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n. 7-2014 - © copyright

 

ROBERTO MANGANI

Corruzione negli appalti, revoca dei contratti, commissariamento: brevi note anche a seguito dell’entrata in vigore del Decreto legge 24 giugno 2014, n. 90

 

 


 

 

1. Appalti “inquinati” e tutela della legalità: un dibattito confuso
L’emersione di fenomeni di corruzione nell’ambito delle procedure che regolano l’affidamento e l’esecuzione delle opere pubbliche nel nostro Paese è purtroppo fenomeno che si ripresenta nel tempo con puntuale quanto sconcertante ciclicità. E con altrettanta puntualità si ripropongono i consueti temi ad esso legati.
Tra questi, uno in particolare ha ricevuto nelle ultime settimane – a seguito delle vicende giudiziarie che hanno interessato i lavori relativi a Expo 2015 e al Mose di Venezia - l’attenzione non solo degli studiosi della materia e degli operatori del settore, ma anche della pubblica opinione.
Si tratta della questione relativa all’individuazione degli effetti che gli episodi di corruzione disvelati da indagini penali dell’autorità giudiziaria debbano produrre sui contratti in corso, per la cui conclusione appare decisivo – sulla base delle risultanze di tali indagini - il comportamento criminoso dell’impresa aggiudicataria. Questione che da un lato ha posto il tema dei mezzi di tutela di cui può legittimamente disporre la stazione appaltante per intervenire sui contratti; dall’altro, ha sollecitato una serie di opinioni sull’opportunità di un intervento ad hoc del legislatore, in un’ottica di più ampio respiro, volto a introdurre nuovi strumenti a tutela della legalità violata.
Va purtroppo rilevato che mentre i temi sollevati – come detto – non sono nuovi, il dibattito che ne è scaturito è stato, se possibile, ancora più confuso di quanto non sia accaduto in passato in circostanze analoghe.
Sull’onda di una più che giustificata volontà di “punire i colpevoli”, i ragionamenti sviluppati e le soluzioni proposte non sempre hanno risposto a quei criteri di logicità ed equilibrio che dovrebbero guidare sia gli interpreti che il legislatore. Ciò è tanto più vero in una materia dai profili articolati come quella in esame, in cui si intrecciano esigenze di non facile composizione, come per esempio quella di impedire che l’impresa possa godere dei vantaggi derivanti da un comportamento illecito e quella di evitare ritardi nell’esecuzione dei lavori. Ma anche complesse questioni giuridiche, che derivano dalla peculiare posizione dell’ente appaltante che agisce in parte su un piano autoritativo e in parte in via paritetica, ma che involgono anche principi di valore costituzionale, primo fra tutti quello della libertà di iniziativa economica privata.
In questo contesto, è necessario che le soluzioni da perseguire - sia in relazione al quadro normativo vigente che in funzione degli interventi legislativi da adottare - siano ben ponderate e frutto di un’equilibrata valutazione di tutti i fattori e i valori giuridici in gioco.
Molte delle affermazioni intervenute nel dibattito che si è sviluppato non sembra siano andate in questa direzione. Così come anche l’intervento legislativo operato con il Decreto legge 90 del 2014 solleva molte questioni interpretative e alcuni dubbi di fondo.
Sotto quest’ultimo profilo, è indubbio che il compito del legislatore – proprio per la complessità delle tematiche legate alla materia - era tutt’altro che agevole. Tuttavia, ciò non può rappresentare una ragione per non avanzare quelle osservazioni che, lungi dal voler rappresentare una critica fine a sé stessa, hanno il solo obiettivo di individuare profili di criticità anche per eventuali interventi migliorativi che potrebbero essere apportati in fase di conversione del Decreto legge emanato.
Più in generale, la più che legittima esigenza di tutela della legalità deve tradursi nell’individuazione di strumenti di intervento efficaci e coerenti con i principi generali del nostro ordinamento giuridico, se si vuole evitare il rischio di effetti controproducenti rispetto all’obiettivo perseguito.

2. La “revoca” degli appalti
Nel dibattito delle ultime settimane è stata spesso invocata l’esigenza di “revocare” gli appalti il cui affidamento è stato condizionato da episodi di corruzione in cui siano stati coinvolti i rappresentanti dell’impresa affidataria.
Fino a quando si parla di “revoca” nell’ambito di un linguaggio di tipo giornalistico, necessario per far passare un messaggio semplificatorio presso la pubblica opinione, l’espressione non pone particolari problemi. Ma se invece si sposta la discussione – come pure è necessario fare – su un piano più strettamente giuridico, le perplessità sono molte.
Occorre infatti considerare che il potere di revoca dovrebbe essere esercitato in relazione a rapporti contrattuali in corso. Ciò significa che la revoca, ancorché espressione – sulla base dei principi generali del sistema - di un potere di natura autoritativa che incide quindi su atti amministrativi, sarebbe in realtà utilizzata per consentire all’ente appaltante di sciogliersi da un contratto di appalto, agendo quindi nell’ambito di un rapporto di natura paritetica.
Si è per lungo tempo discusso in dottrina e in giurisprudenza se ciò fosse consentito, specie alla luce della previsione contenuta al comma 1 – bis dell’articolo 21 – quinquies della legge 241/90, che prevede la possibilità che la revoca di un atto amministrativo incida su rapporti negoziali in essere. Ovvero se, al contrario, l’ente committente che intendesse sciogliersi da un contratto di appalto già stipulato dovesse necessariamente ricorrere al diverso istituto del recesso, disciplinato dall’articolo 134 del D.lgs. 163/2006.
Non è questa la sede per affrontare compiutamente tale questione tutt’altro che semplice, sia per le implicazioni sistematiche che vi si accompagnano che per i riflessi economici che ne conseguono (essendo profondamente diversa la misura dell’indennizzo a carico dell’ente appaltane nelle due ipotesi).
Ai nostri fini è sufficiente rilevare che – con una singolare coincidenza temporale – la questione è stata risolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la recentissima decisione n. 14 del 20 giugno 2014. Il giudice amministrativo ha ritenuto che, successivamente alla stipulazione del contratto di appalto, l’amministrazione che per sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto contrattuale intenda sciogliersi dallo stesso, non può ricorrere allo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma debba esercitare il diritto potestativo di recesso di cui all’articolo 134 del D.lgs. 163/2006.
Le ragioni a sostegno di questa soluzione – che ad avviso di chi scrive è pienamente condivisibile – vengono individuate dall’Adunanza Plenaria nell’esigenza di dare un significato pregnante alla previsione dell’articolo 134 che consente l’esercizio del diritto di recesso, che evidentemente sarebbe privata di contenuto concreto se si consentisse all’amministrazione di raggiungere lo stesso risultato dello scioglimento dal vincolo contrattuale attraverso l’esercizio del potere di revoca. Ma prima ancora di queste ragioni indicate nella sentenza, la soluzione prescelta appare in realtà quella che meglio preserva la fondamentale distinzione, nell’ambito dei contratti pubblici, tra la sfera in cui l’ente pubblico agisce su un piano autoritativo (ricorrendo a strumenti pubblicistici) e quella in cui opera su un piano paritetico (utilizzando istituti di natura privatistica).
Alla luce di questa inequivocabile conclusione dell’Adunanza Plenaria, si deve quindi ritenere che, pur a fronte di contratti di appalto “inquinati” da fenomeni corruttivi evidenziati da indagini penali, l’ente committente non possa ricorrere al potere di revoca dell’aggiudicazione per farne cessare l’efficacia.

3. Il recesso e la risoluzione
In linea astratta, uno strumento a disposizione dell’amministrazione per sciogliersi dal contratto “inquinato” è dunque il diritto di recesso di cui all'articolo 134 del D.lgs. Un sia pure sommario esame della relativa disciplina rende tuttavia evidente che tale strumento non è idoneo rispetto all’ipotesi oggetto di esame.
La norma prevede infatti che il recesso possa essere esercitato in qualsiasi momento dalla stazione appaltante, previo pagamento dei lavori eseguiti, del valore dei materiali utili esistenti in cantiere e del decimo dell’importo dei lavori ancora da eseguire. Si tratta quindi di un recesso di natura onerosa, che proprio perché tale non è evidentemente idoneo ad essere utilizzato nel caso di specie.
Sarebbe infatti paradossale che l’ente appaltante, per sciogliere un contratto la cui acquisizione è avvenuta in maniera presumibilmente fraudolenta, fosse costretta a pagare un indennizzo a favore dell’impresa che si è resa colpevole del comportamento criminoso.
L’ordinamento che disciplina i lavori pubblici prevede poi la risoluzione, disciplinata dal successivo articolo 135. Ad essa la stazione appaltante può ricorrere quando nei confronti dell’appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo di applicazione di una misura antimafia ovvero una sentenza di condanna passata in giudicato per una serie di reati, tra cui la concussione e la corruzione.
In questa ipotesi l’appaltatore ha diritto solo al pagamento dei lavori eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto. Il riferimento a tale decurtazione rappresenta una clausola di portata ampia, che può essere opportunamente interpretata anche in relazione agli oneri che l’ente appaltante subisce, in termini di tempi e di costi, per il riaffidamento dei lavori.
Nel caso proceda alla risoluzione del contratto, la stazione appaltante può ricorrere al così detto scorrimento, ai sensi dell’articolo 140. Può cioè interpellare gli altri concorrenti utilmente classificati nella graduatoria dell’originaria gara, dal secondo fino al sesto, al fine di affidare i restanti lavori alle medesime condizioni proposte dall’originario aggiudicatario.
Questa strumentazione può indubbiamente avere una sua utilità ai fini in esame. Tuttavia, essa presenta il limite di poter intervenire solo in relazione a una sentenza di condanna passata in giudicato. Non è quindi utilizzabile a fronte a una indagine che sia ancora nelle fasi preliminari, non essendo intervenuto neanche il provvedimento di rinvio a giudizio.

4. L’annullamento dell’aggiudicazione
Gli istituti esaminati, per le diverse ragioni sopra sintetizzate, non appaiono idonei al conseguimento del risultato che si intenderebbe perseguire volto ad ottenere la cessazione di efficacia dei contratti di appalto affetti dal vizio di essere stati affidati a seguito di comportamenti presumibilmente criminosi.
Maggiori opportunità, sotto questo profilo, sembrano offerte dal ricorso al diverso strumento dell’annullamento dell’aggiudicazione.
In primo luogo, viene in rilievo la possibilità che sia lo stesso ente appaltante ad esercitare, in via di autotutela, il potere di annullare l’aggiudicazione a suo tempo disposta. Questa possibilità è stata esplicitamente richiamata proprio dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14/2014 sopra ricordata. In quella sede il giudice amministrativo, nel negare che l’ente appaltante possa esercitare il potere di revoca dell’aggiudicazione per sciogliersi dal contratto successivamente alla stipula dello stesso, ha invece ricordato come resti salva la facoltà dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva a suo tempo disposta, nell’esercizio dei poteri di autotutela che sono propri dell’amministrazione.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, tale annullamento produce la caducazione automatica degli effetti del contratto nel frattempo stipulato, in virtù della stretta consequenzialità funzionale esistente tra il provvedimento di aggiudicazione e la successiva stipula (Cass. SS. UU., 8 agosto 2012, n. 14260; Cons. Stato, Sez. III, 23 maggio 2013, n. 2802; Sez. V, 7 settembre 2011, n. 5032; 4 gennaio 2011, n.11).
Naturalmente il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto dei limiti che gli sono propri. Senza entrare in un’analisi approfondita del fondamento e delle condizioni di legittimo esercizio di tale potere – che anche in questo caso travalica la finalità delle presenti note – è sufficiente ricordare che per orientamento consolidato esso è il risultato di un’attività discrezionale dell’amministrazione e non consegue quindi in via automatica dalla ritenuta originaria illegittimità dell’atto oggetto di annullamento. In questo senso, è necessaria la sussistenza di un interesse pubblico attuale al ripristino della legalità, che deve essere prevalente sugli interessi contrapposti dei privati che militino nel senso della conservazione dell’atto stesso (per tutti, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. VI, 19 marzo 2013, n. 1605).
In questa logica, alcune affermazioni operate in passato dalla stessa giurisprudenza amministrativa offrono degli elementi di significativo interesse ai fini che ci rigurdano. E’ stato infatti sottolineato come la riscontrata irregolarità delle procedure di selezione del contraente giustifica non solo l’annullamento dell’aggiudicazione, ma anche la caducazione automatica degli effetti del contratto. Ciò in quanto “la permanenza del vincolo contrattuale trova quindi la sua necessaria presupposizione nella corretta osservanza delle regole dell’evidenza pubblica, poste a presidio sia degli interessi di rilievo pubblico inerenti alla corretta gestione delle risorse economiche di cui l’ente dispone, sia delle imprese operanti nel segmento di mercato, che non devono subire pregiudizio o discriminazione quanto alla possibilità di accedere ai pubblici appalti” (Cons. Stato, Sez. III, 23 maggio 2013, n. 2802).
Si tratta di affermazioni che sembrano aprire significativi spazi di intervento in relazione ai casi alla nostra attenzione. E’ innegabile, infatti, che l’emersione in sede di indagini penali di fenomeni corruttivi nell’ambito delle procedure di gara, configura proprio quella violazione delle regole dell’evidenza pubblica che pregiudica, oltre che il coretto uso delle risorse pubbliche, anche il dispiegarsi del libero gioco della concorrenza, con evidenti danni per le imprese “oneste” . Cosicché non è azzardato ipotizzare che l’ente appaltante possa procedere in questi casi all’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione definitiva a suo tempo disposta con il conseguente venir meno dell’efficacia del relativo contratto nel frattempo stipulato.
Accanto all’annullamento d’ufficio ad opera dell’ente appaltante, si pone anche l’eventualità di un annullamento dell’aggiudicazione in sede giurisdizionale. Sotto questo profilo rivestono particolare interesse le conclusioni contenute nella sentenza del Tar Lombardia, Sez. I, n. 1802 del 9 luglio 2014, che è intervenuta proprio in relazione all’affidamento dei lavori di realizzazione delle architetture di servizio del sito Expo 2015, operato a suo tempo a favore di un raggruppamento di imprese con a capo l’impresa Maltauro, coinvolta nelle indagini penali che hanno portato all’arresto dell’amministratore unico all’epoca dei fatti.
Il giudice amministrativo, accogliendo il ricorso avanzato dall’impresa seconda classificata nella gara, ha dichiarato l’illegittimità dell’aggiudicazione definitiva a suo tempo operata, disponendone l’annullamento.
Il Tar Lombardia ha infatti ritenuto che l’illegittimità derivi direttamente dalla condotta criminosa posta in essere dal rappresentante legale dell’impresa capogruppo del raggruppamento aggiudicatario. Tale illegittimità sarebbe infatti riconducibile da un lato a un “manifesto abuso della funzione amministrativa” da parte dell’ente appaltante, che determinerebbe un vizio dell’aggiudicazione; dall’altro, nell’antigiuridicità della condotta imputabile all’amministratore unico dell’impresa mandataria. Il giudice amministravo ha così ritenuto che lo svolgimento di una gara immune da condotte illecite costituisca una “precondizione di legittimità ” della stessa.
Si tratta di affermazioni di notevole interesse. Esse spostano infatti i confini dell’illegittimità dell’aggiudicazione da un piano strettamente formale, ancorato ai classici vizi dell’atto amministrativo, a un piano più sostanziale, in cui assumono rilievo eventi legati al concreto svolgimento del confronto concorrenziale. Probabilmente consapevole di questo peculiare approccio, lo stesso giudice amministravo sottolinea che l’annullamento dell’aggiudicazione disposto a seguito dei fatti corruttivi emersi rappresenta “un rimedio finalizzato a costituire una frontiera più avanzata di tutela dell’Amministrazione contro i possibili abusi dei partecipanti alle procedure di evidenza pubblica”.
E’ evidente che l’impostazione accolta nella pronuncia in esame merita un’analisi attenta e più approfondita di quanto ci si propone con le presenti note. L’approccio delineato dal Tar Lombardia, infatti, sembra aprire a una riflessione di sistema sui caratteri stessi dell’illegittimità dell’aggiudicazione nell’ambito della gare ad evidenza pubblica, a fronte di fenomeni di particolare disvalore e che assumono rilievo anche sotto il profilo penale. In sostanza, l’emersione di fenomeni corruttivi si tradurrebbe di per sé in un vizio di legittimità dell’aggiudicazione, inficiando in via preliminare la procedura di gara.
Al di là questo profilo fondamentale, vi è tuttavia un altro elemento che presenta profili di criticità e che attiene alla tempestività del ricorso proposto. L’aggiudicazione oggetto di annullamento è stata infatti disposta nel novembre 2013; da qui l’eccezione di irrecivibilità del ricorso – in quanto proposto ben oltre il termine decadenziale previsto dalle norme del processo amministrativo - avanzata dai controinteressati.
L’eccezione è stata respinta dal giudice amministrativo sulla base della considerazione che la determinazione con cui l’ente committente, all’esito dell’istruttoria volta a verificare la sussistenza di elementi idonei a giustificare la risoluzione del contratto, ha concluso in senso negativo, è stata emanata solo dieci giorni prima della presentazione del ricorso. Ciò renderebbe lo stesso tempestivo, proprio in relazione all’esigenza di tenere nel debito conto i fatti sopravvenuti.
Si tratta di un’impostazione che nella sostanza ridimensiona il termine decadenziale di proposizione del ricorso giurisdizionale contro l’aggiudicazione, poiché eventi successivi vengono ritenuti idonei a riaprire tale termine. Anche sotto questo profilo, la pronuncia merita un più puntale approfondimento diretto a verificare i presupposti della soluzione individuata e le relative implicazioni.
In questa sede, ci si limita a due osservazioni. La prima è che la soluzione prospettata sembra riprendere un orientamento recentemente accolto – sia pure in relazione a un diverso presupposto - dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza dell’8 maggio 2014, n. C – 161/13, che tuttavia si è espressa con riferimento a una fattispecie in cui il contratto non era stato ancora stipulato. La seconda è che – analogamente a quanto visto in relazione al profilo precedente – sembra cogliersi un giustificato sforzo da parte del giudice amministrativo indirizzato a individuare soluzioni anche evolutive rispetto agli orientamenti più tradizionali, all’evidente fine di delineare rimedi in grado di colpire la sostanza del fenomeno corruttivo, anche al di là degli aspetti formali che lo connotano e che talvolta possono costituire anche un ostacolo a un efficace intervento sanzionatorio, almeno in sede di giustizia amministrativa.
Va da ultimo evidenziato che il Tar Lombardia, nella sentenza in esame, dopo aver disposto l’annullamento dell’aggiudicazione, non ha tuttavia dichiarato la caducazione del relativo contratto, come pure gli sarebbe stato consentito dalle norme sul processo amministrativo, lasciando all’ente appaltante ogni decisione su tale aspetto.

5. Il Decreto legge n. 90 del 2014: il “commissariamento” delle imprese
L’analisi sopra condotta ha fatto riferimento ad istituti già previsti dall’ordinamento, rispetto ai quali il dibattito si è incentrato sulle concrete modalità di applicazione nei casi di specie e sulla relativa efficacia.
Su un piano del tutto diverso si muove invece il cosi detto “commissariamento” delle imprese coinvolte in indagini penali, introdotto dal Decreto legge n. 90 del 2014 proprio come risposta ai più recenti eventi di corruzione nei pubblici appalti emersi in relazione ai lavori di Expo 2015 e del Mose.
Lo strumento introdotto dal legislatore si trova disciplinato all’articolo 32 del citato Decreto legge. Si tratta della norma indubbiamente più controversa tra quelle contenute nel Decreto legge, che pure contiene una nutrita serie di disposizioni in materia di appalti pubblici.
La disciplina dettata presenta dei profili di notevole complessità. Da un lato, si pongono rilevanti dubbi sotto il profilo operativo; dall’altro, non possono essere ignorate alcune criticità che attengono all’inquadramento sistematico dell’istituto, anche con riferimento alla sua piena coerenza con i principi generali del nostro ordinamento giuridico, in primo luogo quelli derivanti dalle garanzie di natura costituzionale.
D’altronde, era prevedibile che un intervento su una materia così complessa e delicata avrebbe dato luogo a dubbi e riflessioni. Dubbi evidenziati anche dal Presidente dell’ANAC - Autorità nazionale anticorruzione, nella nuova veste disegnata proprio dallo stesso Decreto legge 90/2014. Infatti, nel provvedimento del 10 luglio 2014 con cui ha dato la prima applicazione all’istituto attraverso la richiesta di commissariamento nei confronti dell’Impresa Maltauro – coinvolta nelle indagini sui lavori dell’Expo 2015 – lo stesso Presidente dell’ANAC ha sottolineato “l’esistenza di alcuni problemi ermeneutici, anche fisiologici in quanto connessi alla prima sperimentazione dello stesso”.
La ratio che ha ispirato il legislatore è chiara: punire quelle imprese che, ai fini dell’aggiudicazione di un appalto, abbiano posto in essere comportamenti criminosi, alterando il libero gioco della concorrenza e gli stessi esiti della gara. Da qui l’esigenza di individuare strumenti diretti a penalizzare l’impresa non solo in termini generali ma con specifico riferimento all’appalto il cui affidamento è avvenuto con mezzi illeciti, evitando in primo luogo che la stessa possa godere degli utili di una commessa acquisita in maniera fraudolenta.
E’ stato così introdotto uno strumento innovativo nel sistema normativo italiano, ritenuto particolarmente utile quale mezzo di contrasto preventivo della corruzione, anche in relazione al suo effetto deterrente.
Così delineata la ratio dell’intervento legislativo, molto più complessa è la sua traduzione in concreto, attraverso l’individuazione delle modalità operative e delle specifiche norme di supporto. In questo delicato passaggio si intrecciano infatti rilevanti problematiche operative e questioni giuridiche di primaria importanza, che creano un mosaico di problemi di non agevole soluzione.
Questa oggettiva complessità si trova appunto riflessa nelle previsioni contenute nell’articolo 32, che vanno quindi attentamente analizzate anche alla luce delle indicazioni fornite dallo stesso Presidente dell’ANAC nel primo provvedimento applicativo sopra ricordato, che costituisce un prezioso documento per gli orientamenti interpretativi di carattere generale che offre. Ciò anche in una logica volta a dare spazio a miglioramenti che potrebbero essere apportati in sede di conversione del Decreto legge 90, al fine di renderlo maggiormente efficace rispetto agli obiettivi da perseguire.
Una prima questione che si pone riguarda l’individuazione dei presupposti che consentono di procedere all’applicazione della norma nei confronti dell’impresa aggiudicataria di un appalto di lavori, servizi o forniture. Tali presupposti sono indicati, in maniera articolata, nel comma 1, che sembra individuare una duplice tipologia di situazioni.
La prima tipologia attiene alla commissione di una serie di reati così identificati: concussione; corruzione nell’esercizio della funzione; corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio; corruzione in atti giudiziari; induzione indebita a dare e promettere utilità; corruzione di persona incaricata di pubblico servizio; istigazione alla corruzione; peculato, concussione, induzione indebita a dare e promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri; traffico di influenze illecite; turbata libertà degli incanti; turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.
Si tratta di una lista di reati lunga e articolata, che mira a coprire l’intero spettro dei fenomeni corruttivi che si possono verificare in sede di affidamento dei contratti pubblici.
La lista dei reati individua in maniera sufficientemente chiara il presupposto del commissariamento sotto il profilo sostanziale. Resta però da stabilire come tale presupposto operi sotto il profilo procedurale, e cioè quale debba essere lo stato in cui deve trovarsi il relativo procedimento penale per consentire l’applicazione della norma.
Al riguardo, il comma 1 parla genericamente di ipotesi in cui l’autorità giudiziaria “procede” per i reati indicati. In mancanza di ulteriori precisazioni, si deve ritenere che tale espressione valga a indicare il momento in cui si procede all’iscrizione della notizia di reato nel registro del pubblico ministero. E in questo senso si è espresso anche il Presidente dell’ANAC, laddove ha ritenuto che sia sufficiente per far scattare il presupposto di applicazione della norma “la mera iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 c.p.p. del soggetto del vertice di una società o dell’imprenditore individuale”.
Questa interpretazione comporta tuttavia che il “commissariamento” potrebbe in ipotesi scattare anche in una fase molto preliminare, in cui le indagini sono ancora in uno stadio embrionale. Tuttavia questo rischio sembra almeno parzialmente attenuato dalla circostanza che lo stesso comma 1 prevede che il Presidente dell’ANAC si possa attivare per richiedere le misure stabilite dalla norma solo in presenza di fatti gravi e accertati, il che sembrerebbe impedire che si possa procedere sulla base di una semplice notizia di reato.
A confermare la correttezza di questa interpretazione, il Presidente dell’ANAC ha sottolineato che la misura può essere applicata solo in presenza di fatti che hanno uno “spessore probatorio” di un certo rilievo. Si tratta di fatti che inducono a ritenere, sulla base di una valutazione probabilistica, che vi sia stata una illecita aggiudicazione dell’appalto. Considerato che comunque ci troviamo nel campo di misure di natura cautelare, il Presidente dell’ANAC ha paragonato tali fatti a quei “gravi indizi di colpevolezza” che, ai sensi dell’articolo 273 e seguenti del c.p.p., possono dar luogo all’applicazione di misure cautelari.
In sostanza, possono costituire una base probatoria sufficiente a far scattare la possibile applicazione della norma, quegli elementi posti a sostegno di un’ordinanza di custodia cautelare o di un decreto che dispone il giudizio.
Queste affermazioni contenute nel provvedimento emanato dal Presidente dell’ANAC appaiono particolarmente importanti, tenuto conto dell’autorevolezza del soggetto da cui promanano e anche del fatto che tale soggetto è quello che deve concretamente dare seguito alla norma introdotta. Le indicazioni fornite, infatti, aiutano a circoscrivere in maniera più puntale l’ambito applicativo del nuovo istituto sotto uno degli aspetti che il legislatore ha lasciato maggiormente indefiniti, e quindi più critici sotto il profilo applicativo.
L’analisi fin qui condotta riguarda il commissariamento legato ad ipotesi di reato. La norma tuttavia sembra allargare il proprio spettro di applicazione anche oltre tali ipotesi. Lo stesso comma 1 stabilisce infatti che il Presidente dell’ANAC possa assumere le sue iniziative ai fini dell’applicazione delle relative misure anche in presenza di “rilevate situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali”. L’utilizzo della congiunzione “ovvero” – cioè in alternativa alle ipotesi di reato prima indicate - sembra prefigurare la possibilità che il commissariamento possa operare anche laddove non vi sia ancora stato l’intervento dell’Autorità giudiziaria, ma emergano comunque elementi – sempre ricavabili da fatti gravi e accertati – da cui si possano desumere condotte illecite o criminose da parte dell’impresa aggiudicataria dell’appalto.
Inteso in questo senso, il campo di applicazione della norma rischia di allargarsi oltre misura, svicolando un intervento così invasivo sulla vita dell’impresa da qualunque comportamento avente rilevanza penale.
Va peraltro evidenziato che – in maniera contraddittoria - questa possibilità sembra poi essere smentita dal fatto che successivamente la norma, nel definire la proposta che viene formulata dal Presidente dell’ANAC, fa sempre riferimento all’esistenza di un procedimento penale.
In ogni caso sembrerebbe opportuno, anche al fine di attenuare i profili di criticità correlati a una limitazione così pregnante dell’ordinaria vita dell’impresa, che su questo punto vi fosse un intervento chiarificatore anche in sede di conversione in legge del Decreto.
Ricorrendo i presupposti indicati, il Presidente dell’ANAC formula al Prefetto competente la sua proposta. Un altro punto non chiaro della normativa introdotta riguarda proprio l’individuazione del Prefetto competente.
In assenza di un’esplicita indicazione del legislatore, vi sono almeno due possibilità, come rilevato anche nel più volte richiamato provvedimento del Presidente dell’ANAC. La prima è che il Prefetto competente sia quello in cui ha sede l’impresa; la seconda è che sia quello in cui è stato aggiudicato l’appalto “inquinato”.
Il Presidente dell’ANAC ritine preferibile la seconda soluzione, in virtù della considerazione che il Prefetto del luogo in cui è stato aggiudicato l’appalto è quello in grado di meglio apprezzare la gravità del fatto e di monitorare l’applicazione della misura. Senza tener conto che scegliere l’altra soluzione comporterebbe un problema applicativo non indifferente nell’ipotesi in cui il “commissariamento” dovesse operare nei confronti di un’impresa avente sede all’estero.
La proposta formulata dal Presidente dell’ANAC può essere articolata secondo una duplice modalità.
La prima si sostanzia nell’ordinare all’impresa la rinnovazione degli organi sociali mediante la sostituzione del soggetto coinvolto nei fatti criminosi e, ove l’impresa non adempia a tale ordine, nel provvedere alla straordinaria e temporanea gestione della stessa. Sotto questo profilo, sembra quindi che sia sufficiente sostituire il soggetto coinvolto, eliminando la sua presenza dagli organi sociali, per adempiere alla prescrizione normativa. In questa logica, la disposizione appare idonea ad attenuare di molto la sua portata dirompente, posto che normalmente chi è coinvolto in procedimenti penali si dimette in maniera spontanea da ogni carica sociale o comunque viene rapidamente sostituito.
La seconda modalità in cui può declinarsi la proposta del Presidente dell’ANAC prevede che si chieda al Prefetto direttamente di procedere alla straordinaria e temporanea gestione dell’impresa – il cosi detto “commissariamento” - senza passare per il preventivo ordine di rinnovo degli organi sociali.
Le due modalità di articolazione della proposta sono alternative, anche se i termini concreti della loro applicabilità vanno valutati alla luce delle decisioni che può assumere il Prefetto, in base alle previsioni contenute nel successivo comma 2.
Viene infatti stabilito che il Prefetto, valutata la gravità dei fatti oggetto dell’indagine, intima all’impresa di provvedere al rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto coinvolto e ove l’impresa non provveda in tal senso entro trenta giorni procede con decreto, nei successivi dieci giorni, alla nomina di uno o più amministratori (nel numero massimo di tre), per la straordinaria e temporanea gestione. Nei casi più gravi, il Prefetto procede direttamente alla nomina del/i commissario/i, senza farla precedere dall’ordine all’impresa di rinnovo degli organi sociali.
Queste previsioni sembrano in realtà contenere un disallineamento rispetto a quelle che delineano i contenuti della proposta del Presidente dell’ANAC. Infatti, mentre il comma 1 sembra consentire che tale proposta possa prevedere direttamente il commissariamento dell’impresa, senza il preventivo ordine di rinnovo degli organi sociali, il comma 2 indica quale strada ordinaria il doppio passaggio (preventivo ordine di rinnovo e successivo commissariamento in caso di inerzia dell’impresa), lasciando al solo Prefetto la valutazione della sussistenza dei casi più gravi idonei a consentire di procedere in via diretta al commissariamento. In sostanza quest’ultima possibilità sembra essere una prerogativa esclusiva del Prefetto, mentre in precedenza la norma la indica anche come possibile oggetto della proposta del Presidente dell’ANAC.
Questa incongruenza normativa è stata opportunamente risolta dal Presidente dell’ANAC in sede di prima applicazione della norma, nel senso di ritenere che la proposta formulata possa prevedere direttamente il commissariamento, fermo restando il riconoscimento in capo al Prefetto del più ampio potere di valutazione in merito alla definizione della misura da adottare.
In sostanza, coerentemente alla previsione del comma 1, la proposta del Presidente dell’ANAC può sostanziarsi nella richiesta diretta del commissariamento. Sarà poi il Prefetto, secondo le indicazioni del comma 2, a decidere in totale autonomia se accoglierla – ritenendo sussistente la gravità del caso – ovvero procedere al doppio passaggio, con intimazione al rinnovo degli organi sociali e, solo in caso di inerzia dell’impresa, al successivo commissariamento.
Gli amministratori nominati devono avere i requisiti di professionalità e onorabilità stabiliti, in attuazione dell'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, dal DM 60 del 2013 con riferimento ai commissari giudiziali e straordinari nominati nell’ambito delle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Il decreto di nomina definisce anche la durata del relativo incarico, in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell’opera oggetto del contratto. In ogni caso, la gestione straordinaria cessa in caso di provvedimento che dispone la confisca, il sequestro o l’amministrazione giudiziaria dell’impresa, nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione antimafia (comma 5).
Uno dei punti più delicati e controversi della normativa introdotta riguarda l’interpretazione dell’inciso secondo cui la straordinaria e temporanea gestione dell’impresa opera “limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto oggetto del procedimento penale”.
E’ stata infatti avvalorata da più parti l’interpretazione secondo cui tale limitazione dovrebbe essere intesa in termini funzionali, cioè solo ed esclusivamente in relazione a quello specifico appalto oggetto di indagine penale. Vi sarebbe quindi un “commissariamento” circoscritto unicamente alla gestione dello specifico appalto oggetto di indagine, mentre per il resto l’impresa continuerebbe ad operare sulla base delle normali regole e sotto la gestione degli organi di amministrazione ordinari.
Questa interpretazione è stata accolta anche dal Presidente dell’ANAC. Nel provvedimento del 10 luglio 2014 si legge che i commissari “senza doversi occupare dell’intera attività sociale, dovranno occuparsi soltanto di portare a termine l’appalto incriminato”. La misura, quindi, si tradurrebbe “in una sorta di commissariamento dell’appalto e o della commessa, che non incide sulla governance complessiva dell’impresa ma sospende i poteri dell’imprenditore o degli organi sociali limitatamente alla gestione di quello specifico lavoro”.
Questa conclusione, tuttavia, non viene accompagnata da alcuno specifico argomento a sostegno. Soprattutto, non vengono tenuti in alcuna considerazione gli elementi in senso contrario che sembrano emergere da una lettura complessiva della disciplina introdotta, e in particolar modo le disposizioni dell’articolo 32 che delineano i poteri dei commissari e gli effetti che essi producono sul funzionamento degli ordinari organi di gestione dell’impresa.
Partendo dal comma 3, esso dispone che ai commissari sono attribuiti tutti i poteri e le funzioni degli ordinari organi di amministrazione dell’impresa. Nel contempo, è sospeso l’esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell’impresa.
Quest’ultima espressione presenta un profilo di estrema genericità. Il potere di disposizione sembra infatti fare riferimento non al fatto gestionale in senso stretto, quanto alla stessa possibilità di esercitare le facoltà proprie che spettano ai titolari dell’impresa.
Intesa nella sua accezione ampia, la norma sembra voler impedire che i titolari dell’impresa (quindi anche gli azionisti, nel caso di società) possano addirittura disporre della propria partecipazione (che quindi non potrebbero neanche alienare). Si tratta di una previsione molto forte e, in questi termini, di difficile applicazione, specie se riferita a realtà societarie con un azionariato diffuso (e magari quotate in borsa).
Inoltre, nel caso di impresa costituita in forma societaria, sono sospesi anche i poteri dell’assemblea. Anche sotto quest’ultimo profilo la previsione suscita più di una perplessità. L’assemblea, infatti, non è un organo deputato all’amministrazione dell’impresa, specie dopo la riforma del 2003 che ha fortemente ridimensionato la possibilità di attribuire alla stessa competenze di natura gestionale, che sono state concentrate nell’organo amministrativo. Di conseguenza, non si comprende fino in fondo la ratio di sospenderne le funzioni, posto che esse non possono certo influire sulla gestione dell’impresa.
La norma presenta poi un profilo di criticità che appare difficile da superare. Occorre infatti considerare che alcune delle funzioni proprie dell’assemblea, prima fra tutte il potere di approvazione del bilancio, non appaiono suscettibili di essere sospese senza prevedere una competenza sostitutiva, pena la paralisi dell’operatività aziendale.
Al di là dei punti critici evidenziati, la disamina delle norme introdotte delinea i poteri dei commissari in termini totalizzanti, nel senso che gli stessi si sostituiscono integralmente agli ordinari organi sociali. I commissari hanno “tutti” i poteri degli organi di amministrazione ordinari e vengono sospesi i poteri dell’assemblea. Come può essere concepibile una sospensione dei poteri assembleari limitatamente al singolo appalto ? E come si possono far convivere, in concreto, due organi gestionali?
La formulazione delle disposizioni configura quindi un subentro dei commissari nell’insieme dei poteri gestionali propri dell’organo di amministrazione ordinario. Di conseguenza, non appare concepibile limitare il loro raggio di azione solo all’esecuzione di uno specifico appalto, posto che essi sono chiamati ad assumere la gestione dell’impresa nella sua totalità.
Si deve allora ritenere che all’espressione “limitatamente alla completa esecuzione dell’appalto” vada dato un significato di carattere temporale, nel senso che il commissariamento è destinato a durare fino all’integrale esecuzione dell’appalto “incriminato”.
E’ inoltre previsto che i commissari rispondano delle eventuali diseconomie dei risultati solo nei casi di dolo o colpa grave (comma 4), all’evidente fine di limitarne la responsabilità in relazione alla gestione di situazioni complesse.
Infine, sempre sotto il profilo gestionale, viene stabilito che per tutta la durata della gestione straordinaria i pagamenti all’impresa vengono corrisposti al netto dei compensi riconosciuti ai commissari. Inoltre, l’utile di impresa relativo al contratto di appalto “incriminato”, determinato anche in via presuntiva dai commissari, è accantonato in apposito fondo e non può essere distribuito né assoggettato a pignoramento sino alla conclusione del giudizio penale (comma 7).
Anche quest’ultima disposizione presenta problemi applicativi non indifferenti. In primo luogo, la determinazione in via presuntiva dell’utile da parte dei commissari comporta valutazioni non agevoli, a meno che non si provveda a istituire una contabilità separata relativa allo specifico appalto, che tuttavia sconta la difficoltà che lo stesso è già in esecuzione. Secondariamente, deve essere chiaro che il congelamento degli utili fino alla completa definizione del giudizio penale non deve valere ai fini di assicurare l’operatività dell’impresa, ma solo ai fini della distribuzione degli stessi. In caso contrario si rischia di privare per anni l’impresa di risorse finanziarie che, in alcuni casi, possono essere essenziale per la sua attività ordinaria.
Vi è poi un’altra disposizione di non facile interpretazione. Il comma 8 stabilisce che nel caso le indagini penali riguardino “componenti di organi societari diversi ad quelli di cui al comma 1” il Prefetto provvede a nominare con decreto da uno a tre esperti – anch’essi in possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità prescritti per i commissari – aventi il compito di svolgere funzioni di sostegno e monitoraggio dell’impresa. Tali funzioni si esplicano nella definizione di prescrizioni operative riferite tra l’altro all’organizzazione, ai sistemi di controllo interno e all’attività degli organi amministrativi e di controllo dell’impresa.
Le incertezze interpretative nascono dalla difficoltà di individuare correttamente gli esponenti dell’impresa il cui coinvolgimento in indagini penali può far scattare questo meccanismo di sostegno e monitoraggio dell’impresa. Secondo la formulazione della norma si dovrebbe trattare di “organi societari” diversi dagli “organi sociali” (che sono quelli indicati al comma 1 e il cui coinvolgimento in attività criminose dà luogo al commissariamento).
E’ presumibile che il legislatore abbia inteso fare riferimento a figure apicali dell’impresa diverse dagli organi di amministrazione in senso proprio. Tuttavia, l’indeterminatezza dell’espressione utilizzata lascia aperto un dubbio molto significativo sull’effettivo ambito di applicazione di questa misura speciale.
Il comma 10 prevede infine che le misure fin qui descritte – cioè sia il commissariamento sia la più limitata misura di sostegno e monitoraggio dell’impresa – si applichino anche nell’ipotesi in cui nei confronti dell’impresa sia stata emanata un’informazione antimafia interdittiva e sia comunque necessario assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero garantire la continuità di servizi e funzioni indifferibili o salvaguardare i livelli occupazionali o l’integrità dei bilanci pubblici.
In sostanza viene introdotta una deroga alla disciplina antimafia, nel senso che dall’emanazione dell’informazione interdittiva non consegue il recesso dal contratto da parte dell’ente committente – secondo l’ipotesi ordinaria - qualora ricorrano le condizioni sopra elencate. In realtà già il D.lgs. 159/2011 (Codice antimafia) prevedeva che non si facesse luogo al recesso nel caso in cui l’opera fosse in corso di ultimazione o la fornitura o il servizio fossero ritenuti essenziali per il perseguimento del pubblico interesse. La norma in esame, quindi, amplia il novero delle condizioni nel ricorso delle quali l’informazione interdittiva non incide sui rapporti contrattuali in corso.
In questo caso il commissariamento (o la diversa misura di supporto e monitoraggio) é disposto autonomamente dal Prefetto, che ne dà notizia al Presidente dell’ANAC. Esso cessa nel caso di sentenza definitiva di annullamento dell’informazione antimafia ovvero di ordinanza, anch’essa definitiva, che dispone l’accoglimento dell’istanza cautelare.

6. Dagli istituti ordinari agli interventi straordinari: una preoccupante parabola delle misure anticorruzione
L’analisi condotta evidenzia come il legislatore abbia considerato essenziale arricchire le misure anticorruzione con un intervento ad hoc, particolarmente incisivo e notevolmente invasivo rispetto alla vita ordinaria delle imprese. Si è evidentemente ritenuto – anche sulla scia di una pressante richiesta proveniente da molte parti e in primo luogo dalla pubblica opinione - che si fosse in presenza di una situazione straordinaria che imponesse l’adozione di misure altrettanto straordinarie.
Se le scelte di politica legislativa fanno parte delle prerogative del Governo e del Parlamento, non può tuttavia essere ignorata l’esistenza di significativi dubbi interpretativi in merito alle norme introdotte, con conseguenti difficoltà che si porranno in fase applicativa (e in attesa di eventuali modifiche che dovessero essere apportate in sede di conversione in legge del Decreto).
Ma al di là di tale profilo, non si possono neanche trascurare – semplicemente richiamando la necessità di far fronte a una situazione di emergenza – alcune criticità di fondo relative alla coerenza della normativa introdotta con alcuni principi generali del nostro ordinamento giuridico e sulla sua piena compatibilità con alcuni precetti di rango costituzionale.
Qualunque intervento normativo, per quanto volto a introdurre misure di natura straordinaria, deve comunque inserirsi - pur con le sue peculiarità – nel tessuto ordinamentale sottostante. In caso contrario, si rischia di entrare in una logica tipicamente emergenziale che può creare più problemi di quelli che intende risolvere.
Sotto questo profilo, non si può ignorare che l’insieme delle misure esaminate interviene in relazione all’esistenza di un procedimento penale in fase del tutto embrionale. Non vi è alcuna sentenza di condanna, ma - vista la genericità dell’espressione utilizzata dal legislatore – non è necessario neanche che sia stata prodotta una richiesta di rinvio a giudizio. E’ sufficiente che l’autorità giudiziaria stia “procedendo” per uno dei reati indicati per far scattare il possibile commissariamento.
Certamente conforta l’interpretazione che, relativamente a tale aspetto, è stata fornita dal Presidente dell’ANAC, che ha fatto riferimento all’esigenza che vi sia quello “spessore probatorio” che è normalmente alla base di un’ordinanza cautelare o di un decreto di rinvio a giudizio. E tuttavia ciò rende evidente che il problema è stato avvertito anche dal soggetto istituzionalmente deputato ad applicare la nuova normativa, a testimonianza della sua fondatezza ma anche del rischio di lascare un aspetto così delicato a un’ipotesi interpretativa, che può evidentemente mutare a seconda delle circostanze e dei soggetti che la formulano.
Va poi considerato che, a fronte di questa ampiezza di operatività dello strumento, gli effetti che ad esso si ricollegano producono il sostanziale azzeramento delle regole fondamentali di funzionamento dell’impresa e in particolare delle società. Vengono meno gli ordinari poteri dell’organo di gestione, sono annullati i poteri degli azionisti, si sospendono i poteri dell’assemblea.
La combinazione tra l’ampiezza dei presupposti che possono legittimare il commissariamento e l’incisività degli effetti che ne conseguono non può non sollevare qualche domanda in merito alla piena compatibilità costituzionale della normativa introdotta. In particolare, le criticità riguardano il principio della libertà di iniziativa economica privata (articolo 41), in combinazione con l’altro principio della presunzione di non colpevolezza (articolo 27), la cui tenuta effettiva rispetto alle norme introdotte va attentamente valutata.
E’ evidente che va considerato che queste ultime tendono a garantire l’efficace attuazione del principio di legalità, che gode anch’esso di copertura costituzionale. In questo senso, la stessa Corte Costituzionale ha sottolineato più volte come tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in un rapporto di integrazione reciproca, cosicché non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (sentenza n. 264 del 2012).
E proprio facendo applicazione di questo principio, il giudice delle leggi ha stabilito che la libertà di iniziativa economica privata di cui all’articolo 41 soggiace ai limiti derivanti dalla salvaguardia di altri valori di rilievo costituzionale, ivi compreso quello di un assetto competitivo dei mercati, a tutela delle stesse imprese e dei consumatori. In questo senso, l’articolo 41 è un parametro che garantisce non solo la libertà di iniziativa economica ma anche l’assetto concorrenziale del mercato di volta in volta preso in considerazione (sentenza n. 94 del 2013).
E’ evidente che si tratta di affermazioni che assumono un rilievo significativo in relazione alle nuove norme introdotte. E tuttavia restano dei dubbi se le soluzioni individuate – specie alla luce della combinazione tra l’ampiezza applicativa che le caratterizza e l’incisività degli effetti che ne derivano - siano quelle più idonee ad operare quel necessario bilanciamento di interessi tutti costituzionalmente garantiti su cui si deve necessariamente basare una disciplina che incide su profili cosi delicati come quella in esame.


Post scriptum.
Il giurista, per definizione, si occupa di analizzare e interpretare le leggi. Al centro di questa attività vi sono le “regole”; quando queste non sembrano sufficienti a garantire i valori della legalità, se ne invocano di nuove. Ecco che, di fronte alla gravità dei fenomeni di corruzione negli appalti pubblici emersi nelle ultime settimane, la richiesta di nuove regole è tornata a farsi prepotentemente strada. Anche se voci autorevoli (e anche lo stesso Presidente del Consiglio) ha sottolineato che il problema non sono tanto le regole, ma chi queste regole le infrange.
Proprio sulla base di questa considerazione, sia consentito per una volta al giurista di sconfinare nel campo della letteratura, offrendo alla comune riflessione un testo che probabilmente è in grado di fornire una chiave di lettura più efficace di tante analisi giuridiche.


“C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il
proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
……
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.”

Tratto da “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti” di Italo Calvino

 

(pubblicato il 24.7.2014)

 

 

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