culturali (come mero commercio di prodotti culturali e dello
spettacolo). Dall’altro lato, va crescendo e acquistando spazio in
ambiti sempre più larghi della politica e dell’opinionismo
giornalistico[8] una diffusa insofferenza nei confronti della
visione tradizionale della gestione del patrimonio, criticata come
“statalista” e “burocratica”, che ne impedirebbe un adeguato
sfruttamento/valorizzazione, così come va sempre più affermandosi
una diffusa critica contro il magistero tecnico della tutela svolto
dalle soprintendenze (a volte in modo invero troppo rigido e
sproporzionato), considerato negativamente come “freno” della
crescita del Paese e come causa del suo immobilismo economico[9].
Gli uni – la visione del patrimonio culturale come bene comune
che attiene alla sovranità popolare, in quanto fondamento e alimento
dei diritti di cittadinanza e di partecipazione democratica –
criticano gli altri – la visione liberista dello Stato leggero o
minimo, della centralità del ruolo dei privati e della
semplificazione – ribadendo il principio cardine per cui la tutela e
la valorizzazione del patrimonio culturale è affare essenziale dello
Stato (un vero e proprio compito di conservazione, equiparabile
all’amministrazione della giustizia e all’istruzione pubblica), che
non può essere lasciato alla generosità dei benefattori privati e
alla magnanimità dei circoli e dei salotti buoni delle elite economico-culturali. Gli altri – il partito “liberista” – criticano
i primi – gli “statalisti” – sostenendo che lo Stato non deve e non
può espropriare le ricchezze dei privati, con eccessi di spesa
pubblica per gestire complicati apparati di tutela, che si traducono
in aumento della tassazione, né privarli della libertà di fare
impresa, e affermano un criterio “timotico”[10] imperniato sulla
naturale generosità volontaria dei più ricchi, che per cultura
tendono a farsi mecenati dell’arte e a sostenere con raccolte di
fondi benefiche le insufficienze dell’amministrazione (spesso la
tesi liberista – “meno spesa pubblica, meno tasse, più donazioni
libere dei privati” – si lega alla tesi della semplificazione
amministrativa – per cui comunque “il privato gestisce meglio del
pubblico”, che sarebbe impaniato nelle sue pastoie burocratiche;
questo legame esprime a ben vedere un profondo parallelismo tra
tiene insieme la visione timotica del fisco con il modello
dell’autocertificazione dei controlli amministrativi: nell’uno, come
nell’altro ambito, lo Stato fa un passo indietro, attende e riceve e
rinuncia a imporre e prescrivere).
Come spesso avviene nelle
cose, il giusto probabilmente sta nel mezzo, al netto delle estreme,
operando, come si suol dire, un “taglio delle ali”. Non c’è niente
di male nel fatto che i più ricchi siano generosi e possano donare
alla causa comune. La dicatio ad patriam, istituto primigenio
della tutela stessa del patrimonio culturale pubblico, è del resto
nata nell’ottica celebrativa del potere e della ricchezza delle
aristocrazie ed ha contribuito alla costruzione del patrimonio
pubblico in un intreccio parallelo e in un’integrazione virtuosa con
la realizzazione di edifici originariamente pubblici, religiosi e
civili.[11] E’ però fondamentale che le due componenti convivano in
un equilibrio armonico, in cui non sia messo in discussione il
principio fondamentale per cui la tutela e la valorizzazione del
patrimonio culturale sono e devono restare officio fondamentale e
indefettibile dello Stato.
Illustra (involontariamente) in modo
icastico il rischio di “corto-circuiti” antistatuali, insito in un
approccio troppo liberista, la recentissima vicenda dell’aumento
degli smartphone e dei tablet deciso da un notissimo
produttore americano: la nota azienda – per molti una vera e propria
icona della libertà, della creatività, dell’innovazione, in una
parola, della civiltà – ha immediatamente scaricato sui consumatori,
in modo quasi provocatorio, l’intero incremento dell’equo compenso
(all’incirca 4 euro ad esemplare venduto) deciso dal Ministro dei
beni culturali, nell’esercizio della sua funzione di tutela del
diritto d’autore, in applicazione di una direttiva europea diretta a
garantire una equa remunerazione agli autori, agli artisti,
interpreti ed esecutori e alle industrie culturali che producono i
contenuti che riempiono e rendono così utili e appetibili i mobile device in questione[12]. Dietro questo atteggiamento
si legge – non in filigrana, ma in modo diretto ed evidentissimo –
il rifiuto liberista dello Stato e della sua funzione di
riequilibrio redistributivo: l’impresa californiana in questione,
infatti, è parimenti famosa (come altre, altrettanto note, new
company dell’information economy) per il suo generoso
mecenatismo, proporzionale del resto agli enormi profitti
realizzati, destinato a sovvenzionare scuole e altre iniziative
benefiche. Iniziative invero sicuramente apprezzabili e meritevoli,
purché, però, questo è il punto, non si accompagnino poi al
contrasto e al rifiuto dell’azione pubblica: l’impresa in questione
avrebbe invero potuto contribuire al sostegno della cultura, insieme
ai suoi parimenti ricchi distributori e commercianti sparsi nel
mondo (in Italia e in Europa, nell’esempio in questione), in modo
ugualmente sostanzioso e significativo semplicemente assolvendo a un
obbligo di legge, senza scaricarne automaticamente il peso sui suoi
utenti. Ma, evidentemente, l’impresa reclama i ringraziamenti e il
plauso sociale per la sua generosità e non accetta l’autorità dello
Stato, che impone per legge o per provvedimento comportamenti di
giustizia sociale. Se questo deve essere il concorso del privato al
sostegno della cultura – ossia magnanimità “illuminata” dei nuovi
ricchi e ricchissimi, ma rifiuto della tassazione e dell’autorità
redistributiva pubblica – allora effettivamente vi è da dubitare
della possibilità di un corretto ed equilibrato rapporto tra
pubblico e privato nella gestione e valorizzazione del patrimonio
culturale. Un simile approccio, in ogni caso, tradisce la nozione
stessa di sussidiarietà e sconfina nell'anarcocapitalismo o nel
libertarianismo di matrice anglosassone[13].
3.
Sponsorizzazioni (causa di scambio) vs. elargizioni liberali (causa
donativa o di liberalità interessata).
Due sono soprattutto
le forme in cui si manifesta la partecipazione dei privati al
sostegno del patrimonio culturale: le elargizioni liberali e le
sponsorizzazioni[14].
La linea di confine tra queste due diverse
forme giuridiche è chiara e netta sul piano teorico; si presenta
spesso piuttosto indefinita e sfuggente nella pratica. Sul piano
sistematico, è noto che la sponsorizzazione è, in sostanza, un
acquisto di spazi pubblicitari per l’impresa commerciale. E’,
dunque, un contratto a titolo oneroso con causa di scambio, a
prestazioni corrispettive, in cui alla contribuzione (in danaro:
sponsorizzazione “pura”, o in mezzi, strumenti, forniture, servizi o
lavori, sponsorizzazione “tecnica”), da parte dello sponsor,
corrisponde una controprestazione dell’amministrazione titolare del
bene culturale consistente nell’attribuzione del diritto di
“sfruttare” il suo “valore” promozionale, secondo modalità
predefinite, rispettose della dignità e del decoro del valore
culturale del bene (art. 120 del codice di settore), che spaziano
dalla cartellonistica sui ponteggi al logo impresso sui biglietti
d’ingresso e sul materiale divulgativo e didattico, sui supporti
didattici, etc., dalla riserva dei diritti sulle immagini e
sulle riproduzioni dei lavori di restauro fino (come nel noto caso
Tod’s – Colosseo) alla riserva del diritto di creare e gestire una
struttura di accoglienza dedicata in prossimità del monumento. Le
elargizioni liberali, invece, si atteggiano come donazioni modali,
connotate da un titolo gratuito, spesso di così detta “liberalità
interessata”, in cui l’attribuzione (quasi sempre in danaro) non si
lega causalmente e sinallagmaticamente a una vera e propria
controprestazione, poiché il benefattore ha di solito diritto solo a
un pubblico ringraziamento, ad apporre una targa che ne ricordi il
contributo e ad altre, piccole forme di riconoscimento di tipo
soprattutto morale, economicamente non rilevanti o apprezzabili.
Nella pratica la linea di confine si rivela meno facilmente
definibile: in tutti i casi in cui un’impresa commerciale “dona” i
sui prodotti per essere utilizzati nello svolgimento di un servizio
legato al bene culturale, è quasi inevitabile che la mera diffusione
della notizia di tale fornitura e di tale impiego possa tradursi in
vantaggio promozionale per i prodotti aziendali. Questa
considerazione dimostra come sia sostanzialmente vero che anche
l’elemento soggettivo della natura giuridico-economica del
prestatore incida sulla qualificazione dell’atto e del rapporto.
Resta in sostanza vero che l’elargizione liberale appartiene
soprattutto all’area delle persone fisiche e degli enti non
commerciali, mentre la sponsorizzazione è tipica e propria delle
imprese profit. La donazione dei propri prodotti da parte di
un’impresa commerciale rischia di trasformare per definizione il
bene culturale, dove quei prodotti siano applicati, in un veicolo
commerciale di promozione e pubblicità del prodotto e dell’impresa,
rivelandosi, dunque, una sponsorizzazione tecnica.
Giova poi
chiarire che non entra nella causa del negozio – a caratterizzarne
la consistenza – il beneficio fiscale riconnesso all’atto. E’ noto –
e se ne tratterà nei prossimi paragrafi – che molte legislazioni,
tra cui quella italiana, riservano regimi di vantaggio fiscale per
chi dona in cultura. Ma ciò rileva sul piano dei motivi che inducono
il soggetto a donare, non sulla causa del negozio, nel senso che il
beneficio fiscale riconosciuto dallo Stato non può configurarsi come
controprestazione della donazione, sì da alternarne il titolo
gratuito, tramutandolo in titolo oneroso di scambio. Del resto anche
le sponsorizzazioni godono di un vantaggio fiscale non
indifferente[15].
La configurazione della sponsorizzazione in
termini di contratto oneroso di scambio, sia pur dopo un lungo
dibattito, ha condotto al suo parziale assoggettamento alle regole
di evidenza pubblica. E’ stato soprattutto il già citato episodio
Tod’s – Colosseo che ha suscitato polemiche e discussioni, anche in
Parlamento, oltre che contenziosi giurisdizionali[16], tali da
indurre il legislatore a intervenire con il decreto legge n. 5 del
2012.
4. La riforma del 2012 e le linee guida
applicative.
Le sponsorizzazioni di beni culturali si sono
sempre collocate in un’area grigia di scarsa procedimentalizzazione.
Negli anni ‘90 del secolo scorso non era ancora chiara la
riconducibilità di tali vicende nell’ambito della disciplina
dell’evidenza pubblica, poiché si muoveva dal pregiudizio secondo
cui il mancato esborso di danaro pubblico e l’acquisizione
“gratuita” della prestazione ponessero tali fenomeni giuridici al di
fuori dell’ambito applicativo della legislazione sulla contabilità
di Stato. A tale pregiudizio si legava, come causa e conseguenza al
tempo stesso, l’idea errata secondo cui la sponsorizzazione
costituisse una sorta di liberalità interessata non donativa. Solo a
seguito della chiarificazione civilistica del titolo oneroso di tali
contratti (a prestazioni corrispettive), siccome assimilabili
all’acquisto di spazi pubblicitari, nonché a seguito della
comprensione della necessità di garantire comunque parità di
trattamento e trasparenza nelle procedure per la concessione di
opportunità economiche (e di spazi) contendibili tra le imprese in
un mercato concorrenziale, si è affermata l’idea della necessità di
fare i conti con l’evidenza pubblica e di introdurre un minimo di
procedimentalizzazione e di disciplina positiva di tali vicende
giuridiche (al di là dei profili di tutela del bene culturale,
esplicitati già con l’art. 120 del codice dei beni culturali e del
paesaggio, che è del 2004). Dopo varie vicende normative[17] si è
dunque pervenuti nel 2012 a introdurre, con l’art. 20 del decreto
legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, nella
legge 4 aprile 2012, n. 35, il nuovo art. 199-bis nell’apposito capo del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163
del 2006) relativo ai contratti sui beni culturali (Capo II del
Titolo IV della Parte II, artt. 198 ss.), articolo dedicato
specificamente alla sponsorizzazione di beni culturali.
L’idea
di fondo che ispira la nuova previsione risiede nella riconduzione
del fenomeno, per quanto possibile, entro un alveo di razionale
programmazione, entro, dunque, le linee generali proprie dell’intera
disciplina della realizzazione dei lavori pubblici e dell’acquisto
di servizi e forniture, che fa perno, per l’appunto, sulla corretta
programmazione dei fabbisogni e delle conseguenti azioni procedurali
volte a soddisfarli (art. 128 del codice dei contratti). L’obiettivo
era quello di fare in modo che l’amministrazione si rendesse parte
attiva in queste vicende, uscendo dalla condizione di passiva attesa
delle iniziative spontanee dei privati, come era sino ad allora
avvenuto. Ciò avrebbe dovuto consentire di conseguire il duplice
scopo di superare, da un lato, l’episodicità, la frammentarietà e la
casualità degli interventi, recuperando anche le sponsorizzazioni
entro un quadro conoscitivo e programmatorio razionale di gestione
degli interventi, anche al fine di poter coniugare l’apporto privato
con le eventuali disponibilità pubbliche, a vantaggio della stessa
pianificazione di bilancio dell’ente; e di consentire, dall’altro,
la opportuna diversificazione e graduazione delle tipologie di
finanziamento in relazione all’urgenza e alla dimensione degli
interventi (riservando, ad esempio, alle ordinarie programmazioni
con fondi pubblici gli interventi più delicati, più complessi, più
urgenti, etc, lasciando, viceversa, alla fonte di
finanziamento privata gli altri interventi, più semplici, meno
urgenti, ripetitivi, etc.). In questa logica è stata prevista
la redazione di uno speciale allegato o sezione del programma
triennale, dedicato in modo specifico agli interventi per i quali
l’amministrazione sollecita l’iniziativa di sponsor privati.
Naturalmente questa sezione speciale, in coerenza con la struttura
logica del programma triennale, che si articola in aggiornamenti
annuali e nell’elenco dei lavori da realizzare nell’anno, avrebbe
dovuto ricevere il suo normale aggiornamento annuale (specificazione
non esplicitata nella norma perché superflua, in quanto già
contenuta nell’art. 128 del codice dei contratti). L’ulteriore
obiettivo della nuova norma era quello di stabilire una volta per
tutte, in modo chiaro e semplice, quale fosse il modo di
soddisfacimento dei principi di evidenza pubblica richiesti dal
diritto europeo, dagli artt. 26 e 27 del codice dei contratti e,
prima ancora, dalle elementari esigenze di accountability imposte dall’art. 97 Cost. e dal Capo I della legge generale sul
procedimento amministrativo, n. 241 del 1990[18].
Sono poi
intervenute le linee guida ministeriali. Con decreto del Ministero
per i beni e le attività culturali in data 19 dicembre 2012,
pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 60 del 12 marzo 2013, sono
state approvate le norme tecniche e linee guida applicative delle
disposizioni contenute nell’art. 199-bis previste dall’art.
61, comma 1, d.l. n. 5 del 2012, riferite anche alle disposizioni
contenute nell’art. 120, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e successive
modificazioni, anche in funzione di coordinamento rispetto a
fattispecie analoghe o collegate di partecipazione di privati al
finanziamento o alla realizzazione degli interventi conservativi su
beni culturali, in particolare mediante l’affissione di messaggi
promozionali sui ponteggi e sulle altre strutture provvisorie di
cantiere e la vendita o concessione dei relativi spazi
pubblicitari.
5. L’inerzia dell’amministrazione e il
rifiuto, da parte delle imprese, del confronto
concorrenziale.
Nonostante questo notevole sforzo di
disciplina chiarificatrice compiuto dal Legislatore e dal Ministero,
le amministrazioni sono rimaste pressoché ferme. Questa stasi è
dovuta a due fattori convergenti, che, al fondo, sono espressione di
un’unica mentalità di rifiuto delle procedure automatiche e
formalizzate e di ricerca delle soluzioni dei problemi di gestione
nei rapporti personali diretti. Da un lato l’amministrazione – tra
cui anche quella dei beni culturali – si è mostrata impermeabile
all’applicazione di queste nuove regole, rifiutate a priori come complicazioni indesiderate, rispetto al sistema anteriore,
affidato in sostanza ai rapporti personali con singoli mediatori e
imprenditori del settore, che si facevano promotori di soluzioni
pronte per l’uso, senza la necessità di studiare e di applicare
procedure amministrativistiche, atti di programmazione, avvisi
pubblici, disciplinari tecnici, etc. (procedure peraltro
indigeste a un corpo di funzionari in prevalenza composto da
tecnici, architetti, storici dell’arte, archeologici, con una
endemica penuria di elementi amministrativi). Dall’altro lato ha
operato il rifiuto, da parte delle imprese, del confronto
concorrenziale, in un campo, quello delle sponsorizzazioni, vissuto
ancora come area esclusa dal mercato, affidata all’affectio personale, alla fiducia cum amico, non alle procedure
trasparenti di evidenza pubblica, un’area avvertita come riservata
alla rete amicale in cui si manifestano quei sentimenti di
magnanimità e di mecenatismo che ne costituirebbero la sostanza e il
presupposto. Il rifiuto del confronto concorrenziale da parte delle
imprese deriva inoltre dalla propensione ad assecondare la tendenza
verso la pratica dello shopping dei beni culturali, in cui è
l’impresa che sceglie il monumento che le piace di più o che meglio
a suo giudizio si confà alle sue esigenze promozionali, al quale
legare il proprio marchio. Per l’impresa la sponsorizzazione
significa scegliere un bene culturale molto rappresentativo e
intestarselo come prova di sensibilità civica e culturale. Anzi, s’è
avvertito spesso, tra le righe, sullo sfondo di alcuni episodi, che
l’elemento decisivo, che ha spinto alcuni imprenditori a impegnarsi
con somme anche cospicue, si è sostanziato in un approccio
“sostitutivo” antiburocratico, rispetto allo Stato e, più in
generale, all’amministrazione pubblica: si è avuta in taluni casi la
percezione che il messaggio pubblicitario forte, esso sì davvero
appetibile per le imprese, non fosse quello della sussidiarietà
disciplinata dalle regole di evidenza pubblica, sotto la regia della
programmazione pubblica, ma quello della “prova di forza”
dell’intervento esterno del “privato” efficiente ed efficace in
contrapposizione sostituiva alla debolezza e alle lungaggini della
burocrazia pubblica, un’affermazione del mondo del fare, proprio
delle imprese, contro il mondo delle forme e delle procedure,
proprio della pubblica amministrazione. E’ evidente che questo
modello squilibra il significato della sussidiarietà orizzontale e
ne snatura il senso.
L’insieme di queste due componenti ha
condotto al fallimento delle sponsorizzazioni come sistema
programmato e trasparente di concorso del privato al sostegno dei
costi della conservazione dei beni culturali. Giustamente e
coerentemente il Ministro in carica, così come anche il suo
predecessore, hanno espresso una netta preferenza per lo strumento
del mecenatismo e delle elargizioni liberali, meno esposto a questo
genere di problemi.
Anche sotto il versante ora indagato, è vero
che il giusto sta nel mezzo: è forse eccessivo e sproporzionato
pretendere di imporre la lungaggine e l’appesantimento burocratico
dell’evidenza pubblica anche alle sponsorizzazioni “pure” (solo
danaro), atteso che, in definitiva, appartiene alla fisiologia del
costume sociale del Paese (e non solo del nostro) che la ricerca
dello sponsor sia affidata a canali più informali e diretti;
dall’altro lato resta vero che il ricorso alla sponsorizzazione non
può restare abbandonato alla casualità e all’episodicità
dell’iniziativa privata, senza un minimo di programmazione e di
gestione razionale e trasparente da parte delle
amministrazioni.
6. Il blocco dovuto alla tecnica
giuscontabilistica.
Ma anche le elargizioni liberali
incontrano i loro problemi applicativi. Un ulteriore elemento di
crisi del sistema e di paralisi nella raccolta di fondi privati
deriva dalla rigidità della legge di bilancio dello Stato e dal
dogma (che ha peraltro le sue ragioni d’essere forti e serie) del
divieto di gestioni fuori bilancio e dell’apertura di contabilità
speciali o gestioni di cassa autonome di uffici e istituti statali.
Questo costituisce un problema non da poco per chi vuole fare
donazioni a favore di singoli musei o aree archeologiche statali, in
una realtà, come quella italiana, nella quale i musei e le aree
archeologiche statali non sono autonomi soggetti giuridici, ma
uffici ministeriali (il problema, invece, non sussiste per gli enti
territoriali).
Ne deriva la conseguenza che, per il Ministero di
settore, solo alcuni uffici periferici speciali, quelli dotati di
speciale autonomia (elencati nell’art. 15 del regolamento di
riorganizzazione n. 233 del 2007)[19], dispongono di una vera e
propria autonomia contabile[20], in base alla quale dispongono di
una propria cassa, con una banca tesoriera, tramite la quale
incassare e spendere direttamente i proventi della bigliettazione e
dei ricavi dei servizi aggiuntivi (e, analogamente, delle
donazioni). Per questi uffici ricevere donazioni modali direttamente
collegate causalmente alla realizzazione di uno specifico intervento
di restauro è cosa semplice, poiché il benefattore può senz’altro
versare l’elargizione nelle casse proprie dell’ufficio dotato di
speciale autonomia. Per tutti gli altri uffici ministeriali (musei
come Brera a Milano o il Polo Reale a Torino, aree archeologiche,
come villa Adriana a Tivoli) la cosa è più difficile, perché non
possono ricevere direttamente i fondi, che devono dunque essere
versati in contro entrate del Tesoro per poi essere successivamente
riassegnati su appositi capitoli di bilancio centrali del Ministero
che, infine, dovrebbe riassegnare la quota di tali introiti
all’ufficio periferico dotato di competenza a impegnare quei fondi
(di solito la Direzione regionale territorialmente competente). Il
meccanismo di riattribuzione al Ministero (una volta abolito il
sistema che vietava la rassegnazione e faceva finire tutti i
proventi dei biglietti al Tesoro, salva riattribuzione l’anno
successivo per un importo fino alla metà) è disciplinato dagli
articoli 40, comma 9, e 42, comma 9, del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre
2011, n. 214[21].
Con il decreto legge “Valore-cultura” 8 agosto
2013, n. 91, convertito, con modificazioni, nella legge 7 ottobre
2013, n. 112, all’art. 12, era stata introdotta dunque una norma
virtuosa, diretta a semplificare le donazioni di modico valore, fino
a 10.000 euro, del seguente tenore: “12 Disposizioni urgenti per
agevolare la diffusione di donazioni di modico valore in favore
della cultura e il coinvolgimento dei privati - 1. Con decreto
del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare
entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, sono definite le modalità di
acquisizione delle donazioni di modico valore (fino all'importo di
euro diecimila) destinate ai beni e alle attività culturali, secondo
i seguenti criteri: a) massima semplificazione ed esclusione di
qualsiasi onere amministrativo a carico del privato; b) garanzia
della destinazione della liberalità allo scopo indicato dal donante;
c) piena pubblicità delle donazioni ricevute e del loro impiego,
mediante una dettagliata rendicontazione, sottoposta agli organi di
controllo; d) previsione della possibilità di effettuare le
liberalità mediante versamento bancario o postale ovvero secondo
altre modalità interamente tracciabili idonee a consentire lo
svolgimento di controlli da parte dell'Amministrazione
finanziaria”[22]. Sennonché le amministrazioni non sono riuscite ad
attuare questa disposizione di rango primario, pur così semplice e
chiara nei suoi contenuti normativi: dopo mesi di intenso lavoro
degli uffici, a fronte della ferma opposizione dell’Economia a
consentire l’apertura di apposite contabilità speciali dei musei,
era stata elaborata una proposta che rischiava di introdurre una
modalità addirittura più complicata di quella, generale, propria
delle donazioni maggiori, sopra riportata (la soluzione ipotizzata
era imperniata su un programma nazionale al quale sarebbero
confluite le donazioni, con vincolo per i donatori di aderire alle
proposte contenute nel programma, senza poter scegliere beni
specifici non inclusi in quel programma). Ne è conseguita la
decisione di abrogare la norma primaria siccome non attuabile
(l’art. 12 del d.l. n. 91 del 2013 è stato infatti abrogato dall’
art. 1, comma 6, del decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, che
peraltro demanda al regolamento di riorganizzazione del Ministero
l’individuazione di opportune strutture ministeriali dedicate al fundraising). Le cose dovrebbero cambiare nettamente in
meglio e in parte risolversi con la legge n. 106 del 2014 di
conversione del decreto legge n. 83 del 2014, che ha potenziato
l’autonomia dei musei e che, attraverso la preannunciata riforma
organizzativa, dovrebbe attribuire autonomia gestionale e contabile
e numerosi musei statali, elevati a uffici di rango
dirigenziale.
7. La recente preferenza per il modello del
mecenatismo (il decreto “Art-bonus” e il modello
francese).
Il recente decreto legge 31 maggio 2014, n. 83,
convertito, con modificazioni dalla legge 29 luglio 2014, n. 106,
contiene, all’articolo 1, nuove, significative, misure di sostegno
fiscale per il mecenatismo. La norma riconosce un credito d’imposta,
fino a un massimo del 30 per cento dell’importo delle elargizione
liberali, pari al 65 per cento negli anni 2014 e 2015 e al 50 per
cento nel 2016 (la norma è per ora temporanea e sperimentale), nei
limiti del 15 per cento del reddito in caso di persone fisiche ed
enti non commerciali, e del 5 per mille dei ricavi annui, nel caso
di enti commerciali. Il sistema è modellato per un verso
sull’analogo strumento già previsto in materia di efficienza
energetica con i c.d. eco-bonus (da ultimo, decreto legge n. 76 del
2013, convertito dalla legge n. 90 del 2013), per altro verso sul
sistema francese, che tanti frutti positivi pare che abbia dato
oltralpe (in Francia vige la detrazione del 66 per cento, con un
tetto del 20 per cento dell'imponibile delle persone fisiche e del non profit e del 5 per mille della cifra d’affari annua delle
imprese; legge del 1 agosto 2003 e decreto n. 185 del 24 febbraio
2004; art. 39-I-7 del Code général des impôts (CGI)).
Ferma restando la ripartizione in tre quote annuali di
pari importo, per i soggetti titolari di reddito d’impresa il
credito di imposta è utilizzabile in compensazione ai sensi
dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e
successive modificazioni, e non rileva ai fini delle imposte sui
redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive. Non sono
però previsti i limiti massimi di compensazione stabiliti dalla
legislazione generale.
La scelta politica, in questa fase
sperimentale, a fronte di risorse scarse (è noto che le agevolazioni
fiscali abbisognano anch’esse di copertura, in relazione al minor
gettito atteso del tributo cui l’agevolazione è riferita), è stata
quella di concentrare il vantaggio fiscale sulle donazioni a favore
del patrimonio pubblico. Oggetto di agevolazione sono dunque tre
tipologie di destinatari età della donazione: 1) le erogazioni
liberali in denaro effettuate per interventi di manutenzione,
protezione e restauro di beni culturali pubblici; 2) le elargizioni
liberali per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura
di appartenenza pubblica; 2) le elargizioni liberali e a favore
delle fondazioni lirico-sinfoniche o di enti o istituzioni pubbliche
che senza scopo di lucro svolgono esclusivamente attività nello
spettacolo, per la realizzazione di nuove strutture, per il restauro
ed il potenziamento di quelle esistenti. Per attutire l’impatto
sulla finanza pubblica, in termini di minori entrate, il beneficio è
concesso, nei tre periodi d’imposta successivi a quello in corso al
31 dicembre 2013, il credito di imposta è ripartito in tre quote
annuali di pari importo.
E’ da notare subito che la misura non
si sostituisce al sistema previgente, di cui agli artt. 15 – per le
persone fisiche e gli enti non commerciali – e 100 – per gli enti
commerciali – del TUIR (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), ma si
aggiunge ad esso, sospendendo, di tale sistema, esclusivamente le
voci corrispondenti dei predetti artt. 15 e 100, operando una deroga
temporanea triennale esclusivamente alle disposizioni di cui agli
articoli 15, comma 1, lettere h) e i), e 100, comma 2,
lettere f) e g), del citato TUIR.
Le altre
disposizioni generali del TUIR rimangono per il resto senz’altro in
vigore. La nuova disciplina, dunque, non danneggia in alcun modo gli
enti non profit – come il FAI – attivi nel fund
raising, per i quali continuano ad applicarsi le disposizioni
dell’art. 15 del TUIR. Tale circostanza, che verrà chiarita in
un’apposita circolare in corso di elaborazione con il Ministero
dell’economia e delle finanze, è stata peraltro, a scanso di
equivoci, precisata espressamente nella norma, mediante
accoglimento, alla Camera, di un apposito emendamento dei relatori
(al comma 2 è stata aggiunta la seguente specificazione: “Il
credito d'imposta spettante ai sensi del comma 1 è altresì
riconosciuto laddove le erogazioni liberali in denaro effettuate per
interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali
pubblici siano destinate ai soggetti concessionari o affidatari dei
beni oggetto di tali interventi”)[23].
Restano in vigore la
lettera g) dell’art. 15 (detrazione 19% delle spese sostenute
dai soggetti obbligati alla manutenzione, protezione o restauro di
beni culturali), così come quella parte della lettera h) non
incompatibile con le nuove previsioni (detrazione del 19% delle
erogazioni liberali in denaro a favore di fondazioni e associazioni
legalmente riconosciute senza scopo di lucro, che svolgono o
promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di
rilevante valore culturale e artistico o che organizzano e
realizzano attività culturali, effettuate in base ad apposita
convenzione, per l'acquisto, la manutenzione, la protezione o il
restauro di beni culturali, ivi comprese le erogazioni effettuate
per l'organizzazione in Italia e all'estero di mostre e di
esposizioni di rilevante interesse scientifico-culturale delle cose
anzidette, e per gli studi e le ricerche eventualmente a tal fine
necessari, nonché per ogni altra manifestazione di rilevante
interesse scientifico-culturale anche ai fini
didattico-promozionali, ivi compresi gli studi, le ricerche, la
documentazione e la catalogazione, e le pubblicazioni relative ai
beni culturali, sempre che tali iniziative culturali siano
autorizzate dal Ministero per i beni culturali e ambientali, che
deve approvare la previsione di spesa ed il conto consuntivo).
Identicamente, per gli enti profit, restano applicabili
la lettera e) dell’art 100 (Oneri di utilità sociale),
che prevede la deducibilità delle spese sostenute dai soggetti
obbligati alla manutenzione, protezione o restauro di beni
culturali, nella misura effettivamente rimasta a carico, e, della
lettera f), la parte non incompatibile con le nuove
previsioni (deducibilità delle erogazioni liberali in denaro a
favore di associazioni legalmente riconosciute che senza scopo di
lucro svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di
documentazione di rilevante valore culturale e artistico, effettuate
per l'acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro di beni
culturali, etc.), così come resta pienamente applicabile la
lettera m), che accorda la deducibilità – nei limiti del plafond annuo prestabilito - delle erogazioni liberali in
denaro a favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali
territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e di
associazioni legalmente riconosciute (incluse nell’apposito elenco
redatto dal MiBAC), per lo svolgimento dei loro compiti
istituzionali e per la realizzazione di programmi culturali nei
settori dei beni culturali e dello spettacolo.
Alla stessa
stregua restano perfettamente applicabili i benefici, alternativi
all’art. 100 del TUIR, previsti dall’art. 14 del decreto legge 14
marzo 2005, n. 35, convertito in legge, con modificazioni, dalla
legge 14 maggio 2005, n. 80, che prevede la deducibilità del
soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito
complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000
euro annui, delle liberalità in denaro o in natura erogate da
persone fisiche o da enti soggetti all'imposta sul reddito delle
società in favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale
di cui all'articolo 10, commi 1, 8 e 9, del decreto legislativo 4
dicembre 1997, n. 460, in favore di fondazioni e associazioni
riconosciute aventi per oggetto statutario la tutela, la promozione
e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e
paesaggistico di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
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• Il testo riproduce, con adattamenti e
integrazioni, la relazione tenuta nel corso della giornata di studi Sponsorizzazioni e mecenatismo nei beni culturali, svoltasi
presso la Scuola Umbra di Amministrazione Pubblica di Perugia, il 3
luglio 2014.
[1] L’investimento pubblico per la cultura (Stato,
Regioni, enti locali) è sceso, nel 2014, a poco più di 5 miliardi di
euro, con una perdita, dal 2006, di circa 2 miliardi. Gli
stanziamenti a favore del Ministero di settore sono diminuiti, negli
ultimi dieci anni, del 27,4 per cento e un ulteriore calo del 3 per
cento è previsto per il prossimo triennio (sulla base delle leggi
finanziarie triennali). Le attività culturali sostenute dai Comuni
hanno subito un taglio del 9,4 per cento (dati riferibili al 2011 e
2012), quelli delle Province del 25 per cento (dati desumibili dal
rapporto Federculture 2014 e dal rapporto 2014 della Fondazione
Symbola e di Unioncamere).
[2] Sul fronte privato, fra il 2008 e
il 2013, le fondazioni bancarie hanno dato il 9 per cento in meno,
le erogazioni da parte di persone e imprese sono crollate del 26,6
per cento, le sponsorizzazioni sono diminuite del 41 per cento,
sebbene a livello mondiale il loro valore e quello dei partenariati
aziendali sia costantemente cresciuto: 2 milioni di dollari nel
1984; 5,2 milioni nel 1992; 24,79 milioni nel 2000; 33,7 nel 2006;
44 nel 2009; 55,3 nel 2006 (su scala planetaria il settore artistico
e culturale ha assorbito una quota pari al 5 per cento circa del
totale poiché molte aziende preferiscono intervenire nei campi del
sociale, della ricerca scientifica, etc. – fonti citate alla
nota 1).
[3] Sul tema della valorizzazione, in generale, cfr. G.
Severini, sub artt. 6 e 7, in M. A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2^, 2012,
50 ss.; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 698 ss.; Id., Valorizzazione
e fruizione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., n. 5
del 2004, 483; G. Sciullo, I servizi culturali dello Stato,
nota di commento a Corte cost., 20 gennaio 2004, n. 26, in Giorn.
dir. amm., n. 4/2004, 402; D. Vaiano, sub artt. 101 ss.,
in G. Trotta, G. Caia e N. Aicardi (a cura di), Commentario al
Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le Nuove Leggi
Civili commentate, Padova, n. 5-6 del 2005, 1409 ss.
[4] La
scelta del Governo Letta, nel 2013 (legge n. 71 del 2013), di unire
il turismo (le politiche di rilievo nazionale di promozione del
turismo) e i beni e le attività culturali, in questo senso, non è
sbagliata, ma coglie, anzi, un dato di realtà che si sta imponendo
nei fatti (si pensi alla recentissima inclusione nell’elenco dei
siti Unesco dei paesaggi storici enologici delle Langhe in Piemonte
o la candidatura delle colline del prosecco di Valdobbiadene, alle
forme di ricettività diffusa, al ciclo-turismo, alla riproposizione
degli itinerari dei grand tour del sette-ottocento, alla
ripresa delle vie consolari, agli itinerari archeologici, alla
riscoperta dei paesaggi degli sfondi dei grandi artisti del
Rinascimento: si tratta di iniziative che aprono per interi
territori prospettive nuove di crescita durevole e sostenibile,
senza consumo di risorse naturali, ma, anzi, centrate proprio sulla
conservazione e la tutela). L’insieme di queste attività sta
diventando un forte “incubatore” di nuove imprese, così dette
“creative-culturali”, che possono generare impieghi di qualità per i
giovani. La posizione non è condivisa da tutti (l’Associazione
Bianchi Bandinelli, l’Associazione nazionale dei tecnici per la
tutela dei beni culturali, il Comitato per la Bellezza, la
Confederazione Italiana Archeologi, altre associazioni e privati
operatori del settore, ma anche funzionari ministeriali, hanno
sottoscritto un appello al Presidente della Repubblica, intitolato
“Salviamo i beni culturali e paesaggistici” e pubblicato sul
quotidiano Il Manifesto del 31 luglio 2014, nel quale hanno, tra
l’altro, paventato il rischio che “con ciò – ossia con la
fusione tra beni culturali e turismo – si confonde in modo
pericolosissimo la materia prima dei beni culturali e ambientali
(siti, musei, centri storici, paesaggi, ecc.) con l’indotto
economico del turismo . . . facendo prevalere la logica economica di
quest’ultimo sul valore culturale, educativo, quindi non misurabile
del secondo”.
[5] G. Valentini, su La Repubblica del
28 giugno scorso, riprendendo i dati forniti dalle fonti già
richiamate nella nota 1, ricorda come il sistema produttivo
culturale “restituisce un valore aggiunto di circa 80 miliardi di
euro all’anno, pari al 5,7% dell’economia nazionale, con 1,4 milioni
di occupati pari al 6,2% dell’occupazione nel settore della cultura.
[…] questo sistema vanta un moltiplicatore pari all’1,67: cioè un
euro di valore aggiunto (nominale) prodotto da una delle attività di
questo segmento, attiva mediamente un euro e 67 centesimi sul resto
dell’economia. In termini monetari equivale a dire che gli 80
miliardi prodotti nel 2013 dall’intero sistema culturale riescono ad
attivarne complessivamente 134 che arrivano poi a 214 nell’intera
filiera”.
[6] Si veda il nuovo comma 3-ter aggiunto
nell’art. 7 del decreto legge n. 83 del 2014 dalla legge di
conversione 29 luglio 2014, n. 106.
[7] Da ultimo A. Leone, T.
Montanari, S. Settis, Costituzione incompiuta, Einaudi,
Torino, 2013, e ivi ampi richiami.
[8] Si pensi, ad
esempio, a una recente trasmissione televisiva della Rete pubblica,
intitolata, come era inevitabilmente ovvio, “Petrolio”, dove il
titolo è tutto un programma e spiega benissimo il riflesso meccanico
populista che ispira – pur in buona fede – queste semplificazioni
tele-giornalistiche. Spesso un approccio “liberista” lega insieme
centralità del ruolo dei privati e semplificazione amministrativa,
intesa come liberalizzazione e abolizione dei controlli preventivi,
che andrebbero sostituiti dall’autocertificazione del privato, in
una miscela pericolosa per la tenuta del sistema di tutela.
[9]
Secondo l’archeologo Prof. D. Manacorda (Per salvare il nostro
patrimonio serve un’alleanza con i cittadini, in La
Repubblica, 1 agosto 2014) la radice storica di tale
conservatorismo andrebbe ricercata nella “demanializzazione dei
beni artistici” compiuta dalle leggi di tutela della prima metà
del XIX secolo, dove “la tutela legale, fatta di divieti e
sanzioni . . . prese allora il posto di quella che viene ritenuta
una sorta di spontanea conservazione sociale”. L’A. auspica
quindi il “superamento di una concezione elitaria e gelosa del
patrimonio . . . con l’obiettivo di creare una rete diffusa di
gestione socialmente allargata del patrimonio”. Parole molte
stimolanti, ma che suscitano anche qualche preoccupazione (tenuto
conto dello stato in cui versano molte città italiane, affidate di
fatto alla “spontanea conservazione sociale”, dove sembra che prima
e più che di valorizzazione del patrimonio culturale, ci si debba
occupare soprattutto della nettezza urbana, che resta la prima e più
importante delle forme di valorizzazione culturale, spesso
indebitamente trascurata dai Comuni).
[10] Parla di “svolta
timotica dell’etica” P. Sloterdijk, Crescita o extraprofitto,
a cura di R. Scheu, Mimesis, Milano, 2013, 66 ss., per cui, sulla
base di un’antropologia della generosità, il fisco dovrebbe
abbandonare i metodi autoritativi e impositivi e affidarsi alla
naturale generosità insita nel carattere autoplastico dell’agire
dell’uomo, che tende a proporsi in linea con i valori
criptoaristocratici, già noti e forti nella grecità, dell’onore,
dell’orgoglio, dell’aristos einai. In realtà la voglia di
“primeggiare”, di proporsi come il migliore, che sottende a molti
interventi di sponsorizzazione, provoca sconfinamenti indesiderati contro lo Stato, che alterano l’equilibrio cui l’intervento
del privato dovrebbe sempre attenersi.
[11] S. Settis,
[12]
Si tratta del decreto del Ministro dei beni e delle attività
culturali e del turismo del 20 giugno 2014 (in G. U. n. 155 del 7
luglio 2014), recante “Determinazione del compenso per la
riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi ai sensi
dell’articolo 71-septies della legge 22 aprile 1941 n. 633 per il
triennio 2014 – 2016”, applicativo dell’adeguamento triennale
dell’equo compenso previsto dall’articolo 71-sexies della
legge n. 633 del 1941, introdotto nella legge sul diritto d’autore
dal decreto legislativo n. 68 del 2003, in sede di recepimento della
direttiva comunitaria 2001/29/CE, che consente la riproduzione
privata di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto,
effettuata da una persona fisica per uso esclusivamente personale,
purché senza scopo di lucro e senza fini direttamente o
indirettamente commerciali, nel rispetto delle misure tecnologiche
di protezione di cui al successivo articolo 102-quater della
medesima legge.
[13] Si pensi a La rivolta di Atlante, di
Ayn Rand, trad. it. di L. Grimaldi, Corbaccio, 2007.
[14] E’
ovvio, e se ne è fatto cenno sopra, che tanti altri sono i modi in
cui i privati contribuiscono alla tutela e alla valorizzazione del
patrimonio culturale: dall’adempimento degli obblighi conservativi
gravanti sui proprietari di beni culturali alla gestione di servizi
culturali dati in concessione ai sensi degli artt. 115 e 117 del
codice, dalla partecipazione a fondazioni miste alla definizione di
altre forme di partenariato istituzionale o contrattuale con
finalità di studio e ricerca applicate ai beni culturali. In questa
sede, ci si occuperà delle due forme, forse principali, considerate
nel testo.
[15] Sul regime tributario della sponsorizzazione il
riferimento è all’art. 108 TUIR, relativo alle spese di pubblicità e
di rappresentanza. La norma prevede la deducublità, secondo le
modalità normativamente indicate (ossia, a scelta del contribuente,
nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti
nell’esercizio stesso e nei quattro successivi), ma ciò solo se e
nella misura in cui la spesa risulti corrispondente ad appositi
criteri di inerenza e congruità, determinati mediante il decreto del
Ministro dell’economia e delle finanze 19 novembre 2008 (in base
all’art. 2 di tale decreto, le spese di rappresentanza sono
deducibili in misura pari: a) all'1,3 per cento dei ricavi e altri
proventi fino a euro 10 milioni; b) allo 0,5 per cento dei ricavi e
altri proventi per la parte eccedente euro 10 milioni e fino a 50
milioni; c) allo 0,1 per cento dei ricavi e altri proventi per la
parte eccedente euro 50 milioni (sul tema cfr. Cass. civ., sez. VI,
5 marzo 2012, n. 3433, in linea con Id. 15 aprile 2011, n.
8679, 28 ottobre 2009, n. 22790; 7 agosto 2008, n. 21270; 27 giugno
2008, n. 17602; 23 aprile 2007, n. 9567, nonché la circolare n. 34/E
del 13 luglio 2009 dell’Agenzia delle entrate; sulle nozioni di
inerenza e congruità, a fini fiscali, delle spese di rappresentanza,
cfr. Cass. civ., sez. V, 27 aprile 2012, n. 6548). L’Agenzia delle
entrate (Risoluzione n. 88/E dell’11 luglio 2005) ha altresì
affermato che la sponsorizzazione è soggetta ad IVA, in misura pari
all’aliquota ordinaria (attualmente, ventuno per cento), da
applicarsi sulle somme versate dallo sponsor a fronte della
«prestazione di servizi» dello sponsee.
[16] ,E’ nota la
contestazione dinanzi al Tar del Lazio con ricorso proposto dal
Codacons (definito con sentenza di inammissibilità n. 6028 del 3
luglio 2012, confermata in appello da Cons. Stato, sez. VI, 31
luglio 2013, n. 4034). I rilievi del Codacons, pur correttamente
ritenuti dal Giudice amministrativo inammissibili per carenza di
legittimazione dell’associazione consumeristica, coglievano tuttavia
un punto centrale della problematica, ossia il pericolo di
esorbitanza dell’intervento del privato, che non deve trasmodare in
una sorta di “privatizzazione” o di appropriazione esclusiva, da
parte dello sponsor, del monumento in sé, ciò che invero può
accadere allorquando la controprestazione promessa
dall’amministrazione ecceda l’ambito specifico del restauro del
bene. Sul medesimo tema erano peraltro intervenute entrambe le
Autorità indipendenti competenti: l’Autorità Antitrust, con parere
del 20 dicembre 2011, aveva ritenuto la procedura, per la
discrepanza tra l’avviso di sponsorizzazione tecnica e l’accordo di
sponsorizzazione pura, non conforme alle indicazioni scaturenti
dalla precedente segnalazione della medesima Autorità AS 439 del 7
gennaio 2008 e all’esigenza di rigoroso rispetto dei principi
comunitari concorrenziali; l’AVCP, invece, dapprima con la
determinazione n. 24 del 5 dicembre 2011, poi con la deliberazione
n. 9 dell’8 febbraio 2012 aveva ritenuto la procedura conforme agli
artt. 26 e 27 del codice dei contratti pubblici.
[17] Si
ricordano i più recenti, precedenti interventi normativi: l’art. 2
del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 30, recante Modificazioni alla
disciplina degli appalti di lavori pubblici concernenti i beni
culturali, poi rifluito nel codice dei contratti pubblici e da
questo abrogato, nonché l’art. 2, comma 7, del d.l. 31 marzo 2011,
n. 34 (convertito, con modificazioni, nella l. 26 maggio 2011, n.
75), recante misure acceleratorie per la realizzazione del “Grande
Progetto Pompei”.
[18] Per un commento analitico di tale
disciplina cfr. F. Di Mauro, Le norme tecniche e linee guida
applicative delle disposizioni in materia di sponsorizzazioni di
beni culturali: i tratti essenziali, in Aedon, n. 3 del 2012,
nonché, per sintesi, P. Carpentieri, La sponsorizzazione di beni
culturali, in Il libro dell’anno del diritto 2013,
Treccani, Roma, 2013, 272 ss. Più di recente cfr. P. F. Ungari, La sponsorizzazione dei beni culturali - Atti Convegno Beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche,
Assisi (25-27 ottobre 2012), in Aedon, n. 1 del 2014, soprattutto
par. 2, nonché, con una forte critica delle disposizioni contenute
nell’art. 199-bis, G. Manfredi, Le sponsorizzazioni dei
beni culturali e il mercato, ivi.
[19] Si tratta dei
quattro “Poli museali”, Napoli, Roma, Firenze e Venezia, e delle due
soprintendenze archeologiche speciali, Roma e Pompei.
[20]
Disciplinata dal d.P.R. 29 maggio 2003, n. 240 recante il
regolamento concernente il funzionamento amministrativo-contabile e
la disciplina del servizio di cassa delle soprintendenze dotate di
autonomia gestionale.
[21] La prima disposizione introduce
criteri di semplificazione; la seconda disposizione ha abolito il
divieto di rassegnazione diretta e ha disciplinato la rassegnazione.
[22] E’ da notare che l’art. 13 del d.l. n. 91 del 2013, ora
abrogato, recava anche un comma 2, del seguente tenore: “2. Entro il
31 ottobre 2013 il Ministro dei beni e delle attività culturali e
del turismo individua, in coerenza con l'articolo 9 della
Costituzione, sulla base della legislazione vigente e alla luce
delle indicazioni fornite dalla commissione di studio già costituita
presso il Ministero, forme di coinvolgimento dei privati nella
valorizzazione e gestione dei beni culturali, con riferimento a beni
individuati con decreto del medesimo Ministro”. Anche tale
previsione è rimasta inattuata, ciò che è segno evidente della
perdurante tensione politica e dei dubbi ricostruttivi tuttora
irrisolti nella materia.
[23] Questo ed altri aspetti
applicativi sono chiariti nell’apposita circolare dell’Agenzia delle
Entrate n. 24/E del 31 luglio 2014 (al sito internet
www.agenziaentrate.it, sezione Provvedimenti, circolari e
risoluzioni).
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(pubblicato il
25.8.2014)
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