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n. 7-2014 - © copyright |
ROBERTO MANGANI
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Corruzione negli appalti, revoca dei
contratti, commissariamento: brevi note anche a seguito dell’entrata in
vigore del Decreto legge 24 giugno 2014, n. 90
1. Appalti “inquinati” e tutela della
legalità: un dibattito confuso
L’emersione di fenomeni di
corruzione nell’ambito delle procedure che regolano l’affidamento e
l’esecuzione delle opere pubbliche nel nostro Paese è purtroppo
fenomeno che si ripresenta nel tempo con puntuale quanto
sconcertante ciclicità. E con altrettanta puntualità si ripropongono
i consueti temi ad esso legati.
Tra questi, uno in particolare ha
ricevuto nelle ultime settimane – a seguito delle vicende
giudiziarie che hanno interessato i lavori relativi a Expo 2015 e al
Mose di Venezia - l’attenzione non solo degli studiosi della materia
e degli operatori del settore, ma anche della pubblica
opinione.
Si tratta della questione relativa all’individuazione
degli effetti che gli episodi di corruzione disvelati da indagini
penali dell’autorità giudiziaria debbano produrre sui contratti in
corso, per la cui conclusione appare decisivo – sulla base delle
risultanze di tali indagini - il comportamento criminoso
dell’impresa aggiudicataria. Questione che da un lato ha posto il
tema dei mezzi di tutela di cui può legittimamente disporre la
stazione appaltante per intervenire sui contratti; dall’altro, ha
sollecitato una serie di opinioni sull’opportunità di un intervento
ad hoc del legislatore, in un’ottica di più ampio respiro, volto a
introdurre nuovi strumenti a tutela della legalità violata.
Va
purtroppo rilevato che mentre i temi sollevati – come detto – non
sono nuovi, il dibattito che ne è scaturito è stato, se possibile,
ancora più confuso di quanto non sia accaduto in passato in
circostanze analoghe.
Sull’onda di una più che giustificata
volontà di “punire i colpevoli”, i ragionamenti sviluppati e le
soluzioni proposte non sempre hanno risposto a quei criteri di
logicità ed equilibrio che dovrebbero guidare sia gli interpreti che
il legislatore. Ciò è tanto più vero in una materia dai profili
articolati come quella in esame, in cui si intrecciano esigenze di
non facile composizione, come per esempio quella di impedire che
l’impresa possa godere dei vantaggi derivanti da un comportamento
illecito e quella di evitare ritardi nell’esecuzione dei lavori. Ma
anche complesse questioni giuridiche, che derivano dalla peculiare
posizione dell’ente appaltante che agisce in parte su un piano
autoritativo e in parte in via paritetica, ma che involgono anche
principi di valore costituzionale, primo fra tutti quello della
libertà di iniziativa economica privata.
In questo contesto, è
necessario che le soluzioni da perseguire - sia in relazione al
quadro normativo vigente che in funzione degli interventi
legislativi da adottare - siano ben ponderate e frutto di
un’equilibrata valutazione di tutti i fattori e i valori giuridici
in gioco.
Molte delle affermazioni intervenute nel dibattito che
si è sviluppato non sembra siano andate in questa direzione. Così
come anche l’intervento legislativo operato con il Decreto legge 90
del 2014 solleva molte questioni interpretative e alcuni dubbi di
fondo.
Sotto quest’ultimo profilo, è indubbio che il compito del
legislatore – proprio per la complessità delle tematiche legate alla
materia - era tutt’altro che agevole. Tuttavia, ciò non può
rappresentare una ragione per non avanzare quelle osservazioni che,
lungi dal voler rappresentare una critica fine a sé stessa, hanno il
solo obiettivo di individuare profili di criticità anche per
eventuali interventi migliorativi che potrebbero essere apportati in
fase di conversione del Decreto legge emanato.
Più in generale,
la più che legittima esigenza di tutela della legalità deve tradursi
nell’individuazione di strumenti di intervento efficaci e coerenti
con i principi generali del nostro ordinamento giuridico, se si
vuole evitare il rischio di effetti controproducenti rispetto
all’obiettivo perseguito.
2. La “revoca” degli
appalti
Nel dibattito delle ultime settimane è stata
spesso invocata l’esigenza di “revocare” gli appalti il cui
affidamento è stato condizionato da episodi di corruzione in cui
siano stati coinvolti i rappresentanti dell’impresa
affidataria.
Fino a quando si parla di “revoca” nell’ambito di un
linguaggio di tipo giornalistico, necessario per far passare un
messaggio semplificatorio presso la pubblica opinione, l’espressione
non pone particolari problemi. Ma se invece si sposta la discussione
– come pure è necessario fare – su un piano più strettamente
giuridico, le perplessità sono molte.
Occorre infatti
considerare che il potere di revoca dovrebbe essere esercitato in
relazione a rapporti contrattuali in corso. Ciò significa che la
revoca, ancorché espressione – sulla base dei principi generali del
sistema - di un potere di natura autoritativa che incide quindi su
atti amministrativi, sarebbe in realtà utilizzata per consentire
all’ente appaltante di sciogliersi da un contratto di appalto,
agendo quindi nell’ambito di un rapporto di natura paritetica.
Si
è per lungo tempo discusso in dottrina e in giurisprudenza se ciò
fosse consentito, specie alla luce della previsione contenuta al
comma 1 – bis dell’articolo 21 – quinquies della legge 241/90, che
prevede la possibilità che la revoca di un atto amministrativo
incida su rapporti negoziali in essere. Ovvero se, al contrario,
l’ente committente che intendesse sciogliersi da un contratto di
appalto già stipulato dovesse necessariamente ricorrere al diverso
istituto del recesso, disciplinato dall’articolo 134 del D.lgs.
163/2006.
Non è questa la sede per affrontare compiutamente tale
questione tutt’altro che semplice, sia per le implicazioni
sistematiche che vi si accompagnano che per i riflessi economici che
ne conseguono (essendo profondamente diversa la misura
dell’indennizzo a carico dell’ente appaltane nelle due
ipotesi).
Ai nostri fini è sufficiente rilevare che – con una
singolare coincidenza temporale – la questione è stata risolta
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la recentissima
decisione n. 14 del 20 giugno 2014. Il giudice amministrativo ha
ritenuto che, successivamente alla stipulazione del contratto di
appalto, l’amministrazione che per sopravvenute ragioni di
inopportunità della prosecuzione del rapporto contrattuale intenda
sciogliersi dallo stesso, non può ricorrere allo strumento
pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma debba esercitare
il diritto potestativo di recesso di cui all’articolo 134 del D.lgs.
163/2006.
Le ragioni a sostegno di questa soluzione – che ad
avviso di chi scrive è pienamente condivisibile – vengono
individuate dall’Adunanza Plenaria nell’esigenza di dare un
significato pregnante alla previsione dell’articolo 134 che consente
l’esercizio del diritto di recesso, che evidentemente sarebbe
privata di contenuto concreto se si consentisse all’amministrazione
di raggiungere lo stesso risultato dello scioglimento dal vincolo
contrattuale attraverso l’esercizio del potere di revoca. Ma prima
ancora di queste ragioni indicate nella sentenza, la soluzione
prescelta appare in realtà quella che meglio preserva la
fondamentale distinzione, nell’ambito dei contratti pubblici, tra la
sfera in cui l’ente pubblico agisce su un piano autoritativo
(ricorrendo a strumenti pubblicistici) e quella in cui opera su un
piano paritetico (utilizzando istituti di natura
privatistica).
Alla luce di questa inequivocabile conclusione
dell’Adunanza Plenaria, si deve quindi ritenere che, pur a fronte di
contratti di appalto “inquinati” da fenomeni corruttivi evidenziati
da indagini penali, l’ente committente non possa ricorrere al potere
di revoca dell’aggiudicazione per farne cessare l’efficacia.
3. Il recesso e la risoluzione
In linea
astratta, uno strumento a disposizione dell’amministrazione per
sciogliersi dal contratto “inquinato” è dunque il diritto di recesso
di cui all'articolo 134 del D.lgs. Un sia pure sommario esame della
relativa disciplina rende tuttavia evidente che tale strumento non è
idoneo rispetto all’ipotesi oggetto di esame.
La norma prevede
infatti che il recesso possa essere esercitato in qualsiasi momento
dalla stazione appaltante, previo pagamento dei lavori eseguiti, del
valore dei materiali utili esistenti in cantiere e del decimo
dell’importo dei lavori ancora da eseguire. Si tratta quindi di un
recesso di natura onerosa, che proprio perché tale non è
evidentemente idoneo ad essere utilizzato nel caso di specie.
Sarebbe infatti paradossale che l’ente appaltante, per
sciogliere un contratto la cui acquisizione è avvenuta in maniera
presumibilmente fraudolenta, fosse costretta a pagare un indennizzo
a favore dell’impresa che si è resa colpevole del comportamento
criminoso.
L’ordinamento che disciplina i lavori pubblici
prevede poi la risoluzione, disciplinata dal successivo articolo
135. Ad essa la stazione appaltante può ricorrere quando nei
confronti dell’appaltatore sia intervenuto un provvedimento
definitivo di applicazione di una misura antimafia ovvero una
sentenza di condanna passata in giudicato per una serie di reati,
tra cui la concussione e la corruzione.
In questa ipotesi
l’appaltatore ha diritto solo al pagamento dei lavori eseguiti,
decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del
contratto. Il riferimento a tale decurtazione rappresenta una
clausola di portata ampia, che può essere opportunamente
interpretata anche in relazione agli oneri che l’ente appaltante
subisce, in termini di tempi e di costi, per il riaffidamento dei
lavori.
Nel caso proceda alla risoluzione del contratto, la
stazione appaltante può ricorrere al così detto scorrimento, ai
sensi dell’articolo 140. Può cioè interpellare gli altri concorrenti
utilmente classificati nella graduatoria dell’originaria gara, dal
secondo fino al sesto, al fine di affidare i restanti lavori alle
medesime condizioni proposte dall’originario aggiudicatario.
Questa strumentazione può indubbiamente avere una sua utilità ai
fini in esame. Tuttavia, essa presenta il limite di poter
intervenire solo in relazione a una sentenza di condanna passata in
giudicato. Non è quindi utilizzabile a fronte a una indagine che sia
ancora nelle fasi preliminari, non essendo intervenuto neanche il
provvedimento di rinvio a giudizio.
4. L’annullamento
dell’aggiudicazione
Gli istituti esaminati, per le
diverse ragioni sopra sintetizzate, non appaiono idonei al
conseguimento del risultato che si intenderebbe perseguire volto ad
ottenere la cessazione di efficacia dei contratti di appalto affetti
dal vizio di essere stati affidati a seguito di comportamenti
presumibilmente criminosi.
Maggiori opportunità, sotto questo
profilo, sembrano offerte dal ricorso al diverso strumento
dell’annullamento dell’aggiudicazione.
In primo luogo, viene in
rilievo la possibilità che sia lo stesso ente appaltante ad
esercitare, in via di autotutela, il potere di annullare
l’aggiudicazione a suo tempo disposta. Questa possibilità è stata
esplicitamente richiamata proprio dalla pronuncia dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 14/2014 sopra ricordata. In
quella sede il giudice amministrativo, nel negare che l’ente
appaltante possa esercitare il potere di revoca dell’aggiudicazione
per sciogliersi dal contratto successivamente alla stipula dello
stesso, ha invece ricordato come resti salva la facoltà
dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva a suo
tempo disposta, nell’esercizio dei poteri di autotutela che sono
propri dell’amministrazione.
Secondo l’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, tale annullamento produce la
caducazione automatica degli effetti del contratto nel frattempo
stipulato, in virtù della stretta consequenzialità funzionale
esistente tra il provvedimento di aggiudicazione e la successiva
stipula (Cass. SS. UU., 8 agosto 2012, n. 14260; Cons. Stato, Sez.
III, 23 maggio 2013, n. 2802; Sez. V, 7 settembre 2011, n. 5032; 4
gennaio 2011, n.11).
Naturalmente il potere di annullamento
d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto dei limiti che gli
sono propri. Senza entrare in un’analisi approfondita del fondamento
e delle condizioni di legittimo esercizio di tale potere – che anche
in questo caso travalica la finalità delle presenti note – è
sufficiente ricordare che per orientamento consolidato esso è il
risultato di un’attività discrezionale dell’amministrazione e non
consegue quindi in via automatica dalla ritenuta originaria
illegittimità dell’atto oggetto di annullamento. In questo senso, è
necessaria la sussistenza di un interesse pubblico attuale al
ripristino della legalità, che deve essere prevalente sugli
interessi contrapposti dei privati che militino nel senso della
conservazione dell’atto stesso (per tutti, tra le più recenti, Cons.
Stato, Sez. VI, 19 marzo 2013, n. 1605).
In questa logica, alcune
affermazioni operate in passato dalla stessa giurisprudenza
amministrativa offrono degli elementi di significativo interesse ai
fini che ci rigurdano. E’ stato infatti sottolineato come la
riscontrata irregolarità delle procedure di selezione del contraente
giustifica non solo l’annullamento dell’aggiudicazione, ma anche la
caducazione automatica degli effetti del contratto. Ciò in quanto
“la permanenza del vincolo contrattuale trova quindi la sua
necessaria presupposizione nella corretta osservanza delle regole
dell’evidenza pubblica, poste a presidio sia degli interessi di
rilievo pubblico inerenti alla corretta gestione delle risorse
economiche di cui l’ente dispone, sia delle imprese operanti nel
segmento di mercato, che non devono subire pregiudizio o
discriminazione quanto alla possibilità di accedere ai pubblici
appalti” (Cons. Stato, Sez. III, 23 maggio 2013, n. 2802).
Si
tratta di affermazioni che sembrano aprire significativi spazi di
intervento in relazione ai casi alla nostra attenzione. E’
innegabile, infatti, che l’emersione in sede di indagini penali di
fenomeni corruttivi nell’ambito delle procedure di gara, configura
proprio quella violazione delle regole dell’evidenza pubblica che
pregiudica, oltre che il coretto uso delle risorse pubbliche, anche
il dispiegarsi del libero gioco della concorrenza, con evidenti
danni per le imprese “oneste” . Cosicché non è azzardato ipotizzare
che l’ente appaltante possa procedere in questi casi
all’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione definitiva a suo
tempo disposta con il conseguente venir meno dell’efficacia del
relativo contratto nel frattempo stipulato.
Accanto
all’annullamento d’ufficio ad opera dell’ente appaltante, si pone
anche l’eventualità di un annullamento dell’aggiudicazione in sede
giurisdizionale. Sotto questo profilo rivestono particolare
interesse le conclusioni contenute nella sentenza del Tar Lombardia,
Sez. I, n. 1802 del 9 luglio 2014, che è intervenuta proprio in
relazione all’affidamento dei lavori di realizzazione delle
architetture di servizio del sito Expo 2015, operato a suo tempo a
favore di un raggruppamento di imprese con a capo l’impresa
Maltauro, coinvolta nelle indagini penali che hanno portato
all’arresto dell’amministratore unico all’epoca dei fatti.
Il
giudice amministrativo, accogliendo il ricorso avanzato dall’impresa
seconda classificata nella gara, ha dichiarato l’illegittimità
dell’aggiudicazione definitiva a suo tempo operata, disponendone
l’annullamento.
Il Tar Lombardia ha infatti ritenuto che
l’illegittimità derivi direttamente dalla condotta criminosa posta
in essere dal rappresentante legale dell’impresa capogruppo del
raggruppamento aggiudicatario. Tale illegittimità sarebbe infatti
riconducibile da un lato a un “manifesto abuso della funzione
amministrativa” da parte dell’ente appaltante, che determinerebbe un
vizio dell’aggiudicazione; dall’altro, nell’antigiuridicità della
condotta imputabile all’amministratore unico dell’impresa
mandataria. Il giudice amministravo ha così ritenuto che lo
svolgimento di una gara immune da condotte illecite costituisca una
“precondizione di legittimità ” della stessa.
Si tratta di
affermazioni di notevole interesse. Esse spostano infatti i confini
dell’illegittimità dell’aggiudicazione da un piano strettamente
formale, ancorato ai classici vizi dell’atto amministrativo, a un
piano più sostanziale, in cui assumono rilievo eventi legati al
concreto svolgimento del confronto concorrenziale. Probabilmente
consapevole di questo peculiare approccio, lo stesso giudice
amministravo sottolinea che l’annullamento dell’aggiudicazione
disposto a seguito dei fatti corruttivi emersi rappresenta “un
rimedio finalizzato a costituire una frontiera più avanzata di
tutela dell’Amministrazione contro i possibili abusi dei
partecipanti alle procedure di evidenza pubblica”.
E’ evidente
che l’impostazione accolta nella pronuncia in esame merita
un’analisi attenta e più approfondita di quanto ci si propone con le
presenti note. L’approccio delineato dal Tar Lombardia, infatti,
sembra aprire a una riflessione di sistema sui caratteri stessi
dell’illegittimità dell’aggiudicazione nell’ambito della gare ad
evidenza pubblica, a fronte di fenomeni di particolare disvalore e
che assumono rilievo anche sotto il profilo penale. In sostanza,
l’emersione di fenomeni corruttivi si tradurrebbe di per sé in un
vizio di legittimità dell’aggiudicazione, inficiando in via
preliminare la procedura di gara.
Al di là questo profilo
fondamentale, vi è tuttavia un altro elemento che presenta profili
di criticità e che attiene alla tempestività del ricorso proposto.
L’aggiudicazione oggetto di annullamento è stata infatti disposta
nel novembre 2013; da qui l’eccezione di irrecivibilità del ricorso
– in quanto proposto ben oltre il termine decadenziale previsto
dalle norme del processo amministrativo - avanzata dai
controinteressati.
L’eccezione è stata respinta dal giudice
amministrativo sulla base della considerazione che la determinazione
con cui l’ente committente, all’esito dell’istruttoria volta a
verificare la sussistenza di elementi idonei a giustificare la
risoluzione del contratto, ha concluso in senso negativo, è stata
emanata solo dieci giorni prima della presentazione del ricorso. Ciò
renderebbe lo stesso tempestivo, proprio in relazione all’esigenza
di tenere nel debito conto i fatti sopravvenuti.
Si tratta di
un’impostazione che nella sostanza ridimensiona il termine
decadenziale di proposizione del ricorso giurisdizionale contro
l’aggiudicazione, poiché eventi successivi vengono ritenuti idonei a
riaprire tale termine. Anche sotto questo profilo, la pronuncia
merita un più puntale approfondimento diretto a verificare i
presupposti della soluzione individuata e le relative implicazioni.
In questa sede, ci si limita a due osservazioni. La prima è che
la soluzione prospettata sembra riprendere un orientamento
recentemente accolto – sia pure in relazione a un diverso
presupposto - dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza dell’8
maggio 2014, n. C – 161/13, che tuttavia si è espressa con
riferimento a una fattispecie in cui il contratto non era stato
ancora stipulato. La seconda è che – analogamente a quanto visto in
relazione al profilo precedente – sembra cogliersi un giustificato
sforzo da parte del giudice amministrativo indirizzato a individuare
soluzioni anche evolutive rispetto agli orientamenti più
tradizionali, all’evidente fine di delineare rimedi in grado di
colpire la sostanza del fenomeno corruttivo, anche al di là degli
aspetti formali che lo connotano e che talvolta possono costituire
anche un ostacolo a un efficace intervento sanzionatorio, almeno in
sede di giustizia amministrativa.
Va da ultimo evidenziato che
il Tar Lombardia, nella sentenza in esame, dopo aver disposto
l’annullamento dell’aggiudicazione, non ha tuttavia dichiarato la
caducazione del relativo contratto, come pure gli sarebbe stato
consentito dalle norme sul processo amministrativo, lasciando
all’ente appaltante ogni decisione su tale aspetto.
5. Il Decreto legge n. 90 del 2014: il “commissariamento” delle
imprese
L’analisi sopra condotta ha fatto riferimento ad
istituti già previsti dall’ordinamento, rispetto ai quali il
dibattito si è incentrato sulle concrete modalità di applicazione
nei casi di specie e sulla relativa efficacia.
Su un piano del
tutto diverso si muove invece il cosi detto “commissariamento” delle
imprese coinvolte in indagini penali, introdotto dal Decreto legge
n. 90 del 2014 proprio come risposta ai più recenti eventi di
corruzione nei pubblici appalti emersi in relazione ai lavori di
Expo 2015 e del Mose.
Lo strumento introdotto dal legislatore si
trova disciplinato all’articolo 32 del citato Decreto legge. Si
tratta della norma indubbiamente più controversa tra quelle
contenute nel Decreto legge, che pure contiene una nutrita serie di
disposizioni in materia di appalti pubblici.
La disciplina
dettata presenta dei profili di notevole complessità. Da un lato, si
pongono rilevanti dubbi sotto il profilo operativo; dall’altro, non
possono essere ignorate alcune criticità che attengono
all’inquadramento sistematico dell’istituto, anche con riferimento
alla sua piena coerenza con i principi generali del nostro
ordinamento giuridico, in primo luogo quelli derivanti dalle
garanzie di natura costituzionale.
D’altronde, era prevedibile
che un intervento su una materia così complessa e delicata avrebbe
dato luogo a dubbi e riflessioni. Dubbi evidenziati anche dal
Presidente dell’ANAC - Autorità nazionale anticorruzione, nella
nuova veste disegnata proprio dallo stesso Decreto legge 90/2014.
Infatti, nel provvedimento del 10 luglio 2014 con cui ha dato la
prima applicazione all’istituto attraverso la richiesta di
commissariamento nei confronti dell’Impresa Maltauro – coinvolta
nelle indagini sui lavori dell’Expo 2015 – lo stesso Presidente
dell’ANAC ha sottolineato “l’esistenza di alcuni problemi
ermeneutici, anche fisiologici in quanto connessi alla prima
sperimentazione dello stesso”.
La ratio che ha ispirato il
legislatore è chiara: punire quelle imprese che, ai fini
dell’aggiudicazione di un appalto, abbiano posto in essere
comportamenti criminosi, alterando il libero gioco della concorrenza
e gli stessi esiti della gara. Da qui l’esigenza di individuare
strumenti diretti a penalizzare l’impresa non solo in termini
generali ma con specifico riferimento all’appalto il cui affidamento
è avvenuto con mezzi illeciti, evitando in primo luogo che la stessa
possa godere degli utili di una commessa acquisita in maniera
fraudolenta.
E’ stato così introdotto uno strumento innovativo
nel sistema normativo italiano, ritenuto particolarmente utile quale
mezzo di contrasto preventivo della corruzione, anche in relazione
al suo effetto deterrente.
Così delineata la ratio
dell’intervento legislativo, molto più complessa è la sua traduzione
in concreto, attraverso l’individuazione delle modalità operative e
delle specifiche norme di supporto. In questo delicato passaggio si
intrecciano infatti rilevanti problematiche operative e questioni
giuridiche di primaria importanza, che creano un mosaico di problemi
di non agevole soluzione.
Questa oggettiva complessità si trova
appunto riflessa nelle previsioni contenute nell’articolo 32, che
vanno quindi attentamente analizzate anche alla luce delle
indicazioni fornite dallo stesso Presidente dell’ANAC nel primo
provvedimento applicativo sopra ricordato, che costituisce un
prezioso documento per gli orientamenti interpretativi di carattere
generale che offre. Ciò anche in una logica volta a dare spazio a
miglioramenti che potrebbero essere apportati in sede di conversione
del Decreto legge 90, al fine di renderlo maggiormente efficace
rispetto agli obiettivi da perseguire.
Una prima questione che
si pone riguarda l’individuazione dei presupposti che consentono di
procedere all’applicazione della norma nei confronti dell’impresa
aggiudicataria di un appalto di lavori, servizi o forniture. Tali
presupposti sono indicati, in maniera articolata, nel comma 1, che
sembra individuare una duplice tipologia di situazioni.
La prima
tipologia attiene alla commissione di una serie di reati così
identificati: concussione; corruzione nell’esercizio della funzione;
corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio; corruzione in
atti giudiziari; induzione indebita a dare e promettere utilità;
corruzione di persona incaricata di pubblico servizio; istigazione
alla corruzione; peculato, concussione, induzione indebita a dare e
promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di
membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle
Comunità europee e di Stati esteri; traffico di influenze illecite;
turbata libertà degli incanti; turbata libertà del procedimento di
scelta del contraente.
Si tratta di una lista di reati lunga e
articolata, che mira a coprire l’intero spettro dei fenomeni
corruttivi che si possono verificare in sede di affidamento dei
contratti pubblici.
La lista dei reati individua in maniera
sufficientemente chiara il presupposto del commissariamento sotto il
profilo sostanziale. Resta però da stabilire come tale presupposto
operi sotto il profilo procedurale, e cioè quale debba essere lo
stato in cui deve trovarsi il relativo procedimento penale per
consentire l’applicazione della norma.
Al riguardo, il comma 1
parla genericamente di ipotesi in cui l’autorità giudiziaria
“procede” per i reati indicati. In mancanza di ulteriori
precisazioni, si deve ritenere che tale espressione valga a indicare
il momento in cui si procede all’iscrizione della notizia di reato
nel registro del pubblico ministero. E in questo senso si è espresso
anche il Presidente dell’ANAC, laddove ha ritenuto che sia
sufficiente per far scattare il presupposto di applicazione della
norma “la mera iscrizione nel registro di cui all’articolo 335
c.p.p. del soggetto del vertice di una società o dell’imprenditore
individuale”.
Questa interpretazione comporta tuttavia che il
“commissariamento” potrebbe in ipotesi scattare anche in una fase
molto preliminare, in cui le indagini sono ancora in uno stadio
embrionale. Tuttavia questo rischio sembra almeno parzialmente
attenuato dalla circostanza che lo stesso comma 1 prevede che il
Presidente dell’ANAC si possa attivare per richiedere le misure
stabilite dalla norma solo in presenza di fatti gravi e accertati,
il che sembrerebbe impedire che si possa procedere sulla base di una
semplice notizia di reato.
A confermare la correttezza di questa
interpretazione, il Presidente dell’ANAC ha sottolineato che la
misura può essere applicata solo in presenza di fatti che hanno uno
“spessore probatorio” di un certo rilievo. Si tratta di fatti che
inducono a ritenere, sulla base di una valutazione probabilistica,
che vi sia stata una illecita aggiudicazione dell’appalto.
Considerato che comunque ci troviamo nel campo di misure di natura
cautelare, il Presidente dell’ANAC ha paragonato tali fatti a quei
“gravi indizi di colpevolezza” che, ai sensi dell’articolo 273 e
seguenti del c.p.p., possono dar luogo all’applicazione di misure
cautelari.
In sostanza, possono costituire una base probatoria
sufficiente a far scattare la possibile applicazione della norma,
quegli elementi posti a sostegno di un’ordinanza di custodia
cautelare o di un decreto che dispone il giudizio.
Queste
affermazioni contenute nel provvedimento emanato dal Presidente
dell’ANAC appaiono particolarmente importanti, tenuto conto
dell’autorevolezza del soggetto da cui promanano e anche del fatto
che tale soggetto è quello che deve concretamente dare seguito alla
norma introdotta. Le indicazioni fornite, infatti, aiutano a
circoscrivere in maniera più puntale l’ambito applicativo del nuovo
istituto sotto uno degli aspetti che il legislatore ha lasciato
maggiormente indefiniti, e quindi più critici sotto il profilo
applicativo.
L’analisi fin qui condotta riguarda il
commissariamento legato ad ipotesi di reato. La norma tuttavia
sembra allargare il proprio spettro di applicazione anche oltre tali
ipotesi. Lo stesso comma 1 stabilisce infatti che il Presidente
dell’ANAC possa assumere le sue iniziative ai fini dell’applicazione
delle relative misure anche in presenza di “rilevate situazioni
anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi
criminali”. L’utilizzo della congiunzione “ovvero” – cioè in
alternativa alle ipotesi di reato prima indicate - sembra
prefigurare la possibilità che il commissariamento possa operare
anche laddove non vi sia ancora stato l’intervento dell’Autorità
giudiziaria, ma emergano comunque elementi – sempre ricavabili da
fatti gravi e accertati – da cui si possano desumere condotte
illecite o criminose da parte dell’impresa aggiudicataria
dell’appalto.
Inteso in questo senso, il campo di applicazione
della norma rischia di allargarsi oltre misura, svicolando un
intervento così invasivo sulla vita dell’impresa da qualunque
comportamento avente rilevanza penale.
Va peraltro evidenziato
che – in maniera contraddittoria - questa possibilità sembra poi
essere smentita dal fatto che successivamente la norma, nel definire
la proposta che viene formulata dal Presidente dell’ANAC, fa sempre
riferimento all’esistenza di un procedimento penale.
In ogni caso
sembrerebbe opportuno, anche al fine di attenuare i profili di
criticità correlati a una limitazione così pregnante dell’ordinaria
vita dell’impresa, che su questo punto vi fosse un intervento
chiarificatore anche in sede di conversione in legge del Decreto.
Ricorrendo i presupposti indicati, il Presidente dell’ANAC
formula al Prefetto competente la sua proposta. Un altro punto non
chiaro della normativa introdotta riguarda proprio l’individuazione
del Prefetto competente.
In assenza di un’esplicita indicazione
del legislatore, vi sono almeno due possibilità, come rilevato anche
nel più volte richiamato provvedimento del Presidente dell’ANAC. La
prima è che il Prefetto competente sia quello in cui ha sede
l’impresa; la seconda è che sia quello in cui è stato aggiudicato
l’appalto “inquinato”.
Il Presidente dell’ANAC ritine
preferibile la seconda soluzione, in virtù della considerazione che
il Prefetto del luogo in cui è stato aggiudicato l’appalto è quello
in grado di meglio apprezzare la gravità del fatto e di monitorare
l’applicazione della misura. Senza tener conto che scegliere l’altra
soluzione comporterebbe un problema applicativo non indifferente
nell’ipotesi in cui il “commissariamento” dovesse operare nei
confronti di un’impresa avente sede all’estero.
La proposta
formulata dal Presidente dell’ANAC può essere articolata secondo una
duplice modalità.
La prima si sostanzia nell’ordinare
all’impresa la rinnovazione degli organi sociali mediante la
sostituzione del soggetto coinvolto nei fatti criminosi e, ove
l’impresa non adempia a tale ordine, nel provvedere alla
straordinaria e temporanea gestione della stessa. Sotto questo
profilo, sembra quindi che sia sufficiente sostituire il soggetto
coinvolto, eliminando la sua presenza dagli organi sociali, per
adempiere alla prescrizione normativa. In questa logica, la
disposizione appare idonea ad attenuare di molto la sua portata
dirompente, posto che normalmente chi è coinvolto in procedimenti
penali si dimette in maniera spontanea da ogni carica sociale o
comunque viene rapidamente sostituito.
La seconda modalità in
cui può declinarsi la proposta del Presidente dell’ANAC prevede che
si chieda al Prefetto direttamente di procedere alla straordinaria e
temporanea gestione dell’impresa – il cosi detto “commissariamento”
- senza passare per il preventivo ordine di rinnovo degli organi
sociali.
Le due modalità di articolazione della proposta sono
alternative, anche se i termini concreti della loro applicabilità
vanno valutati alla luce delle decisioni che può assumere il
Prefetto, in base alle previsioni contenute nel successivo comma 2.
Viene infatti stabilito che il Prefetto, valutata la gravità dei
fatti oggetto dell’indagine, intima all’impresa di provvedere al
rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto coinvolto e ove
l’impresa non provveda in tal senso entro trenta giorni procede con
decreto, nei successivi dieci giorni, alla nomina di uno o più
amministratori (nel numero massimo di tre), per la straordinaria e
temporanea gestione. Nei casi più gravi, il Prefetto procede
direttamente alla nomina del/i commissario/i, senza farla precedere
dall’ordine all’impresa di rinnovo degli organi sociali.
Queste
previsioni sembrano in realtà contenere un disallineamento rispetto
a quelle che delineano i contenuti della proposta del Presidente
dell’ANAC. Infatti, mentre il comma 1 sembra consentire che tale
proposta possa prevedere direttamente il commissariamento
dell’impresa, senza il preventivo ordine di rinnovo degli organi
sociali, il comma 2 indica quale strada ordinaria il doppio
passaggio (preventivo ordine di rinnovo e successivo
commissariamento in caso di inerzia dell’impresa), lasciando al solo
Prefetto la valutazione della sussistenza dei casi più gravi idonei
a consentire di procedere in via diretta al commissariamento. In
sostanza quest’ultima possibilità sembra essere una prerogativa
esclusiva del Prefetto, mentre in precedenza la norma la indica
anche come possibile oggetto della proposta del Presidente
dell’ANAC.
Questa incongruenza normativa è stata opportunamente
risolta dal Presidente dell’ANAC in sede di prima applicazione della
norma, nel senso di ritenere che la proposta formulata possa
prevedere direttamente il commissariamento, fermo restando il
riconoscimento in capo al Prefetto del più ampio potere di
valutazione in merito alla definizione della misura da adottare.
In sostanza, coerentemente alla previsione del comma 1, la
proposta del Presidente dell’ANAC può sostanziarsi nella richiesta
diretta del commissariamento. Sarà poi il Prefetto, secondo le
indicazioni del comma 2, a decidere in totale autonomia se
accoglierla – ritenendo sussistente la gravità del caso – ovvero
procedere al doppio passaggio, con intimazione al rinnovo degli
organi sociali e, solo in caso di inerzia dell’impresa, al
successivo commissariamento.
Gli amministratori nominati devono
avere i requisiti di professionalità e onorabilità stabiliti, in
attuazione dell'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 8
luglio 1999, n. 270, dal DM 60 del 2013 con riferimento ai
commissari giudiziali e straordinari nominati nell’ambito delle
procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
crisi.
Il decreto di nomina definisce anche la durata del
relativo incarico, in ragione delle esigenze funzionali alla
realizzazione dell’opera oggetto del contratto. In ogni caso, la
gestione straordinaria cessa in caso di provvedimento che dispone la
confisca, il sequestro o l’amministrazione giudiziaria dell’impresa,
nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di
prevenzione antimafia (comma 5).
Uno dei punti più delicati e
controversi della normativa introdotta riguarda l’interpretazione
dell’inciso secondo cui la straordinaria e temporanea gestione
dell’impresa opera “limitatamente alla completa esecuzione del
contratto di appalto oggetto del procedimento penale”.
E’ stata
infatti avvalorata da più parti l’interpretazione secondo cui tale
limitazione dovrebbe essere intesa in termini funzionali, cioè solo
ed esclusivamente in relazione a quello specifico appalto oggetto di
indagine penale. Vi sarebbe quindi un “commissariamento”
circoscritto unicamente alla gestione dello specifico appalto
oggetto di indagine, mentre per il resto l’impresa continuerebbe ad
operare sulla base delle normali regole e sotto la gestione degli
organi di amministrazione ordinari.
Questa interpretazione è
stata accolta anche dal Presidente dell’ANAC. Nel provvedimento del
10 luglio 2014 si legge che i commissari “senza doversi occupare
dell’intera attività sociale, dovranno occuparsi soltanto di portare
a termine l’appalto incriminato”. La misura, quindi, si tradurrebbe
“in una sorta di commissariamento dell’appalto e o della commessa,
che non incide sulla governance complessiva dell’impresa ma sospende
i poteri dell’imprenditore o degli organi sociali limitatamente alla
gestione di quello specifico lavoro”.
Questa conclusione,
tuttavia, non viene accompagnata da alcuno specifico argomento a
sostegno. Soprattutto, non vengono tenuti in alcuna considerazione
gli elementi in senso contrario che sembrano emergere da una lettura
complessiva della disciplina introdotta, e in particolar modo le
disposizioni dell’articolo 32 che delineano i poteri dei commissari
e gli effetti che essi producono sul funzionamento degli ordinari
organi di gestione dell’impresa.
Partendo dal comma 3, esso
dispone che ai commissari sono attribuiti tutti i poteri e le
funzioni degli ordinari organi di amministrazione dell’impresa. Nel
contempo, è sospeso l’esercizio dei poteri di disposizione e
gestione dei titolari dell’impresa.
Quest’ultima espressione
presenta un profilo di estrema genericità. Il potere di disposizione
sembra infatti fare riferimento non al fatto gestionale in senso
stretto, quanto alla stessa possibilità di esercitare le facoltà
proprie che spettano ai titolari dell’impresa.
Intesa nella sua
accezione ampia, la norma sembra voler impedire che i titolari
dell’impresa (quindi anche gli azionisti, nel caso di società)
possano addirittura disporre della propria partecipazione (che
quindi non potrebbero neanche alienare). Si tratta di una previsione
molto forte e, in questi termini, di difficile applicazione, specie
se riferita a realtà societarie con un azionariato diffuso (e magari
quotate in borsa).
Inoltre, nel caso di impresa costituita in
forma societaria, sono sospesi anche i poteri dell’assemblea. Anche
sotto quest’ultimo profilo la previsione suscita più di una
perplessità. L’assemblea, infatti, non è un organo deputato
all’amministrazione dell’impresa, specie dopo la riforma del 2003
che ha fortemente ridimensionato la possibilità di attribuire alla
stessa competenze di natura gestionale, che sono state concentrate
nell’organo amministrativo. Di conseguenza, non si comprende fino in
fondo la ratio di sospenderne le funzioni, posto che esse non
possono certo influire sulla gestione dell’impresa.
La norma
presenta poi un profilo di criticità che appare difficile da
superare. Occorre infatti considerare che alcune delle funzioni
proprie dell’assemblea, prima fra tutte il potere di approvazione
del bilancio, non appaiono suscettibili di essere sospese senza
prevedere una competenza sostitutiva, pena la paralisi
dell’operatività aziendale.
Al di là dei punti critici
evidenziati, la disamina delle norme introdotte delinea i poteri dei
commissari in termini totalizzanti, nel senso che gli stessi si
sostituiscono integralmente agli ordinari organi sociali. I
commissari hanno “tutti” i poteri degli organi di amministrazione
ordinari e vengono sospesi i poteri dell’assemblea. Come può essere
concepibile una sospensione dei poteri assembleari limitatamente al
singolo appalto ? E come si possono far convivere, in concreto, due
organi gestionali?
La formulazione delle disposizioni configura
quindi un subentro dei commissari nell’insieme dei poteri gestionali
propri dell’organo di amministrazione ordinario. Di conseguenza, non
appare concepibile limitare il loro raggio di azione solo
all’esecuzione di uno specifico appalto, posto che essi sono
chiamati ad assumere la gestione dell’impresa nella sua totalità.
Si deve allora ritenere che all’espressione “limitatamente alla
completa esecuzione dell’appalto” vada dato un significato di
carattere temporale, nel senso che il commissariamento è destinato a
durare fino all’integrale esecuzione dell’appalto “incriminato”.
E’ inoltre previsto che i commissari rispondano delle eventuali
diseconomie dei risultati solo nei casi di dolo o colpa grave (comma
4), all’evidente fine di limitarne la responsabilità in relazione
alla gestione di situazioni complesse.
Infine, sempre sotto il
profilo gestionale, viene stabilito che per tutta la durata della
gestione straordinaria i pagamenti all’impresa vengono corrisposti
al netto dei compensi riconosciuti ai commissari. Inoltre, l’utile
di impresa relativo al contratto di appalto “incriminato”,
determinato anche in via presuntiva dai commissari, è accantonato in
apposito fondo e non può essere distribuito né assoggettato a
pignoramento sino alla conclusione del giudizio penale (comma 7).
Anche quest’ultima disposizione presenta problemi applicativi
non indifferenti. In primo luogo, la determinazione in via
presuntiva dell’utile da parte dei commissari comporta valutazioni
non agevoli, a meno che non si provveda a istituire una contabilità
separata relativa allo specifico appalto, che tuttavia sconta la
difficoltà che lo stesso è già in esecuzione. Secondariamente, deve
essere chiaro che il congelamento degli utili fino alla completa
definizione del giudizio penale non deve valere ai fini di
assicurare l’operatività dell’impresa, ma solo ai fini della
distribuzione degli stessi. In caso contrario si rischia di privare
per anni l’impresa di risorse finanziarie che, in alcuni casi,
possono essere essenziale per la sua attività ordinaria.
Vi è poi
un’altra disposizione di non facile interpretazione. Il comma 8
stabilisce che nel caso le indagini penali riguardino “componenti di
organi societari diversi ad quelli di cui al comma 1” il Prefetto
provvede a nominare con decreto da uno a tre esperti – anch’essi in
possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità prescritti
per i commissari – aventi il compito di svolgere funzioni di
sostegno e monitoraggio dell’impresa. Tali funzioni si esplicano
nella definizione di prescrizioni operative riferite tra l’altro
all’organizzazione, ai sistemi di controllo interno e all’attività
degli organi amministrativi e di controllo dell’impresa.
Le
incertezze interpretative nascono dalla difficoltà di individuare
correttamente gli esponenti dell’impresa il cui coinvolgimento in
indagini penali può far scattare questo meccanismo di sostegno e
monitoraggio dell’impresa. Secondo la formulazione della norma si
dovrebbe trattare di “organi societari” diversi dagli “organi
sociali” (che sono quelli indicati al comma 1 e il cui
coinvolgimento in attività criminose dà luogo al
commissariamento).
E’ presumibile che il legislatore abbia inteso
fare riferimento a figure apicali dell’impresa diverse dagli organi
di amministrazione in senso proprio. Tuttavia, l’indeterminatezza
dell’espressione utilizzata lascia aperto un dubbio molto
significativo sull’effettivo ambito di applicazione di questa misura
speciale.
Il comma 10 prevede infine che le misure fin qui
descritte – cioè sia il commissariamento sia la più limitata misura
di sostegno e monitoraggio dell’impresa – si applichino anche
nell’ipotesi in cui nei confronti dell’impresa sia stata emanata
un’informazione antimafia interdittiva e sia comunque necessario
assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero
garantire la continuità di servizi e funzioni indifferibili o
salvaguardare i livelli occupazionali o l’integrità dei bilanci
pubblici.
In sostanza viene introdotta una deroga alla
disciplina antimafia, nel senso che dall’emanazione
dell’informazione interdittiva non consegue il recesso dal contratto
da parte dell’ente committente – secondo l’ipotesi ordinaria -
qualora ricorrano le condizioni sopra elencate. In realtà già il
D.lgs. 159/2011 (Codice antimafia) prevedeva che non si facesse
luogo al recesso nel caso in cui l’opera fosse in corso di
ultimazione o la fornitura o il servizio fossero ritenuti essenziali
per il perseguimento del pubblico interesse. La norma in esame,
quindi, amplia il novero delle condizioni nel ricorso delle quali
l’informazione interdittiva non incide sui rapporti contrattuali in
corso.
In questo caso il commissariamento (o la diversa misura
di supporto e monitoraggio) é disposto autonomamente dal Prefetto,
che ne dà notizia al Presidente dell’ANAC. Esso cessa nel caso di
sentenza definitiva di annullamento dell’informazione antimafia
ovvero di ordinanza, anch’essa definitiva, che dispone
l’accoglimento dell’istanza cautelare.
6. Dagli
istituti ordinari agli interventi straordinari: una preoccupante
parabola delle misure anticorruzione
L’analisi condotta
evidenzia come il legislatore abbia considerato essenziale
arricchire le misure anticorruzione con un intervento ad hoc,
particolarmente incisivo e notevolmente invasivo rispetto alla vita
ordinaria delle imprese. Si è evidentemente ritenuto – anche sulla
scia di una pressante richiesta proveniente da molte parti e in
primo luogo dalla pubblica opinione - che si fosse in presenza di
una situazione straordinaria che imponesse l’adozione di misure
altrettanto straordinarie.
Se le scelte di politica legislativa
fanno parte delle prerogative del Governo e del Parlamento, non può
tuttavia essere ignorata l’esistenza di significativi dubbi
interpretativi in merito alle norme introdotte, con conseguenti
difficoltà che si porranno in fase applicativa (e in attesa di
eventuali modifiche che dovessero essere apportate in sede di
conversione in legge del Decreto).
Ma al di là di tale profilo,
non si possono neanche trascurare – semplicemente richiamando la
necessità di far fronte a una situazione di emergenza – alcune
criticità di fondo relative alla coerenza della normativa introdotta
con alcuni principi generali del nostro ordinamento giuridico e
sulla sua piena compatibilità con alcuni precetti di rango
costituzionale.
Qualunque intervento normativo, per quanto volto
a introdurre misure di natura straordinaria, deve comunque inserirsi
- pur con le sue peculiarità – nel tessuto ordinamentale
sottostante. In caso contrario, si rischia di entrare in una logica
tipicamente emergenziale che può creare più problemi di quelli che
intende risolvere.
Sotto questo profilo, non si può ignorare che
l’insieme delle misure esaminate interviene in relazione
all’esistenza di un procedimento penale in fase del tutto
embrionale. Non vi è alcuna sentenza di condanna, ma - vista la
genericità dell’espressione utilizzata dal legislatore – non è
necessario neanche che sia stata prodotta una richiesta di rinvio a
giudizio. E’ sufficiente che l’autorità giudiziaria stia
“procedendo” per uno dei reati indicati per far scattare il
possibile commissariamento.
Certamente conforta l’interpretazione
che, relativamente a tale aspetto, è stata fornita dal Presidente
dell’ANAC, che ha fatto riferimento all’esigenza che vi sia quello
“spessore probatorio” che è normalmente alla base di un’ordinanza
cautelare o di un decreto di rinvio a giudizio. E tuttavia ciò rende
evidente che il problema è stato avvertito anche dal soggetto
istituzionalmente deputato ad applicare la nuova normativa, a
testimonianza della sua fondatezza ma anche del rischio di lascare
un aspetto così delicato a un’ipotesi interpretativa, che può
evidentemente mutare a seconda delle circostanze e dei soggetti che
la formulano.
Va poi considerato che, a fronte di questa
ampiezza di operatività dello strumento, gli effetti che ad esso si
ricollegano producono il sostanziale azzeramento delle regole
fondamentali di funzionamento dell’impresa e in particolare delle
società. Vengono meno gli ordinari poteri dell’organo di gestione,
sono annullati i poteri degli azionisti, si sospendono i poteri
dell’assemblea.
La combinazione tra l’ampiezza dei presupposti
che possono legittimare il commissariamento e l’incisività degli
effetti che ne conseguono non può non sollevare qualche domanda in
merito alla piena compatibilità costituzionale della normativa
introdotta. In particolare, le criticità riguardano il principio
della libertà di iniziativa economica privata (articolo 41), in
combinazione con l’altro principio della presunzione di non
colpevolezza (articolo 27), la cui tenuta effettiva rispetto alle
norme introdotte va attentamente valutata.
E’ evidente che va
considerato che queste ultime tendono a garantire l’efficace
attuazione del principio di legalità, che gode anch’esso di
copertura costituzionale. In questo senso, la stessa Corte
Costituzionale ha sottolineato più volte come tutti i diritti
fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in un rapporto
di integrazione reciproca, cosicché non è possibile individuare uno
di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (sentenza n.
264 del 2012).
E proprio facendo applicazione di questo
principio, il giudice delle leggi ha stabilito che la libertà di
iniziativa economica privata di cui all’articolo 41 soggiace ai
limiti derivanti dalla salvaguardia di altri valori di rilievo
costituzionale, ivi compreso quello di un assetto competitivo dei
mercati, a tutela delle stesse imprese e dei consumatori. In questo
senso, l’articolo 41 è un parametro che garantisce non solo la
libertà di iniziativa economica ma anche l’assetto concorrenziale
del mercato di volta in volta preso in considerazione (sentenza n.
94 del 2013).
E’ evidente che si tratta di affermazioni che
assumono un rilievo significativo in relazione alle nuove norme
introdotte. E tuttavia restano dei dubbi se le soluzioni individuate
– specie alla luce della combinazione tra l’ampiezza applicativa che
le caratterizza e l’incisività degli effetti che ne derivano - siano
quelle più idonee ad operare quel necessario bilanciamento di
interessi tutti costituzionalmente garantiti su cui si deve
necessariamente basare una disciplina che incide su profili cosi
delicati come quella in esame.
Post scriptum.
Il giurista, per definizione, si occupa di analizzare e
interpretare le leggi. Al centro di questa attività vi sono le
“regole”; quando queste non sembrano sufficienti a garantire i
valori della legalità, se ne invocano di nuove. Ecco che, di fronte
alla gravità dei fenomeni di corruzione negli appalti pubblici
emersi nelle ultime settimane, la richiesta di nuove regole è
tornata a farsi prepotentemente strada. Anche se voci autorevoli (e
anche lo stesso Presidente del Consiglio) ha sottolineato che il
problema non sono tanto le regole, ma chi queste regole le infrange.
Proprio sulla base di questa considerazione, sia consentito per
una volta al giurista di sconfinare nel campo della letteratura,
offrendo alla comune riflessione un testo che probabilmente è in
grado di fornire una chiave di lettura più efficace di tante analisi
giuridiche.
“C’era un paese che si reggeva
sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema
politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano
di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di
centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne
aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi
non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi
mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li
aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in
cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante
favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema
economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua
armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere
non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria
morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era
lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il
proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non
escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni
transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una
quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa
delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione:
quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito,
portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a
guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente
individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire
il
proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto
collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua
condotta era non solo lecita ma benemerita.
……
Così tutte le
forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si
saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e
coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro
vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con
la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente
felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur
sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo
attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche
speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né
patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso),
erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale,
tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le
cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in
denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti
meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito,
la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel
paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro
erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento
cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri,
indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo
facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il
potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé
(almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano
illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche
se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché
sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano
rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che
così come in margine a tutte le società durante millenni s’era
perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di
ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto
nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere
nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo
d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva
dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine
libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe
riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume
corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità ,
di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari
avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per
essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di
qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo
cos’è.”
Tratto da “Apologo sull’onestà nel paese dei
corrotti” di Italo Calvino
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(pubblicato il
24.7.2014)
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